26 LUGLIO 2018 - UFFICIO STAMPA - Provincia Regionale di Ragusa

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UFFICIO STAMPA

26 LUGLIO 2018
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Libero Consorzio Comunale di Ragusa
                                     Ufficio Stampa

Comunicato n. 081 del 25/07/2018

OGGETTO: chiusura temporanea della strada provinciale n.40 per urgenti
lavori ferroviari.

La società Rfi ha comunicato al Libero Consorzio Comunale di Ragusa la necessità
urgente di eseguire il rinnovo del binario di corsa, con il relativo risanamento della
massicciata ferroviaria, nella tratta Scicli - Sampieri in corrispondenza del passaggio
a livello ad intersezione tra la sede ferroviaria e la strada provinciale.
Pertanto per l’esecuzione di questi lavori è chiusa al transito, con effetto immediato,
la strada provinciale n.40 (Ispica-Pachino), nel tratto dal km 7+700 al km 7+400 sino
alle ore 20:00 del 3 agosto 2018.

(antonino recca)
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ATTUALITA                                                                                                        26/7/2018

Intervista

Nello Dipasquale "Io dem contro i vitalizi se il
partito ci sta mi segua"
MANUELA MODICA

«Sono d’accordo: i vitalizi vanno aboliti». Così Nello Dipasquale si schiera sulla proposta dei cinquestelle smarcandosi
dalla cautela del suo capogruppo all’Ars, Giuseppe Lupo («Non è una priorità»). Unico rappresentante del Pd nel
Consiglio di presidenza, l’ex sindaco di Ragusa è però fedele alla linea: «Non sono lì a titolo personale, per questo ho
chiesto a Lupo di convocare il gruppo: voterò quel che decide il Pd».
Ma è favorevole ai tagli.
«Sia chiaro che i vitalizi non esistono più. La battaglia è stata vinta anzitutto dai partiti tradizionali: in Sicilia gli assegni
sono stati aboliti prima ancora che in Parlamento, nel 2012, quando Pd e Forza Italia votarono per l’abolizione».
Aboliti per i deputati dal 2012 in poi, ma restano per chi è stato deputato fino ad allora.
«I cinquestelle adesso si intestano questa battaglia, non potendosi intestare quella principale perché è già stata realizzata
dai partiti.
Vogliamo dare meno importanza all’abolizione dal 2011 in poi? Io me lo sono tolto, figuriamoci se posso essere a
favore…».
Il suo capogruppo però non ritiene il taglio prioritario…
«Sono contro il vitalizio da parecchio tempo, e mai nessuno del mio partito mi ha contestato. Sono stato sindaco di
Ragusa due volte e prima che esistessero i grillini mi sono tagliato l’indennizzo e tolto due auto blu. Vengo da una
formazione interna alla Democrazia cristiana che mi ha insegnato la non aggressione della cosa pubblica»
Una lezione disattesa dai democristiani…
«Non si può generalizzare: c’erano democristiani come La Pira, per fare solo un esempio. Ho fatto dieci anni di scuola
politica, sono stato due volte sindaco, due volte parlamentare, presidente del Consiglio provinciale, vicesindaco: mai un
peculato o un abuso d’ufficio. Dai 5Stelle non ho niente da imparare».
Da sindaco di Ragusa però ha ceduto il passo ai grillini.
«Ragusa è stata la prima città siciliana conquistata dal M5S e anche la prima persa: mantengo io il primato della
rielezione a sindaco».
Però voterebbe la loro proposta…
«Rappresento il Pd e il mio voto sarà espressione di quel gruppo».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
ATTUALITA                                                                                                     26/7/2018

L’inchiesta a Caltanissetta

Montante, la rete delle talpe eccellenti
Nell’agenda del colonnello D’Agata trovato un appunto importante. La difesa
dell’imprenditore: " Cade l’accusa di mafia"

