CONTENUTO - Deutscher Pavillon

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CONTENUTO
Durata della mostra: 13 maggio – 26 novembre
Anteprima stampa: 10 – 12 maggio 2017
Conferenza stampa del Padiglione Tedesco: 10 maggio 2017, ore 12:30
Inaugurazione del Padiglione Tedesco: 10 maggio 2017, ore 16:00

Artista: Anne Imhof
Titolo: Faust
Curatrice: Susanne Pfeffer

Nella cartella stampa si trovano i seguenti testi:
1. Comunicato stampa
2. Biografie di Anne Imhof e Susanne Pfeffer
3. Conversazione fra Anne Imhof e Susanne Pfeffer
4. Juliane Rebentisch. Dark Play. Le astrazioni di Anne Imhof
5. Dichiarazioni dei nostri partner
6. Ringraziamenti

CATALOGO
Susanne Pfeffer (A cura di): Anne Imhof. Faust
Con contributi di Franziska Aigner, Eliza Douglas, Susanne Pfeffer,
Juliane Rebentisch, Kerstin Stakemeier e fotografie di Nadine Fraczkowski.
Edizioni inglese e tedesca, 188 pagine, 29,80 Euro
Koenig Books, 2017
Design grafico: Zak Group
ISBN (tedesco): 978-3-96098-166-4, ISBN (inglese): 978-3-96098-170-1

I giornalisti dotati di tessera stampa possono comprare il libro al prezzo ridotto di
20 Euro.

PEZZO
Sviluppato con Franziska Aigner, Billy Bultheel, Frances Chiaverini,
Emma Daniel, Eliza Douglas, Josh Johnson, Mickey Mahar, Lea Welsch
Performer Franziska Aigner, Jackson Beyda, Billy Bultheel, Frances Chiaverini,
Carla Daher, Emma Daniel, Alexandre Diop, Eliza Douglas, Busy Gangnes,
Thilo Garus, Josh Johnson, Melissa Livaudais, Mickey Mahar, Enad Marouf, Stine
Omar, Theresa Patzschke, Lea Welsch
Concetto musicale e produzione Billy Bultheel
Composizioni Franziska Aigner, Billy Bultheel, Eliza Douglas, Anne Imhof
Consulenza musicale Yoann Durant
Costumi Eliza Douglas, Anne Imhof
Assistenza coreografia Mickey Mahar
Fotografa Nadine Fraczkowski
Cani Ares Ayman, Astrea Sunshine, Beladith, Bivien, Rio Bianco, Nefertiti

TEAM PADIGLIONE TEDESCO
Commissaria Elke aus dem Moore, ifa
Vice commissaria Dorothea Grassmann, ifa
Amministrazione finanziaria Tanja Spiess, ifa
Curatrice Susanne Pfeffer
Assistenza curatoriale Paula Kommoss
Produzione e pubblicazione Anna Sailer
Stampa e comunicazione Ann-Charlotte Günzel
Collaborazione stampa e comunicazione Sarah Metz
Direzione lavori Roberto Dipasquale
Consulenza architettonica Martin Weigert, Clemens F. Kusch
Tecnico del suono Charles Poulet
Design grafico Zak Group, Londra
Consulenza Markus Müller
Assistenza VIP Venetia Malim
Guardasala e mediazione culturale Greta Bacher, Nicole Trzeja, Sarah Crowe,
Jeva Girska, Ameli M. Klein, Gregor Legeland, Jana Manfroid, Anna Schröder,
Alessandro Del Vigna
Bouncers Laura Ausserehl, Naila Hadj Yahia, Charlotte Kuhn
Addestratrice cani Anna Monika Maj

ANNE IMHOF STUDIO
Direzione studio José Segebre
Produzione Laura Langer, Giulietta Ockenfuß, José Segebre
Pubblicazioni e stampa Moritz Nebenführ
Ricerca François Pisapia
Pittori Bradley Davies, David Wirth
Direzione tecnica Viviana Abelson
Assistenza tecnica Amir Askari, Nooshin Askari, Amy Ball, Ryan Cullen,
Nicolas Hsiung, Tomás Nervi, Paola Ravagni, John Ryaner, Damon Sfetsios
COMUNICATO STAMPA
Su invito di Susanne Pfeffer, Anne Imhof ha realizzato per il Padiglione Tedesco alla 57.
Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia un lavoro titolato “Faust”.
Nell’adattamento sculturale agli spazi e alla situazione, la nuova opera, concepita
insieme al consueto team di performer, si moltiplica in nuove composizioni. “Faust”
consiste da un lato in una messa in scena di oltre cinque ore, dall’altro in uno scenario
fisso, che permane per tutti i sette mesi. Esso è costituito da una dinamica perform-
ativa, un’installazione sculturale, una riduzione pittorica e una precisa coreografia degli
angoli di visuale e dei movimenti che comprende l’intero padiglione. “Faust” diventa
così una presenza assoluta, la cui essenza si trasmette all’osservatore in modo imme-
diato e istantaneo:

