Dispensa n. 3 Spending Review

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Dispensa n. 3
Spending Review
Si parla spesso del taglio delle spese ma non se ne fa nulla. I tagli sono essenziali perché possono
aiutare a risanare il settore pubblico sul versante delle uscita in base a criteri di efficienza ed equità.
Nella Legge di Stabilità i tagli ci sono ma sono stati definiti con un tira e molla tra i vari Ministeri e
tra Governo centrale e Regioni. In alcuni Paesi, come in Italia, si sono applicate delle tasse che non
hanno avuto impatto positivo e allo stesso tempo non si è tagliato abbastanza la spesa e inoltre non
si è tenuto conto delle conseguenze, per esempio tagliando la spesa sulle infrastrutture. L’Italia, pur
essendo un Paese con molte risorse, ricchezza, creatività, università e sistema scolastico eccellenti si
posiziona nelle classifiche quasi sempre negli ultimi posti, per esempio nella competitività si piazza
al 73° posto, la GB al 7°. E’ un paradosso! Il cammino che porta alla crescita passa per la
Riduzione delle tasse e in un Paese come il nostro con forte debito significa riuscire a tagliare la
spesa pubblica. Tutti obiettivi che gli ultimi governi si erano posti ma che poi non hanno fatto
nulla, non per incapacità, ma perché non si sa dove tagliare. In Italia la spesa pubblica primaria è
circa il 45% del PIL: pensioni 20%, stipendi pubblici 10%, sanità 7%, scuola e università 4% e
pubblica sicurezza 2%, ecc. La nostra popolazione adulta è di circa 49 milioni: 16,7 milioni di
pensionati, 3,3 dipendenti pubblici a cui si devono aggiungere un numero rilevante di dipendenti di
società pubbliche. La pensione può essere scarsa, lo stipendio statale insoddisfacente, la qualità
della scuola, sanità, trasporti lasciare a desiderare, perciò quali tagli? e a chi? Prima di tagliare si
deve capire e spiegare come migliorare la spesa pubblica al fine di non ridurre i servizi essenziali al
di sotto del livello di guardia. La nostra spesa è in linea con l’UE (46%), nei Paesi Scandinavi
supera il 55% eppure non sono dissipatori di risorse pubbliche, in Francia è oltre il 53%. Quando è
ben gestita ed usata in modo scrupoloso la spesa pubblica può essere un valido sostituto del reddito
personale. Perciò il problema è Come (oltre al Quanto) si spende perché il nostro rapporto
qualità/prezzo dei servizi è scadente. Il nostro sistema pubblico ha un cattivo assetto per 3 motivi:
Evasione fiscale – Inefficienza dei servizi pubblici – Duplicazioni di amministrazioni e
programmi di spesa.
A causa dell’evasione fiscale, che in Italia è circa il 20% del Pil si può dire che per chi paga le tasse
il servizio pubblico costa 55% e non 45% della spesa pubblica, mentre a chi evade i servizi non gli
costano niente. Ciò è ingiusto e irragionevole.
L’incidenza fiscale (imposte dirette, indirette, bolli, dichiarazioni contributiva e fiscali, Imu, Tasi e
Tari) sulle aziende è prossima al 70% e ciò determina l’impossibilità sia di sviluppo, investimenti,
ricerca e occupazione. Vediamo alcuni casi:
1. Un’azienda che fa utili, non ha eccessive esposizioni debitorie e tutti i clienti pagano
regolarmente (caso rarissimo). Il 70% degli utili se lo prende lo Stato che non rischia nulla, non
favorisce l’attività, cambia continuamente le regole fiscali e del mercato del lavoro creando così
incertezza. Questa azienda con il restante 30% cercherà di fare degli accantonamenti per un futuro
incerto e investirà il minimo in risorse umane e tecnologia.
2. Lo stesso caso ma con due importanti clienti che non pagano perchè falliti. Lo Stato pretende
sempre il 70% di utili, ma il mancato incasso si mangia gli utili e quindi ni farà alcun
accantonamento e non farà alcun investimento, se poi i mancati incassi si mangiano tutto l’utile si
troverà sull’orlo del fallimento perché la banca chiederà il rientro. Quindi se i mancati incassi si
mangiano oltre il 30% l’imprenditore ci mette i suoi soldi (personali) o fallisce.
3. L’azienda non fa utili ne chiude il bilancio in pareggio, ma deve pagare la Imu sul capannone e
l’Irap per i dipendenti e quindi anche in questo caso o mette i suoi soldi o fallisce.
4. L’azienda è in perdita, le banche chiedono il rientro immediato ed è il fallimento.
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Per i servizi inefficienti si può dire che nel privato la concorrenza porta all’allineamento tra qualità
e costo, invece nel pubblico ciò non esiste. Non esiste nella P.A. il principio del merito, i burocrati
sono interessati più ai processi amministrativi che alla soddisfazione dell’utenza.
Si è detto che esistono duplicazioni, perciò i programmi e i centri di spesa devono essere accorpati e
ristrutturati in tal modo non solo migliorerebbero i servizi ma si genererebbero anche rilevanti
risparmi di spesa.
I nostri governanti hanno detto di aver operato una grande Privatizzazione trasferendo le quote di
ENI, ENEL, TERNA, SNAM, SIMEST, FINTECNA e ANSALDO ENERGIA alla Cassa Depositi e
Prestiti, ma è solo una presa in giro perché essa è di proprietà all’80% dello Stato!! Ciò significa
non privatizzare MAI perché la Cassa non ha debiti per cui non ha motivi per cedere le imprese;
inoltre il 18% della Cassa è posseduta dalle Banche che hanno diritto di veto nelle privatizzazioni.
Ci sono migliaia di aziende pubbliche di proprietà di Regioni, Province e Comuni contro le quali la
Legge di Stabilità ha cercato di mettere dei paletti alle loro spese, ma servirà a poco e i loro costi
ricadranno sulle nostre tasse. L’unica soluzione è venderle. Perchè la raccolta dei rifiuti deve essere
affidata ad una impresa del Comune con il risultato che i suoi addetti sono dipendenti pubblici e
quindi inamovibili? Che senso ha che il Comune di Vicenza abbia una sua azienda di luce, acqua e
gas diverse da quelle di Padova e Verona? Si deve ridurre lo spazio che lo Stato occupa
nell’economia. Si era cominciato negli anni 90, poi tutti i governi successivi sono ricaduti
nell’illusione del dirigismo e che le imprese pubbliche possano produrre crescita. Invece, come si è
visto ultimamente con Alitalia e Finmeccanica (come accade ogni giorno nelle migliaia di imprese
controllate dagli enti locali) finiscono per generare corruzione e costare miliardi ai contribuenti.
Perciò si deve insistere nella “vera privatizzazione”. Il Nuovo Pignone venduto dallo Stato alla G.E.
negli anni 90 ora è cresciuta diventando un’eccellenza mondiale nel settore delle Turbine. Sarebbe
stato meglio vendere l’Ansaldo Energia alla Doosan sud coreana anziché alla Cassa Depositi e
Prestiti che non ha alcuna esperienza nel settore. Un altro caso positivo è quello della Pavesi
venduta a Benetton ed oggi è diventata leader mondiale nella ristorazione aeroportuale.
Prima della istituzione delle Regioni ordinarie la spesa Sanitaria era di poco superiore ai 70
miliardi, nel 2015 arriverà a 112 miliardi con una aumento del 60% ma la qualità non ha seguito lo
stesso andamento: La sanità italiana è considerata tra le migliori d’Europa ma c’è un abisso tra Nord
e Sud, inaccettabile! Le Regioni hanno cominciato a comportarsi come piccoli Stati indipendenti.
Inoltre si è verificata una costosissima proliferazioni di sedi estere (Bruxelles, Sudamerica, Cina,
ecc.) come se ogni regione dovesse avere una sua politica internazionale. Infine anche gli organici
sono stati gonfiati a dismisura raggiungendo i 78.679 dipendenti con esuberi del 30%, quasi 24.000,
e il record spetta al Molise con esuberi del 75,4%. Gli ispettori del Tesoro hanno scoperto in
Calabria 1969 promozioni in un solo anno illegittime nonché aumenti di stipendi retroattivi
assegnati a 85 impiegati dei gruppi politici. Il Lazio ha sfornato oltre 40 leggi locali ognuna delle
quali ha accresciuto i privilegi retributivi e pensionistici dei Consiglieri, il risultato è che 1/3 del
bilancio regionale se ne va per pagare i vecchi vitalizi. Non si sa se il governo riuscirà a fare
qualche azione di Spending Review.
Nel 2014 il governo si era ripromesso di varare i primi interventi per ridurre la spesa intervenendo
su: razionalizzare la spesa per beni e servizi, riorganizzare i dipendenti pubblici, ottimizzazione
degli immobili pubblici, sopprimere gli enti inutili, introdurre i costi e fabbisogni standard su tutto il
settore pubblico. In tal modo si volevano risparmiare entro il 2016 32 miliardi con tagli selettivi. Tra
i nodi più intricati abbiamo quelli della mobilità nel pubblico impiego e della scuola, altro problema
complesso è quello dell’istruzione.

