16 SETTEMBRE 2018 - UFFICIO STAMPA - Provincia Regionale di Ragusa

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16 SETTEMBRE 2018
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16 SETTEMBRE 2018
Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA

                                LA SICILIA
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                                LA SICILIA
Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA   16 settembre 2018

                               LA SICILIA
Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA   16 settembre 2018

                                 G.D.S.
Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA   16 settembre 2018

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Bergoglio a Palermo

La svolta di Francesco "Più fatti contro i clan
basta inchini ai boss"
SALVO PALAZZOLO

Il Pontefice va oltre l’anatema di Giovanni Paolo II e indica la via alla Chiesa: "Non solo appelli antimafia"
È il giorno della svolta per la Chiesa siciliana. Può diventare il giorno della svolta anche per Palermo. Papa Francesco,
fra i 100mila del Foro Italico, non si ferma alla condanna della mafia: «Agli altri, la vita si dà, non si toglie». Non si
ferma neanche all’appello alla conversione dei mafiosi: « Cambiate, smettete di pensare a voi stessi e ai vostri soldi.
Perché non si può credere in Dio ed essere mafiosi». Papa Francesco a Palermo va oltre le parole pronunciate fino ad
oggi dalla Chiesa sulla mafia. Va oltre l’urlo di Papa Wojtyla nella Valle dei Templi. E indica una strada ben precisa per
una possibile liberazione. È la strada che ha percorso don Pino Puglisi, martire per mano mafiosa. Una strada che la
Chiesa siciliana non ha ancora intrapreso fino in fondo, venticinque anni dopo quel 15 settembre di sangue.
«Don Pino lo insegna — eccolo, il cuore del messaggio del Pontefice in una giornata di festa — non viveva per farsi
vedere, non viveva di appelli antimafia, e nemmeno si accontentava di non far nulla di male, ma seminava il bene, tanto
bene » . È la strada indicata da Francesco. Non servono le parate e le cerimonie, non servono neanche le denunce
vuote e la retorica sulla legalità. Bisogna tornare al «bene», ovvero alle esigenze reali della gente e della città.
La svolta di Francesco è in un discorso che spiega, poco a poco, le cose che bisognerebbe fare per mettere in campo
una vera pastorale contro la mafia. Il ragionamento inizia all’omelia e raggiunge il culmine in Cattedrale, davanti ai
sacerdoti, con parole altrettanto decise.
È lo stile di questo Papa, improntato alla massima schiettezza (e chiarezza): «Vorrei dire qualcosa sulla pietà popolare
molto diffusa, in queste terre » , dice: « È un tesoro che va apprezzato e custodito, perché ha in sé una forza
evangelizzatrice, ma sempre il protagonista deve essere lo Spirito Santo » . E giù con l’affondo: « Quando la Madonna
si ferma e fa l’inchino davanti alla casa del capomafia — scandisce il Papa — quello non va assolutamente». Fa una
pausa e si rivolge ai sacerdoti di tutta la Sicilia: « Vi chiedo di vigilare attentamente, affinché la religiosità popolare non
venga strumentalizzata dalla presenza mafiosa » . Arriva un grande applauso.
Ma non ci può essere svolta senza autocritica. Per le tante cose ancora non attuate del messaggio del parroco Puglisi. «
Padre Pino aveva ragione», dice il Papa. E lancia un invito a «guardarsi dentro ». Non ci può essere svolta senza un
severo ripensamento. « Abbiamo bisogno di tanti preti del sorriso, di cristiani del sorriso, non perché prendono le cose
alla leggera, ma perché sono ricchi soltanto della gioia di Dio, perché credono nell’amore e vivono per servire. Perché
c’è più gioia nel dare che nel ricevere».
Ci sono alcune parole chiave nella svolta indicata da Francesco. «Servire», ma anche «rischiare » . E poi « verità che
detesta la falsità » , « sacrificio » , « perdono e non vendetta». La strada auspicata è ben precisa.
« Oggi abbiamo bisogno di uomini di amore, non di uomini d’onore; di servizio, non di sopraffazione ». E ancora più
nello specifico: « Se la litania mafiosa è: " Tu non sai chi sono io", quella cristiana è: " Io ho bisogno di te". Se la
minaccia mafiosa è: "Tu me la pagherai", la preghiera cristiana è: "Signore, aiutami ad amare". Perciò, dico ai mafiosi:
cambiate » . Un nuovo richiamo a don Pino Puglisi, che dopo aver analizzato la situazione di Brancaccio, aveva provato
a smontare, pezzo dopo pezzo, la subcultura mafiosa che si impossessa delle parole del Vangelo.
Francesco parla alla Chiesa, ma anche alla città. Ed è un altro invito al cambiamento, lasciando indietro vecchi retaggi.
«Chiediamoci: " Che cosa posso fare io?" » . Pure queste sono le parole del parroco di San Gaetano diventato beato:
«Se ognuno fa qualcosa » , era il suo motto. E quando il Papa le ribadisce, sembra un’altra sveglia rispetto alle cose
non fatte. «Non aspettare che la Chiesa faccia qualcosa per te, comincia tu. Non aspettare la società, inizia tu. Senti la
vita della tua gente che ha bisogno, ascolta il tuo popolo » . E qui, Papa Francesco rilancia la sua visione " politica":
«Questo è l’unico populismo possibile, l’unico populismo cristiano: sentire e servire il popolo, senza gridare, accusare e
suscitare contese » . I centomila di Palermo lo applaudono, lo chiamano, lo cercano per un’intera giornata per le strade
della città.
Ora, la sfida è lanciata. E l’arcivescovo Corrado Lorefice già rilancia, all’incontro con i giovani in piazza Politeama: «
Alzatevi in piedi e strappate la Sicilia ai poteri occulti, ai politici e agli ecclesiastici corrotti » . Parole forti. Papa
Francesco ha portato coraggio alla Chiesa siciliana.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
La messa al Foro Italico
Papa Francesco ha parlato davanti a 100mila fedeli al Foro Italico: "Non si può credere in Dio ed essere mafiosi", ha
detto il Pontefice riecheggiando il "mafiosi, convertitevi" di Giovanni Paolo II
CRONACA                                                                                                      16/9/2018