uno spazio, una casa, un padiglione, un’istituzione, uno stato. Il pavimento e le pareti in
vetro penetrano lo spazio in maniera fluida, cristallina e dura, come avviene nei centri
del potere e del denaro. Confini spaziali che tuttavia rivelano ogni cosa rendendola
visibile e controllabile. Il pavimento rialzato eleva i corpi degli interpreti della per-
formance e trasforma le proporzioni dello spazio. Sotto, sopra e accanto a noi ci sono
i corpi come fenomeno singolo e collettivo. In posizione rialzata o rannicchiati i per-
former si muovono attraverso, sotto e sopra il padiglione. Se ne stanno in piedi su isol-
ati piedistalli in vetro oppure accovacciati come fossero sospesi alle pareti degli spazi;
corpo, scultura e, al contempo, merce. All’improvviso ci troviamo in una costruzione di
potere e impotenza, arbitrio e autorità, resistenza e libertà. Fuori, nel proprio territorio,
i cani sorvegliano la casa.
Il grido si spegne sotto al colpo protratto della propria mano. Il presunto abbraccio impi-
etrisce nella silenziosa lotta delle forze tese. Sordo si smorza il pugno sul petto e lascia
che il braccio rimbalzi meccanicamente. Premuti contro il vetro, i corpi si deform-
ano fino a sembrare un irriconoscibile ammasso di carne. Autarchica e silenziosa, la
mano soddisfa il proprio sesso. I corpi degli interpreti sono ridotti alla nuda vita. Si
possono analizzare sulla scorta della loro economia sessuale. La masturbazione quale
regressione e resistenza, quale morte della sessualità e, al contempo, quale immagine
di una sessualità che serve solamente al consumo visivo. Il piacere non nasce nell’atto
sessuale, bensì nell’atto del vedere ed esser visti. Cupe grida testimoniano il dolore
per il crescente svanire della vita, per la zombizzazione del corpo capitalizzato. Pare
dissolversi il principio dualistico e il confine tra soggetto capitalizzato e oggetto capita-
lizzato. Ma come agisce il potere quando si stacca dai soggetti e di essi fa un oggetto? “Il
potere non ha mai saputo diffondersi così rapidamente nel corpo sociale e non è mai
stato così difficile da fissare”. (Paul B. Preciado) L’essenza del capitalismo è il consumo
sfrenato dei corpi.
La trasparenza del vetro consente allo sguardo sezionante del fruitore di andare verso
gli interpreti della performance e poi tornare indietro; la struttura fredda e simmetrica
permette un’osservazione immediata e anche un controllo diretto. Il vetro divisore
crea distanza e autopercezione, un consapevolizzarsi dell’osservazione. Gli sguardi si
incontrano, ma non nasce una comunicazione. I performer scorgono qualcuno, ma
non lo riconoscono. Si è nel mezzo di atti performativi, ma non si sarà mai parte di
essi. Gli interpreti fanno la loro comparsa secondo il genere, in maniera individuale
e propria, ma, al contempo, in modo stereotipato. I movimenti individuali e i gesti
del singolo sono in contraddizione con i movimenti uniformi e guidati da messaggi te
stuali, che ricordano dei codici sociali involontari e ripetuti incessantemente in modo
meccanico. Così questi corpi ammaestrati e fragili sembrano un materiale permeato
da strutture di potere invisibili. Sono soggetti in lotta perenne con la propria ogget-
tivazione. Ai bio-tecno-corpi è inerente la comunicazione mediale. I performer sono
consapevoli che i loro gesti non sono fini a se stessi, ma che esistono soltanto nella loro
medialità. Sembrano permanentemente trasformarsi in immagini consumabili; vogli-
ono diventare immagine, merce digitale. In un’epoca fortemente caratterizzata dalla
medialità, le immagini non solo ritraggono la nostra realtà, ma la creano.
Gli attuali corpi biopolitici non sono più una superficie bidimensionale in cui s’imprimono
il potere, la legge, il controllo e la punizione, bensì un fitto entroterra in cui si svolge
la vita, oltre che il controllo politico, in forma di scambio e comunicazione. Emerge un
nuovo soggetto: ormonale, mediale, fortemente collegato in Rete. La bellezza dei corpi
che vediamo e presumiamo auto-ottimizzati è condizionata da pubblicità e immagine
del prodotto alle quali siamo sempre esposti. Non è insita nello sguardo di chi osserva,
ma è frutto dello sfruttamento perfezionato, degli algoritmi. Create appositamente per
le relative voci degli interpreti, le composizioni risuonano, dapprima isolate, poi si
sommano sempre più nella comunione tecnologica dei cellulari fino a divenire un coro
impressionante e, al contempo, solipsistico. Formatasi nel gruppo continua a sussistere
un’individualità errante. Anche se cantano insieme, cantano l’Io.
I cani nel canile, il padrone e il cane, il cane e chi si tiene al guinzaglio sono testimo-
nianza di un rapporto di potere soggetto ai mutamenti culturali e simbolo delle mute-
voli costruzioni di natura: non un dualismo separatore di natura e cultura, bensì il
canile quale mondo.
In una società in cui la colpa non è una questione legata alla religione, bensì alla
responsabilità individuale, in cui la malattia non è un castigo divino, bensì una colpa
propria, ecco che il corpo si trasforma in capitale e il denaro diviene l’unico parametro.
Il corpo è oggetto di consumo del libero mercato. La razionalità del mercato decide
allora se il corpo è degno di essere tutelato oppure no, fino alla necropolitica. Nel capit-
alismo il dominio del denaro è assoluto. Come nel “Faust” di Goethe, vogliamo vendere
qualcosa che neanche c’è. Non c’è l’anima, non ci sono le merci dell’economia finanzi-
aria e, ciononostante, anzi, proprio per questo, il sistema funziona. Soltanto nella form-
azione di un gruppo da parte dei corpi e nell’occupazione dello spazio si può formare
la resistenza. Sulle balaustre e sulle recinzioni, sul fondo e sul tetto, gli interpreti della
performance occupano lo spazio, la casa, il padiglione, l’istituzione, lo stato.

Curatrice: Susanne Pfeffer

Contatto stampa:
Padiglione Tedesco
Ann-Charlotte Günzel
press@deutscher-pavillon.org
+49 163 806 3010
ANNE IMHOF
Anne Imhof, nata nel 1978 a Gießen, vive e lavora a Francoforte sul Meno

STUDI

2008 – 2012
Università statale di Arti Visive (Staatliche Hochschule für Bildende Künste) –
Städelschule, Francoforte sul Meno

2000 – 2003
Università di Arte e Design (Hochschule für Gestaltung), Offenbach am Main

MOSTRE PERSONALI

2016
Angst II, Hamburger Bahnhof – Museum für Gegenwart, Berlino
Angst, Kunsthalle Basilea
Overture, Galerie Buchholz, Colonia

2015
Deal, MoMA PS1, New York

2014
Carré d’Art – Musée d’art contemporain de Nîmes
Rage, Deborah Schamoni, Monaco

2013
Sotsb njjy, New Jerseyy, Basilea
Parade, Portikus, Francoforte sul Meno

MOSTRE COLLETTIVE

2016
The Grand Balcony, La Biennale de Montréal
Paris, 18e Prix Fondation d’entreprise Ricard, Parigi
Ways of Living, David Roberts Art Foundation, Londra

2015
IN MY ABSENCE, Galerie Jocelyn Wolff, Parigi
Our Lacustrine Cities, Chapter NY, New York
Preis der Nationalgalerie 2015, Hamburger Bahnhof – Museum für Gegenwart, Berlino
Works On Paper, William Arnold, New York
Angelic Sisters, 186f Kepler / Chiesa di San Paolo Converso, Milano
Do Disturb, Palais de Tokyo, Parigi
Le Nouveau Festival, Centre Pompidou, Parigi
Our House in the Middle of Your Street, Life Gallery, Vilma Gold, Londra
New Frankfurt Internationals: Solid Signs, Frankfurter Kunstverein, Francoforte sul
Meno / Nassauischer Kunstverein Wiesbaden
ANNE IMHOF BIOGRAFIA

2014
Boom She Boom, MMK Museum für Moderne Kunst, Francoforte sul Meno
Tes Yeux, 186f Kepler, Parigi
The Mechanical Garden and Other Long Encores, CGP London, Dilston Grove, Londra
Trust (Vita Vel Regula), Fluxia Gallery, Milano
LISTE – Art Fair Basel, Performance Project, Basilea
Henrik Olesen – Abandon the Parents, SMK Statens Museum for Kunst, National
Gallery of Denmark, Copenhagen
Die Marmory Show, Deborah Schamoni, Monaco
Pleasure Principles, Fondation d’entreprise Galeries Lafayette, Parigi

2013
Gemini, Galerie Francesca Pia, Zurigo
S.O.A.P.Y. I, Neue Alte Brücke, Francoforte sul Meno
Freak Out, Greene Naftali, New York
Restlessness in the Barn, Nassauischer Kunstverein Wiesbaden
Coded Conduct, Pilar Corrias, Londra

2012
Zauderberg, mostra dei diplomandi della Städelschule, MMK Museum für Moderne
Kunst, Francoforte sul Meno

2011
Andrei Koschmieder Puts, Real Fine Arts, New York
Birth Of The Worm, The Leland Hotel Ballroom, Detroit

PEZZI

Angst

2016
Angst III, La Biennale de Montréal
Angst II, Hamburger Bahnhof – Museum für Gegenwart, Berlino
Angst, Kunsthalle Basilea
Overture, Galerie Buchholz, Colonia