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Purtroppo Monti e Letta, nominati per ridurre la spesa pubblica, hanno ignorato che una
intollerabile pressione fiscale genera un aumento dell’evasione e di conseguenza una riduzione del
gettito e un aumento del debito, mentre una pressione fiscale ridotta genera una maggiore
propensione a pagare le tasse, un gettito migliore e la riduzione del debito. Anzichè eliminare i
vincoli burocratici hanno massacrato i cittadini di tasse. Perciò oggi Renzi dovrebbe ridurre le tasse
e impegnare il suo governo a spendere solo i soldi che lo Stato ha incassato. Dovrebbe fissare una
graduatoria fra le spese da fare, di quelle prioritarie, eliminando le spese inutili o improduttive e
lasciare nelle tasche degli italiani più soldi facilitando il rilancio della crescita.
Il governo sta studiando interventi mirati sul pubblico impiego, partendo dai dirigenti che da noi
hanno retribuzioni più elevate che in UE, specialmente quelli di prima fascia che superano l’82% in
più di un pari grado in GB, si ritiene equa una riduzione tra 8 e 12%, eliminare le fasce, abolire gli
incarichi e introdurre un ruolo unico delle dirigenza. Si risparmierebbero oltre 500 milioni all’anno.
Nel mirino ci sono anche le auto blu, in GB solo i Ministri hanno l’auto di servizio per un
complessivo di 80 auto blu per tutto il governo, mentre noi abbiamo almeno 1.500 auto blu nelle
amministrazioni centrali e 3.700 in quelle locali. Per risparmiare si potrebbe assegnare 1 auto solo
al ministro più un massimo di 5 per amministrazione centrale e nessuna per quelle locali. Altro
risparmio si potrebbe avere con la riduzione delle scorte ed inoltre anche un taglio alle consulenze.
Il governo Monti aveva introdotto la regola degli appalti di gruppo per i Comuni più piccoli, sotto
i 5.000 abitanti, ma purtroppo non è ancora operativa. L’idea delle centrali uniche nasce dal
principio che se 5 Comuni comperano dei materiali a 100, se si mettono assieme possono pagarle 90
o anche meno, con un bel risparmio. Il governo Renzi ha ripreso il progetto di ridurre le centrali
d’acquisto di tutta la P.A. dalle 32.000 di oggi a 30/40. Inoltre si allarga l’obbligo ai Comuni sopra i
5.000 abitanti.
In 7 casi su 10 le amministrazioni statali, centrali e periferiche, che hanno dribblato gli obblighi di
rivolgersi alla Consip o alle centrali d’acquisto regionali per i propri acquisti, lo hanno fatto per
“assenza del prodotto” in convenzione, l’altro 30% dei casi, invece, è motivato da diverse ragioni
contingenti: urgenza dell’acquisto, perchè nell’acquisto autonomo hanno spuntato condizioni
migliori. Sono questi i risultati di un’indagine che l’Autorità anticorruzione ha svolto sugli acquisti
della P.A. Ora l’ANAC promette “ulteriori approfondimenti” sulle ragioni del mancato decollo di
questa procedura.
Come tagliare 40 miliardi per garantire una vera crescita. Lo Stato deve tagliare la spesa per la
macchina pubblica accorpando i Comuni sotto i 2.000 abitanti, ridurre almeno alla metà le
partecipate comunali, accorpare le Regioni sotto i 2 milioni di abitanti, migliorare il Welfare,
introdurre il contrasto di interessi, consentire l’ammortamento annuale per spese e investimenti.
Con queste operazioni si possono risparmiare oltre 40 miliardi l’anno.
In merito alla Spending Review abbiamo avuto il Professor universitario P. Giarda che aveva
previsto che la spesa realisticamente aggredibile, quella su cui poter intervenire, non supera i 100
miliardi su un totale di 800 che ogni anno lo Stato, le Regioni ed enti locali spendono. Poi con il
governo Monti ci fu E. Bondi, che però non ebbe il tempo di intervenire, infine è arrivato
Cottarelli, voluto da Letta che costituì decine di gruppi di lavoro con i migliori funzionari
dell’amministrazione, messi a studiare, settore per settore, dove tagliare. Un lavoro certosino con
una serie di proposte che ridurrebbero le uscite di 17 miliardi nel 2015 e 32 nel 2016. Ma sono state
toccate delle voci scomode, impopolari, cioè la riduzione dello Stato sociale: tagli alla sanità, alle
pensioni assistenziali, con un contributo sulle pensioni calcolate col retributivo. Misure dure da
digerire per cui si è deciso di ridurre del 3% le spese dei Ministeri e la solita proroga del blocco
delle retribuzioni pubbliche. Tutti i governi precedenti non han saputo fare di meglio che bloccare
gli stipendi e indicizzare le pensioni al costo della vita. Cottarelli ha detto anche verità scomode: di
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8.000 municipalizzate ne bastano 1.000, si devono chiudere i carrozzoni in perdita, che 5 corpi di
polizia non hanno alcun senso. Dopo diverse riunioni il governo sta studiando il puzzle dei tagli a
carico dei ministeri e la rimodulazione delle spese di loro competenza. Cottarelli, dopo un anno, ha
dato le dimissioni per diversi fattori: non aveva un dipartimento da dirigere, aveva qualche
collaboratore part time (un pensionato della Banca d’Italia, un pensionato della Corte dei Conti,
ecc.), aveva proposto a tutti i Ministeri di ridurre le spese del 3%, ognuno si è fatto una sua
Spending Review interna. Ha avuto ostacoli da parte della burocrazia romana, il sistema dei
Capogabinetto, i Capi degli Uffici legislativi che si conoscono tutti tra loro e parlano lo stesso
linguaggio e scrivono leggi difficilmente leggibili. Con loro è stato difficile interagire, spesso non
venivano consegnati nemmeno i documenti necessari. La sua proposta di riforma dei Corpi di
Polizia non è stata accolta, forse si troverà nella riforma della P.A. Non è stata accettata neppure la
proposta di tagliare le “pensioni d’oro” che toccano i 270 miliardi, una cifra troppo grossa.
Probabilmente non ci sdarà più un Commissario.

