Dinner Party: una "tragedia discreta" di P.V.Tondelli

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Francesco Ardolino
                  Dinner Party: una “tragedia discreta” di P.V.Tondelli

         Agli inizi del 1984, quando si accinge alla stesura di Dinner Party, sua unica opera
teatrale originale,1 Tondelli ha già alle spalle i successi riscossi (e le polemiche ottenute) con
Altri libertini (1980) e con Pao pao (1982). In realtà, è da tempo impegnato sul fronte di un
altro romanzo di cui non riesce a trovare la conclusione,2 e alla crisi inventiva si aggiungono le
ristrettezze economiche; accetta quindi di buon grado, sotto l’incitamento di Paolo Landi, di
intraprendere la scrittura del «dramma» (che poi diverrà «commedia») per partecipare al
Premio Riccione-Ater per il teatro del 1985 dell’importo di dieci milioni - che non intascherà
perché conseguirà solo il secondo posto.3 La prima redazione è quindi piuttosto affrettata e
l’opera sarà presentata al concorso sotto il titolo La notte della vittoria (Dinner Party). In
seguito, P.V.T. tornerà sul testo correggendolo e riscrivendolo più volte, lasciando alla sua
morte, nel 1991, nelle mani di Fulvio Panzeri, una serie di «studi preparatori» e quattro
versioni complete differenti - databili tra l’84 e l’86.4

             Tondelli, nell’indicare le versioni delle sue opere da ritenersi definitive, è stato assai
       preciso e ha dettato una serie di condizioni. Per quanto riguarda Dinner Party non ha voluto
       stabilire una redazione precisa, nell’impossibilità contingente di recuperare le varie versioni.5

         Di fronte alla scelta del testo da proporre ai lettori, Panzeri opta per la seconda delle
versioni complete, per una serie di ragioni «interne» (quali l’idea di mantenere l’aspetto di

 1
    Ma nel teatro si era impegnato sin da giovanissimo: è suo l’adattamento del Piccolo Principe per uno
spettacolo allestito a Correggio nel 1975. Segnala poi Franco QUADRI, «A teatro», Panta, nº 9, 1992, p. 75: «In
realtà è stato anche coautore di una riduzione scenica di Altri libertini, a cui si apre il restaurato Teatro Asioli
della natia Correggio, proprio nell’anno della presentazione al Premio [Riccione-Ater 1985]». Per quanto
riguarda invece il testo da noi analizzato, si farà riferimento all’unica edizione in commercio (a cura di Fulvio
Panzeri): Pier Vittorio TONDELLI, Dinner Party, Milano, Bompiani, 1994 - d’ora in avanti DP.
  2
    Si tratta di Rimini, che uscirà nel 1985. È Tondelli stesso a parlarne in un’intervista, rilasciata a Marina
GARBESI, »A cena con Tondelli una generazione gioca al massacro», La Repubblica («Bologna»), 12 aprile
1984, p. 28 (uno stralcio è riportato da Fulvio P ANZERI, «Nota al testo», DP, p. 111).
  3
    Cfr. Paolo LANDI, «Generazione di fenomeni», Panta, nº 9, 1992, pp. 69-73.
  4
    Ma Enzo SICILIANO, «Piccola cronaca di un progetto fallito», nel Programma di Sala di «Dinner Party»,
Reggio Emilia, Edizioni del Teatro Municipale Valli, 1994, pp. 31-32, sostiene che nel 1988 Tondelli, dopo

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manifesto generazionale dell’opera sia sul piano del contenuto sia su quello dell’espressione o
la maggiore aderenza agli spunti originari del testo) e «esterne» (parallelismo imbastito dallo
stesso P.V.T. fra forma teatrale e valorizzazione del parlato oltre al confronto con il
programma di equilibrio fra riscrittura e freschezza formulato nella raccolta di «cronache» Un
week-end postmoderno). Il criterio appare senz’altro convincente dal punto di vista del
recupero della spontaneità dello spirito tondelliano; qualche dubbio persiste invece nel
tentativo di
     giustificazione filologica che affiora qua e là e che, vista peraltro l’estrema onestà con cui
Panzeri mette allo scoperto tutti i dati a sua disposizione, sembra ormai più irrilevante che
indimostrabile.6

         Viene invece risolto in modo trasparente un ultimo problema denominativo:
                  Unico punto fermo stabilito dall’autore è il titolo definitivo di Dinner Party, con
         cui comunemente il testo era conosciuto.7

     Al proposito, una chiarificazione è fornita da Paolo Landi:

                  Tra le carte di Tondelli ritrovate dopo la sua morte, la scheda di prenotazione per
         assistere a una performance dell’artista americana Judy Chicago al Festival di Edimburgo
         (agosto 1984) spiega l’origine del titolo. The Dinner Party, si chiamava così
         l’«installazione»: un tavolo triangolare con trentanove posti a sedere per indagare, secondo le
         affermazioni della performer, «sull’importanza del contributo dato dalle donne alla cultura
         occidentale». E, forse, The Cocktail Party di T.S.Eliot (1949), con la sua messa a punto di
         una «tragedia» travestita da commediola borghese, nello sforzo di restituire una

