BamBini e Basta Perché non dobbiamo dimenticare - irene Bernardini

Pagina creata da Nicolo' Di Giovanni
 
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Irene Bernardini

                    Bambini e basta
                     Perché non dobbiamo dimenticare
                          che i grandi siamo noi

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                                    Bambini e basta
                                  di Irene Bernardini
                                 Collezione Strade blu

                                ISBN 978-88-04-61934-5

                    © 2012 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
                               I edizione settembre 2012

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Indice

                      5		 Qualche domanda, per cominciare
                     15	I	I gesti di tutti i giorni: l’abbraccio delle abitudini
                     28	II	Non sei stanco, tesoro?
                     44	III	Che cosa vuoi mangiare, amore?
                     56	IV «Si alzò, si vestò e usciò»
                     76     V    A scuola!
                    101    VI	I   bambini non li inganni
                    124   VII    L’«opinione» di un bambino
                    143   VIII   Decido io, Francesco
                    167	IX «Quel meraviglioso ragazzo che mi proteggeva,
                    			 mi adorava, mi confortava»
                    185     X    La responsabilità della tenerezza

                    195		 Grazie…

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Bambini e basta

                                A una bambina Caterina
                                che al primo incontro
                                pareva una ranocchia.
                                Poi, principessa, ha fatto
                                bella la mia vita.
                                Saranno stati i baci?

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«I papà moderni lavorano tanto e regalano ai figli l’iPhone.
                    Se i figli dei papà moderni non telefonano quattro volte al
                    giorno, non mandano una mail, non inviano un filmato
                    della lezione di judo e non twittano al papi prima e dopo i
                    pasti, i papà moderni si preoccupano e vanno dallo psico-
                    logo perché non riescono ad avere un buon rapporto con
                    i loro figli.»
                                                             Giacomo Poretti
                                               di «Aldo, Giovanni e Giacomo»

                    «I bambini s’incontrano con grida e danze sulla spiag-
                    gia di mondi sconfinati, costruiscono castelli di sabbia e
                    giocano con conchiglie vuote, con foglie secche intessono
                    barchette e sorridendo le fanno galleggiare sulla superfi-
                    cie del mare, i bambini giocano sulla spiaggia dei mondi,
                    non sanno nuotare né sanno gettare le reti.»
                                                       Rabindranath Tagore

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Qualche domanda, per cominciare

                    Io non mi occupo di bambini. Sono una psicologa e psico-
                    terapeuta che lavora con gli adulti. Ma molti di loro sono
                    genitori. Gran parte delle donne e degli uomini che nel cor-
                    so degli anni si sono seduti davanti a me, per un qualche
                    cruccio, mi hanno parlato dei loro figli.
                       Ho avuto voglia di scrivere questo libro perché i bambi-
                    ni sono una presenza costante, concreta, poetica e insieme
                    etica della mia vita personale e professionale. Mi affascina-
                    no, da sempre. Mi sono simpatici, così, pregiudizialmente.
                    Le facce, le mani, i movimenti, quelle prime parole così ca-
                    riche, così dense. Quel ragionare sghembo, e insieme pre-
                    gno di fantasia, pensiero ed emozioni in equilibrio perfetto.
                    La freschezza ingenua ma sempre penetrante e in qualche
                    misura impeccabilmente logica delle loro domande e del-
                    le loro osservazioni. La forza titanica di chi deve bucare il
                    terreno più duro per germogliare e crescere, insieme alla
                    vulnerabilità di un fiocco di neve. Insomma, ogni bambi-
                    no è un modem per connettersi alla poesia e alla bellezza.
                    Alla libertà e alla speranza.
                       Parlerò di bambini, in questo libro, e non necessariamen-
                    te di figli. Da donna e da psicologa che lavora tanto con le
                    donne seguo con interesse il fenomeno sempre più vistoso
                    del rifiuto della maternità: contro il mito stanco e misogi-
                    no della maternità come unico destino di realizzazione po-