I costi “standard” erano il modo migliore di intervenire per una più giusta spesa pubblica. Doveva
essere il cuore del Federalismo, specialmente nel settore della Sanità avrebbe consentito grandi
risparmi. Ma è stato un fallimento perché solo il 40% delle spese è coperto da entrate proprie,
inoltre il 60% della spesa pubblica è di pertinenza delle Regioni. Il Commissario Bondi aveva
censito circa 60 miliardi dei 136 destinati a spese per acquisto di beni e servizi con una eccedenza
del 25-40% (con il record della Sicilia del 52% di spesa anomala). Se si potesse centralizzare gran
parte degli acquisti si potrebbero recuperare minimo 4-5 miliardi, l’anomalia dei costi con
oscillazione dei prezzi anche del 100% è nota e non è mai stata scalfita. Il Commissario Cottarelli
ha evidenziato che la spesa pubblica italiana è un “unicum” mondiale dove su 807 miliardi totali
oltre 330 sono destinati ad oneri sul debito e a pensioni. La manovrabilità è limitata, ma sulla carta
sono aggredibili almeno 100 miliardi nel breve periodo e nel medio periodo anche 300 miliardi. La
sanità è il primo imputato perché conta una spesa annua di oltre 106 miliardi (destinati alle Regioni)
ed un semplice intervento sui servizi non sanitari potrebbe fruttare 3,2 miliardi di risparmi
semplicemente rinegoziando i contratti di pulizia, mense, e manutenzione degli ospedali. Finora non
se n’è fatto nulla. Inoltre non è mai stata scalfita (che continua a crescere) la spesa per oltre 8.000
società partecipata dalle amministrazioni pubbliche. che vale 15 miliardi l’anno e se si ha un po’ di
coraggio sicuramente aggredibili. Inoltre nel corso dell’ultimo decennio i costi dei servizi pubblici
(scuola, giustizia, istruzione, polizia e difesa) sono cresciuti molto più rapidamente dei costi
consumati dai privati.
L’ultimo progetto di Cottarelli è rivolto allo sfoltimento delle partecipate pubbliche che
dovrebbero portare a un risparmio di 2 – 3 miliardi. Si parla di 7.726 aziende partecipate da Regioni
ed enti locali con 37.000 amministratori e 510.000 dipendenti. Si vorrebbe scendere a 1.000, prima
di tutto si devono ridurre i settori in cui gli enti locali possono costituire o mantenere una
partecipazione. Solo in alcuni limitati nei campi di attività: illuminazione pubblica, manutenzione
delle strade, musei e biblioteche, acqua, igiene urbana, servizi pubblici. In tutti gli altri ambiti,
compresi gas ed elettricità le scelte locali dovranno essere sottoposte a un parere dell’Antitrust.

