LA DISOCCUPAZIONE TRA CHIACCHIERE ED INDIFFERENZA - NOTA ISRIL ON LINE N 15 2014

Pagina creata da Roberto Moro
 
CONTINUA A LEGGERE
NOTA ISRIL ON LINE

   N° 15 - 2014

                      LA DISOCCUPAZIONE
                            TRA CHIACCHIERE
                            ED INDIFFERENZA

Presidente prof. Giuseppe Bianchi
Via Piemonte, 101 00187 – Roma
gbianchi.isril@tiscali.it
www.isril.it
LA DISOCCUPAZIONE TRA CHIACCHIERE ED INDIFFERENZA
    di Pierre CARNITI

         Malgrado il tema del lavoro sia oggetto di sempre più debordanti inchini
    retorici, la disoccupazione resta sostanzialmente un problema dei disoccupati. Né
    potrebbe essere diversamente considerato che, negli ultimi anni, le politiche
    pubbliche si sono tutte concentrate sulla cosiddetta “riforma del mercato del
    lavoro”, che ha moltiplicato forme e normative dei rapporti di lavoro lasciando
    ovviamente immutata la dimensione della disoccupazione.
          Così, più diventava chiaro che il problema con il quale eravamo (e siamo)
    alle prese è la mancanza di domanda di lavoro, più ci si è accaniti con interventi
    sul versante dell’offerta. Al punto che ormai sono stati collezionati quasi trenta tipi
    diversi di contratti. A questa inflazione non è sicuramente estraneo il fatto che
    ogni nuovo ministro del lavoro che arriva (e, come sappiamo,                da noi si
    avvicendano con una certa frequenza) vi aggiunge la sua misura. Convinto che
    possa essere quella decisiva.
          Allo stato manca solo quella del “lavoro agile” o “smartwork”, come lo
    chiamano gli anglofili. In sostanza si tratterebbe di concedere ai dipendenti la
    possibilità di lavorare come liberi professionisti. Organizzando il tempo in
    autonomia. Naturalmente con il vincolo dei “risultati”. In tal modo alla
    proliferazione delle “false partite Iva”, avremo finalmente anche quella dei “falsi
    professionisti”. Non resta quindi che aspettare con fiducia per vedere se tra le
    varie offerte del “Job Act”, sarà previsto anche questa modalità. Le possibilità
    sono buone. Considerato che una proposta di legge in questo senso è già stata
    presentata alla Camera da tre Deputate dei partiti di maggioranza.
          Quel che è certo, venga aggiunta o meno qualche nuova immaginifica norma
    al già ricco armamentario dei contratti di lavoro, è che non ci saranno effetti sulla
    disoccupazione. Previsione, sia detto per inciso, che non dipende da immotivato
    scetticismo o da un pregiudizio politico sulla buona volontà e capacità di chi ci
    governa, ma soprattutto dal fatto che si continua a “fare i conti senza l’oste”. In
    quanto nella cosiddetta “lotta contro la disoccupazione” si ignora totalmente la
    sua doppia natura. Stando così le cose è del tutto improbabile che si possano
    raggiungere risultati di cui avremmo bisogno.
          Per affrontare concretamente il problema, il primo aspetto di cui si deve
    tenere conto è la disoccupazione provocata da “insufficienza da domanda
    effettiva”. Ossia da domanda assistita da una adeguata distribuzione dei redditi.
    L’assunto è semplice. Essendo necessaria manodopera per produrre le merci, se
    queste non trovano domanda adeguata sul mercato l’occupazione è
    inevitabilmente destinata a calare. E’ appunto quanto è avvenuto nel corso della
    crisi con cui siamo ancora alle prese. Il rimedio a simile disoccupazione (detta
    “keynesiana”, perché descritta magistralmente da Keynes) consiste nel rilancio
    della domanda tramite aumento dei consumi delle famiglie e dello Stato.
    Purtroppo il potere d’acquisto dei salari e dunque delle famiglie perde colpi perché
    la contrattazione langue, quando addirittura non regredisce. Mentre, per quanto
    riguarda la domanda pubblica, più stringenti sono i vincoli di bilancio (e questo è
    appunto il caso dell’Italia) più probabile è che le misure di rilancio si rivelino
    insufficienti. O che comunque, proprio a causa dei vincoli di bilancio, tra misure