SALVO PALAZZOLO

Un appunto, nell’agenda del colonnello Giuseppe D’Agata, confermerebbe che c’è stata una grande fuga di notizie
attorno all’indagine su Antonello Montante. La procura di Caltanissetta ritiene di aver trovato la prova che l’ex capo di
Sicindustria gestiva in modo spregiudicato una rete di "tape" istituzionali. Ci sono nomi eccellenti nell’avviso di chiusura
delle indagini firmato dal procuratore aggiunto Gabriele Paci e dai sostituti Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso: l’ex
presidente del Senato Renato Schifani, il docente palermitano di diritto tributario Angelo Cuva, l’ex capo del servizio
segreto civile Arturo Esposito, il capo reparto dell’Aisi Andrea Cavacece, il questore di Vibo Valentia Andrea Grassi, ex
capo della prima divisione del servizio centrale operativo della polizia. E poi l’ex ufficiale dei servizi segreti D’Agata, già
capo centro del Dia di Palermo. Tutti finiti nel registro degli indagati per rivelazione di notizie riservate. D’Agata anche
per corruzione. Schifani e Cuva pure per favoreggiamento. È il primo capitolo dell’atto d’accusa della procura, che
nell’imputazione di associazione a delinquere contestata a Montante ipotizza un’attività di spionaggio, per controllare le
indagini della magistratura e della squadra mobile nissena. Il primo capitolo contenuto nell’avviso di chiusura delle
indagini che verrà notificato agli indagati.
Nonostante la gravità delle contestazioni, la difesa del leader di Confindustria trova comunque motivi per esultare. «
Dopo una lunga indagine, non viene mossa alcuna accusa che abbia riferimento al concorso esterno in associazione
mafiosa - dicono gli avvocati Nino Caleca e Giuseppe Panepinto - L’iniziale ipotesi non ha trovato alcuna conferma » .
Sembra andare verso l’archiviazione l’accusa iniziale di mafia per Montante, basata sulle dichiarazioni di alcuni
collaboratori di giustizia: la squadra mobile di Caltanissetta ha ripercorso le parole degli ex boss nisseni che hanno
parlato del « doppio gioco » del leader di Sicindustria, paladino della legalità e imprenditore vicino ai clan, sono emersi
sospetti e altri misteri, ma non tutti i riscontri necessari per un processo. La difesa insiste: «Montante non ha mai fatto
alcun doppio gioco. E i rapporti con gli esponenti delle forze dell’ordine li chiariremo nel corso del procedimento che si
aprirà presto » . Però, intanto, l’ex responsabile legalità di Confindustria resta al reparto detenuti dell’Ospedale Civico,
dove è stato trasferito nei giorni scorsi per accertamenti. I legali chiedevano la scarcerazione, per « l’incompatibilità
delle condizioni di salute con la detenzione in carcere » , la procura si è opposta, il gip Maria Carmela Giannazzo ha
disposto nuovi esami medici.
Ora, le attenzioni sono tutte per la prima tranche dell’inchiesta. Nella ricostruzione della procura e della squadra mobile,
sarebbe stato Grassi a far filtrare per primo la notizia dell’indagine su Montante (dopo averla appresa, per motivi
d’ufficio, dai colleghi di Caltanissetta). Grassi avrebbe poi parlato con Cavacece, e quest’ultimo con Esposito. Da
Esposito la notizia sarebbe arrivata a Schifani, dunque a Cuva. Grassi e Cavacece hanno respinto tutte le accuse,
ribadendo la correttezza del loro operato. Gli altri potrebbero chiedere di essere sentiti dopo l’avviso di conclusione
delle indagini, hanno 20 giorni di tempo per prospettare la propria difesa, poi la procura chiederà il rinvio a giudizio.
Ha il ritmo della spy-story l’inchiesta che prova a svelare la centrale di spionaggio che sarebbe stata messa in campo da
uno dei simboli dell’antimafia. Nelle scorse settimane, la procura di Caltanissetta ha convocato come testimone uno dei
vice dell’Aisi: Valerio Blengini è stato chiamato in causa dall’ex questore della città, Bruno Megale; in una relazione di
servizio ha raccontato che il suo vecchio amico passato ai servizi segreti gli avrebbe chiesto dell’inchiesta Montante,
all’epoca riservatissima. Blengini ha offerto una sua spiegazione, anche questo verbale verrà reso noto con il deposito
degli atti dopo l’avviso di chiusura delle indagini.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
L’atto d’accusa Antonello Montante, ex presidente di Sicindustria, al palazzo di giustizia di Caltanissetta con i poliziotti
della squadra mobile
Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA   26 LUGLIO 2018