Già nel 2104 con la Spending Review si sono risparmiati 3,5 miliardi, un miliardo in meno di
quanto previsto, e nel 2015 sono previsti 17 e nel 2016 addirittura 32 miliardi.
Un taglio dei costi sull’Istruzione da 1 miliardo: di cui 400 milioni di sacrifici all’Università e alla
ricerca, una riduzione di 8.000 unità tra personale tecnico e amministrativo degli Istituti, nuove
Commissioni agli esami di maturità. Una delle novità più rilevanti è che alle prossime Commissioni

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di maturità spariranno i membri esterni e soltanto il Presidente della stessa arriverà da un altro
Istituto. Riduzione della pianta organica all’interno del Ministero dell’Istruzione.
La legge di Stabilità prevede solo una minima riduzione della spesa pubblica, i nuovi taglia per il
2015 si fermeranno a 5 miliardi mentre con la Spending Review se ne prevedevano almeno 13 per il
2015 e per il 2016 la stessa legge non prevede alcun taglio.
Il governo si propone di regolamentare i tagli con la legge di Stabilità. Anche se i tagli colpiscono i
vari Ministeri, ma a sostenere il peso maggiore dei tagli sembrano essere le Regioni e gli enti locali
contando di recuperare almeno 10 miliardi e almeno la metà dovrà essere garantita dai governatori e
sindaci, i quali avranno in cambio un allentamento del Patto di Stabilità per un miliardo. I ministeri
dovranno presentare delle proposte per almeno un taglio secco del 3%, la cui somma arriverebbe a
un risparmio di circa 6 miliardi. Purtroppo sulla sanità se vogliono applicare tagli “lineari” che
sono inutili perché alcuni servizi vanno ridotti, altri invece sono da potenziare, seguendo criteri di
provata efficacia. Ci si pone la domanda com’è possibile che l’ospedale Careggi di Firenze spenda
per energia elettrica 10 volte più del Niguarda di Milano? E a Napoli per le pulizie si spende il
doppio di Bologna? A Catanzaro si spende 3 volte per telefoni di qualunque altro ospedale? Ecc.ma
nessuno lo sa. Ma se chi governa la sanità cercasse di capirlo potrebbe intervenire correttamente. Il
punto di partenza è sapere come si spendono i 50 miliardi per l’assistenza ospedaliera e di quanto
ciascun ospedale si discosta dalla media nazionale. Il risultato è che per ridurre i costi certi servizi
vanno ridotti o eliminati. Se in una città per farlo funzionare l’ospedale costa il 20% in meno della
media nazionale ed in un’altra città costa il 20% in più, chiediamoci perché. Che senso ha sostituire
solo il 50% dei medici e degli infermieri che vanno in pensione e farlo dappertutto, come se gli
ospedali fossero tutti uguali? Ci si dovrebbe invece occupare dei tanti interventi che non portano a
nulla e che insieme raggiungono il 30% delle spese. L’etica di evitare gli sprechi è diventato un
imperativo morale: in Bangladesh, Etiopia, Kirghizistan, Thailandia e nello Stato indiano del Tamil
Nadu hanno ottenuto grandi risparmi seguendo questi 4 criteri:
1. Avere le idee chiare su chi spreca e chi no
2. Saper governare il sistema
3. Avvalersi di una burocrazia efficace
4. Trovare soluzioni innovative nonostante le risorse limitate.
Per esempio in Kirghizistan c’erano troppi ospedali, troppi dottori e così il governo ha chiuso il
42% degli istituti, ha creato delle Case della Salute e riconvertito gli operatori a ruoli di prevenzione
e assistenza. La mortalità infantile è diminuita del 50%, il 98% delle partorienti è assistita da una
persona competente, si vaccina il 90% dei bambini. In India, a Bangalore hanno creato un centro di
chirurgia del cuore che attira ammalati di tutto il mondo, la qualità è identica alla nostra ma la spesa
è nettamente inferiore.