1
tendenzialmente espansive ed interventi restrittivi della spesa pubblica il saldo
    algebrico sia alla fine negativo.
         Il secondo tipo di disoccupazione, di cui poco si parla ma le cui conseguenze
    sono sempre più evidenti ed estese, è quella tecnologica. Il punto da avere ben
    chiaro in proposito è che non esiste più (ammesso che sia mai esistita in passato)
    una correlazione pratica e stabile tra produzione di merci ed occupazione. In ogni
    caso, mentre è ancora vero che se la produzione cala anche l’occupazione scende,
    non è più vero il contrario. In sostanza non ha alcun fondamento la convinzione,
    per altro ancora assai diffusa, che se la produzione riprende pure l’occupazione
    aumenta. Tanto é vero che sempre più spesso, pur in presenza di un aumento
    degli investimenti o modesti aumenti del Pil, i disoccupati crescono invece di
    diminuire.
          La spiegazione per questo andamento asimmetrico è semplice: i posti di
    lavoro che si guadagnano dove si “producono” le macchine e si innova la
    tecnologia non compensano quelli che si perdono dove si “introducono” le
    macchine e le innovazioni tecnologiche. Si tratta appunto della “disoccupazione
    tecnologica”. Fenomeno non nuovo (già individuato da Riccardo nel XIX secolo) di
    sostituzione del lavoro con macchine. Ma che ora, con la diffusione
    dell’informatica, dell’automazione e della robotica, ha assunto una ampiezza ed
    una velocità eccezionali. Sia pure su scala e con una intensità diversa si tratta di
    un evento già largamente sperimentato nella prima e nella seconda rivoluzione
    industriale ed a cui (allora) si è risposto con una riorganizzazione degli orari ed
    una ripartizione del lavoro.
          Gli storici dell’economia sottolineano infatti che nel caso delle prime due
    rivoluzioni industriali la questione di contrastare la disoccupazione con più tempo
    libero è stata risolta a favore di questo ultimo. Sebbene solo dopo una prolungata
    lotta tra lavoratori e datori di lavoro sulla questione dell’utilizzo della produttività.
    In effetti i cospicui incrementi di produttività ottenuti nella prima fase della
    rivoluzione industriale nel XIX secolo (caratterizzata dal passaggio dall’energia
    idraulica al vapore e poi all’elettricità) sono stati seguiti da una riduzione
    dell’orario di lavoro prima da 80 a 72 e poi fino a 60 ore settimanali. Allo stesso
    modo nel XX secolo, quando le economie industrializzate hanno sperimentato una
    nuova organizzazione produttiva (con il fordismo e le linee di montaggio), il forte
    aumento della produttività ha condotto ad un ulteriore accorciamento della
    settimana lavorativa, che è arrivata a 48 ore e poi a 40.
          Analizzando la storia economica e facendo una previsione sul futuro, in una
    celebre conferenza tenuta a Madrid nel 1930 (“Prospettive economiche per i nostri
    nipoti”) Keynes si diceva convinto che nel giro di un secolo l’umanità avrebbe
    potuto risolvere definitivamente quello che negli ultimi due secoli era stato il suo
    assillo principale: il problema economico. “Mi sentirei di affermare – diceva infatti
    il grande economista – che di qui a cent’anni il livello di vita dei paesi in
    progresso, sarà da quattro a otto volte superiore a quello odierno. Non vi sarebbe
    nulla di sorprendente, alla luce delle nostre conoscenze attuali. Per altro non
    sarebbe fuori luogo prendere in considerazione la possibilità di progressi anche
    superiori” Partendo da queste premesse Keynes giungeva ad una conclusione che
    non esitava a definire “sconcertante”. Perché sconcertante? Perché, a suo avviso
    non esiste paese o popolo che possa guardare senza terrore all’era del tempo
    libero e dell’abbondanza. “Per troppo tempo infatti siamo stati allenati a faticare
    anziché godere. Per l’uomo comune, privo di particolari talenti, il problema di
    darsi una occupazione è pauroso, specie se non ha radici nella terra e nel costume