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6     Bambini e basta

                    sitiva di una donna affermo senza esitazione che dei figli si
                    può fare a meno. Che la vita può essere piena e ricca e ge-
                    nerosa anche se si sceglie di non averne. Così come di nor-
                    ma si può dire a proposito di un uomo. Allo stesso modo
                    se scrivo di bambini non è certo per riproporre un altro im-
                    broglio, quello di un amore parentale privo di ombre. La
                    relazione con i figli è anzi carica di ambivalenza: sarebbe
                    semmai utile che la riconoscessimo per poi poterla gover-
                    nare. Sono i bambini che mi appassionano, anche quelli de-
                    gli altri: nella loro veste di simboli in carne e ossa di risor-
                    se preziose per la vita di ciascuno e della comunità, risorse
                    come la fantasia, la tenerezza, la vulnerabilità.
                       Paradossalmente, proprio una vita dedicata al sostegno
                    degli affetti familiari mi ha fatto venire una gran voglia di
                    prescinderne, di sfuggire al mito familista del vincolo di
                    sangue, o sancito dall’istituzione, che tutto bonifica e nobi-
                    lita, per andare a cercare la qualità delle relazioni, la quali-
                    tà delle persone che quelle relazioni abitano. Rispetto in
                    partenza tutti i modi di fare famiglia, vale a dire ogni dif-
                    ferente maniera di prendersi cura e di assumersi responsa-
                    bilità affettive tra i pari e tra le generazioni. E mi interessa
                    in particolare come tutti noi, genitori e non, guardiamo ai
                    bambini: a un bene comune, a una presenza decisiva del-
                    la comunità umana.
                       Quando mi avvicino a una bambino mi viene da sorri-
                    dere, e non per rendermi simpatica, ma per una sorta di
                    gratitudine preventiva, perché so già che da quell’incontro
                    ricaverò piacere. So già, lo so per certo, che se saprò acco-
                    starmi senza intenzione, con rispetto, se saprò aspettare, a
                    mani aperte, senza voler accorciare le distanze, io riceverò
                    un gesto, un’espressione del viso, una parola. O addirittu-
                    ra un sorriso. Che mi stupirà.
                       Il mio mestiere, a volerlo far bene, obbliga a costanti e ri-
                    petute ricognizioni nella propria infanzia: forse anche per
                    questo non dimentico la bambina che sono stata. Non fac-
                    cio nessuna fatica a leggere gli eventi, a sentirli, come fossi

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Qualche domanda, per cominciare   7

                    quella bambina, o, almeno, una bambina. Come se la musica
                    dell’infanzia fosse una colonna sonora, un basso continuo
                    che non si è mai taciuto. Infine, io l’ho cresciuta una bambi-
                    na: ora è una donna, ma né lei né io abbiamo dimenticato.
                       Ho scritto questo libro perché sono preoccupata. Per i pic-
                    coli e dunque per i grandi, per me. Perché sono convinta
                    che noi abbiamo bisogno dei bambini almeno quanto loro
                    di noi. Mi sembra di vedere in giro tanti adulti infantilizza-
                    ti e tanti bambini adultizzati. O addirittura parentificati, di-
                    cono gli psicologi, che amano parlare difficile, per indicare
                    quando chiediamo loro di farci da mamma e da papà: di as-
                    sicurarci conferme, consolazione, sostegno. Adulti che abdi-
                    cano, cedono il passo; bambini che celebrano il loro crude-
                    le trionfo su un’infanzia perduta, che rischiano lo schianto.
                       Mi sembra che stia venendo meno la libertà e il diritto di
                    un bambino a essere piccolo: a non dover fare troppo, de-
                    cidere troppo, scegliere troppo, pensare troppo, a non do-
                    ver essere proprio lui, che è piccolo, a regolare i conti tra
                    i grandi, a non doverli gratificare e confermare, consolare
                    o difendere o premiare o punire o risarcire. Bambini tiran-
                    ni, bambini capolavori, bambini trofeo, bambini ostaggio,
                    bambini partner, bambini status symbol: bilingui, trilingui,
                    schermidori, danzatori, calciatori, acquerellisti, teatranti,
                    cantanti, fotomodelli… E bambini e basta?
                       Nella famiglia degli affetti (quella dei nostri tempi, dove
                    ci si unisce per amore, e non per «sistemarsi»), i bambini
                    sono diventati importanti, stanno al centro. Ed è un bene.
                    Ma al centro di cosa? Che cosa ci aspettiamo da loro? Che
                    cosa investiamo su di loro? Quali pensiamo siano i loro bi-
                    sogni per poter crescere bene? E noi, che adulti siamo? E
                    poi siamo adulti? E che cosa vuol dire invece che i bambi-
                    ni sono piccoli?
                       Sbagliamo con i figli per «troppo amore», si sente dire: ma
                    è la quantità il nostro problema o forse dovremmo interro-
                    garci sulla qualità dell’amore che sentiamo e che sappiamo
                    mettere in campo in questi nostri tempi narcisi? Sappiamo