Deal

2015
Deal, 2nd of at least three, Palais de Tokyo, Parigi
Deal, 1st of at least three, MoMA PS1, New York

Rage

2015
For Ever Rage, Hamburger Bahnhof – Museum für Gegenwart, Berlino
Rage, 4th of at least three, 186f Kepler / Chiesa di San Paolo Converso, Milano

2014
Rage, 3rd of at least three, Carré d’Art – Musée d’art contemporain de Nîmes
Rage, 2nd of at least three, LISTE – Art Fair Basel, Performance Project, Basilea
Rage, 1st of at least three, Deborah Schamoni, Monaco
ANNE IMHOF BIOGRAFIA

Aqua Leo

2013
Aqua Leo, 1st of at least two, Portikus, Francoforte sul Meno

School of the Seven Bells (Sotsb)

2015
Sotsb, Centre Pompidou, Parigi
Sotsb for Deal, MoMA PS1, New York

2014
Sotsb, Foster Variation, Carré d’Art – Musée d’art contemporain de Nîmes

2013
Sotsb, 5th of at least four, Galerie Francesca Pia, Zurigo
Sotsb, 4th of at least four, New Jerseyy, Basilea
Sotsb, 3rd of at least four, Portikus, Francoforte sul Meno
Sotsb, 2nd of at least four, Pilar Corrias, Londra

2012
Sotsb, 1st of at least four, MMK Museum für Moderne Kunst, Francoforte sul Meno

Ähjeii

2013
Ähjeii, 7th of at least four, Portikus, Francoforte sul Meno
Ähjeii, 6th of at least four, Kunstmusem Basilea

2011
Ähjeii, 5th of at least four, Real Fine Arts, New York
Ähjeii, 4th of at least four, The Leland Hotel Ballroom, Detroit
Ähjeii, 3rd of at least four, Villa Romana, Firenze
SUSANNE PFEFFER
Susanne Pfeffer (* 1973) è storica dell’arte e curatrice. Da 2013 è direttrice del
Fridericianum di Kassel, dove ha curato, fra le altre, le mostre Inhuman (2015), nature
after nature (2014) e Speculations on Anonymous Materials (2013) e inoltre le retro-
spettive dedicate a Tetsumi Kudo (2016), Marcel Broodthaers (2015) e Paul Sharits
(2014). Alla 56. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia ha curato
il Padiglione svizzero dove ha presentato una personale di Pamela Rosenkranz. In
precedenza è stata capo-curatrice del KW Institute for Contemporary Art in Berlin
(2007–2012), curatrice e consulente del MoMA PS1 di New York. Dal 2004 al 2006 ha
lavorato come direttrice artistica del Künstlerhaus Bremen.
Inoltre Pfeffer ha curato mostre in instituzioni quali la Biennale di San Paolo, la
Biennale di Lione, il Tel Aviv Art Museum, il museo Boijmans Van Beuningen, il
Museo d’Arte Modena di Varsavia e presso il Museion di Bolzano. Susanne Pfeffer ha
realizzato mostre personali e retrospettive molto apprezzate di, fra gli altri, Absalon,
Kenneth Anger, Joe Coleman, Cyprien Gaillard, Emily Jacir, Sergej Jensen, Renata
Lucas o Wael Shawky. Oltre a mostre tematiche quali Seeing is believing (2011) e You
Killed Me First. The Cinema of Transgression (2012) ha curato inoltre mostre di gruppo
sperimentali basate su nuove produzioni come ad esempio ... 5 minutes later (2008)
o ONE ON ONE (2013). Susanne Pfeffer ha curato numerose monografie di artisti e
cataloghi di mostre.
ANNE IMHOF
               E SUSANNE PFEFFER
               IN CONVERSAZIONE
                                    SUSANNE PFEFFER
Tu non solo lavori a livello di performance, ma fai in modo che il padiglione diventi
un’installazione; oltre a mostrare qualcosa, i dipinti e gli oggetti scultorei fanno sentire
composizioni di suoni. Per me l’attualità del tuo lavoro risiede anche in quel tuo modo
sempre nuovo di formattare e sovrapporre piani formali e figurativi così diversi. Com’è
venuto a crearsi tutto ciò, ti sei mossa a poco a poco passando da un medium all’al-
tro scegliendo poi nuovi mezzi oppure hai sempre lavorato parallelamente con media
differenti?

                                       ANNE IMHOF
Durante i miei esordi a Francoforte, all’età di poco più di vent’anni, facevo tanta musica
e suonavo in una band. Ho cominciato a disegnare e dipingere quand’ero molto gio-
vane. Ho sempre desiderato diventare un’artista. Ma naturalmente ogni medaglia ha il
suo rovescio e la socializzazione individuale è molto diversa. Dunque in che modo s’im-
para a vedere le immagini, a leggerle e ritenerle importanti per se stessi? Ho iniziato a
comprenderlo dal momento in cui ho cominciato a condividere le immagini con altri.
Per me è stato importante tirarmi indietro e guardare dalla prospettiva del fruitore. La
prima volta è avvenuto quando ho cominciato alla scuola d’arte Städel e qualcuno ha
visto i disegni e i lavori pittorici con cui avevo cominciato molto tempo prima, a dieci
o undici anni.

                                            SP
I tuoi esordi musicali hanno forse influenzato la decisione di lavorare con corpi e con
performer?

                                            AI
È stata davvero una possibilità di aprirmi verso qualcosa. Fare un pezzo performativo
è stato quasi uno sviluppo ulteriore di questa situazione e anche un combinare la mia
musica con i miei disegni. Aprire il concerto in maniera formale e presentarlo come
una sorta di quadro, questo per me funzionava, anche perché potevo fare degli errori e
sperimentare molto. Da allora, un aspetto importante del mio lavoro è che le casualità
giocano un ruolo fondamentale nella genesi delle immagini. Credo ci siano dei paralle-
lismi molto forti tra il mio modo di concepire un lavoro che, alla fine, viene presentato
come una performance e tra il mio modo di costruire un’immagine bidimensionale.
Sono le stesse riflessioni a livello di prospettiva, a livello di gesto; a svolgere un ruolo
sono gli stessi simbolismi, il portamento del corpo, la struttura, perfino il colore.

                                            SP
Anche nelle prove contano soprattutto il processo, lo scoprire insieme e l’improvvisa-
zione. In un’intervista di Hans Ulrich Obrist hai raccontato che la tua prima opera ha

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ANNE IMHOF E SUSANNE PFEFFER IN CONVERSAZIONE

avuto luogo in una via di Francoforte, la Münchener Straße. Fino a che punto questo
tuo primo pezzo era inscenato o volutamente predisposto?

                                            AI
Hans Ulrich Obrist mi aveva chiesto del mio primo lavoro e io ho riflettuto chieden-
domi quando, per la prima volta, avevo pensato di aver fatto arte. Allora mi è venuta
in mente quella serata nel quartiere della stazione di Francoforte. Avevo organizzato
un incontro di pugilato in un locale preso in affitto, un tabledance bar, al di fuori del
consueto orario di apertura. Non sapevo bene cosa avrei fatto in realtà. Ho invitato i
pugili, ho invitato gli spettatori e ho ingaggiato una band. Quest’ultima avrebbe dovuto
suonare durante l’incontro. Fino a quando la band suonava, quelli dovevano combat-
tere e, fino a quando combattevano, la band doveva suonare. Non c’era dunque via
d’uscita.