2
o nelle convenzioni predilette di una società tradizionale. [….] Per ancora molte
    generazioni l’istinto del vecchio Adamo rimarrà così forte in noi, che avremo
    bisogno di un qualche lavoro per essere soddisfatti. [….] Turni di tre ore e
    settimana lavorativa di quindici ore possono (però) tenere a bada il problema per
    un buon periodo di tempo. Tre ore di lavoro al giorno, infatti, sono più che
    sufficienti per soddisfare il vecchio Adamo che è in ciascuno di noi”. Tuttavia la
    società politica (ma anche gli intellettuali e le forze sociali) non hanno però
    dimostrato questa lungimiranza e perciò il problema economico e della
    disoccupazione, invece di essere avviato a soluzione si è aggravato.
         A sua volta il fondatore della Fiat Giovanni Agnelli muovendo da
    considerazioni pratiche ha sostenuto che, è anche nell’interesse delle imprese,
    rispondere alla innovazione tecnologica con una riduzione degli orari di lavoro. Il
    suo ragionamento è esplicitato in una lettera del 5 gennaio 1933 diretta a Luigi
    Einaudi. “Partiamo dalla premessa – scrive infatti - che in un dato momento, in un
    dato Paese, a ipotesi nella parte industrializzata di questo nuovo mondo, via siano
    100 milioni di operai occupati. Sia il loro salario medio di un dollaro. Scelgo il
    dollaro sia perché è moneta da parecchie generazioni invariata in un dato peso
    d’oro, sia perché mi consente di esporre calcoli semplicissimi con il minimo uso di
    operazioni aritmetiche [….] Sulla base di un dollaro ogni giorno nasce una
    domanda di 100 milioni di dollari di beni e servizi e ogni giorno industriali ed
    agricoltori mettono sul mercato 100 milioni di merci e di servizi. Produzione,
    commercio, consumi si ingranano perfettamente l’un l’altro. Non esistono
    disoccupati. Non si parla di crisi. Noi industriali diciamo, nel nostro linguaggio
    semplice, che gli affari vanno. Alla macchina economica non occorrono lubrificanti.
    A un tratto – in verità le cose si svolgono diversamente per esperimenti vari e
    successivi, ma debbo semplificare – uno o parecchi uomini di genio inventano
    qualcosa e noi industriali facciamo a chi arriva prima ad applicare la o le
    invenzioni le quali permettono risparmio di lavoro e maggiore guadagno. Quando
    le nuove applicazioni si siano generalizzate risulta che con 75 milioni di uomini si
    compie il lavoro il quale prima ne richiedeva 100. Rimangono 25 milioni di
    disoccupati nel mondo. Quale la causa? La incapacità dell’ordinamento del lavoro
    a trasformarsi con velocità uguale alla velocità di trasformazione dell’ordinamento
    tecnico.”
          “In sostanza invece di 100 milioni di operai, ossia 800 milioni di ore di lavoro
    al giorno per produrre una determinata massa di beni e servizi, dopo l’invenzione
    ne basteranno 70 e poi 60 milioni di operai a produrre quanto il mercato richiede.
    E’ una catena paurosa che a noi pratici pare svolgersi senza fine, sebbene voialtri
    economisti ci abbiate abituati a credere che a un certo punto si deve ristabilire
    l’equilibrio”. Ma “il danno sembra a me derivare dallo sfaldamento tra due
    velocità: la velocità del progresso tecnico che ha ridotto di un quarto la fatica
    necessaria a produrre e la mancanza di progresso nell’organizzazione del lavoro,
    per cui l’operaio che lavora seguita a faticare le stesse otto ore al giorno di prima.
    Rendiamo uguali le velocità dei due movimenti progressivi, quello tecnico e quello,
    chiamiamolo così, umano. Poiché a produrre una massa invariata di beni e servizi
    occorrono 600 invece che 800 milioni di ore di lavoro, tutti i 100 milioni di operai
    occupati nel primo momento, per 8 ore al giorno, rimarranno occupati nel secondo
    momento per 6 ore al giorno. Poiché essi producono la stessa massa di beni di
    prima, il salario rimarrà invariato in un dollaro al giorno. La domanda operaia di
    beni e servizi resta di 100 milioni di dollari. Nulla è mutato nel meccanismo
    economico, il quale fila come oro colato. Non c’è disoccupazione, non c’è crisi”.