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8       Bambini e basta

                    vederli i nostri bambini, o quel che vediamo guardandoli è
                    una qualche immagine più o meno gloriosa di noi stessi?
                       Nelle pagine che seguono vorrei provare a ragionare
                    tutt’intorno a queste domande. Non ambisco davvero a dare
                    risposte: nel mio lavoro, e vivendo, ho imparato che far cir-
                    colare e condividere delle buone domande può essere molto
                    utile perché è un’attitudine che avvia il motore della testa e
                    del cuore. Accendere pensieri e sentimenti che poi ciascuno
                    usa per sé – o scarta, se crede – per vivere un poco più con-
                    sapevolmente la propria vita di relazione: è quel che tutti i
                    giorni provo a mettere a segno nel mio lavoro di psicologa.
                    Da molti anni. No, nessuna modestia: nel perseguire questo
                    obiettivo credo anzi di essere molto, molto ambiziosa.
                       I miei colleghi dell’Istituto il Minotauro, gli psicologi più
                    bravi del mondo in tema di adolescenti e giovani adulti,
                    hanno anche una validissima équipe di specialisti che si
                    occupa dei bambini. Di recente (l’occasione era un ciclo di
                    incontri dal titolo «Affetti e relazioni nella società postmo-
                    derna – Nuovi modi di essere e di apparire») ho ascolta-
                    to la responsabile di quel gruppo di lavoro, la collega Cri-
                    stina Colli, che parlava proprio di bambini adultizzati. Le
                    ho chiesto di farmi avere il testo di quella bella relazione,
                    ecco come inizia:
                            Il bambino Giorgio, benché giudicato in famiglia un prodi-
                        gio di bellezza fisica, bontà e intelligenza, era temuto. C’erano
                        il padre, la madre, il nonno e la nonna paterni, le cameriere
                        Anna e Ida, e tutti vivevano sotto l’incubo dei suoi capricci,
                        ma nessuno avrebbe osato confessarlo, anzi era una conti-
                        nua gara a proclamare che un bambino caro, affettuoso, do-
                        cile come lui non esisteva al mondo. Ciascuno voleva pri-
                        meggiare in questa sfrenata adorazione.
                            E tremava al pensiero di poter involontariamente provo-
                        care il pianto del bambino: non tanto per le lacrime, in fon-
                        do trascurabili, quanto per le riprovazioni degli adulti…
                        (incipit del Bambino tiranno, racconto di Dino Buzzati nella
                        raccolta Il crollo della baliverna, 1954)

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Qualche domanda, per cominciare       9