                                            SP
E per quanto tempo hanno lottato?

                                            AI
Non me lo ricordo esattamente, è passato un bel po’ di tempo, era prima degli studi, ma
c’erano nasi sanguinanti. Mi sono anche un po’ spaventata, c’era molto rosso dapper-
tutto, nel bar e sui nasi. A posteriori ho capito che era un modo di creare un’immagine.
Mi interessava la boxe, il suo colore. A quel tempo avevo un sacco da boxe appeso nel
mio appartamento e volevo diventare una pugile.

                                            SP
Hai un rapporto molto particolare con i fruitori, perché loro stessi sono parte dell’evento
e possono decidere da sé se andarsene dopo cinque minuti o restare per sei ore. Il fatto
che questo momento non sia prestabilito lo vedo come un atteggiamento del tutto
consapevole da parte tua, un atteggiamento che lascia molta libertà. Hai elaborato
questa scelta netta di un inizio e una fine quale differenziazione da altre performance
o, infondo, essa deriva dal primo pezzo al tabledance bar?

                                            AI
No, fin dall’inizio volevo che i pezzi avessero un inizio e una fine, che fosse limitato
il tempo in cui qualcosa ha luogo e in cui gli incontri hanno luogo, volevo che un’op-
era non fosse definita da un qualche orario d’apertura. Parallelamente c’è la durata
dell’esposizione che, come un pezzo, ha una sua temporalità. Non vorrei che l’opera
sembrasse esserci per sempre, perché non c’è per sempre. Non è però pensata come un
lavoro teatrale, bensì come un quadro che, per l’appunto, dura solo qualche ora. Io do
finitezza al tutto.

                                            SP
All’interno della performance ci sono degli sviluppi chiaramente coreografici e dei movi-
menti provati nei dettagli, perfino nella gestualità delle dita. D’altra parte lavori molto
con l’individualità delle singole persone che improvvisano muovendosi entro queste
strutture prestabilite. Come si è sviluppata per te questa modalità di collaborazione?

                                            AI
Durante i preparativi ci sono processi che si svolgono insieme e altri in cui sono da sola
nello studio. Con il mio team lavoro a una forma che nasce attraverso l’improvvisa-
zione. Ciò vale sia per un lavoro a un pezzo nuovo sia per la produzione nello studio. Le
persone con cui collaboro per i miei pezzi sono piene di talento e ci mettono qualcosa
di proprio nel lavoro. Per i pezzi vi è certo un regolare canovaccio, sul quale mi accordo
con loro, ma al momento dell’esecuzione spesso viene cambiato, ignorato o infranto.

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ANNE IMHOF E SUSANNE PFEFFER IN CONVERSAZIONE

Come una legge. E poi si aggiunge un’altra componente, i fruitori, anche ad essi gli
sviluppi devono reagire.

                                              SP
Una volta hai raccontato che già nelle prime prove – quando parlate di come si sviluppa
il pezzo, dei movimenti e di ciò che può essere il movimento – lavori non solo con le
parole, ma anche con i disegni, cosicché il piano iconico è, ancora una volta, decisivo
per il processo.

                                              AI
Cerchiamo di trovare un linguaggio con cui poter comunicare intorno all’opera. Il
disegno è il medium con cui meglio so articolarmi. Ma naturalmente parliamo anche
tanto, discutiamo e sperimentiamo; a volte ci sono però delle pose, per esempio l’in-
clinazione del capo, che riesco a rendere meglio disegnandole anziché facendole vedere.
I miei dipinti e i disegni si fondano su scelte compositive molto simili a quelle delle
performance. Lavorare con delle linee, collocare delle figure in uno spazio bi- o tridi-
mensionale. Ci sono quindi processi paragonabili, ma resta comunque importante che,
da una parte, ci sia la pittura o il disegno e, dall’altra, un pezzo. E poi le figure sono
persone che magari, da un momento all’altro, vogliono qualcosa di diverso rispetto a
quello che voglio io.

                                              SP
Una particolarità delle tue opere è costituita dai diversi contesti da cui provengono gli
interpreti: per alcuni, l’arte figurativa, per altri, la musica, per altri ancora, la filosofia,
per qualcuno poi, la danza o la performance. E sebbene tu non venga dal mondo della
danza, nei pezzi più recenti ci sono sempre più movimenti che ricordano appunto quelli
della danza.

                                              AI
C’è anche una giurista. La riflessione comune su determinate cose, nonostante tutti
provengano da diversi ambiti di interesse, è una grande parte del lavoro. Quello che
cerco sempre di favorire è, da un lato, l’elemento figurale, il lavoro concreto sui corpi
nel tempo e nello spazio in cui ci troviamo; dall’altro, l’astrazione di movimenti molto
comuni o tratti da contesti comuni. I movimenti si ripetono fino a quando lo sposta-
mento di significato non diviene evidente e non si può più dire quale fosse veramente.
Come, a volte, anche in pittura utilizzo un colore fino a quando non so più come sia,
fino a quando non ricordo più il rosso che ho appena fatto.

                                              SP
Una volta hai raccontato che osservi quotidianamente come cambiano i movimenti
delle persone. Hai narrato una scena d’addio in cui un uomo voleva mostrare il dito
medio alla sua ragazza mentre scendeva dal treno, ma era talmente ubriaco che il gesto
si è, per così dire, capovolto. Questo rovesciamento di un gesto è un momento che si
ripete nel tuo lavoro. È al contempo un momento d’astrazione quello che stai cercando?

                                              AI
Sì, prima osservo e poi comincio a far scomparire quel semplicissimo gesto che tutti
conoscono, in modo da renderne complesso il significato. La figura scivola via e poi
ritorna sempre. Questo momento si presenta molto spesso ed è particolarmente inte-
ressante il fatto che veniamo da ambiti così differenti e poi collaboriamo – Josh Johnson,
per esempio, è un ballerino, mentre Franziska Aigner viene dall’ambito della filoso-
fia – i segni vengono dunque interpretati in modo diverso e tutti hanno competenze
differenti.

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ANNE IMHOF E SUSANNE PFEFFER IN CONVERSAZIONE

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Sebbene l’attuale idea di scultura sia molto lontana dal tuo lavoro, anche la compo-
nente scultorea occupa uno spazio importante. Tu parli di props, ovvero di oggetti o
readymade che vengono poi utilizzati dagli interpreti delle performance. A volte, però,
questi sono disfunzionali e divengono oggetti scultorei nello spazio. Forse che lo stesso
processo d’astrazione si svolge fra questa disponibilità di un oggetto come articolo d’uso
comune, nel suo branding e nelle sue proprietà formali?

                                            AI
Nella maggior parte dei casi è la superficie ad essere determinante, soprattutto il colore.
Questa era spesso la base da cui partivo per scegliere gli oggetti nei pezzi d’un tempo,
per esempio, mi chiedevo quali barattoli si consumano oppure dove e per quanto tempo
fanno la loro comparsa, dove vanno a finire. Fino a che punto si può controllare tutto
ciò, fino a che punto ciascun individuo può controllarlo, come influenza il quadro
generale?

                                            SP
Che cosa significa per te l’assunzione di liquidi che così spesso è presente nei tuoi pezzi?