3
In buona sostanza la preoccupazione di Giovanni Agnelli era determinata dal
    fatto che un sistema di produzione di massa non sarebbe riuscito a stare in piedi
    se non avesse creato le condizioni per un parallelo sviluppo di consumi di massa.
    Le sue opinioni e le sue scelte erano quindi mosse dalla considerazione per i propri
    interessi e per quelli dello stesso mondo imprenditoriale. Ma questo non può
    essere considerato un motivo disdicevole o di recriminazione. Perché come del
    resto aveva già ammonito Adam Snith “Non è dalla benevolenza del macellaio, del
    birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione
    del loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro
    egoismo e parliamo dei loro vantaggi e mai delle nostre necessità”
         Che l’egoismo del singolo sia compatibile (se non necessario) per il bene
    della collettività, non è così pacifico, ma è da sempre considerato un principio
    base della scienza economica.
         Purché, almeno per chi ha a cuore le questioni sociali, non si trascendano
    determinati limiti. In particolare un aumento delle diseguaglianze politiche,
    economiche e sociali che finiscono per mettere in causa la stessa tenuta della
    comunità.
           Ed è quanto invece si sta verificando. Il rischio implicito in tale situazione è
    stato messo bene in evidenza da Bertrand Russel il quale ha voluto attirare
    l’attenzione sugli aspetti morali e sociali che comportano un prezzo sempre più
    esoso. “Supponiamo – scriveva nel 1935 – che in un dato momento un certo
    numero di persone sia impiegato nella produzione di spilli. Queste persone
    producono una quantità di spilli che risponde al fabbisogno di spilli del mondo
    intero lavorando, poniamo, otto ore al giorno. A un certo punto qualcuno fa una
    invenzione per cui lo stesso numero di persone produce una quantità doppia di
    spilli. Ma il mondo non ha bisogno di tale quantità doppia di spilli. Gli spilli sono
    così a buon mercato che neanche ad un prezzo più basso ne sarebbe acquistata
    una quantità maggiore. In un mondo sensato tutti coloro che sono coinvolti nella
    produzione di spilli dovrebbero lavorare quattro ore al giorno anziché otto e tutto
    il resta andrebbe avanti come prima. Ma nel mondo reale questo sarebbe ritenuto
    demoralizzante e quindi gli uomini continuano a lavorare otto ore al giorno. La
    quantità di spilli prodotta eccede la domanda, alcuni imprenditori falliscono e metà
    degli uomini che prima erano impiegati nella produzione degli spilli vengono
    espulsi dal lavoro.
          Alla fine c’è nel complesso la stessa quantità di tempo non dedicato al lavoro
    rispetto alla soluzione alternativa, ma metà degli uomini è completamente in ozio
    mentre l’altra metà è pienamente occupata nel lavoro. In questo modo è garantito
    che l’inevitabile incremento del tempo non dedicato al lavoro causerà una diffusa
    miseria anziché essere una fonte universale di felicità. Si può immaginare
    qualcosa di più folle?”
          Scenario che per quanto “folle” ci è purtroppo ci è sempre più familiare. Ma
    perché Russel ritiene che nel “mondo reale” la riduzione degli orari possa essere
    considerata “demoralizzante”? Ovviamente per le resistenze conservatrici del
    mondo economico e politico. Ma probabilmente anche perché nel ribaltamento del
    rapporto tra tempo libero e tempo di lavoro il risultato determina un radicale
    cambiamento dei valori ed una modalità di esistenza incompatibili con la cultura
    tradizionale. Non a caso, come sosterrà negli anni ’60 Herbert Marcuse (in Eros e
    Civiltà, che tanta fortuna ebbe negli anni della contestazione studentesca),