                         Giorgio esce dalla penna magica di Buzzati, ed è il pro-
                      tagonista di un ritratto lucido ed impietoso, per certi versi
                      premonitore, di un piccolo principe-tiranno, che suscita in-
                      quietudine, e che assomiglia a parecchi bambini che incon-
                      triamo nelle descrizioni preoccupate di molti genitori che
                      da qualche tempo ci chiedono un aiuto psicologico. Spesso
                      sono bambini più piccoli di Giorgio, a volte hanno appena
                      tre quattro anni, ma i vissuti raccontati dagli adulti sono gli
                      stessi: ansia, sconcerto, paura.
                      …
                         Il «bambino adultizzato» di cui parliamo è un bambino
                      circondato di cure e attenzioni, amato ed investito affetti-
                      vamente da molti familiari adulti, avendo anche pochi fra-
                      telli- rivali; usufruisce di molte risorse, ha accesso precoce a
                      media e tecnologie; è indipendente, e molto autonomo, per
                      lo meno in alcune aree di competenza. In altre invece ci ap-
                      pare fragile e dipendente: viene per esempio protetto dalle
                      frustrazioni, non aiutato ad affrontarle; viaggia moltissimo
                      nel virtuale ma ha poca dimestichezza con l’esplorazione fi-
                      sica del territorio, se non seguito dall’occhio vigile di qual-
                      che adulto. È molto impegnato, quasi quanto i genitori, in
                      attività varie; come si dice, ha un’agenda settimanale dav-
                      vero impegnativa. Deve avere successo, e fruire di quanti
                      più stimoli possibile indipendentemente dalla sua sogget-
                      tiva capacità di assimilarli e di metabolizzare l’eccitazione
                      psichica, correlata a esperienze complesse.
                       «Indipendentemente dalla sua soggettiva capacità…»:
                    cioè dimenticando che i bambini sono piccoli, dimenti-
                    cando che i bambini, immaturi seppure molto intelligenti
                    e, come si dice, competenti, sentono ed elaborano le emo-
                    zioni e gli affetti in maniera diversa dalla nostra. L’adulto,
                    scrive Cristina Colli,
                         gli chiede di dare significato uguale alle esperienze emo-
                      tive, da un lato, e dall’altro gli domanda di reggere alla pari
                      la relazione. Questa sorta di equivoco, l’attribuzione al bam-
                      bino di bisogni, esigenze e competenze modellate su quel-
                      le degli adulti di riferimento, porta alla costruzione conse-

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10       Bambini e basta

                          guente di una sorta di mito del bambino «partner alla pari
                          degli adulti» … Il riconoscimento affettivo reciproco, basato
                          sulla diversità, si trasforma nel rispecchiamento narcisistico
                          in cui la sintonia affettiva funziona solo se ci si sente identi-
                          ci. Si rischia di perdere aspetti pilastro della relazione adul-
                          to-bambino, centrali per lo sviluppo futuro di una identità
                          positiva e matura: le differenze generazionali (non «io sono
                          adulto e tu sei un bambino», ma «tu bambino sei come un
                          adulto»); il confine nella relazione fra sé e l’altro (non «ti ri-
                          conosco come persona diversa e separata da me», ma «tu
                          sei come me», o «tu senti come me»).
                        È cambiato lo sguardo. È cambiata anzitutto la qualità
                     del nostro sguardo adulto sui bambini. Spiega la collega:
                     «Uno sguardo adulto che prende drammaticamente sul se-
                     rio, alla lettera, i messaggi del bambino, e che a volte legge
                     (e ritrasmette) risentimento, invidia, competizione, come
                     rispondendo a un antagonista-rivale emotivo, da cui ci si
                     sente messi in difficoltà».
                        Già. In questa nostra epoca tiranneggiata dall’immagi-
                     ne, dove tutto è visual, in questa nostra epoca di palazzi a
                     specchio, dove rimiriamo noi stessi lungo le avenue di cit-
                     tà tutte uguali, stiamo perdendo la vista. Tutti irrimediabi-
                     li narcisi – persi nella ricerca angosciosa di un riflesso che
                     ci assicuri che esistiamo, che ci siamo, e siamo belli e for-
                     ti e vincenti – abbiamo paura di vedere la vulnerabilità dei
                     bambini perché potrebbe ricordarci la nostra? Tutta colpa
                     del narcisismo, malattia della postmodernità? «Figli smar-
                     riti di genitori narcisi», avrebbe potuto chiamarsi questo li-
                     bro? Ipotesi suggestiva. Per chi avesse voglia di testare il
                     proprio tasso di narcisismo ecco i sintomi della personali-
                     tà narcisistica individuati dal dsm-IV:
                             Senso grandioso del sé, ovvero senso esagerato della pro-
                          pria importanza.
                             È occupato/a da fantasie di successo illimitato, di pote-
                          re, effetto sugli altri, bellezza, o di amore ideale.
                             Crede di essere «speciale» e unico/a, e di poter essere