La Regione Lombardia ha approvato il Bilancio che non prevede alcun aumento di tasse e
imposte, nemmeno sui ticket, tutto il resto è a rischio: piccoli ospedali da chiudere, linee di autobus
da tagliare, forbici per il welfare, ambiente e cultura, per non parlare dell’Expo. Tutta colpa della
Legge di Stabilità che impone alle Regioni tagli lineari calcolati sulla base della popolazione e del
PIL, una manovra stupida perché penalizza i virtuosi e non colpisce gli spreconi. Avremo 750
milioni in meno per la sanità, 155 per trasporti pubblici e 60 negli altri settori che potrebbero
portare alla chiusura di una decina di piccoli ospedali.

Tra le varie possibilità di intervento c’è l’abolizione dei Co.Re.Com. (Comitati Regionali per la
Comunicazione), organismi costosi, pleonastici e sostanzialmente inutili, disciplinati da leggi delle
singole Regioni. Il loro compito è quello di monitorare e vigilare sulle TV locali (quando
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ricevevano fondi dalle Regioni), far rispettare la par condicio (ancora?), di tenere un registro degli
operatori e altre amenità del genere. Inoltre il personale dei Corecom è costituito da appartenenti ai
vari partiti politici e scelti non per competenza, perché per simili organismi la preparazione conta
poco. Chissà quanti uffici inutili come i Corecom esistono!

In ottobre 2014 la Presidenza della Camera ha introdotto il tetto massimo a 400.000 per le figure
apicali e sottotetti retributivi per tutte le categorie. Questa riforma porterà ad un risparmio di oltre
97 milioni nel 2015 e andrà a regime nel 2018. Cioè chi oggi prende 300.000 (alcuni Consiglieri
parlamentari) ne guadagnerà 12.000 in meno nel 2015, 18.000 nel 2016 fino a 33.000 nel 2018. Chi
oggi prende 180.000 (documentaristi) scenderà fino al 2018 a 170.000. Ma i limiti sbandierati si
riferiscono soltanto ad una delle tante voci che compongono la busta paga dei burocrati, perché essi
con gli extra potranno arrivare anche a 400.000 ed oltre. Perciò è solo una presa in giro.

La cosiddetta “Autodichìa”, ovvero il principio secondo il quale gli organi costituzionali gestiscono
in piena autonomia e senza controlli esterni le proprie risorse, ha prodotto situazioni di privilegio
inaccettabili. Gli stipendi sono legati a folli automatismi, un meccanismo di scatti e scala mobile
capaci di farlo salire anche del 400% e in tal modo hanno raggiunto livelli assolutamente senza
senso, mandando letteralmente in orbita le spese di Montecitorio e di Palazzo Madama. Per non
parlare poi dei regimi pensionistici che non hanno pari nel mondo, il tutto grazie ad accordi
scellerati con un pulviscolo di sindacati interni che sono protesi solo alla difesa dei loro interessi.
Lo stipendio medio di un dipendente della Camera e Senato è superiore a 150.000 € (uno della
Camera dei Comuni in GB prende 40.000 €) e il segretario generale del Senato è andato in pensione
con 550.000 € !!!! L’esempio delle Camere ha prodotto a cascata guasti anche nelle Regioni. Anche
qui gli apparati politici rivendicano la stessa “autodichìa” e hanno dilagato in maniera peggiore;
stipendi stellari, assunzioni clientelari, strutture mostruose ma inefficienti. E’ qui che Renzi deve
intervenire, ma non si sa come!