                               LA SICILIA
Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA   26 LUGLIO 2018

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CRONACA                                                                                                    26/7/2018

La morte del manager

Marchionne, l’uomo che viveva di lavoro
L’azienda era la sua passione, i suoi ritmi a volte disumani. Aveva quella voglia di rivalsa e
affermazione che nasce dalla fatica e dall’emigrazione. Apprezzava Obama ma era certo
dell’elezione di Trump: "Chi non lo capisce, non capisce l’americano medio" La sua felicità
quando stava ai box Ferrari

Mario Calabresi

Quando annunciò che nel gennaio del 2019 avrebbe lasciato la guida di Fca, cercai di immaginarmi Sergio Marchionne
che non corre più da un continente all’altro con una bottiglietta di the in mano, cercai di visualizzarlo tranquillo, che va
in vacanza o si gode la vita. Non ci riuscii e, nonostante avesse deciso di restare alla guida della Ferrari e avesse
“messo su” casa di fronte al lago, appena fuori Detroit, credo che nemmeno lui riuscisse a immaginarsi “pensionato”.
La vita di Sergio Marchionne era il lavoro, viveva di quello e per quello, con un’intensità disumana.
continua alle pagine 2 e 3 ?
Sergio Marchionne aveva 66 anni
pagine 3, 4 e 7
STEFANO DE LUIGI / VII/ REDUX
? segue dalla prima pagina
Non si tirava mai indietro, ogni problema, anche quelli che avrebbe potuto tranquillamente delegare, era una sfida da
accogliere e da affrontare.
Aveva fame, quella voglia di rivalsa e di affermazione che nasce dalla fatica e dall’emigrazione. Per farmi capire cosa
significava per lui la conquista della Chrysler non mi parlò di andamenti azionari o milioni di auto prodotte ma della sua
adolescenza: « Sono arrivato in Canada dall’Abruzzo che avevo 14 anni, parlavo l’inglese malissimo, con un
marcatissimo accento italiano. Ci ho messo più di sei anni a perderlo. Sei anni persi con le ragazze. L’imbarazzo di
aprire la bocca mi paralizzava». Ogni giorno per oltre mezzo secolo ha voluto dimostrare che non si sarebbe più
lasciato paralizzare o mettere in un angolo da quelli più grossi di lui, anche per questo prese tre lauree. Lo faceva con
una tale caparbietà che spesso sconfinava nella sfrontatezza o nella battuta sarcastica. Il Golia da battere nell’ultimo
decennio sono state le case automobilistiche tedesche e le pubblicità del Superbowl erano ogni anno il suo manifesto.
Le curava in ogni dettaglio, diventò matto per avere Eminem, poi Clint Eastwood e infine Bob Dylan, il suo cruccio era
non aver convinto Bruce Springsteen. Lo spot che amava di più era quello con cui lanciò la Maserati in America nel
2014. C’era una bambina afroamericana che raccontava una storia di rivincita e le parole erano la sua biografia: «
Siamo circondati da giganti, abbiamo dovuto imparare ad affrontarli e a batterli, siamo piccoli ma veloci e sappiamo
che essere svegli è più importante che essere il ragazzo più grosso del quartiere».
Nella sua filosofia comandare però non significava solo decidere ma essere il capobranco che non molla mai la presa e
lavora più di tutti gli altri. La fatica era la sua compagna di vita e la cartina di tornasole con cui giudicava le biografie di
chi incontrava. I ritmi a cui costringeva chi lavorava con lui, per molti sono stati insostenibili. Non ne faceva mistero e
prendeva in giro quei manager che a Torino sparivano all’ora di pranzo per una partita a tennis: « Si mettono la
