Conte la dice tutta e si Mattei

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Conte la dice tutta e si Mattei
Conte la dice tutta e si
dimette.    I due  Mattei
straparlano
Dal sito di Contropiano articolo a cura della Redazione:

L’unica cosa chiara, esposta anche in modo onorevole, sono le
dimissioni di Giuseppe Conte, e quindi del governo. Il resto è
nella mani del signore delle tenebre.

L’attesa per le “comunicazioni del presidente del consiglio”
era probabilmente anche esagerata, ma in qualche modo
incentivata da un percorso istituzionale fuori da ogni
precedente ed esperienza, anche per un paese che è passato per
impicci immondi (l’asse Dc-Pci, il Craxi-Forlani-Andreotti,
gli anni di Berlusconi, le miserie dell’Ulivo, l’invasione
della Ue con il governo Monti, la staffetta Letta-Renzi e
infine il pastrocchio gialloverde).

E invece abbiamo visto un professore che ha provato a fare lo
statista senza averne probabilmente la statura e sicuramente
non “la gavetta” necessaria. Giuseppe Conte ha però
giganteggiato rispetto a Salvini e Renzi – almeno agli occhi
di chi comprende la complessità e le responsabilità dei
Conte la dice tutta e si Mattei
meccanismi istituzionali – interpretando onestamente la parte
che la Storia gli aveva affidato.

L’attacco a Salvini è stato perciò serio, puntuale
documentato, articolato, senza dimenticare quasi nulla di
rilevante nelle cazzate commesse da Mr. Mojito in veste di
ministro dell’inferno. Gli ha rimproverato tutto, dal
Russiagate allo sventolamento del rosario, dalle invasioni di
campo in altri ministeri, fino al tentativo di “capitalizzare”
il consenso a fini personali e di partito. Un discorso senza
sconti.

Appena sporcato – è il caso di notarlo – dalla lunga seconda
parte di discorso dedicata a “quel che si dovrebbe fare per
l’Italia” che è suonato come un “se volete, posso restare
premier di un altro governo…”

Definitivo, si sarebbe potuto dire, se questo paese avesse
un’opinione pubblica costruita secondo gli standard della
democrazia liberale.

Sappiamo tutti che così non è e dunque la partita che si è
aperta anche formalmente in queste ore può avere qualsiasi
esito.

Salvini e Renzi, parlando uno dopo l’altro, hanno messo in
evidenza che nella classe politica “emergente” o emersa
nell’ultimo decennio non esiste alcuna considerazione per la
cornice costituzionale. Espressioni identiche degli stessi
gruppi di interesse – più massonico-bancari quelli dietro il
guito di Rignano, più piccola-media impresa contoterzista alle
spalle del Truce – hanno recitato esattamente la parte che è
stata da tempo assegnata loro.

Salvini nelle vesti del tribuno di una parte di popolo
corrotto ed egista, ansioso contemporaneamente di avere un
“capo forte” e di poter fare i propri affari senza rispettare
alcuna regola, razzista e bigotto (con le scelte di vita
altrui), confuso e voglioso di non sapere nulla per poter
Conte la dice tutta e si Mattei
restare chiuso nel proprio orto.

Un discorso identico a quello che gli abbiamo sentito fare
sulle spiagge estive, ma imbolsito, vuoto di contenuti (“tutto
chiacchiere e distintivo”…), spesso confusionario, fatto
manifestamente a favore delle telecamere e non dell’aula. In
certi momenti era quasi palese che si rende conto di aver
sbagliato parecchi calcoli.

E l’altro Matteo, specularmente, a recitare la finta parte del
“progressismo”, limitato quasi soltanto alle modalità di
gestione dell’immigrazione (dimenticando gli orrori di
Minniti, con lui premier) e alla doppia fedeltà, verso la Nato
e l’Unione Europea.

Fin troppo evidente questo “offrire” l’un l’altro esattamente
l’immagine che serve per proseguire nella “comunicazione”
stantia delle rispettive sponde.

Una nota di ridicolo, però, Salvini ha voluto lasciarla in
sovrappiù, quando – andando verso le conclusioni – ha provato
a riaprire la porta ad un proseguimento impensabile di questo
governo_ “votiamo la riduzione dei parlamentari”, addirittura
“facciamo una manovra    finanziaria   coraggiosa”,   restando
ovviamente ministro…

In generale, e in attesa delle mosse successive – terminato il
dibattito in Senato, Conte salirà al Quirinale per rassegnare
le dimissioni e far partire le consultazioni del Presidente
della Repubblica – abbiamo avuto la fotografia della
contrapposizione tra un modo di interpretare “classicamente”
la funzione istituzionale e un magma incomposto che di
quell’architettura se ne frega e non vede l’ora di
distruggerla. Renzi, è bene ricordarlo sempre, aveva fatto
scrivere una “riforma costituzionale” – poi bocciata con il
referendum del 4 dicembre 2016 – che seguiva passo passo il
“piano di rinascita nazionale” del piduista Licio Gelli.