Gli studiosi hanno previsto che se entro il 2018 il governo non riuscirà a tagliare la spesa pubblica
di almeno 29 miliardi le famiglie italiane potrebbero subire un aggravio fiscale di oltre 1.100
cadauna. Cioè Renzi dovrà razionalizzare la spesa di 16,8 miliardi nel 2016, che saliranno a 26,2 nel
2017 e 28,9 nel 2018. Se non saranno raggiunti questi obiettivi scatterà l’aliquota Iva di 2 punti
dal 1/1/2016 sia quella al 10% e al 22%, nel 2017 subiranno un altro ritocco di 1 punto e poi 0,5 nel
2018, pertanto nel 2018 avremo l’Iva al 13% e al 25,5%. Inoltre dal 2018 scatterà un ulteriore
aumento dell’accisa sui carburanti per assicurare maggiori entrate per almeno 700 miliardi. La
Spending Review è politicamente molto difficile, nessun governo negli ultimi anni mai è riuscito a
farla in modo efficace. Le risorse si perdono sempre in mille rivoli. La coperta è sempre troppo
corta e quindi chi paga sono sempre le famiglie. A questo punto tutti i tagli previsti da Cottarelli
sono carta straccia, si era parlato di 5 miliardi, ora si è scesi a 2, ma il governo (come sempre)
prevede maggiori entrate di 4 miliardi dalla lotta all’evasione, ma è un sogno. Quando poi il
governo decide di applicare i tagli ecco che scattano i ricorsi alla Magistratura e “quasi” sempre
vincono. Gli ex Consiglieri della Lombardia si sono opposti al taglio del 10% dei loro vitalizi con
ben tre ricorsi: al Tar, Alla Corte dei Conti e alla Magistratura ordinaria. Si tratta di innalzamento
dell’età minima delle pensioni da 60 anni a 66 e un taglio medio del 10% per risparmiare oltre
500.000 € all’anno, in tutto in nome della solidarietà e dei tempi di crisi per le Casse dello Stato.
Quei beneficiari costano ogni mese oltre 620.000 € e si chiede un contributo minimo del 5% per gli
assegni fino a 1.500 e un massimo del 16% per cifre superiori a 4.500 al mese.
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Anche gli enti inutili e resistenti della poltrona attuano tutte le tecniche di sopravvivenza. Resiste il
Consiglio Nazionale dell’economia e lavoro, su 64 addetti 45 hanno dato le dimissioni ma gli altri
resistono ad una legge Costituzione, il presidente ha resistito nella speranza che il governo cada e si
vada a votare e quindi la legge possa saltare. Inoltre la legge di Stabilità ha del tutto azzerato la
dotazione del Ministero della difesa per le consulenze. All’interno del CNEL c’è una struttura
interna chiamata “ONC” con una dotazione di 250.000 all’anno (dal 1999 al 2014 ha avuto a
disposizione ben 5,3 milioni), è il compenso per la realizzazione in 12 mesi di un rapporto sugli
immigrati e il mercato del lavoro, rapporto che è identico a quello prodotto ogni anno dal Ministero
del Lavoro! L’ex ministro Calderoli aveva censito 1.612 enti “dannosi” e prometteva di spazzarli
via, però essi vivono ancora. Così pure per i Tribunali delle acque, i Bacini umbriferi montani, gli
ATO, i 138 enti Parco regionali e la pletora dei Consorzi di bonifica, salvi perché un cavillo
permetteva di salvarsi rifacendo lo Statuto. Così anche per tutte le società partecipate che Cottarelli
aveva suggerito di chiuderle subito: sono salve per esempio ARCUS, creata 10 anni fa, Monti
l’aveva chiusa, poi un emendamento del governo Letta l’ha resuscitata, sopravvive anche l’Istituto
per lo sviluppo agroalimentare cancellato da Monti, rianimato in Parlamento, stessa trafila per
l’Istituto per il Commercio estero, per l’Ente nazionale per il microcredito (con fondi di 21,8
milioni).

Il governo attuale ritiene opportuno intervenire sulle società partecipate con una proposta di
ridurre il loro numero da 8.000 a 1.000. Con la riforma della PA si dovrebbe finalmente intervenire
entro il 2015. Occorre prima avviare un piano di operativo di razionalizzazione delle società
partecipate direttamente o indirettamente, le modalità e i tempi di attuazione, nonché l’esposizione
in dettaglio dei risparmi da conseguire. Si deve tener conto che non è possibile attuare il piano di
riduzione delle società in un arco di tempo di 12 mesi (ora ne mancano solo 9). Non essendoci
vincoli particolari è bene fare piani concreti e realizzabili, anche perché sia il progetto e sia la
relazione sui risultati ottenuti dovranno essere resi pubblici sul sito dell’ente ed inviati alla Corte dei
Conti.

Emilia Romagna e Lombardia si contendono il primato dei taglia alle Regioni, nella sforbiciata da 4
miliardi che la Legge di Stabilità assesta ai conti territoriali. I Governatori si stanno arrovellando nel
tentativo di arrivare ad una distribuzione condivisa dei sacrifici, da presentare al Governo. Una sfida
complicata: la speranza era di salvare dalla stretta il capitolo della sanità, che però pesa per quattro
quinti sulle uscite regionali, ma l’alleggerimento della cura chiesto più volte dai Governatori non è
arrivato, e l’impresa appare impossibile. Risultato: Asl e Ospedali rischiano di grosso, insieme al
trasporto pubblico locale, anche se non bisogna dimenticare che la spesa regionale più pesante oltre
la sanità è un’altra: è la macchina amministrativa che vale 12,7 miliardi all’anno. Sulla base di
analisi e simulazioni varie si avrebbe che l’Emilia Romagna dovrebbe alleggerire le proprie uscite
non sanitarie del 18,4%, pari a 326 milioni di euro, mentre la Lombardia del 14% per 750 milioni.
In altre 5 Regioni si avrebbero tagli tra il 12 e il 10%, mentre nel centro Sud soltanto tra il 9% e il
5%. Il governo non ha tenuto in alcun conto le richieste dei Governatori perché ogni euro in più
riconosciuto ad una Regione si trasforma in un euro in meno alle altre Regioni. Per quanto riguarda
le Regioni a Statuto speciale si ha un taglio del 1,5% per la Sicilia, pari a 97 milioni e il 9,1% per la
Sardegna, pari a 273 milioni. Comunque la responsabilità delle scelte su come attuare i tagli sarà
tutta nelle mani di presidenti e assessori, che potranno scegliere, in piena libertà, dove e quanto
tagliare all’interno dei propri bilanci.