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Qualche domanda, per cominciare        11

                       capito/a solo da persone speciali; o è eccessivamente preoc-
                       cupato di ricercare vicinanza/essere associato a persone di
                       status (in qualche ambito) molto alto.
                           Desidera o richiede un’ammirazione eccessiva rispetto al
                       normale o al suo reale valore.
                           Ha un forte sentimento di propri diritti e facoltà, è irreali-
                       sticamente convinto che altri individui/situazioni debbano
                       soddisfare le sue aspettative.
                           Approfitta degli altri per raggiungere i propri scopi e non
                       ne prova rimorso.
                           È carente di empatia: non si accorge (non riconosce) o
                       non dà importanza ai sentimenti altrui, non desidera iden-
                       tificarsi con i loro desideri.
                           Prova spesso invidia ed è generalmente convinto che al-
                       tri provino invidia per lui/lei.
                           Modalità affettiva di tipo predatorio (rapporti di forza
                       sbilanciati, con scarso impegno personale, desidera riceve-
                       re più di quello che dà, che altri siano affettivamente coin-
                       volti più di quanto lui/lei lo è).
                        A questa sorta di bigino sulla personalità narcisistica devo
                     aggiungere un richiamo: alla proiezione. Un meccanismo
                     psicologico che non ho bisogno di spiegare: provate a rileg-
                     gere i punti qua sopra immaginandone i contenuti riferiti a
                     un figlio. Crede (che il suo bambino) sia speciale… Deside-
                     ra o richiede (per il suo bambino) un’ammirazione ecces-
                     siva… E via così: facile capire che cos’è la proiezione, no?
                        Ipotesi davvero suggestiva quella che ci riconduce alla
                     piega narcisistica che ha assunto il nostro sguardo sul mon-
                     do e sugli altri, figli compresi; chiave di lettura probabil-
                     mente decisiva. Eppure, malgrado il mestiere che faccio,
                     incasellare i fenomeni nelle categorie della psicopatologia
                     non mi ha mai acquietato.
                        Con il libro che state sfogliando, ancora una volta – chi
                     mi ha già letto sa che riesco a pensare solo ripercorrendo
                     l’emozione di un incontro – vorrei riattraversare insieme
                     molte storie di grandi e di piccoli (spesso a parti inverti-

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12    Bambini e basta

                     te): storie che mi hanno coinvolto molto e che sconteran-
                     no per questo il consueto alto tasso di passionalità. Non
                     ci provo nemmeno ad assumere un piglio scientifico: io
                     lavoro con i sentimenti e cerco di avvicinare quelli de-
                     gli altri sulla scorta dei miei. Nella mia pratica clinica il
                     pensiero interviene eccome, tiene a bada, prova a mette-
                     re ordine, va a cercare tesori in profondità o vie d’uscita
                     verso l’alto dai grumi di sofferenza, dall’impasse dei con-
                     flitti: ma se non fiorisce l’empatia, anche solo la promes-
                     sa di un contatto, di un incontro, nulla di buono s’avvia.
                     Insomma, niente tabelle, niente grafici, niente note a piè
                     di pagina, poche citazioni e neppure il tentativo di appa-
                     rire obiettiva. In questo libro ci sarò anch’io. E certo non
                     mi chiamerò fuori quando si tratterà di sottoporre a dura
                     critica alcuni comportamenti dei genitori, anzi: le sviste
                     e le scivolate di cui è trapunto il mio curriculum di ma-
                     dre sono ciò che mi consente, ben più dei miei presun-
                     ti saperi, di strapazzare mamme e papà che hanno l’av-
                     ventura di rivolgersi a me per una qualche forma d’aiuto.
                     Del resto, c’è qualcuno di più antipatico di una psicolo-
                     ga che si atteggi a Supergenitore perfetto solo perché ha
                     letto tanti libri?
                        Per una buona parte del mio tempo professionale io mi
                     occupo di separazione tra genitori. Di conflitti. Sono anche
                     una mediatrice familiare, aiuto cioè mamme e papà, alle
                     prese con le turbolenze delle loro crisi, a rimanere genito-
                     ri, a pensare insieme un progetto (cercare intese, piccole e
                     grandi) che consenta ai loro figli di crescere nell’amore e
                     nel rispetto di entrambi, a dispetto della rottura del legame
                     di coppia. Molte delle storie che racconterò e dei pensieri
                     che proverò a condividere scontano quel filtro, la separa-
                     zione. Molte delle narrazioni che ascolto quotidianamen-
                     te, sulle difficoltà di madri e padri con i loro figli, stanno
                     dentro altre narrazioni: le trame del dolore, della rabbia,
                     delle paure, del conflitto tra una donna e un uomo che
                     non sono o non saranno più moglie e marito, o compagni