avergli mandato una stesura di Dinner Party e dopo averne parlato con lui, gli assicurò che «sarebbe “tornato
su” quanto aveva scritto. E ci tornò felicemente su».
  5
     Fulvio P ANZERI, «Dinner Party. Storia di un testo teatrale», Programma di Sala di «Dinner Party», op.
cit., p. 131.
  6
     Così, il nostro appunto tocca in particolar modo le ragioni che abbiamo definito esterne: addurre a
sostegno delle proprie argomentazioni un’intervista di Tondelli del 1985 (cioè di un periodo vicinissimo ad
almeno due delle stesure) per giustificare l’intentio auctoris appare di una circolarità quasi viziosa;
formalmente infelice, e specialmente in un caso come questo, è invece l’idea che la versione scelta sia «da
ritenersi definitiva».
  7
    Fulvio P ANZERI, «Nota al testo», op. cit., p. 117. Il titolo recupera il sottotitolo della versione presentata al
concorso; Panzeri informa anche di altri titoli rifiutati: Premio Strega, Segnali di guerra (probabilmente da
attribuire alla versione che doveva avere come sottofondo un bollettino di guerra letto in italiano da una voce
iraniana), Casi come questi... e Finali di partita.
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conversazione salottiera che ambisca a essere metafora esistenziale, potrebbe essere inserita
            tra le sue fonti di ispirazione.8

            La proposta di un’influenza di Eliot sarà poi «immagazzinata» dalla critica successiva,
che si lancerà alla ricerca di echi e reminiscenze, da Cechov a Wilde, arrivando fino a Natalia
Ginzburg.

       1.
            Così vengono presentate le dramatis personae:

                     GOFFREDO OLDOFREDI, detto FREDO, avvocato
                     GIULIA OLDOFREDI, sua moglie
                     MANFREDI OLDOFREDI, detto DIDI, suo fratello minore
                     ALBERTO GRANDI, loro giovane amico
                     MAVIE DI MONTERASSI, editrice
                     TOMMY TRENGROVE, amico di famiglia
                     ANNIE, attrice
                     JIGA, cameriera

            La tresca fra Alberto e Giulia - di cui lo spettatore è al corrente dalla prima scena -
viene scoperta casualmente da Fredo. Nel pranzo in onore di Tommy, oltre a Didi - scrittore
fallito e iconoclasta - e a Mavie, si presenterà a sorpresa anche Annie - donna schermo
inventata da Alberto per nascondere i propri sentimenti verso Giulia. Raggiunto l’apice
dell’incomprensione e dell’ambiguità, la commedia subisce una brusca svolta quando Giulia
toglie la parrucca ad Annie - che si rivelerà essere un travestito forse contrattato da Fredo. Ma
il gioco delle parti prosegue nei flash back, in una sorta di svelamento di maschere sessuali:
omosessualità di Fredo innamorato in realtà di Alberto e supposizione di una relazione di
Tommy con la madre di Fredo e Didi peraltro con il sospetto di implicazioni criminali. Il
coinvolgimento di Tommy nella morte del padre viene congetturato da Fredo ma,
specularmente, anche Tommy accuserà i due fratelli del loro gioco di (auto)distruzione.

 8
     Paolo LANDI, «Introduzione», DP, p. 14.
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Il tempo interno dell’opera (forse anche la scelta della divisione in due atti) è scandito
dalla telecronaca della partita con cui l’Italia si aggiudicò la vittoria al Campionato del Mondo
di Calcio in Spagna nell’’82 (Italia-Germania: 3-1) e le tre reti dell’Italia sottolineano tre
momenti di scioglimento della vicenda: la scoperta dell’identità sessuale di Annie, il sospetto
sulle ragioni della messinscena di Fredo, i dubbi su Tommy.
        Tuttavia, più che a fili argomentativi ben delineati, bisogna pensare a una
precipitazione all’unisono di tutti gli elementi della commedia preparati durante il primo atto.9
Il vaso di Pandora si scoperchia dando l’avvio a un ritmo rocambolesco di agnizioni a partire
dal momento in cui Annie viene spogliata della parrucca e, con essa, della sua personalità -
quasi fosse una novella Medusa pateticamente immedesimatasi col suo strumento fittizio di
potere. Oltretutto, non accetta di perdere il suo ruolo poiché la sua esistenza è -
pirandellianamente parlando - legata alla sua maschera; così, sarà l’unica a dover affermare la
propria identità attraverso il riconoscimento della propria natura fantasmatica:

                   ANNIE: Ditemi che non sono i miei capelli. Ditemi che non sono miei quegli
        stracci.
                   MAVIE: Qual è il maschile di Annie?
                   DIDI: Alberto è il maschile di Annie.
                   ALBERTO: Finisci con questo «spapereccio», beccamorto! Io non so chi sia questa
        Annie.
                   ANNIE: (con voce maschile): Come non lo sai! (In falsetto.) Sono la tua donna!
                                                                                                  [p.
        87]

        E ancora, rivolgendosi ad Alberto:

                   ANNIE: Io sono la tua donna. Mi hanno invitata proprio perché sono la tua
        compagna. Tutti lo sanno, qui. Nessuno mi farà più cambiare idea.
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 9
   Lo capisce benissimo il regista della mise en espace del 1994, Piero MACCARINELLI, «Ottanta voglia di
Milano. Vedi Tondelli e poi party», Spettacoli, nº 115, aprile 1994, p. 30: «Tutto si consuma velocemente in
un’assenza di tempo preoccupante e destabilizzante; il centro è degradato: restano solo tante linee impazzite
che dal centro si diramano verso l’infinito».
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E quando Didi propone di ricacciare lo scheletro - anzi il «fantasma» -10 nell’armadio,
la protesta di Annie arriva a far coincidere ancor più esplicitamente ontologia con
fenomenologia (o almeno a fare dell’ultima la ragione della prima):