                                            AI
Prima di tutto, credo che abbia un carattere simbolico e, secondariamente, si pro-
paga e scorre, ciò era piuttosto evidente soprattutto al museo del Hamburger Bahnhof
a Berlino, perché i liquidi si erano propagati così tanto da scorrere lungo le pareti.
Naturalmente, ciò ha a che fare anche con il colore e, in generale, con la configurazione
visiva dello spazio.

                                            SP
Al Hamburger Bahnhof c’era la scena impressionante in cui Eliza Douglas veniva por-
tata sulle spalle da Josh Johnson e condotta attraverso lo spazio spruzzando una linea
sulla parete. Per me era molto forte questa presa di possesso dello spazio, questo modo
di appropriarsi dello spazio e affermare il proprio spazio.

                                            AI
Ci sono lievi distinzioni. Bisogna distinguere fra il recitare e l’occupare, forse anche il
rioccupare. In qualche modo sono un po’ contraria al recitare.

                                            SP
Qual è stato il tuo modo di procedere volendo sfruttare uno spazio non tanto semplice
come quello del Padiglione Tedesco?

                                            AI
Ho cominciato a collocare e cogliere la figura nello spazio. Ho anche immaginato cosa
potrebbe accadere all’edificio in un lontano futuro. In sostanza, ho fatto delle riflessioni
chiedendomi come qualcuno che conosce questo spazio si muove e come appare in
esso, e che aspetto ha chi pure conosce questo spazio, ma ci viene per un altro motivo
rispetto a quello di chi lo vede. La prima volta che sono stata al Padiglione, esso mi
sembrava molto grande. Vista da fuori, la sua architettura mi ha sopraffatta in un modo
completamente non proporzionato al resto del mio corpo. Non appena si entra, fa anche
un po’ l’effetto di una chiesa. Vedo la navata centrale e quelle laterali, i cui vani delle
porte non hanno alcun senso per me, poiché non consentono di vedere nello spazio suc-
cessivo, ma in realtà fanno sì che soprattutto il corpo appaia più piccolo. Quando sono
andata via da Venezia, lo spazio è tornato ad essere più piccolo nella mia immaginazi-
one. E come per uno strano effetto fisarmonica, ridiventava più grande quando ci tor-
navo la volta dopo. Un’idea era poi quella di consentire ai corpi di porsi in una relazione

                                             4
ANNE IMHOF E SUSANNE PFEFFER IN CONVERSAZIONE

con lo spazio che fosse umana. E volevo che lo spazio restasse trasparente, che non ci
fosse alcun rivestimento né mascheramento che celasse lo spazio e la sua storia.

                                           SP
Perché hai deciso di lavorare con lo spazio del Padiglione e non contro di esso?

                                           AI
Per dare sufficiente importanza alle opere che, alla fine, vi si vedranno, di modo che
esse possano tener testa allo spazio, senza però farlo diventare motivo conduttore del
mio lavoro. La durezza dell’edificio è per me una sfida, ma anche un’occasione. Perché
anche se seguo un po’ lo spazio, per sottolinearne l’architettura, il mio lavoro comun-
que si contrappone ad esso. Il mio non nascondere l´architettura ma lasciarla invece
cosí com´è, è un commento intenzionale. Nell’architettura risiede una brutalità a cui
posso rispondere.

                                           SP
Al momento lavoriamo all’inserimento di un pavimento in vetro nel Padiglione, grazie
al quale si avrà uno spostamento delle proporzioni fra corpo e spazio. Che ruolo ha il
vetro, per te, come materiale?

                                           AI
La materialità del vetro è dura, ma trasparente. Tutto ciò che resta dietro di esso resta
visibile. Con il pavimento posso introdurre una superficie, un piano, senza che qual-
cosa scompaia dietro di esso. Il vetro può separare le cose e rendere ripercorribile
questo processo. Inoltre, attraverso l’utilizzo di questo materiale si pongono in rela-
zione due architetture legate al potere. Dovunque si tratti di soldi e potere, per esempio
negli edifici delle banche, il vetro è il materiale dominante, il nudo vetro nelle diverse
esecuzioni. La cosa che piú mi interessava del pavimento, era che i corpi di tutti quelli
che sarebbero entrati nel padiglione sarebbero stati sollevati da terra. Possiamo, così,
avvicinarci all’edificio in maniera diversa. D’altra parte il corpo acquista un peso che
può anche diventare pericoloso perché, se cade, cade sul vetro. Nonostante la durezza
e la stabilità del materiale, anche se il pavimento potrebbe reggere più di 600 persone,
per me il vetro evoca pure fragilità e liquidità.

                                           SP
Francis Bacon mostrava i suoi quadri dietro al vetro. Egli intendeva ridurre la compo-
nente pittorica e rafforzare il rapporto tra figura e spazio. Apparentemente, un’analoga
riduzione del rapporto fra linea e figura, nei modi in cui compare anche nel tuo lavoro.

                                           AI
Questo lo posso capire molto bene. E anche il fatto che in un certo modo il vetro ti per-
mette di concentrare la tua attenzione nello spazio in cui ti trovi e, allo stesso tempo,
riflette indietro la tua immagine.

                                           SP
A Venezia lo spazio esterno del Padiglione diverrà anch’esso parte del lavoro. Tu non
riduci l’area espositiva allo spazio interno, bensì concepisci l’intero edificio come un
corpo che osservi e che utilizzi, sia internamente che esternamente.

                                           AI
Per me è stato importante pensare all’accesso del Padiglione. Nei Giardini ogni padi-
glione ha un suo ambito e una sua nazione. Ma dove finisce questo ambito se si con-
cepisce l’edificio come un corpo, dove finisce quest’ultimo e dove comincia il corpo
dell’Altro? Qual è il suo aspetto e fino a che punto si può vedere la sua pelle, dunque

                                            5
ANNE IMHOF E SUSANNE PFEFFER IN CONVERSAZIONE

i suoi confini? Ecco allora che le colonne del Padiglione suscitano il mio interesse,
divengono un elemento centrale. Nella sua grandezza, il portico rappresenta uno spazio
intermedio.

                                              SP
Sentirti parlare del rapporto fra corpo e pelle come confine mi ricorda l’importanza che
ha svolto, per esempio, l’ombelico in Angst (Paura), allora inteso come punto d’unione
o come taglio.

                                              AI
E soprattutto come simbolo di origine. In questo contesto ho attribuito all´esibizione
dell´ombelico e alla sua relativa rasatura una grande importanza, sia nel pezzo, che nel
dipinto. La rasatura dell’ombelico era quasi un momento operativo per immaginarsi
la sua separazione. D’altro canto, dipingere sulla superficie della pelle era come una
carezza. Gli stessi pensieri li associo anche alla superficie della tela e alla sua materialità.

                                              SP
In fondo, la rasatura è di per sé una bizzarra tecnica culturale. E nel tuo lavoro è stato
interessante vedere che i performer si siano spesso rasati anche le piante dei piedi o
altri punti dove i peli non crescono, al fine di rendere tale gesto un rituale svuotato del
suo significato.

                                              AI
Per me aveva a che fare anche con un modo perverso di lavarsi. Anche dopo la mastur-
bazione, di solito, ci si lava il palmo delle mani. E la sua relativa rasatura derivava per
l´appunto da quest’idea.

                                              SP
La masturbazione ha di certo un ruolo importante nel tuo lavoro a Venezia. Qui un´im-
magine che cerchi di riprendere, è sia il portamento fisico del cane che l´immagine
degli stessi cani. Com’è nata l’idea di lavorare con i cani?