4
“poiché la durata della giornata lavorativa è in sé stessa uno dei principali fattori
    di repressione imposti dal principio della realtà sul principio del piacere, la
    riduzione della parte della giornata lavorativa dedicata al lavoro è il più importante
    prerequisito per il raggiungimento della libertà”.
          Tuttavia, al di là dell’interpretazione ideologica di Marcuse, forse ci sono
    anche motivazioni più banali. In particolare il fatto che le tecnologie ci hanno
    liberato dalle incombenze più pesanti, ma ci hanno anche reso sempre
    raggiungibili, sempre disponibili, sempre pronti a riempire gli intervalli con
    qualche attività a portata di smartphone. Senza contare che essere super-
    impegnati da molti è considerato quasi un obbligo sociale. In effetti ci si lamenta
    dei troppi impegni, ma non pochi fanno a gara a chi ne ha di più. Infatti per alcuni
    essere super-occupati è uno status. Perché così si sentono più importanti.
         Quali che siano le motivazioni di questi comportamenti resta un dato di fatto
    incontrovertibile. Sebbene nei precedenti periodi storici e fino alle soglie degli anni
    ’70, gli aumenti di produttività abbiano provocato una costante riduzione del
    numero medio di ore lavorate, nei quarant’anni che sono passati dalla
    introduzione delle tecnologie informatiche e del crescente risparmio di lavoro che
    essere hanno determinato, questo processo si è arrestato. Al punto che in alcuni
    paesi, tra i quali l’Italia, gli orari medi sono superiori a quelli di 40 anni fa. In
    media infatti lo spread degli orari annuali italiani rispetto a quelli europei è di ben
    300 ore superiore. Non deve quindi sorprendere che anche la nostra
    disoccupazione sia proporzionalmente maggiore.
          In ogni caso, mentre in passato intorno all’utilizzo degli incrementi di
    produttività si era sviluppato un grande dibattito che vedeva impegnati
    intellettuali, imprenditori, parti sociali ed anche politici, (all’inizio degli anni ’70 la
    presidenza degli Stati Uniti, sulla scia di Keynes, immaginava che entro la fine del
    secolo XX si sarebbe potuto arrivare ad un anno lavorativo di 6 mesi, o un’età
    media per la pensione di 38 anni) oggi il tema è stato sostanzialmente rimosso.
    Anzi, si è andati nella direzione opposta. Quali le cause?
          Si può ritenere che la rivoluzione della produttività abbia condizionato la
    quantità di tempo dedicata al lavoro in due modi. L’introduzione di tecnologie
    laborsaving ha permesso alle imprese di eliminare grandi masse di lavoratori
    creando un esercito di riserva senza occupazione che gode di “tempo libero”
    obbligato. Perciò chi ha ancora un lavoro è costretto a lavorare più ore, in parte
    per compensare i salari più bassi prodotti da un mercato del lavoro nel quale
    l’offerta supera largamente la domanda. Ma anche perché, nell’opinione corrente,
    si è fatta strada la convinzione che per competere sui mercati globali le imprese
    non possono fare altro che sottoporre a cura dimagrante salari e diritti del lavoro.
    Scelta non sufficientemente contrastata (dai lavoratori e dalle loro organizzazioni)
    che ci rimanda all’apologo di Leontieff sul destino dei cavalli quando è stato
    introdotto il trattore. Infatti secondo il premio Nobel per l’economia, quando in
    agricoltura venne introdotto il trattore i cavalli avrebbero potuto decidere di
    lavorare per meno biada e meno fieno, ma poiché nel frattempo i trattori
    sarebbero diventati sempre più potenti, se alla fine i cavalli avessero anche deciso
    di lavorare gratis (cioè senza biada e senza fieno) sarebbero stati ritenuti non più
    produttivi e mandati ugualmente al macello. E’ quanto purtroppo si è verificato
    per milioni di lavoratori.
         Dunque il fatto tanto indiscutibile quanto trascurato è che la disoccupazione
    attuale (se si esclude l’occupazione derivante dai servizi alla “persona”, o per certi
    lavori manuali, come ad esempio l’idraulico) ha una chiara impronta “ricardiana”.