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Qualche domanda, per cominciare      13

                     nella vita. Una condizione, si potrebbe credere, che distor-
                     ce il modo in cui gli adulti fanno la loro parte di genitori.
                        Si potrebbe pensare che i genitori separati o in separa-
                     zione «non fanno testo» perché la loro competenza genito-
                     riale proprio per questo è in crisi. O, addirittura, affermare
                     che loro «non fanno testo» perché se fossero davvero buoni
                     genitori non si separerebbero (sì, purtroppo qualcuno an-
                     cora lo dice). Si potrebbe pensarla così. Io, invece, dopo più
                     di vent’anni di incontri quotidiani con mamme e papà in
                     separazione, credo che la vicenda della crisi e della rottura
                     non sia la causa dell’abdicazione adulta cui assisto, del ro-
                     vesciamento delle parti che troppo spesso registro. Penso
                     che la turbolenza – il sommovimento dentro le relazioni e
                     dentro le persone, generato dalla crisi radicale del comu-
                     ne progetto di vita – semmai polarizzi, acuisca, spinga fino
                     alla patologia squilibri che c’erano già. Che ci sono anche
                     altrove. Nella separazione, il tetto del «Mulino bianco» si
                     è scoperchiato, ma nel mulino accanto, apparentemente
                     candido e intatto, le cose non vanno molto diversamente.
                        Questo dunque non è un libro sui figli dei separati. È un
                     libro per tutte le bambine e tutti i bambini che hanno bi-
                     sogno che noi siamo grandi. Per tutti noi, donne e uomi-
                     ni, genitori e non solo, che abbiamo bisogno che i bambi-
                     ni siano piccoli.

                        ps: Un ringraziamento anticipato a Claudia De Lillo. Mol-
                     ti di voi di certo la conoscono come Elasti. Tiene un blog
                     popolarissimo che si chiama www.nonsolomamma.com
                     dove si presenta così:
                          sono elastigirl ma per vivere faccio la giornalista. ho tre
                       hobbit, di sesso maschile, uno grande di nove anni, uno di
                       mezzo di sei e uno piccolo di due anni o poco più, e un ma-
                       rito part-time perché buona parte del suo tempo sta a lon-
                       dra dove lavora (e dove probabilmente ha una vita paral-
                       lela con un’altra moglie e altri figli...). viviamo a wisteria
                       lane che poi è il posto dove abitano le casalinghe dispera-

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                          te, dove si incontrano l’idraulico figo, la vicina sciantosa e
                          stronza, il padre psicopatico, il figlio disturbato, l’adolescen-
                          te inquieta e via così.
                       Una lettura per me ormai irrinunciabile: un mix di tene-
                     rezza e ironia a dir poco geniale. Un modo di raccontare i
                     suoi bambini (e il loro papà, detto anche Mister Incredible)
                     che vorrei fosse il mio. Claudia mi ha regalato una selezione
                     dei suoi post che troverete qua e là a chiosa dei capitoli. E
                     già so che dopo il primo abbandonerete questo libro per at-
                     taccarvi al computer. Ubi maior…

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