                                              AI
Trovavo valido il nesso fra cane e abnegazione. Così come pensare al cane e all’uomo
insieme, in fase di trasformazione.

                                              SP
Questo puó essere interpretato sotto diversi punti di vista: il cane può essere inteso come
addomesticamento del Padiglione, nel senso che quest’ultimo diviene luogo domestico.
Viceversa, il cane può esprimere anche l’addomesticamento di sé stesso o può essere
concepito nella funzione di guardiano.

                                              AI
I cani sono anche un vezzo, uno status symbol e una proprietà. A me interessa proprio
questa ambivalenza. E anche l’impressione di qualcosa di abbandonato, qualcosa che
è già passato ma che comunque va ancora gestito, fatto camminare. Pure nel senso di
decadere e cadere. Avere dei cani dove non ci sono persone, e quindi il cane quale sur-
rogato dell’assenza di un corpo umano. I cani semplicemente ci sono. Allo stesso tempo
ho immaginato cosa avverrebbe se i loro movimenti si trasferissero nelle figure dello
spazio e come sarebbe se qualcuno si muovesse a quattro zampe davanti a qualcun’al-
tro. Volevo poi che lo spazio fosse aperto ma non completamente accessibile, anche se
si può vedere tutto.

                                               6
ANNE IMHOF E SUSANNE PFEFFER IN CONVERSAZIONE

                                          SP
Come per i piani del pavimento in vetro, anche la recinzione che costruiremo davanti
al Padiglione rappresenta sempre una separazione, e qui in misura ancor maggiore, un
confine territoriale che al tempo stesso racchiude ed esclude. Nel tuo lavoro con gli
interpreti della performance, fino a che punto cogli il rapporto fra potere e impotenza?

                                           AI
È di questo che si tratta, sotto molti aspetti. In che misura dei movimenti semplicis-
simi – come chinare il capo oppure inginocchiarsi – sono legati a delle gerarchie? In
che misura sono segno di dedizione agli altri, un segno per far sapere agli altri che li
si comprende nella loro alterità? Questo viene presentato nello spazio sotto forma di
quadro. La figura si fa ritratto.

                                          SP
Intendi il ritratto nel senso di rappresentazione di un individuo o come quadro di una
società?

                                           AI
Intendo il ritratto più come una forma di osservazione e rappresentazione di un indi-
viduo, dunque la forma con cui la/lo colgo o ricordo. Nel mio lavoro spesso si tratta di
fare un ritratto senza poter dare un nome a chi viene rappresentato o senza che qual-
cuno sia rimasto in posa. Ciò si basa spesso su immagini o fotografie che raccolgo, che
ricordo e che non devo per forza andare a riguardare.

                                          SP
Del tuo lavoro si è continuamente parlato usando il concetto di tableau vivant. Non
mi pare però sia una descrizione azzeccata, poiché c’è la consapevolezza da parte dei
performer che, nel momento in cui entrano in scena, sanno di diventare “quadro”.
Spesso il tuo modo di procedere è cominciare con un’immagine, poi continuare con la
performance, fotografarla, dipingerla sulla scorta delle fotografie creando diverse for-
mazioni di figure che poi, a loro volta, influenzano la performance. Attraverso questa
formattazione dell’immagine nascono costantemente singole rappresentazioni di un
movimento svincolato dalla sua continuità. Come se l’evento si scomponesse in singole
immagini già nel momento in cui lo si guarda.

                                           AI
Per me un pezzo funziona come un dipinto. Questo “divenire quadro” è il vero e proprio
lavoro. Come compongo un quadro generale e qual è il rapporto fra il tutto e le singole
parti – che vengono a crearsi – come si sviluppano in direzione del tutto e come si pos-
sono formulare le immagini nei diversi medium?

                                          SP
Si tratta dunque di una procedura di rinvenimento delle immagini?

                                           AI
Sì, assolutamente. E la si può anche rappresentare e rendere manifesta. Ma nella mia
pratica non fa molta differenza se alla fine sfocia in una performance oppure in un di-
pinto. Naturalmente, nel lavoro performativo c’è un processo collaborativo e dunque vi
sono più menti che lavorano all’astrazione.

                                          SP
Qual è il ruolo svolto dai fruitori quando sviluppi i movimenti fino all’astrazione, di
modo che non possiamo più attribuirli ad alcun referente?

                                           7
ANNE IMHOF E SUSANNE PFEFFER IN CONVERSAZIONE

                                           AI
A volte un movimento esiste soltanto per tirar fuori qualcos’altro. Così, la bocca aperta
talvolta non è più una bocca, bensì un’apertura nera che si delinea in relazione con
qualcos’altro di parallelo. Questi momenti hanno senso solamente partendo dalla pro-
spettiva dei fruitori. Per tale ragione è così importante il posizionamento individuale
nello spazio. Dunque, occupare una posizione e poi abbandonarla, cambiare direzione
pensando a come cambia la visione di chi guarda. A Venezia, per la prima volta, questi
movimenti si svolgeranno non solo in orizzontale, ma anche in verticale, come in
un’arena, ma senza centro.

                                           SP
Occupandoti dello sguardo in un modo cosí meticoloso, risollevi una tematica classica
della storia dell´arte.

AI
Mi appassiona particolarmente il rapporto di sguardi all’interno di un quadro, spesso
del tutto indipendente rispetto allo sguardo del fruitore. E di conseguenza la realizza-
zione del gioco di sguardi fra le figure ritratte nel dipinto stesso.

                                           SP
Insiema al collocamento, queste assi visive sono un momento decisivo nel tuo modo di
lavorare alla suddivisione, alla conduzione dei corpi nello spazio. Negli ultimi anni la
biopolitica ha sostanzialmente assunto un valore completamente nuovo e diverso nella
nostra società. Lo vediamo da come sono cambiate le modalità di trattare il corpo, per
esempio, da quali liquidi assumiamo ed espelliamo. Come credi si stiano trasformando
i nostri corpi oggigiorno?

                                           AI
Nei miei pezzi c’è un continuo conflitto tra la struttura data e le persone che vi agi-
scono. I corpi sono sempre anche il prodotto della situazione che li circonda, delle tec-
nologie e delle forme di potere che in essi s’imprimono. In quanto tali, sono adatti a
fungere da materiale dimostrativo. Mi interessano soprattutto gli effetti di superficie e
i relativi riflessi. Come si presenta un corpo e cosa significa mettersi a nudo, se non si
vuole essere nudi, cosa significa oggi assumere una posizione e mostrarsi, come si viene
guardati e come si risponde agli sguardi?

                                           SP
Sono affascinata dalle modalità con cui gli spazi più differenti si spostano e si sovrap-
pongono attraverso il suono, in senso figurato e, molto concretamente, architettonico.
C’è lo spazio che gli interpreti descrivono con il loro corpo, lo spazio aggiunto dalla
musica, lo spazio effettivo e poi, tra di essi, i vuoti con cui lavori.