Non è più il tempo delle certezze sull’immediato futuro
istituzionale. L’unica certezza viene non a caso dai “vincoli
esterni” – Nato ed Unione Europea – e ne vedremo gli effetti
nelle mosse che Sergio Mattarella sarà costretto a fare.

P.s. A completare il quadro essenziale, c’è da segnalare la
sortita extraparlamentare di Nicola Zingaretti, segretario del
Pd ma soltanto presidente della Regione Lazio, che ha provato
a indebolire la conquista della scena televisiva da parte di
Matteo Renzi (che spinge quasi apertamente per un Conte-bis…)
diramando una nota che suona come uno stop per tenere in mano
(almeno) le redini del Pd.

“Tutto quanto detto sul ministro Salvini questo pomeriggio dal
presidente Conte non può che essere condiviso. Ma attenzione
anche ai rischi di autoassoluzione. In questi 15 mesi è stato
il presidente del Consiglio, anche del ministro Salvini, e se
tante cose denunciate sono vere perché ha atteso la sfiducia
per denunciarle?”.

La  miseria                    della            classe
politica
Dal sito di Contropiano articolo di Giorgio Cremaschi:
Assistendo al dibattito in Senato, prima di tutto emerge la
povertà politica e culturale della rappresentanza parlamentare
del nostro paese.

Conte ha dedicato una parte preponderante del suo intervento a
togliersi dalle scarpe tutti i sassi che in quattordici mesi
vi aveva messo Matteo Salvini. Quando però avrebbe dovuto
spiegare perché un governo che avrebbe voluto rappresentare
l’insofferenza del popolo, cambiare il paese, durare cinque
anni, è crollato tra gli insulti dei suoi leader.

Quando Conte avrebbe dovuto spiegare perché in quel 2019 da
lui definito “anno bellissimo”, precipitano le sue dimissioni,
mentre la crisi economica incombe… Beh, proprio qui il
presidente gialloverde non ha detto nulla. Valorizzare i
piccoli borghi è la sola proposta sentita, il resto
chiacchiere fumose e allusioni europeiste all’elezione di
Ursula von der Leyen, che in realtà sono solo messaggi in
bottiglia per PD e Forza Italia.

Matteo Salvini ha mostrato tutta la sua pochezza, accusando il
colpo della requisitoria di Conte, balbettando che allora
avrebbe dovuto dirglielo prima e concludendo con la richiesta
di andare avanti assieme.

Così come Conte aveva fatto l’europeista, il capo leghista ha
fatto il sovranista, tutto finto naturalmente.

La sola proposta che si è sentita è stata quella di cinquanta
miliardi di riduzione di tasse per le imprese per far nascere
più bambini.

Grazie a Matteo Salvini è poi rinato Matteo Renzi. In realtà è
la restituzione del favore ricevuto, perché Salvini è lì
perché prima c’è stato Renzi. Anche per questo gioco a ping
pong tra loro, sono entrambi nefasti. L’altro Matteo gonfio
come non mai, ha dimostrato di essere più loquace, cosa non
difficile, e ha condito la sua proposta di governo coi
Cinquestelle con le solite banalità liberiste. Il mercato, le
imprese, la crisi economica che “con noi non c’era”.

Tutti   gli   altri   sono   stati   comprimari,   mentre   l’altro
vicepresidente, Di Maio, ha fatto parlare solo la sua faccia
soddisfatta e subordinata durante l’intervento di Conte.

Una classe politica abituata da tempo al fatto che le
decisioni di fondo vengono prese dalle vere élites, assieme al
pilota automatico UE e NATO, nazionale ed europeo, una classe
politica che condivide lo stesso pensiero unico liberista e si
accusa reciprocamente di non saperlo realizzare.

Una classe politica frutto di trent’anni di distruzione della
vera democrazia ha oggi mostrato tutta la sua miseria, tutti i
suoi intrighi e odi senza costrutto.

Conte si dimette mentre Salvini ritira la mozione di sfiducia
e resta al suo posto, naturalmente per resistere al ritorno
del suo compare Renzi.

Tutto questo è l’effetto plateale e ridicolo di una crisi di
sistema, di un sistema economico e sociale che non vuole
cambiare nulla e che per questo ha selezionato una classe
politica incapace e subalterna.

Bisogna costruire un’alternativa alla staffetta Salvini-Renzi,
con i Cinquestelle in mezzo, e questo non sarà possibile se
non si costruirà un’alternativa al sistema che li ha tutti
prodotti.

Presentazioni corsi
Fine della Storia? No, della
democrazia…
Dal sito di Contropiano articolo di Dante Barontini:

Quando il caos ci sommerge, l’unica possibilità di salvare il
funzionamento del cervello è sollevarsi al di sopra del
chiacchiericcio e guardare le cose dall’alto per individuare
almeno le correnti più importanti. La loro direzione di
marcia.