protezione cinquanta per non farsi vedere abbronzati » . Qualche estate fa apparve abbronzato anche lui, raccontò di
essere stato finalmente in vacanza: « Un fine settimana a Boston, per vedere da turista l’università di Harvard e la
Kennedy Library. Poi mi sono messo a leggere un libro su una panchina al sole e mi sono scottato » . Sarebbe rimasta
l’unica vacanza in dieci anni.
Era un uomo del West, poche raffinatezze, viaggiava con uno zainetto o molto spesso semplicemente due buste di
plastica, una per le sigarette e il the freddo, l’altra con i caricatori dei cellulari. Ne aveva tre: uno americano, uno
svizzero e uno italiano. A seconda degli appuntamenti o degli orari accendeva il telefono del fuso giusto. Dal sacchetto
dei telefoni faceva capolino una statuetta di Ganesh, la divinità indiana con la testa di elefante, era il suo portafortuna.
Era fissato con il metodo di lavoro: mai interrompere una riunione finché non era conclusa, concentrarsi su una cosa
alla volta e chiuderla. E non distrarsi con i telefoni. Mettere un finto appuntamento in agenda ogni due ore, per aver uno
spazio dove risolvere i problemi improvvisi. E se non succede niente? «Ho un’occasione per riordinare la musica».
Migliaia di brani che teneva sul Mac, da Keith Jarrett alla Callas.
L’amore per il metodo lo legava a John Elkann, spesso parlavano in inglese tra loro, per fare più in fretta a capirsi.
Marchionne era fissato con la velocità: «La lingua italiana è troppo complessa e lenta, per un concetto che in inglese si
spiega in due parole, in italiano ne occorrono almeno sei». Avevano un rapporto fortissimo, condividevano la
comprensione per l’America, l’amore per la Ferrari e per le cose fatte con cura. Anche l’allergia per i riti della politica
italiana, che per Marchionne erano più soffocanti dell’odiata cravatta.
Sulla sua incapacità di mediare, di essere rotondo, molto è stato detto, ma lui rifiutava l’etichetta: «Ho riportato in Italia
una produzione che era stata delocalizzata in Polonia, quella della Cinquecento, e trovano il modo per contestarmi. Ho
rilanciato Pomigliano, una fabbrica del sud Italia, un luogo dove c’erano i cani randagi in giro per lo stabilimento, dove
trovavi i loro peli sulla carrozzeria dopo la verniciatura».
Gli piacque Renzi, perché gli sembrava diverso, più dinamico, non ingessato, con un modo di parlare diretto. Pensò
che avrebbe cambiato davvero l’Italia. Quando lo vide in difficoltà ragionò che aveva sbagliato a non scegliere i
migliori, ma a circondarsi di una cerchia stretta di amici fiorentini.
Sono stato direttore per quasi sette anni della Stampa, allora di proprietà della Fiat. Marchionne mi chiamò una sola
volta per lamentarsi del giornale, per la precisione di un titolo sul sito, in cui si diceva che Franco Fiorito detto "Er
Batman" si era comprato una jeep con i soldi pubblici. «Non ha comprato una Jeep ma un fuoristrada, non si può usare
il termine come fosse generico perché è un marchio, soprattutto perché non facciamo automobili per politici ladri».
All’inizio del 2010, durante il governo Berlusconi, mi propose un’intervista per dire che Fiat non aveva alcun interesse a
chiedere incentivi per la rottamazione. Alla fine del colloquio si alzò e disse soddisfatto: «Con questa intervista ho
comprato la mia e la tua libertà».
Dell’editoria se ne è sempre occupato John Elkann, ma una volta l’anno chiedeva i conti e non sopportava il rosso,
però di fronte a un piano serio di recupero non fece problemi ad investire. «Se perdete e vi dobbiamo sovvenzionare