                                           AI
Al Hamburger c’era la nebbia che avevo scelto per configurare lo sfondo monocromo
in bianco, facendo così sfumare l’architettura dell’edificio e aprire nuovi spazi tempo-
ranei. Era il tentativo di creare una superficie piana sulla quale molte cose accadevano
parallelamente, senza riuscire ad avere una visione d’insieme da una prospettiva cen-
trale. Quel che voglio dire è che la musica nel mio lavoro configura lo spazio in maniera
analoga. Suoni e silenzi creano superfici o generano spazi nello spazio e in questi col-
loco delle figure. Le composizioni musicali per il Padiglione Tedesco le faccio insieme a
Billy Bultheel ed Eliza Douglas. La musica è concepita in maniera più quieta rispetto ad
Angst (Paura), che riprende le strutture operistiche e gioca con le aspettative suscitate
da un concetto così ampio. E da quando c’è Eliza, nei pezzi è ritornato anche il canto,
di cui prima mi occupavo soltanto io. Così, ora ci sono strutture di lied più classiche e

                                            8
ANNE IMHOF E SUSANNE PFEFFER IN CONVERSAZIONE

le voci sono divenute più importanti.

                                          SP
È difficile, quasi impossibile creare una buona acustica nel Padiglione Tedesco e sono
davvero impressionata da come affrontate la cosa. Il lungo eco nello spazio non è per
voi un problema da eliminare, vi chiedete piuttosto come superare le superfici e le dis-
tanze in uno spazio del genere. In tal modo, lavorate con lo spazio, non contro di esso.
Ma qual è il vostro modo di procedere?

                                           AI
A Venezia non solo abbiamo lavorato intorno allo spazio, ma anche, concretamente,
dentro allo spazio; abbiamo effettivamente provato cosa succede quando vi si sussurra
e quanto tiene la voce se si canta un tono e quanto tiene quando lo si grida. Che grida
ci sono, le si sente dall’esterno oppure no? Il tema musicale su cui s’incentra il pezzo
è come una melodia antichissima, insita in ogni cosa. Essa si ripresenta sempre nelle
diverse composizioni, se ne fa un accenno, in modo che si possa ricordare, poi la si
astrae nuovamente fino a renderla irriconoscibile.

                                          SP
Ciascuno dei tuoi pezzi è diverso, proprio come ogni singola esecuzione che si sviluppa
nell’interazione con i fruitori e che dunque dipende anche da essi.

                                           AI
Nel momento in cui si aggiungono gli altri non si sa più esattamente chi in realtà con-
figura cosa, né chi sceglie cosa. Chi conduce e chi segue? Tutti sono insieme in uno
spazio ed è solamente per questa ragione che accade. Anche se il quadro sembra essere
indipendente, la presenza del fruitore è un qualcosa che non possiamo mai provare
prima. Un quadro non funziona senza colui che lo guarda.

                                           9
DARK PLAY: LE ASTRAZIONI
       DI ANNE IMHOF
    JULIANE REBENTISCH
                                 VAMPIRISMO ESTETICO

“Non c’è doppio”, scrive Sarah Kofman in La malinconia dell’arte “senza divora-
mento, senza intaccamento di ciò che, senza di esso avrebbe potuto presentarsi come
presenza piena, autosufficiente [...] Con l’arte, non si ha a che fare con un “regno
di ombre” che si opporrebbe schematicamente al mondo reale dei vivi. L’arte fa
oscillare l’opposizione fra questi due mondi, li fa scivolare l’uno sull’altro. Ormai
l’ombra assilla la ‘stessa’ forma vivente (se questa poteva ancora essere identificata
come tale)”1. La fascinazione che suscita in noi l’arte, dice Kofman, è simile a quella
che proviamo contemplando un cadavere. Perché come davanti a un cadavere l’arte
ci mette di fronte a un “doppio del vivente che gli assomiglia così perfettamente da
essere confuso con lui tuttavia senza essere lui.” Uno specchio della vita che invece di
confermarla, la dissangua, le toglie la sua sostanza immaginativa, la sua realtà evi-
dente e indiscutibile.
        Anne Imhof sa porre la dimensione vampiresca e strutturalmente morbosa
della negatività estetica proprio in una forma artistica definibile con l’espressione
“compresenza vivente”. Questo risultato è ottenuto meno sul piano dei contenuti –
per quanto nei lavori di Imhof circolino talvolta dei motivi di vanitas – attuandosi
invece tramite le modalità con cui inscena la struttura stessa della compresenza
performativa. La strana impassibilità dei performer, la loro indifferenza mina l’im-
pressione di uno spazio-tempo condiviso con il pubblico. Implica tuttavia nella perfor-
mance stessa esplicitamente solo uno dei paradossi costitutivi dell’arte performativa,
offuscato dal discorso della “compresenza vivente”: il paradosso di un’assenza ope-
rante nella presenza. Il mondo dei performer è estraneo al nostro, negli sguardi che
rivolgiamo su di essi non c’è traccia di una reciprocità vissuta. Ed effettivamente il
pubblico, per quanto vicino possa mettersi, non è veramente interessato all’esistenza
vissuta dai performer. La fascinazione esercitata dalla performance è insita in qual-
cos’altro, ovvero nella trasformazione del vivente. Le opere performative di Imhof
esprimono la malinconia che racchiudono. I performer sono “lontani nel loro splen-
dido isolamento, si trovano trasformati dalla magia dell’arte in nature morte” – “qua-
lunque sia il soggetto”2.
        Coerentemente con questa affermazione, nel loro agire paiono in attesa di
essere fissati nell’immagine fotografica. La mortificazione del divenire immagine non
avviene attraverso l’atto del fotografare di Nadine Fraczkowski, con la quale Imhof
collabora, ma la sua ombra aleggia già sulla performance stessa. Nel suo interesse
vampiresco per la trasformazione del vivente in immagine, l’opera della pittrice, tale
Imhof si considera, prosegue effettivamente in una forma d’arte del tutto diversa.
Anche dove i performer esprimono la loro presenza vivente, si rivelano estranei e
immersi in un “inaccessibile altrove”3, appartenenti a un altro ordine ontologico
– come fossero sotto vetro. Guardando all’arte, Kofman non ha timore di parlare,
con Georges Bataille, di “sacrificio del reale”. Perché qui non si tratta meramente di
un’abolizione o di una sostituzione della realtà vivente, bensì della sua alterazione

                                           1
DARK PLAY: LE ASTRAZIONI DI ANNE IMHOF

– così come il sacrificio, secondo Bataille “altera, distrugge la vittima, la uccide, ma
non la dimentica”4. Once art has done its magic, la realtà vivente dei performer c’è
senza esserci, è un’esistenza da non-morto.