5
Come conseguenza del passaggio dalla produzione fordista a quella post-fordista.
    Che ha significato progressiva sostituzione dell’informatica, dell’automazione e
    della robotica al lavoro. Ne è derivato un eccesso di manodopera che viene
    espulsa dalla produzione e che, in assenza di politiche capaci di dare risposte
    concrete al problema, resta lì. Nella terra di nessuno. Almeno finché sopporta la
    propria esclusione.
          Questa disoccupazione era già presente negli ultimi decenni del secolo
    scorso, ma allora si era pensato di poterla recuperare, almeno in parte, tramite la
    “precarizzazione” del mercato del lavoro, in base all’assunto che le imprese
    avrebbero avuto “convenienza” ad utilizzare quei lavoratori “usa e getta”. Almeno
    in una certa misura così è stato. Ma con l’ovvia conseguenza di un calo sensibile
    della produttività del lavoro. Perché se si possono costringere i precari a lavorare
    di più non gli si può imporre anche di lavorare meglio. Da qui la comparsa di una
    occupazione flessibile ma a bassa produttività. Come hanno ampiamente messo in
    evidenza diverse ricerche.
          Contro l’occupazione patologicamente flessibile ha provato a muoversi la
    riforma Fornero. Con soluzioni discutibili, ma con una motivazione giusta: il lavoro
    precario deve costare di più del lavoro stabile. Oggi, con il decreto sul lavoro del
    governo Renzi, siamo alla “riforma della riforma”. Giustificata da una discussione
    surreale. Essa verte infatti, non se sia utile o meno disincentivare forme dilaganti
    di lavoro flessibile e precario, ma se l’obbligo a motivare la causale sia da ritenere
    una ragione sufficiente o meno a scoraggiare le aziende dal fare assunzioni.
          Inutile dire che non è certo da simile approccio che potrà derivare un
    aumento dell’occupazione. E, per altro, nemmeno la tanto auspicata crescita
    porterà i nuovi posti di lavoro che invece servirebbero. Almeno per i prossimi anni.
    Le ragioni sono tante. Non ultima quella relativa al fatto che, come detto, la
    disoccupazione con cui siamo alle prese è appunto in larga misura di tipo
    “ricardiano”. Quindi non può essere curata con “placebo” e rimedi estemporanei.
    Che intervengono solo sui sintomi invece che sulle cause.
         Ai numerosi devoti che credono nelle cure omeopatiche come panacea per la
    disoccupazione potrebbe giovare la rilettura di una presa di posizione di Keynes.
    In particolare il richiamo al fatto che: “L’efficienza tecnica è andata
    intensificandosi con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a risolvere il
    problema dell’assorbimento della manodopera”. La conseguenza è “una nuova
    malattia di cui alcuni […] possono non conoscere ancora il nome, ma di cui
    sentiranno molto parlare nei prossimi anni: vale a dire la disoccupazione
    tecnologica. Il che significa che la disoccupazione dovuta alla scoperta di
    strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo più rapido di quello
    con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera”.
          Questi effetti sono ormai visibili, non solo nell’industria, ma anche nei servizi:
    dalla grande distribuzione, alle poste, alle banche, ecc. In questi settori è in atto
    la riduzione di decine di migliaia di addetti, a cui se ne aggiungeranno altre
    migliaia nel prossimo futuro. Questo processo è destinato a proseguire.
          Tuttavia, si può però ragionevolmente pensare che, poiché i termini del
    problema della disoccupazione stanno ormai diventando sempre più acuti ed
    intollerabili, anche la resistenza delle imprese alla riduzione di orario sia destinata
    ad attenuarsi. Soprattutto se il management diventerà più consapevole della
    necessità “egoistica” (richiamata anche dal fondatore della Fiat già tre quarti di
    secolo fa) di evitare un cortocircuito tra produzione e consumo. Saldando quindi la

6
frattura, altrimenti inevitabile, tra la maggiore capacità produttiva e la progressiva
    caduta del numero di consumatori e del loro potere d’acquisto.
          Tuttavia, perché questa svolta si verifichi in tempi utili è necessario che, in
    parallelo, si sviluppi un forte dibattito ed una adeguata pressione collettiva intorno
    all’obiettivo di riorganizzare e ripartire il lavoro. In tutte le possibili varianti.
    Purché funzionali ad una più equa distribuzione del lavoro disponibile e dunque
    anche ad una efficace lotta alle diseguaglianze. Tra le quali la mancanza di lavoro
    è una delle più significative. Perché ha conseguenze non solo sulla distribuzione
    del reddito, ma anche su ciò che il lavoro ancora rappresenta nella vita delle
    persone. Sia in termini di identità, che di appartenenza sociale e di pieno
    riconoscimento dei diritti di cittadinanza.
          Resta il fatto che la ridefinizione del ruolo dell’individuo e delle organizzazioni
    che rappresentano il lavoro in una società sempre più deprivata del lavoro di
    massa, costituisce sicuramente la questione fondamentale con cui dovrà sapersi
    confrontare la società del futuro. Nello stesso tempo bisogna sapere che per
    riuscire ad affrontare concretamente questa sfida il punto da avere chiaro, fin da
    ora, è che sarà impossibile fare davvero i conti con la questione della
    disoccupazione se si continuerà ad ignorarne la sua duplice natura: keynesiana e
    ricardiana. Perciò di una cosa occorre essere consapevoli: fino a quando questa
    presa di coscienza non incomincerà a farsi adeguatamente strada, la
    disoccupazione continuerà purtroppo a restare (per quanto ciò venga a parole
    considerato riprovevole) essenzialmente un problema dei disoccupati.

7
Puoi anche leggere