Se qualcuno crede davvero che un tal Matteo Salvini sia il
“capo” o la “mente” dell’ondata reazionaria che sta
sommergendo l’Italia probabilmente ha bisogno di dare una
ripassata alla Storia, o almeno di ricordare che i processi
storici selezionano – determinandoli – gli uomini e le donne
incaricati di rappresentarli. Non viceversa.

Un ministro degli interni, vice-premier e segretario di
partito che trova il tempo di fare un lunghissimo sproloquio,
in video, contro la magistratura “rea” di aver liberato la
“capitana Carola”, non ha evidentemente molto altro da fare,
oltre a “comunicare” h24.

A gestire gli affari correnti – del Viminale, della Lega e del
governo – ci pensa sicuramente qualcun altro.

Si chiama “personalizzazione della politica”, ossia riduzione
dei problemi complessi a soluzioni semplici, al livello delle
discussioni tra ubriachi all’osteria. Un attore occupa tutta
la scena, mentre dietro le quinte si governa, si media, si
compravende, si decide.

Il soliloquio salviniano diffuso in diretta via social
richiederebbe l’analisi di uno strizzacervelli, se non fosse,
com’è, una dichiarazione programmatica.

Riassumibile nella fine della classica “separazione dei
poteri” – legislativo, esecutivo e giudiziario – che
costituisce l’architrave della democrazia liberale. O, più
modestamente, della sua retorica.

La pretesa coglie peraltro la magistratura italiana nel punto
più basso della sua credibilità, con lo “scandalo Palamara”
che ha distrutto il Csm e messo allo scoperto i rapporti
peggiori tra politica e magistrati, ridicolizzando ogni
pretesa di “terzietà” dell’istituzione (ogni singolo
magistrato ha come riferimento un partito politico diverso, e
l’arresto di Mimmo Lucano sta lì a dimostrarlo).

Ora o mai più, insomma, per provare a realizzare quello che
non è riuscito a fare Berlusconi quando era in forma.

Ma al di là dei singoli intrecci, l’idea di fondo del
nuovo potere costituente è semplicissima: chi sta al governo
può fare tutto e nessuno deve provare a contrastarlo, che sia
un giudice, un movimento popolare, un partito d’opposizione
parlamentare, un giornalista, ecc.

“La legge sono io”, come il giudice Roy Bean al di là del
Pecos…

Se fosse un problema solo italiano, basterebbe forse sedersi
sulla riva del fiume e attendere che anche questo jokerman
venga licenziato dai suoi impresari, come avvenuto per l’altro
Matteo, il Renzi.

Ma tutto il mondo che si autodefinisce “democratico”, da molto
tempo, è percorso da un processo identico, seppure con
modalità differenti a seconda dei diversi assetti
istituzionali.

Riguarda la Francia come gli Stati Uniti, la Germania come la
Gran Bretagna. Riguarda l’Unione Europea, che per i prossimi
anni vedrà al suo vertice un terminale della Nato (il ministro
della difesa tedesco, Ursula von der Leyen) e l’ex direttrice
del Fondo Monetario Internazionale (la francese Christine
Lagarde), rispettivamente a capo della Commissione Europea e
della Bce. Il fatto che siano donne non riduce, ma maschera
brillantemente, la portata della dipendenza di queste
istituzioni dal capitale multinazionale.

Un processo da quasi 50 anni teorizzato come inevitabile e
necessario per mantenere la supremazia “dell’economia di
mercato”, della “libertà di impresa”, del capitalismo
occidentale. Il divario di fondo, crescente, tra complessità
del sistema e impossibilità per i “singoli cittadini” di farsi
un’opinione realistica su problemi di cui non sanno molto, o
addirittura nulla, è alla base di un “pensiero politico”
esplicitamente teso a ridurre gli spazi democratici. E in ogni
caso a ridurre le opzioni possibili da sottoporre al voto
popolare (necessario a mantenere la forma, e soltanto quella,
della democrazia liberale).

                   Sotto quello che sembra “nuovo” si scopre
                   spesso qualcosa di molto vecchio. La Crisi
                   della democrazia fu il testo redatto da
                   Michel J. Crozier, Samuel P. Huntington e
                   Joji Watanuki per conto della famigerata
                   Commissione Trilaterale nella metà degli
                   anni Settanta.

L’esplosione del “socialismo reale” allontanò momentaneamente
la necessità di accelerare il processo di concentrazione
formale del potere. Erano gli anni della Fine della
Storia (con Francis Fukuyama come ideologo), della
globalizzazione, dell’unipolarismo trionfante sul mondo.

Poi la crisi economica, il declino statunitense, l’emergere di
nuove potenze – assai più dinamiche, innovative, fortemente
centralizzate nelle catene di comando – e quindi la ripresa
quasi nevrotica del vecchio processo.

Il prossimo “testo teorico” sembra dunque dover essere La fine
della democrazia. Ma non sarà Salvini a scriverlo. Ne sta solo
recitando i passaggi essenziali.
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