                  ANNIE: Giù le zampe! È una vita che una come me sogna questo momento. Mi avete
         accettata. Annie è una donna che ha un ragazzo, che ha degli amici che parlano di lei. Che la
         invitano a cena. Io resto Annie.
                                                                                        [p. 90]

         Per essere razionalizzata, Annie deve essere dialetticamente negata; per quanto Alberto
possa giurare a Giulia che si tratta semplicemente di una sua invenzione, è solo dopo la
colluttazione e il successivo svenimento (falsa morte) di Annie che Didi, raccogliendo dei
messaggi semioscuri di suo fratello, intuisce che la messinscena era stata organizzata proprio
da quest’ultimo - che lo avrebbe fatto per amore di Alberto e non di Giulia. Ma, come succede
lungo tutta l’opera ad ogni possibilità chiarificatrice, anche questa viene lasciata cadere nel
vuoto.
         Annie resta dunque presente in absentia sulla scena; è l’inconscio devastatore, emerso
per un momento dalla coscienza, che ancora tenta di liberarsi dai vincoli del controllo. E
Tommy, rientrando in scena (tornando insomma nel dominio logico dell’al di qua):

                  TOMMY: (rivolgendosi a Fredo): Quella ragazza, Annie, mi ha raccontato
         qualcosa: avrei preferito non sentire.
                                                                            [p. 99]

         Si presagisce una verità terribile, ma anch’essa passerà sotto silenzio: Annie è diventata
un flatus vocis ormai inascoltabile, un brusio incomprensibile soverchiato dalle altre
discussioni. Non c’è più spazio per lei perché ormai la frattura si è estesa a una coscienza
collettiva generazionale che, dopo il trauma, sta cercando di ricomporsi. Anche Didi, a cui in
fondo era consentito il gioco di épater le bourgeois in una provocazione continua ma

 10
     E infatti, fino alla versione datata aprile 1984, nell’elenco dei personaggi si leggeva «Annie. Un
fantasma?»
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socialmente accettata,11 pur essendo rimasto in scena insieme a Tommy e Fredo, deve ormai
tacere - e lo fa al suo solito accasciandosi, ubriaco, sul tavolo. Si riprenderà solo nelle
ultimissime battute, per un ballo impossibile che diverrà un abbraccio immobile con il fratello.
Viene da pensare anche a una circolarità della commedia attorno a questa figura: secondo le
indicazioni didascaliche l’amplesso iniziale di Alberto e Giulia sarebbe interrotto da Didi che,
dice Alberto, «è ubriaco sotto il tavolo» [p. 24].
        Ma se si ammette che dietro a questo richiamo ci sia un indizio di restaurazione dello
statu quo, Dinner Party dovrà essere letto sotto il segno di un’ironia amara - malinconica e
disfattista a piacimento - per l’impossibilità storicizzata di ricreare la dimensione straordinaria
della tragedia.12 Insomma, l’accostamento alla tragedia c’è, ma è parossistico, parassitario e, a
tratti, quasi parodico; si veda, se non altro, questo isolato intervento di Giulia, precedente al
suo sfogo di sincerità:

                 GIULIA (mettendo un dito sulla fiamma): Odio il fuoco. Ho il terrore del fuoco.
        Eppure non sento nulla.
                                                                                           [p. 75]

 11
      Didi, come scrittore fallito, incarna un moderno giullare. Che ci siano fra lui e l’Autore alcune
sovrapposizioni (come vuole F. P ANZERI, «Nota al testo», DP, p. 127) è fuori discussione e lo dimostra, tra
l’altro, la vicinanza formale ad altri personaggi «autobiografici» tondelliani come Bruno May di Rimini o
Fredo dell’«Attraversamento dell’addio» poi inserito nella raccolta di racconti L’abbandono (uscito postumo
nel 1993) o, azzardando un po’, persino il protagonista di Camere separate (1989). Resta il fatto che Didi è
comunque personaggio umoristico, capace di suscitare nei suoi confronti il «sentimento del contrario» dello
spettatore. L’idea, non sviluppata, di Giovanni RONCHINI,«Dinner Party: Le mille luci (ed ombre) della
generazione postmoderna», Sottospirito, nº 3, maggio 1996, p. 1-4, di chiamare in causa il racconto di Benni
«Californian crawl» (nel Bar sotto il mare) avrebbe trovato un forte sostegno comparatistico nella
degradazione comica di un «carattere» molto simile, almeno nell’atteggiamento, a quello di Didi.
  12
      Si nega perciò quanto sostenuto da Lisa OPPICI, «Chiuso per (auto)analisi: il movimento immobile di
Tondelli e Allen fra teatro e cinema», Quaderno di Letteratura Italiana Contemporanea. Sulle strade di
Tondelli. Musica. Cinema. Geografia letteraria (Atti della giornata di studi. Parma, 5 dicembre 1996), pp.
38-41 che riduce tutto a una semplificazione agonistica e lineare per cui «anche in Dinner Party, che è
sicuramente più tragico [di Settembre di W. Allen], e in cui si ha più il senso di ultima resa dei conti
esistenziale, alla fine perdono tutti.» In linea con la nostra interpretazione e rispettando l’atmosfera di
rassegnazione che pervade tutto il testo è Maria Grazia GREGORI, «Un Tondelli Mundial», L’Unità, 11 aprile
1994, p. 11: «Al contrario di quanto avviene in un modello inarrivabile, Cocktail Party di Eliot, nel dinner di
Tondelli nessuna palingenesi è possibile, nessun angelo annuncia l’avvento di un mondo nuovo nato dal
sacrificio e dalla morte. Al contrario, qui tutto resta in immobile disfacimento. Fredo, Didi, Alberto, Tommy,
Giulia, Mavie, Annie ci appaiono, dunque, eternamente inchiodati al soggiorno con terrazza di casa Oldofredi».
Curiosa la contrapposizione di quest’articolo con quanto scritto da Renato BARILLI, «Un grande interprete del
mondo dei giovani», Programma di sala di «Dinner Party», op. cit., p. 17: «Ma dal cuore della notte
finalmente raggiunta, che poi è anche un’alba rinascente, Didi invita con improvvisa e insospettata forza gli
amici falsamente adulti a riconoscere il fallimento dei rispettivi progetti, li chiama ad abbassarsi con lui, a
tuffarsi in un pozzo profondo, in un abisso che nello stesso tempo è anche una fonte rigeneratrice». Questa