ogni anno allora finirete per essere l’Illustrato Fiat, ma a me la cosa non interessa: state in piedi da soli e questa sarà la
migliore garanzia della libertà del giornale». All’Italia contestava anche l’incapacità di scommettere sui giovani, di dare
spazio alle nuove generazioni, anche per questo rimase folgorato quando lo invitarono al Meeting di Rimini: «Ho visto
l’energia dei ragazzi in un Paese che li soffoca».
Diverso era il rapporto con la politica americana. Amò molto Obama, di cui lodava la capacità di visione, di aver salvato
Detroit, l’auto e un pezzo fondamentale della storia dell’industria americana. Di aver aperto la porta agli italiani. Il
rapporto tra i due era fortissimo. Questo non gli impedì una certa familiarità anche con Donald Trump: « Chi non lo
capisce non capisce l’americano medio, che non è quello che vive a New York o a San Francisco, ma che sta nel
mezzo. Quello che è orgoglioso di farti vedere quanto è grande il suo televisore o ti trascina in garage prima del
barbecue per mostrarti la macchina nuova. Trump è esattamente quella cosa lì. Quando sono entrato alla Casa Bianca,
mi ha portato a fare il giro delle stanze per farmi vedere tutto quello che aveva cambiato, le sue aggiunte, dalle tv alle
tende dorate. Poi mi ha dato una gran pacca sulla schiena. La rappresentazione perfetta dell’americano medio » . Era
convinto che avesse vinto per questo: «Hillary aveva l’accordo con i leader sindacali, ma anche nelle nostre fabbriche
gli operai hanno votato per Trump. Erano storici elettori democratici ma avevano trovato uno che per la prima volta
parlava la loro lingua e diceva quello che volevano sentirsi dire: nessuno porterà mai più il lavoro fuori dai confini
dell’America».
La prima volta che l’ho incontrato, nella hall di un albergo su Central Park a New York, quando stavo per essere
nominato direttore della Stampa, non lo riconobbi, aveva una sciarpona blu che gli copriva anche il naso e continuava a
tossire. Non mi chiese nulla di politica e mi parlò della sua infanzia, dell’idealizzazione dell’Italia e delle nostalgie che
aveva di suo padre, di sua madre e degli studi di filosofia. Ma soprattutto della sorella Luciana che amava tantissimo,
morta a 32 anni di cancro. Mi raccontò di quando accompagnò per l’ultima volta il figlio di lei all’ospedale per salutare
la mamma. Si commosse e smise di parlare per un po’, poi cambiò discorso e ordinò una bottiglia di vino e due
bistecche.
Era felice ai box della Ferrari con le cuffie in testa, quando cercava di azzeccare al millesimo i tempi dei giri di prova.
Aveva cercato di convincersi che quella sarebbe stata la sua nuova vita e ci era quasi riuscito.
Lo raggiunsi al telefono la sera del 30 aprile 2009, mentre stava facendo scalo ad Halifax, in Nuova Scozia prima di
attraversare l’Atlantico. L’aereo faceva rifornimento e lui comprava le sigarette. Continuava a tossire, ma fumava
comunque. Era appena stato firmato l’accordo tra Fiat e Chrysler. « Dovrò dividere il mio tempo e la mia vita tra
l’Europa e gli Stati Uniti, ma certo dovrò alleggerire certe cose che facevo perché ho raggiunto i miei limiti fisici e di
più non posso chiedere a me stesso. Adesso non vedo l’ora di risalire sull’aereo, è piccolo e scomodo ma devo dormire
a tutti i costi. Dormire sarà il mio modo di festeggiare».
ECONOMIA                                                                                                   26/7/2018