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Ma i risultati previsti dai vari interventi sul taglio delle spese che si sono abbattuti su Regioni ed
enti locali nel periodo 2008 – 2013 sono stati raggiunti ad un prezzo elevato che si può sintetizzare
così: meno servizi, più tasse per compensare in parte le riduzioni dei fondi, crollo degli investimenti
e aumento della febbre dei bilanci con prestiti chiesti allo Stato per superare i buchi di liquidità. A
dirlo è la Corte dei Conti che individua uno squilibrio nelle manovre di finanza pubblica: agli enti
territoriali è stato chiesto “uno sforzo di risanamento non proporzionato all’entità delle loro risorse”,
in base a scelte andate “a vantaggio degli altri comparti delle amministrazioni pubbliche”.
Tradotto: troppi tagli agli enti territoriali e troppa grazia ai ministeri. Il problema è serio per i conti,
ma grave per le sue ricadute concrete perché colpisce con più forza gli anelli deboli del sistema,
prima di tutto le aree del Sud. Gli effetti collaterali delle manovre riguardano però tutti gli enti
territoriali. Nei Comuni, per esempio, il “convulso legiferare in materia di entrate tributarie” ha
moltiplicato i problemi di cassa e le richieste di anticipazioni di tesoreria (+35%), prestiti che
devono essere restituiti allo Stato. Mentre le Province hanno prodotto una “severa riduzione di
spesa”, ma si sono viste azzerare le risorse statali. La Corte sembra chiedere un cambio di marcia
prima di tutto per la sanità, in cui la spesa italiana è inferiore a quella di Francia e Germania di circa
1,5 % del PIL (2.481 dollari a testa contro i 3.691 della Germania). La sanità rappresenta tra il 15 e
il 16% della spesa corrente pubblica, ma nel 2013 ha assorbito il 30% dei tagli.

Anche i costi della riscossione fiscale erano finiti nel mirino del Commissario Cottarelli. Egli aveva
scritto che lì si potevano risparmiare almeno 400 milioni all’anno. In che modo? Semplicemente
accorciando il viaggio del denaro. Le tasse vengono infatti incassate dalle banche che poi le girano
alla Banca d’Italia e da questa al Tesoro. Se il Ministero delle Finanze aprisse invece direttamente
conti con gli istituti di credito, saltando il passaggio a Bankitalia, potrebbe risparmiare quei fatidici
400 milioni di inutili provvigioni. E qui si apre un capitolo più ampio. La Banca d’Italia gestisce le
tesorerie provinciali dal 1894, mentre la Tesoreria centrale le è stata affidata per legge nel 1999. I
rapporti sono regolati da apposite convenzioni e la durata del servizio è fissata in vent’anni,
tacitamente rinnovabile per altri venti. A meno che il governo o la Banca d’Italia non disdettino
l’accordo: almeno 5 anni (cinque) prima della scadenza! Il problema è che questo servizio costa, la
cifra esatta non si conosce. Però sapendo che 15 anni fa l’aggio riconosciuto alla Banca d’Italia era
di 1.600 miliardi di lire oggi non è inferiore certamente a 800 milioni di euro. Cifra alla quale si
deve sommare la provvigione corrisposta alle Poste italiane per la riscossione di carattere erariale
(come pagamenti all’Inps o le spese di giustizia): altri 200 milioni. Fatto paradossale, mentre le
banche pagano un interesse, sia pur minimo, sulle somme depositate dai privati, lo Stato al contrario
paga chi ha in deposito il suo denaro. Qualcosa come 150 miliardi all’anno. Se tutti quei soldi
venissero dati ingestione auna banca o a un pool di istituti di credito attraverso una gara, c’è da
immaginare che, oltre a risparmiare un miliardo, il Tesoro potrebbe incassare anche qualcosa.

IL caso più emblematico è stato scoperto nel gennaio 2015: un pensionato del Comune di Perugia
si ritrova un vitalizio di 20.700 netti al mese (651.ooo all’anno) più di quello che prende Obama! E’
un ex avvocato del Comune ed è arrivato a quella cifra con gli extra, le percentuali sulle cause vinte
ed appena scoppiato lo scandalo ha richiesto il “principio dei diritti acquisiti” e minaccia un ricorso
alla Magistratura. La colpa è sempre delle leggi sbagliate!

Gli sbarchi e i centri per l’immigrazione ci costano oltre 1 miliardo all’anno, ed oltre 600 milioni
per l’attività di accoglienza. L’immigrazione costa alla finanza pubblica almeno un miliardo di euro
l’anno. Una cifra approssimata per difetto ma con un alto tasso di variabilità e una prospettiva al
rialzo. La verità è che fronteggiare gli sbarchi, fare i controlli di polizia, dirottare nei centri di
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assistenza, accogliere e poi, magari, integrare i migranti costa un sacco di soldi. Ma i soldi non
bastano mai. Oggi, nonostante la rincorsa alla Spending Review, è impossibile ipotizzare una
riduzione e la conseguente diminuzione dei costi, degli uffici in campo. Il ministero degli interni
deve coordinare e governare l’accoglienza, l’assistenza, l’integrazione: una montagna di procedure
e percorsi che fanno i conti con i Prefetti in sede, sindaci e politici locali, spesso, quest’ultimi,
resistenti e polemici, la ricerca a volte di un alloggio da trovare quasi all’ultimo minuto. Tutto ciò
ha un peso di oltre 600 milioni €. Inoltre il Dipartimento di P.S. ogni giorno deve esaminare i
dossier della direzione centrale della polizia di frontiere e dell’immigrazione – circa 2.000 agenti,
con controlli e situazioni a rischio, verifiche con i colleghi delle forze dell’ordine degli altri Stati.
Senza contare le migliaia di poliziotti delle Questure impegnati nelle pratiche di permessi e rinnovo
di soggiorno, e l’ipotesi di passare i fascicoli agli enti locali, come sarebbe ovvio e logico, ha
sempre incontrato il No vincente dei Comuni. Ma non è finita: carabinieri e agenti della P.S. sono
impiegati in attività di ordine pubblico durante i trasporti, i controlli e l’accoglienza degli immigrati,
con costi relativi di straordinari e di missione. La Guardia costiera in prima linea ogni giorno,
spesso in situazioni estreme (mare a forza 8), a rischio concreto della vita, in Sicilia, Puglia e
Calabria, annovera 5 navi, 66 motovedette d’altura e costiere, 3 velivoli e 4 elicotteri, oltre agli
uomini di equipaggio ci sono altri 600 militari impegnati a terra nelle sale operative, nel servizio
supporto di manutenzione navale e aerea, logistico, scorte e profilassi sanitaria. Senza contare il
mezzo milione di euro al mese per l’acquisto di generi alimentari di prima necessità per i migranti,
dispositivi di protezione individuale e vestiario per il personale militare, le mense e gli straordinari.
C’è anche il costo di 1 milione al mese per carburante e manutenzione dei mezzi aeronavali. Inoltre
c’è anche la Guardia di Finanza in attività di controllo anti-scafisti e contro lo sfruttamento
dell’immigrazione clandestina, essa impiega 3 guardiacoste, un aereo e 2 elicotteri.