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E poi, è il dialogo stesso a spingere a quest’interpretazione, rendendo esplicita la
questione:

                   GIULIA: E se il pericolo si nascondesse insidioso nella stessa casa?
                   FREDO: Sarebbe una tragedia.
                   DIDI: O una farsa. Il genere tragico è definitivamente tramontato, c’è ancora bisogno
          di dirlo? L’unica forma tragica è l’ironia. Perché non permette la tragedia.
                   TOMMY: O perché l’ironia è il senso di una tragedia mancata. Comunque, sono
          d’accordo con te. È proprio questo generale clima di catastrofe che non favorisce
          un’adeguata rappresentazione dell’evento tragico. [...] Questa e tante altre sono tragedie,
          perché, come sempre, alla base c’è l’elemento umano; ci sono poi le passioni, gli affetti
          famigliari; c’è la ragione di stato, c’è l’utopia rivoluzionaria che è come dire l’ira degli dei.
          Eppure, al momento, nessuno è in grado di proporre queste rappresentazioni. [...] Diciamo
          piuttosto che la tragedia, ora, è sempre un po’ più fuori di noi. Qualsiasi modo di
          rappresentarla sarà sempre limitato. Non universale... Diciamo, una tragedia «discreta».
                                                                                             [pp. 72-73]

          Molto acutamente, Zappoli ha ripreso questo brano per recuperare la «dimensione
politica» di Tondelli.13 Qui interessa piuttosto notare l’attenzione rivolta da Tondelli verso la
trasformazione del genere che è probabilmente la manifestazione di una crisi creativa o, per
così dire, di un momento di passaggio da una fase narrativa ad un’altra. Il che coinciderebbe
cronologicamente con il superamento di una letteratura più scanzonata e gioiosa (a cui
apparterrebbero Altri libertini e Pao pao) a una più strutturalmente complessa e problematica
(la polifonia di Rimini) che scaturirà in quel grande «conte philosophique» che è Camere
separate.Del resto, anche limitandosi all’opera in esame, il cambiamento della dicitura da
«dramma» (ancora presente nella prima stesura definitiva) a «commedia» palesa un’incertezza
d’autore spiegabile con una ricerca di nuovi orizzonti per la propria letteratura.

     2.

palus putredinis del mondo giovanile da cui si riemergerebbe purificati stupisce non poco visto che non c’è
nulla nel finale della commedia che possa preannunciare una catarsi.
 13
     Cfr. Stefano ZAPPOLI, «Con un colpo d’ala. Postfazione», in Roberto CARNERO, Lo spazio emozionale.
Guida alla lettura di Pier Vittorio Tondelli, Novara, Interlinea, 1998, pp. 129-138.
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Dinner Party finora è stato letto più che altro come un ritratto generazionale e, quindi,
come un’autobiografia in negativo. A imporre questa linea, e con cognizione di causa, è stato
Paolo Landi che, dopo aver ricollegato il fenomeno all’esperienza teatrale avanguardistica di
quegli anni, lo ha poi individualizzato nell’Autore:

                 Ma è come se, in Dinner Party, Tondelli non fosse riuscito a esorcizzare,
        sconfiggendola, la propria autobiografia, per dimostrare che ciò che scriveva nasceva da un io
        diverso e più profondo di quello che si manifestava nella sua esistenza privata.14

        Manca qui uno sguardo compassato e distante a fornire una visione d’insieme meno
personalizzata, e si rischia così di far risaltare l’aspetto di costume dell’opera a scapito del
piano esistenziale.15
        Anche Zappoli stavolta sembra troppo sbrigativo nell’affermare che «tema esplicito
della commedia è quello della generazione».16 E non tanto per una questione terminologica,
quanto perché è Tondelli stesso a metterci in guardia dalla tentazione di proporre definizioni
totalizzanti:

                 Quando ho scritto la commedia Dinner Party i registi che lo [sic] stavano leggendo
        mi chiedevano quale fosse il tema. Sono rimasto un po’ imbarazzato, perché non è che
        trattasse una tematica particolare.17

        Franco Quadri - che però doveva avere tra le mani la versione riccionese - spalanca le
porte ad un’interpretazione meno univoca:

 14
     P. LANDI, «Introduzione», DP, p. 14.
 15
     Convince poco anche la frettolosa chiusura dell’articolo: «Così, questo dramma, o questa commedia
borghese di conversazione, finisce per restituire l’immagine impietosa di una generazione che gira a vuoto su
se stessa: ben diversa dall’autoindulgente e ottimista “Siamo una bella tribù” di Altri libertini (1980). Dopo
Dinner Party ci saranno Rimini e Camere separate; la foto del gruppo in via d’estinzione diventerà
progressivamente un autoritratto, il ‘noi’ generazionale tenderà all’introversione dell’io e anche le ultime
opere di Tondelli testimonieranno la sua sostanziale incapacità di affrancarsi dall’autorappresentazione,
l’impossibilità definitiva di liberarsi senza dolore da se stesso», ibid., p. 15. Niente da ridire sulla bellezza
formale di questa lettura, ma per dimostrare la visione prospettica di un Tondelli progressivamente e
programmaticamente intimista si dovrebbe quantomeno rispondere delle pagine diaristiche di Pao pao (che
non coincidono cronologicamente con quanto sopra affermato) e giustificare argomentativamente la
collocazione di Rimini.
  16
     S. ZAPPOLI, op. cit., p. 133.

                                                       8
Si potrebbero identificare due poli: una satira di costume abbastanza connivente e un
        momento introspettivo di aperture e scambi di confessioni, con uno scoperchiamento di
        nature non dichiarate e non accettate, prima che l’omaggio al meccanismo si pieghi al
        paradigma classico delle agnizioni. [...] Un altro dualismo lo propone lo scarto tra la
        brillantezza di un’atmosfera da salotto e l’improvviso montare dell’intrigo, tra un riuscito
        affresco scenico di costume e il labile spessore del linguaggio.18

        Certo che la vicenda sembra un costante afflusso dal sociale allo psicologico e,
inversamente, dal personale al generazionale, come in un sistema di vasi comunicanti. Forse
l’unico principio unificatore è l’appiglio disperato a una soggettività da rivendicare, per tutti e
per se stessi. E su questo punto hanno ragione sia Landi sia Quadri a mettere in ballo gli
articoli di Francesca Alinovi (amica di P.V.T. e giovane critica d’arte del DAMS uccisa nel
1983), poiché si trovano incorporati nella commedia e addirittura commentati - se riusciamo a
trascurare quella patina sbarazzina con cui i personaggi a volte nascondono la propria angoscia
esistenziale. Ma non c’è che da collazionare le dichiarazioni dell’Alinovi con il testo di
Tondelli:

                 Basta pensare al tormento della definizione: queste opere non si riescono a definire!
        Sono state coniate diverse etichette, tutte buone ma, come dire, insufficienti: Patter
        Painting, Arte decorativa, Bad Painting, New Image, Transavanguardia, Nuovi-nuovi, Magico
        primario, Naï ve nouveau. Non solo tutte queste etichette sono buone, ma ce ne vorrebbero
        ancora di più: perché ogni artista meriterebbe la propria etichetta. Anzi, ogni opera è un
        unicum non necessariamente inserito in una serie.19

        E in Dinner Party:

                 DIDI: Cos’è questa storia? Come «perché»? Ti sembra il modo? Che vuol dire «look
        generation», «video generation», «atomic generation», eh? Lo sai tu che vuol dire?
                 MAVIE: Suvvia. Voi siete la generazione dell’immagine, siete cresciuti negli anni
        sessanta: la televisione, la musica rock, James Dean, l’elettronica.
                                                                                            [p. 38]

 17
    Fulvio P ANZERI e Generoso P ICONE, Tondelli. Il mestiere di scrittore. Una conversazione autobiografica,
Theoria, Roma-Napoli, 19972, p. 62.
 18
    Franco QUADRI, «A teatro», op. cit., p. 76.
 19
    Francesca ALINOVI, «L’arte mia», Iterarte, nº 21, 1981. Ora in ID., L’arte mia, Bologna, Il Mulino, 1984, p.
45.
                                                       9
E ancora l’Alinovi:

                 L’arte dell’era elettronica, vale a dire quella della megalopoli dell’informazione e
        della coscienza diffusa dei suoi abitanti circa la pluralità dei messaggi naviganti nell’etere,
        non può che essere polisensoriale, sinestetica, indefinitamente espansa.20

        È un gioco di rimandi, il cui solo impedimento è l’impossibilità di risposta
dell’Alinovi; in caso contrario, sarebbe una prova del tutto simile a quella a cui si sottomette
Mavie, interrogata da Didi sui gusti dei due fratelli e dell’amico:

                 MAVIE: Alberto, vediamo... Il concettuale: no. Il comportamentale: no, no. Land art?
        No, scusami Didi, dammi una pausa di riflessione. Ci rimangono... Mail art? No. È l’era
        dell’elettronica, quelle cose postali sanno così d’Ottocento.
                                                                                            [p. 42]

        Si arriva in questo modo alla declamazione di Didi per cui le generazioni non esistono
più, perché «nessuno che abbia meno di trent’anni è accomunabile a un altro» [p. 44]; dunque,
retrospettivamente, si recupera l’ossatura estetico-ideologica dell’Alinovi laddove pareva che
fosse stata messa alla berlina.21 Quello che in superficie appare allora come un semplice
scontro fra «caratteri» (Didi vs. Mavie), adesso prorompe come una lacerazione più profonda,
segnata dalla dialettica generazione/individuo. E anche il linguaggio ne risente, riflettendo una
cultura disgregata e cumulativa, fatta di elenchi di nomi e di mode che acquistano un significato
(comunque effimero) solo in un ambito iper-specializzato; altrimenti, decadono in
      un deprimente chiacchiericcio consumistico.22