Il caso

Toninelli azzera Fs e licenzia Mazzoncini addio
fusione con Anas
Decapitato via Facebook l’intero cda. Entro luglio il nuovo board Presidenza alla Lega, i
5Stelle chiedono più spazio a treni locali

Lucio Cillis,

Roma
Toninelli licenzia Mazzoncini su Facebook. E posta la foto mentre firma, da ministro delle Infrastrutture e Trasporti, la
direttiva che decapita il cda di Fs in uno dei casi di spoils system più aggressivi mai visti finora. Una lettera di poche
righe, inviata al presidente, all’amministratore delegato e ai consiglieri di Ferrovie dello Stato con cui li avvisa
personalmente che «ai sensi dell’articolo 6 della Legge 15 luglio 2002, n. 145, si procede alla revoca dell’incarico di
componente del cda». Grazie alla norma introdotta dal centrodestra che permette di revocare tutte le nomine fatta da un
governo nei sei mesi precedenti la sua scadenza «si chiede di provvedere alla convocazione d’urgenza dell’assemblea
dei soci da tenersi entro il 31 luglio prossimo».
Danilo Toninelli non ha digerito il mancato passo indietro chiesto nelle settimane scorse a Renato Mazzoncini. Dirigente
nato nel settore, bresciano, messo alla guida di Ferrovie da Matteo Renzi a fine 2015 e riconfermato dall’esecutivo
Gentiloni in zona Cesarini - e cioè quasi allo scadere del mandato per altri tre anni con la certezza, ma per molti la
scusa, che la fusione Fs-Anas avesse bisogno di continuità . L’ad era pronto a vendere cara la pelle, a svelare quanto
fosse controproducente separare (di nuovo) i corpi di Fs e Anas. Che in realtà il suo progetto si fondava sui cinque
pilastri inseriti nel nuovo piano industriale con al centro i pendolari.
Dal ministero che ha sede in piazzale di Porta Pia, fanno sapere invece, che l’azzeramento del cda è un atto obbligato
legato a questioni « etiche » . Il riferimento è all’inchiesta che ha coinvolto il manager, rinviato a giudizio per truffa
nell’ambito dell’inchiesta Umbria Mobilità.
Poi ci sono i temi industriali, la necessità di dare «più spazio a pendolari e treni regionali, meno all’alta velocità » . E
non mancano nella vicenda risvolti squisitamente politici, dettati dal rapporto difficile tra Trenitalia e Trenord. La
compagnia ferroviaria è un presidio della Lega. E la Lega adesso mira al vertice di Fs: c’è il varesino Giuseppe Bonomi,
già presidente di Sea, gli aeroporti milanesi e oggi a capo di Arexpo o Maurizio Gentile, l’attuale ad della società di rete
del gruppo Rfi.
Non basta: su un esterrefatto Mazzoncini che non si aspettava questo fuoco di fila, "spara" pure il sottosegretario alle
Infrastrutture ( leghista) Edoardo Rixi che spiega così la sua cacciata: «Serve un’accelerata al sistema ferroviario delle
merci » . Adesso però Toninelli deve studiare attentamente il dossier Fs-Anas che nei piani del precedente governo
avrebbe consentito risparmi e sinergie, creando un campione europeo delle infrastrutture potenzialmente in grado di
mettere sul piatto investimenti per oltre 100 miliardi di euro in un decennio.
Il " campione" da oggi si ferma. Anche se al momento non è ancora certo il percorso che verrà seguito dopo il
dietrofront. Probabilmente, visto che una legge ha dato il là alla fusione, occorrerà una nuova norma. Ma c’è un ultimo
problema da affrontare: quello del rientro forzato di Anas all’interno del perimetro della Pa e quindi nei conti pubblici. Il
presidente di Anas Armani, non si mette di traverso, visti i tempi, ma avverte dei pericoli di un ritorno forzato nella
pancia dello Stato. Una presenza ingombrante motivo stesso della trasformazione di Anas in una società autonoma -
anche se in seno al gruppo Ferrovie - capace di investire e cercare finanziamenti sul mercato.
Adesso inizia il conto alla rovescia per il nuovo cda che dovrebbe materializzarsi entro luglio. Matteo Salvini,
ufficialmente non partecipa alla partita: «Non mi occupo del dossier » , giura. Forse solo per depistare e spostare
l’attenzione dal nome di Bonomi.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Ho appena firmato la decadenza dell’intero cda di Fs per chiudere con il passato.
Pensiamo che non esista attività industriale che non abbia un risvolto etico
Al governo
Danilo Toninelli, ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti
RICCARDO ANTIMIANI/ ANSA
ECONOMIA                                                                                                      26/7/2018