Gli stipendi nel 2013 dei Manager di Stato volano alti tra i costi della finanza pubblica, la
maggioranza di essi rivestono incarichi dirigenziali nelle società statali. Vediamone alcuni:
IL più pagato tra i manager pubblici è Paolo Scarone, a.d. dell’ENI con 4,68 milioni l’anno.
Il secondo è Fulvio Conti d.g. dell’ENEL con 3,233 milioni l’anno.
Il terzo è Claudio Descalzi d.g. dell’ENI con 2, 227 milioni l’anno.
Poi abbiamo Massimo Sarni che nel 2013 guidava Poste Italiane con 1,56 milioni e Mauro Moretti
a.d. delle Ferrovie dello Stato con 1,17 milioni l’anno.
Tra le figure più note abbiamo Luigi Gubitosi d.g. della RAI con appena 650.000 l’anno, quindi
Giuseppe Sala a.d. di Expo Milano con solo 423.100 l’anno.
Poi esiste una sfilza di piccole e poco conosciute società statali, ma con stipendi non trascurabili:
Sogesid, Studiare Sviluppo, Italia Lavoro, Ram, ecc. i cui manager non prendono meno di 250.000
l’anno, e non importa se molte di esse sono in dissesto.
Il governo di Monti, poi di Letta ed ora di Renzi hanno provato a fissare per legge dei limiti agli
stipendi dei manager delle società pubbliche, ma finora senza alcun risultato.

La Corte dei Conti segnala che le minori spese sul fronte degli interessi sui titoli di Stato, che
nell’ipotesi di uno spread stabilmente sui 100 punti consentirebbero di risparmiare quest’anno 6-7
miliardi. Quanto alle spese, in ballo vi sono 7,5 miliardi di tagli, così ripartiti: 1,5 alle
amministrazioni centrali, 1,2 ai Comuni, 1 alle Province, cui vanno ad aggiungersi 3,8 a carico delle
Regioni. Come segnala la Corte dopo la legge di Stabilità “non può non destare preoccupazione il
continuo rinvio al futuro di ulteriori tagli di spesa al momento sostituiti da clausole di salvaguardia”
(16 miliardi nel 2016 e 23 nel 2017) Se non si raggiungono scatta l’aumento delle aliquote Iva!
Bene la manovra 2015, bene le riforme messe in cantiere dal governo, che combinate con il calo del
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prezzo del petrolio, il cambio favorevole, il QE della Bce, non può andare sprecata. E’ un’occasione
più unica che rara e dunque le Riforme vanno attuate presto e bene, per favorire imprese e famiglie
e tagliare la pressione fiscale. La Corte mette in guardia Governo e Camere sulle iniziative da
prendere al più presto. Senza sprecare tempo. Le prospettive sono lusinghiere ma vanno
implementate e applicate senza passi indietro. Riforme, riforme, riforme. E’ indispensabile che i
risparmi per la riduzione degli interessi “siano volti a incidere sulle aspettative di famiglie e
imprese”. Logicamente ci sono misure da prendere come interventi strutturali sul fisco (ancora in
panne), sul lavoro, sui bonus fiscali e bonus bebè, taglio dell’Irap, decontribuzione, nuovi contratti
di lavoro. Vanno ridisegnate le strutture di governo, ridefinite le competenze degli apparati pubblici.
Non sono sostenibili i tagli sulle prestazioni sociali, che minano anche la qualità dei servizi, con
forti e gravi differenze locali. Per questo conclude la Corte i risparmi per i minori interessi non
devono servire a tamponare le falle della Spending Review, a dedicati a tagliare le tasse, a creare
vera ripresa. Perché la sanità continua ad essere considerata un settore sul quale effettuare risparmi,
quando al contrario è una formidabile leva per lo sviluppo, non solo per promuovere il benessere e
l’uguaglianza fra le persone, ma anche per favorire occupazione, ricerca e innovazione. Per questo
bisogna scongiurare altri colpi di scure. Non si può permettere che gli ospedali vadano in rovina,
che gli operatori si arrendano al declino e i più svantaggiati non possano accedere alle cure. La
mancata ripresa dell’economia e le difficoltà della finanza pubblica potrebbero indurre a ulteriori
riduzioni della spesa pubblica sanitaria. Si potrebbero perseguire eventuali margini di
miglioramento attraverso una attenta selezione degli interventi di riqualificazione dell’assistenza, e
gli eventuali risparmi andrebbero reinvestiti sui servizi più carenti, come quelli per gli anziani.

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