 20
      F. ALINOVI, «“Performance”, musica e altro. Catalogo della mostra Per/for/mance», Firenze, Teatro
dell’Affratellamento, 1980. Ora in ID., L’arte mia, op. cit., p. 135.
  21
     Non bisogna lasciarsi ingannare dalla superficie del discorso né, entrando in una perniciosa circolarità,
aggrapparsi costantemente alle dichiarazioni di Tondelli che, a onor del vero, spesso cede al fascino delle
semplificazioni eccessive e quindi solo parzialmente vere (e come controllare poi il grado di affidabilità con
cui le parole dell'Autore vengono riportate?). Ne fa fede l’intervista a M. GARBESI, op. cit.: «Hai 28 e sei un
anacronista. Scrivi nell’era dell’immagine elettronica. Ti rispondo con una battuta della mia commedia.
Ecco che cosa dice un personaggio a un altro: “Dimmi, sa scrivere libri l’elettronica? Sa fare arte? No non ci
riesce.» E io sono d’accordo. L’elettronica è un bel gioco. Io adoro i videogames. Ma, per carità, non parlatemi
di computer-art!»
  22
     Magari anche qui c’è un ripresa di F. ALINOVI, «A proposito di “Italian Wave” - Intervista di Loredana
Parmesani», Il Segno, nº 17, 1980. Ora in L’arte mia, op. cit., p. 153: «Deleuze, riferendosi al critico e allo
scrittore, parla di “balbettamento”. Chi scrive, in altre parole, dovrebbe avere il coraggio di essere come uno
                                                      10
Eppure, si intravede almeno il tentativo individuale di interrogarsi su questo vuoto, ma
è destinato a fallire per la mancanza di uno spazio comunicativo adeguato. Quando Fredo ha la
prova del tradimento della moglie, i dubbi comportamentali e le angosce esistenziali si
avvicendano nella sua mente:

                 FREDO: [...] Che dovrei fare? In casi come questi, si piange? O si ride? O si prende
        con filosofia? O si sbatte la testa contro il muro? Come reagisce la gente a... casi come
        questi? [...] Avevo un amico e non avevo niente, invece. Avevo una moglie che amavo e mi
        faceva piacere pensare a lei, ero felice di andarci a letto senza complessi di colpa verso il
        mio cazzo...
                                                                                              [p. 59]

        E via dicendo. Ma si sarà notata la titubanza per cui la parola «tradimento» non viene
fuori, sostituita dall’espressione «casi come questi» che era stata persino pensata come titolo
dell’opera. Se è rimasta una speranza di capirsi, essa viene annichilita dall’incapacità di
esprimersi, dal tabù della convenzionalità della conversazione. Fredo aveva già cercato
goffamente un dialogo con Giulia parlando di «responsabilità», ma da queste era scivolato sulla
necessità di evitare «inconvenienti» durante il pranzo. E, di fronte alla richiesta di un’ulteriore
spiegazione rivoltagli da Giulia, devia il discorso sugli ultimi ritocchi alimentari ed enologici
da lui azzardati. Non c’è messaggio, non tanto per la mancanza di volontà di emetterlo, quanto
per l’assenza di un codice valido e compartito.
        L’unico modo per uscire dallo stallo consisterà nella rottura degli schemi
comportamentali. Sarà Giulia a compiere il passo, sentendosi intrappolata e schernita dalla
presenza di Annie:

                 GIULIA: Mi piace succhiare il ventre del mio uomo, mi piace spremerglielo finché
        non grida di piacere, mi piace ficcargli...
                 ALBERTO: Piantala! Sei stanca. Non hai il senso della situazione.
                 FREDO: Giulia, torna a sederti.
                 GIULIA: C’è qualcuno che si scandalizza? È ridicolo. Con quello che succede in
        questa casa, qualcuno ha la forza di scandalizzarsi? Annie, la turba tutto ciò?    [pp. 84-85]

straniero nella propria lingua [...] Ora io credo che la condizione degli artisti d’oggi sia appunto quella di un
“balbettamento”, vale a dire della fruizione libera di lingue differenti, mediante l’invenzione di neologismi,
slangs personalissimi e soggettivi». Per l’immagine del «chiacchiericcio» come sottofondo del decennio cfr.
R. CARNERO, op. cit., pp. 66-68.
                                                       11
C’è ancora razionalizzazione, ma si sente l’insorgenza del represso, si preannuncia la
deflagrazione e, poco dopo, Giulia si avventerà contro i capelli di Annie con un grido:

                  GIULIA: Sono bellissimi. Ma io, iooooo sono la donna di Alberto.
                                                                         [p. 86]

         «Io sono» urla Giulia, «io sono» le replicherà Annie; ma si scontreranno con il muro di sabbia
dell’ineffabile e usciranno dalla scena costrette al silenzio e alla parola di altri.