Il retroscena

Tria e i problemi di comunicazione con Di Maio
Dopo le tensioni sulle nomine è braccio di ferro sul reddito di cittadinanza: il vicepremier lo
vuole per gennaio, il ministro frena

tommaso ciriaco,

roma
A volte c’è un problema di « incomunicabilità » con i due vicepremier, confida Giovanni Tria agli emissari cinquestelle
che gli fanno la corte. O quantomeno « di comunicazione » . Perché a lui guardano tutti, nel governo e soprattutto nel
Movimento. Perché è lui che dovrà autorizzare la misura da cui dipende il destino di Luigi Di Maio: il reddito di
cittadinanza. E siccome il responsabile del Tesoro ricorda sempre ai suoi interlocutori che no, « soldi ce ne sono pochi
e bisogna muoversi con serietà», allora i grillini non smettono di agitarsi. Lo mettono sempre più spesso nel mirino. E
guardano già a settembre, alla legge di stabilità. Solo allora si capirà se la volontà del leader del Movimento sarà
esaudita, oppure se l’assedio al ministro dell’Economia destabilizzerà l’intero esecutivo. «L’ho spiegato a Tria - ripete
Di Maio ai grillini più fidati - entro gennaio dobbiamo poter dire all’Italia che c’è un reddito di cittadinanza. L’alternativa
è che non c’è più un governo».
Che battaglia, quella che attende il ministro. Eppure Tria, forte del sostegno incondizionato del Quirinale, della stima
della fazione più responsabile della Lega e dell’imprenditoria che conta, mantiene la calma. E guarda avanti. «Reddito di
cittadinanza e flat tax, l’obiettivo mi è chiaro - ha confidato giorni fa durante uno dei tanti incontri con Conte - Ma non
dobbiamo essere precipitosi per inseguire la propaganda. Io ho un obbligo: tranquillizzare i mercati e tenere al riparo
l’Italia dai rischi».
Con Di Maio non si prendono. Non è uno scoglio umano, ma quasi un problema pre- politico. Il leader pensa al sogno
di Casaleggio e a volte lo condensa così: « Non è che vanno trovati i soldi per fare il reddito di cittadinanza. No, noi il
reddito lo facciamo e basta, i soldi si trovano intervenendo su tutto il resto » . Una parola, se Tria continua ad
assicurare, come fatto ieri in Aula alla Camera sollecitato dal dem Marattin, che il tetto del 3% non si sfora. Certo, ha
spiegato, il governo ha avviato un dialogo con la Commissione Ue con « l’intento di rivedere l’obiettivo di deficit
programmatico » . Ma poi ha aggiunto: «Non si supera il 3% del Pil».
Sulle nomine c’è stato un assaggio del braccio di ferro. Sui tempi della riforma delle Bcc pure. E ancora: ieri in
commissione bilancio la maggioranza ha votato un parere sul dl dignità che ammette che ci sarà un esborso sul sussidio
di disoccupazione, quindi che l’occupazione diminuirà. Ma questo è nulla, se si considerano i nuvoloni all’orizzonte. Il
Tesoro, ad esempio, è convinto che entro l’anno si potrà iniziare a rivedere seriamente la Fornero, ma non garantisce
nulla sul reddito di cittadinanza. Di Maio, che già voleva un segnale entro ottobre, adesso pone come confine estremo
della sua pazienza gennaio del 2019. E attende, speranzoso, che la commissione di tecnici che all’Economia lavora
proprio a questa misura, per valutarne l’impatto, dia il suo via libera.
Alla fine Di Maio ha una necessità politica che Tria deve ascoltare sempre più spesso: contrastare lo strapotere
mediatico di Salvini per evitare di soccombere alle Europee. E quindi sempre alla solita minaccia si torna, in vista di
settembre, quella di trovare un sostituto di Tria per piegare le resistenze del Tesoro. Pressioni, ma soprattutto
propaganda. Perché senza il ministro, ai mercati resterebbe solo un salto nel buio gialloverde.
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Convivenza difficile
Quella tra il ministro Tria, nella foto seduto assieme al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, e i due vicepremier
Luigi Di Maio e Matteo Salvini
POLITICA                                                                                                     26/7/2018