                         QUALCOSA STA SEGUENDO IL SUO CORSO

Secondo Stanley Cavell – contrariamente ad Aspettando Godot, dove nasce dal fatto
che non succede niente – in Finale di partita di Beckett l’orrore è costituito dal fatto
che qualcosa succede5. “Qualcosa sta seguendo il suo corso”, ripete più volte Clov6. Si
attua un cambiamento che però non è il risultato dell’azione di una soggettività. Le
figure di Finale di partita si trovano in una sfera esclusa da ogni possibilità d’azione
e per questo non sono neanche personaggi in senso tradizionale, bensì dei sofferenti
che sopportano “qualcosa”, dei clown per i quali ogni azione compiuta, ogni iniziativa
volge nell’assurdo. Il linguaggio stesso sembra più un qualcosa che subiscono invece
che un esprimersi. I significati hanno una vita propria e la soggettività, slegata dai
significati, regredisce a mera corporeità. Clov in risposta a Hamm: “Un significato?
Noi un significato? Breve risata. Ah, questa è buona!“7
         Qualcosa sta seguendo il suo corso: l’associazione a Beckett dei lavori di Anne
Imhof non è distante. Nemmeno i momenti in cui avviene qualcosa di performativo,
in altre parole in cui c’è azione, dissolvono l’atmosfera di sospensione dell’accadere,
in particolare di ogni evento significativo. Gli stessi intermezzi in Angst II, che face-
vano venire in mente in alcuni momenti delle versioni astratte di spettacoli circensi
– un animale vivo, un falco, portato in giro; una persona che cammina in equilibrio
su una fune; una forma minima di piramide umana (un performer sulle spalle dell’al-
tro) – sono stati eseguiti in modo così laconico da sembrare azioni ordinarie. Mentre
altre azioni, effettivamente quotidiane, sono invece state inscenate in modo spettaco-
larizzato: lattine di Diet-Pepsi aperte una dopo l’altra e schiacciate contro la parete da
cui gronda il contenuto; il fumo di una sigaretta che usciva dalla bocca e si mescolava
drammaticamente con la nebbia nella quale Imhof aveva immerso le scene. In Imhof
anche la precisa dualità coreografica di movimento e immobilità, correre e adagiarsi,
rientra in una sospensione latente priva di azione drammatica, in cui, qualunque cosa
stia seguendo il suo corso, sembra più accadere ai performer che non essere eseguita
da loro. Tuttavia in Imhof, in modo molto contemporaneo, l’“epilogo”8 della soggetti-
vità non marca più lo stato di alienazione determinato dalla separazione dai corpi del
significato, come nel mondo beckettiano, ma all’opposto, nasce dall’impossibilità di
sfuggire al significato. Nel molto attuale »Epilogo« della soggettività di Imhof, lo stato
di alienazione non è determinato dalla cesura di corpo e significato, come avviene nel
mondo beckettiano, ma al contrario, dall’impossibilità per questo di sfuggire proprio
al significato.
         L’emblema di questa possessione incessante da parte del significato non è
il clown, bensì il modello. Non soltanto perché può essere qualsiasi cosa, ma anche
perché non c’è nulla in lui o lei che possa dispensarlo/a dalla feticizzazione. Già negli
anni ‘50 la fossetta di Kirk Douglas, dettaglio che resisteva al rasoio e all’appropria-
zione, sembrava inizialmente opporre una certa resistenza alla produzione dell’hand-
some guy da parte dell’industria culturale rivelandosi poi come il suo segreto specifico.
Oggi si è andati oltre producendo in modo mirato dettagli di questo tipo. Ed è proprio
per questa ragione che i perfomer di Imhof, nella loro singolarità esaltata, rappresen-
tano qualcosa di generale. Sembrano tutti dei modelli contemporanei, indipendente-
mente dal fatto che lo siano effettivamente o possano esserlo potenzialmente. Sulla
singolarità di ciascuno grava il sortilegio del suo potenziale sfruttamento universale
dal punto di vista commerciale. Tutto in loro, fin nell’ultimo dettaglio – inclusa pro-
prio la loro queerness – è mercificabile. “Non significare nulla? Noi, non significare
nulla? Apre la bocca in un’espressione tra il piacere sessuale, l’ira e lo sbadiglio. Ah!
Questa è buona!”

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DARK PLAY: LE ASTRAZIONI DI ANNE IMHOF

                                MIMESI DELL’ESTRANIATO

Il “nuovo spirito del capitalismo”9, lì dove ha presa10, fa nascere delle strutture il cui
obiettivo non è più la normalizzazione dei soggetti entro determinati modelli di ruoli,
bensì lo sfruttamento del loro potenziale di deviazione dalla norma. In altre parole,
parte proprio dal punto in cui Hannah Arendt individuava il confine della “degrada-
zione dell’essere umano in merce che domina nella società mercantile“ a oggetto: la
condizione per la quale, nella sua vitalità, riesce ancora a sottrarsi a ogni “genera-
lizzazione e quindi a ogni reificazione”11. È proprio questo potenziale, l’eccedere del
singolo al di sopra e oltre ogni prestazione concreta, economica e/o teatrale, che ora è
ricercato nella forza lavoro mercificata. Nella misura in cui si mostra, presenta dun-
que una versione di se stesso – sempre la versione migliore, ma pur sempre solo una
versione. Nessuna delle immagini del sé si afferma come vera immagine; quello che
si vuol dimostrare è invece che i soggetti sono principalmente una cosa: sono aperti
al futuro. Ma proprio questa apertura, che deve parallelamente dimostrare di essere
compatibile, è dunque condizionata; la potenzialità è soggetta ad “adattamento”12, la
differenza è addomesticata.
         I lavori di Imhof mantengono la promessa emancipativa di una differenza non
fissabile, la promessa di una queerness non reificabile e questo non superando “artisti-
camente” la loro versione addomesticata per ottenere una zona di autenticità contro il
resto corrotto, ma, al contrario, insinuandosi nello stato di alienazione fino a renderlo
percettibile e a costruire gradualmente una distanza rispetto a esso. L’alienazione non
viene né criticata esplicitamente né esibita con distacco, come se fosse possibile un
punto di vista esterno; la distanza nasce invece dall’esperienza dei modelli di riferi-
mento dell’alienazione. Il genio per l’astrazione di Imhof consiste nel saper distillare
il generale dal particolare, il sociale dallo psicologico, il gesto citato da un’espressione
presuntamente individuale, in breve: nel compiere la mimesi della vita estraniata
come fosse una realtà oggettiva13. In questo senso dimostra di saper essere un’alle-
gorista contemporanea: singoli particolari vengono estrapolati dai contesti vissuti e
conservati nelle citazioni che, ripetute, generano lo shock della perdita della pienezza
vitale14. Nell’approccio dell’allegorista è insita nuovamente una certa malinconia, un
anti-presentimento avvezzo a vedere nella vita l’imminente morte.

                                          FAUST

La scelta di Imhof della performance come mezzo espressivo non è casuale. La per-
formance svolge oggi un ruolo chiave, perché la sua dinamica di auto-superamento
permanente è diventata il paradigma del lavoro immateriale15. Le opere performative
di Imhof hanno il loro istante, la loro contemporaneità enfatica, principalmente nel
far coincidere mezzo artistico e forza produttiva sociale, non per cancellare la diffe-
renza tra arte e non-arte, ma per creare una nuova distanza attraverso la contiguità:
immagini dialettiche. I tableau performativi di Imhof rimangono comunque da leg-
gere come immagini dialettiche o del pensiero; perché le loro costellazioni producono
l’effetto linguistico finale che contestualmente negano. Essendo al contempo leggibili
e non leggibili, aperte e chiuse, fissate e in dissoluzione, le immagini dialettiche di
Imhof producono il proprio effetto non nello spazio del riconoscimento manifesto,
bensì da uno spazio di latenza estetica. Ogni scena sembra di una superficialità pro-
vocatoria, e ognuna sembra carica di significati. Le alternative cadono in pezzi e si
trasformano l’una nell’altra lungo la dissociazione tra superficie vuota e profondità
spirituale, nelle cui repulsioni viene compromessa ogni presenza vivente, anche e in
particolare quella della performance.
         La performance stessa appare una merce-feticcio nelle immagini dialettiche
di Imhof. Nel capitalismo finanziario questo carattere di feticcio della performance è

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