      CONCLUSIONI

         Dinner Party dovrà attendere a lungo prima di essere portato sulla scena. Nel 1986, a
Cesano Boscono, sotto la regia di Claudio Orlandini ne sarà proposta una «lettura
interpretativa»; ne seguirà un’altra a Roma, nel 1991, con la regia di Piero Maccarinelli.
Quest’ultimo, nel 1994, monterà una mise en espace dai discussi risultati.23 Una «vera»
rappresentazione a cura del Gruppo L’Amaschera di Carpi si è svolta giovedì 15 ottobre 1998
- ma è data concomitante alla stesura del presente articolo. Va segnalata, in termini più
generali, la difficoltà di scelta in partenza fra una modernizzazione relativa alla scenografia e ai
costumi e, dall’altra parte, un recupero archeologico di quanto annotato (e non annotato) da
Tondelli. E anche se la seconda possibilità può apparire, di primo acchito, la più «fedele»,
varrà la pena ricordare le continue correzioni che l’Autore apportava alla commedia,
allontanandosi proprio dal clima e dal linguaggio di quegli anni.24 Ma tutto ciò sarà già materia
di discussione per un altro studio e per un altro tipo di analisi.

 23
     Positive, in linea di massima, le critiche di M.G.GREGORI, op. cit., e di Paolo P ERGOLIZZI, «Applausi per
Tondelli», Reporter, 15 aprile 1994. Più tiepida quella di F. QUADRI, «Famiglia allo sbando davanti a un
Mundial», La Repubblica, 14 aprile 1994, p. 30, che annota: «Ma sarebbe stato più opportuno evitare quel
tono da ‘vorrei ma non posso’ di una non rappresentazione che però ostenta superflui cambiamenti di scena ed
esagitazioni interpretative, finendo inevitabilmente per apparire rimediata». E il monito diventa una
premonizione; infatti, inevitabilmente, l’estemporaneità della rappresentazione verrà confusa con quella della
scrittura: Gianni MANZELLA, «Dinner Party per video-generazioni. In scena gli anni Ottanta di Tondelli», Il
Manifesto, 12 aprile 1994, p. 28: «Al di là delle formule alla moda, questa riduttività sembra quasi
un’immagine riassuntiva delle difficoltà di passaggio del teatro di Tondelli».
  24
     Una trasformazione scenografica radicale è propugnata da Manola DETTORI, Un «Dinner Party» con Pier
Vittorio Tondelli, Tesi di laurea presentata all’Accademia di Belle Arti di Brera, Milano, anno accademico
1995-96.
                                                         12
Del resto, è anche giunto il momento di «recuperare» Tondelli, liberandolo dal peso
ingombrante delle polemiche generatesi intorno alla sua produzione. Ora che le acque si sono
chetate e che si intravede l’urgenza di un giudizio pacato su P.V.T., ci si trova impelagati nella
stratigrafia di una critica che, arroccata a difesa dell’Autore, non ha ancora deposto le armi,
continuando a «personalizzare» l’opera tondelliana, con il pericolo di capovolgerla in
autobiografia romanzata che, si sa, può sempre essere ricondotta, consapevolmente o meno, a
scopi di varia militanza (letteraria, sociale o religiosa). E sia chiaro che dietro a queste parole
non c’è, da parte di chi firma questo contributo, alcuna bellicosità. Ma solo la voglia di
risospingere sui binari della «normalità» la discussione su uno dei pochi scrittori tout court
italiani di questo fine millennio.

[Articolo pubblicato in Anuari de Filologia, vol. XXI, sezione G, n. 9, 1998-1999, pp. 9-20]

                                               13
ADDENDA 2001

         A distanza di qualche anno, sento il bisogno di aggiungere
alcune parole — questa volta personalizzando il discorso — al
mio        articolo     su   Dinner    Party.      Anzitutto,        riprendendo      le
considerazioni finali rispetto a un «ritorno critico» all’opera
tondelliana, è doveroso dar atto della pubblicazione di due
volumi di estrema importanza: la monografia di Antonio Spadaro
e        le Opere   curate da Fulvio Panzeri.25 Le Opere — lo dico
consapevole del rischio di cadere in un truismo —, diventano
ormai       lo    strumento     indispensabile          per   qualsiasi      studio   su
Tondelli, anche da parte di chi, come me, provi delle reticenze
rispetto ai meccanismi dell’operazione:26 vien da sé, insomma,
che chi voglia citare Dinner Party, d’ora in poi potrà farlo
dal       testo   lì    riportato.27   Ma    al    di    là   di    questa   evidenza,
vorrei sottolineare il fatto che la pubblicazione dell’opera
tondelliana nei «Classici Bompiani» risponde a quell’urgenza di
introdurre P.V.T. in una dimensione canonica: in pratica, di
svestirlo         dei   panni    ingombranti       e     ambigui     della   scrittura
giovanile         per    concedergli    il       posto    che      gli   spetta   nella
narrativa italiana della fine del secolo breve.
         Nel caso specifico di Dinner Party, Panzeri riproduce con
poche varianti la «Nota al testo» che accompagnava l’edizione
del 1994;28 sostanzialmente, si limita ad aggiungere una “coda”