La lottizzazione di viale Mazzini

La Lega contro Salini dg Rai Tg1, Di Maio
vede Sangiuliano
Idea Minoli come presidente di garanzia. La Vigilanza: è l’ad che nomina i direttori

tommaso ciriaco,

roma
Adesso la Lega alza il prezzo. E pure di parecchio. Fa sapere che Fabrizio Salini, il candidato in cima ai sogni di Luigi
Di Maio, non può guidare la Rai. È inopportuno, sostengono, perché detiene il 5% delle quote della " Stand by me", la
società di produzione fondata da Simona Ercolani, che avrebbe tra l’altro contratti in essere con viale Mazzini. E poi,
veicolano dal Carroccio, è troppo renziano. Gli imputano il rapporto professionale con Ercolani, appunto, che in
passato fu regista di alcune edizioni della Leopolda. La verità è che la partita si gioca sul dg, ma anche sul resto. E il
Carroccio chiede e pretende che la Rai non finisca in mano ai cinquestelle, a partire dal Tg1.
Il piano elaborato fin dal mattino dai grillini era assai diverso. Portare a casa Salini, poi provare a far saltare Giovanna
Bianchi Clerici. L’idea, mutuata da Forza Italia e Pd, portava a una Presidenza di garanzia: Giovanni Minoli. Il
giornalista, sostenuto dalle opposizioni, non sarebbe sgradito neanche ai grillini e otterrebbe il consenso dei due terzi
della Vigilanza, a differenza dell’ex deputata leghista. Il problema, però, resta il Carroccio. Matteo Salvini dovrebbe
mollare al suo destino Bianchi Clerici e sperare poi di ottenere con un dg in mano al Movimento una compensazione
con la direzione del Tg1, il vero bersaglio grosso di questa partita, oltre al dg. A questo punto, meglio resettare la sfida
e rimettere tutto in discussione.
Gli ambasciatori gialloverdi si incontrano per un giorno intero, anche se ufficialmente si tratta di un giorno di pausa in
questo corso accelerato di Cencelli. Luigi Di Maio non ha dubbi, vuole Salini e continua a difenderlo in ogni sede. Ma
quando la Lega inizia a minacciare di far saltare tutto, allora la trattativa si complica. Il Tg1 è sempre in cima ai desideri
leghisti, naturalmente. Uno dei nomi che circola è quello di Gennaro Sangiuliano, ricevuto nelle ultime ore anche a casa
del capo politico del Movimento ( al pari di Alberto Matano). Sangiuliano è gradito anche a FI, avendo tra i suoi
testimoni di nozze Maurizio Gasparri. Di più: secondo fonti di centrodestra, oltre ai padani il giornalista campano
avrebbe conosciuto il premier Giuseppe Conte, prima della sua ascesa a Palazzo Chigi. E, secondo alcuni, un contatto
ci sarebbe stato in passato anche in ambito accademico. Il problema è che Di Maio vuole garanzie sul Tg1. Le
alternative sono sempre il direttore del Fatto quotidiano on line Peter Gomez, oppure un nome che non piace alla Lega:
Antonio Di Bella, attualmente al timone di Rai News 24. Prima c’è da sbrogliare però il nodo che tiene legati dg e
Presidenza. Di Salini si è detto. Le altre opzioni possibili sono Andrea Castellari di Viacom International Media
Networks Italia e il direttore dei palinsesti di viale Mazzini, Marcello Ciannamea. Il fischio finale arriverà venerdì, a
meno che non slitti ancora.
Risolto questo problema, si chiuderanno le sfide per le direzioni. Un nome in corsa resta sempre quello di Mario
Giordano, allontanato da Mediaset per eccessiva contiguità con i populisti, secondo il nuovo corso imposto da Silvio
Berlusconi. Giordano potrebbe conquistare la guida del Tg2, oppure volare direttamente al Tg1. Per il Tg3, invece, si fa
il nome di Federica Sciarelli, che resta in pole. E poi quelli di Alberto Matano - apprezzato dai cinquestelle - e
Alessandro De Angelis, vicedirettore dell’Huffingtonpost. Al Tg3, invece, il Carroccio potrebbe puntare su Paolo
Corsini o su Enrico Castelli, milanese vicino a Cl e attualmente vicedirettore della testata. Ma sui direttori si fa sentire
anche il presidente della commissione di Vigilanza, Alberto Barachini che, spinto dalle opposizioni, ciede il rispetto delle
regole e convoca Di Maio e il ministro dell’Economia Tria ricordando che quelle nomine spettano all’ad.
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