    25
    Antonio SPADARO, Pier Vittorio Tondelli. Attraversare l’attesa, Reggio
Emilia, Diabasis, 1999; P. V. TONDELLI, Opere, a cura di Fulvio PANZERI, vol.
I, Milano, Bompiani, 2000 e vol. II, 2001. Non prendo in considerazione il
testo — peraltro importante e originale in moltissimi aspetti — di Elena
BUIA (Verso casa, Ravenna, Fernandel, 1999) semplicemente perché la studiosa
non sofferma mai la sua analisi su Dinner Party.
 26
     Sembra d’accordo con questa considerazione anche Andrea CORTELLESSA,
«Troppo umano», L’Indice, n. 12, dicembre 2000, p. 6, che apre un quadretto
garbatamente polemico a chiusura della sua recensione del primo volume
delle Opere.
 27
     Opere, I, pp. 335-397. Vi si riproduce, comunque, la stessa versione
pubblicata anteriormente, per cui non si rendono necessarie ulteriori
precisazioni rispetto a punti essenziali del mio saggio.
 28
    Ibid., pp. 1145-1164.
                                            14
in cui passa in rassegna le recensioni più importanti alle
rappresentazioni del 1986 e del 1994 e segnala il risalto che è
stato dato dalla critica agli «aspetti generazionali». Tale
constatazione, per quanto oggettivamente riscontrabile, genera
un parallelismo — di cui non posso che compiacermi — con quanto
da      me          già     affermato      nel       precedente         articolo.      Ma
nell’«Introduzione»            alle    Opere,        Panzeri     fornisce         un’altra
chiave di lettura per Dinner Party, proiettabile tout court
agli altri testi tondelliani, centrata sulla funzione della
musica       che    «interviene       sull’assetto          linguistico       e    sembra
                    29
coordinarlo».            E, dopo una breve citazione in cui dimostra la
sovrapposizione fra Autore e personaggio (Didi) rispetto alla
condizione della scrittura, Panzeri chiosa:

           La pagina non è intesa da Tondelli solo come un supporto
       fonografico. Non è un giradischi o un mangianastri attraverso cui
       espandere o dar conto delle proprie passioni musicali. Non è solo un
       catalogo dei «gusti», anche se questo aspetto poi si costruisce
       naturalmente. È la musica a indicare una questione di stile, le
       ragioni della scrittura.30

      Anche Spadaro riconosce l’importanza e la costanza della
dialettica scrittura/musica negli scritti di Tondelli e lo fa
proprio      con     un    esempio    tratto        da   una   versione       di    Dinner
Party.31      Ma,    al     momento   di   un’analisi          generale      del   testo,
dedica la sua attenzione alla contraddizione secondo cui «le
esistenze del gruppo di yuppies intellettuali si presenta[no]
patinate, da copertina, ma le pagine interne dei loro vissuti
celano       lacerazioni,       ambiguità       e    drammi     che     si    sveleranno
durante      il     corso    della    commedia       come      tracce    di    squallide
esistenze»:32 parole che vanno lette nella direzione del gioco
di svelamenti che si impone lungo tutta l’opera. Poi, Spadaro
sposta la sua attenzione verso gli ingredienti della cena,

 29
      Ibid., p. XIII.
 30
      Ibid., p. XIV.
 31
      Cfr. A, SPADARO, op. cit., pp. 133-134.
 32
      Ibid., p. 57.
                                           15
rintracciando,      nell’esasperazione          di   alcuni    accostamenti
alimentari, una vivace ironia. Certamente è così, anzi si può
senz’altro affermare che la gastronomia in Dinner Party sfiora
a tratti il grottesco, quasi si adagiasse sulla falsariga di
quel grande modello che è la cena di Trimalchione, la parte più
completa di quanto pervenutoci del Satyricon di Petronio.33 Mi
discosto da Spadaro, invece, quando ricerca nelle pieghe del
discorso testuale degli elementi che, sub specie religionis,
creino    un   intreccio    o,   per   meglio    dire,   un   percorso    che
attraversi l’intera produzione tondelliana.34
      Fin qui quest’addenda era indispensabile per mantenere il
mio discorso nei binari dello status quaestionis tondelliano
nel suo ultimo profilarsi. Va però anche fatta menzione delle
critiche allo spettacolo del 1998 in cui si parla, in generale,
di «successo» malgrado alcune difficoltà tecniche.35

 33
    Interessante applicare a Dinner Party un giudizio di Andrea Agosti sulla
cena Trimalchionis: «L’esperienza di questa cena li [Encolpio, Ascilto e
Gitone] ha costretti ad assistere a una farsa mimica in cui risultano
clamorosamente sovvertiti i valori sociali, a causa della concreta
preponderanza   economica   dei   liberti,   i   valori   culturali,  con   le
spropositate esibizioni del padrone e la sua predilezione per astruse (
In ultimo, vorrei segnalare una più che probabile influenza
di Dinner Party — sfuggitami al tempo della stesura del mio
articolo — su un romanzo di un ex cannibale, Niccolò Ammaniti.
Non    so   se   sia    stato    già   notato    da       altri,      ma    una     delle
protagoniste dell’Ultimo capodanno (che guarda caso si chiama
Giulia) scopre il tradimento del suo uomo con la sua migliore
amica tramite l’ascolto del nastro della segreteria telefonica
che, per errore, non era stata disinserita. Ma la notizia viene
rivelata agli altri ospiti attraverso la riproduzione della
cassetta    registrata     nel    corso      della   festa       e    le    vicende    di
Giulia assumono proporzioni truculente fino all’omicidio del
fidanzato    con   un    fucile    subacqueo.        Da    cui       si    evince    che,
nell’immaginario di Ammaniti, più che Tondelli possono i film
di David Linch. Ma tant’è. È a Tondelli e ai suoi testi che, in
fondo, dobbiamo sempre far ritorno.

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