A Palermo il ricordo di don Puglisi

Il Papa contro la falsa antimafia "Non si vive
solo di appelli"
PAOLO RODARI,

Francesco: " Chi è nei clan non crede in Dio. L’unico populismo cristiano è ascoltare il popolo"
PALERMO
Penzolano dai balconi del Brancaccio i lenzuoli bianchi, lì dove 25 anni fa don Pino Puglisi venne ucciso con un colpo
di pistola alla nuca mentre rientrava nella casa popolare in cui abitava. Simbolo di accoglienza e di riscatto dalla mafia, i
drappi accolgono Francesco a Palermo. In piazzetta Anita Garibaldi, il Papa sosta qualche istante in silenzio davanti al
medaglione di bronzo che ricorda l’assassinio perpetrato da Giuseppe Grigoli nel ’ 93, prima di entrare
nell’appartamento di Puglisi e salutare i suoi familiari. È il momento più carico di significati della visita in Sicilia di
Bergoglio (la seconda dopo Lampedusa, nel 2013), un’occasione per ribadire, 25 anni dopo il durissimo anatema di
Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi, la condanna della mafia da parte della Chiesa: «Non si può credere in Dio ed
essere mafiosi. Chi è mafioso non vive da cristiano, perché bestemmia con la vita il nome di Dio- amore » , dice. E poi,
a braccio, rivolgendosi durante l’omelia al Foro Italico direttamente ai mafiosi: «Convertitevi! Il sudario non ha tasche,
non potrete portare niente con voi!».
Per la prima volta un Papa parla esplicitamente delle «donne d’onore ». Di loro non c’è bisogno, spiega Francesco.
Piuttosto, servono donne (e uomini) «di servizio, non di sopraffazione ». «Convertitevi fratelli e sorelle » , dice. Ma
non si ferma qui. Il vescovo di Roma che ha conosciuto la violenza della malavita organizzata nella sua Buenos Aires, e
che contro di essa ha combattuto fra le villas miserias, lancia messaggi interni alla Chiesa, al «muro di omertà», a chi
vive di «appelli- anti mafia » senza seguire l’esempio di Puglisi, che «non viveva per farsi vedere e non si accontentava
di non far nulla di male, ma seminava il bene » . « Vi chiedo — dice lanciando ancora un messaggio interno — di
vigilare affinché la religiosità popolare non venga strumentalizzata dalla presenza mafiosa, perché allora diventa veicolo
di corrotta ostentazione. Quando la Madonna si ferma e fa l’inchino davanti alla casa del capomafia. Quello non va
assolutamente».
La figura di Puglisi ritorna in tutte le dieci ore di Francesco in Sicilia. Ucciso da Cosa nostra, tenne per sé le minacce
che lo portarono alla morte. «Litania mafiosa», definisce Francesco il modo di fare intimidatorio della mafia, una nenia
che ripete: « Tu non sai chi sono io». «Perciò ai mafiosi dico: cambiate! », implora. «Smettete di pensare a voi stessi e
ai vostri soldi, convertitevi al vero Dio di Gesù Cristo! Altrimenti, la vostra stessa vita andrà persa e sarà la peggiore
sconfitta».
Puglisi ebbe la " colpa" di togliere dalla strada ragazzi e bambini che, senza il suo aiuto, sarebbero stati risucchiati dalla
vita mafiosa. Fu questa la principale causa dell’ostilità dei boss: lo consideravano un ostacolo. Nel 1992 fu nominato
direttore spirituale presso il seminario di Palermo. Il 29 gennaio 1993 inaugurò a Brancaccio il centro Padre Nostro per
la promozione umana. Poco dopo morì, ucciso con più colpi di pistola. Una vera e propria esecuzione mafiosa.
Francesco non ignora la difficoltà di nascere e vivere in Sicilia. A Piazza Armerina, dove una famiglia su quattro vive
sotto la soglia di povertà, parla contro lo sfruttamento dei lavoratori. E parte ancora da Puglisi per un affondo sul
populismo, l’opposto, dice, dello stile del prete siciliano: «Abbiate paura della sordità di non ascoltare il popolo. Questo
è l’unico populismo cristiano: sentire e servire il popolo, senza gridare, accusare e suscitare contese».
© RIPRODUZIONE RISERVATA Le frasi
Lo dico ai responsabili: convertitevi!
Una volta verrà il giudizio di Dio
Non cedete alle suggestioni della mafia, una strada di morte, non compatibile col Vangelo
La ‘ndrangheta è questo: adorazione del male e disprezzo del bene comune
PETYX/ PETYX
Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA   16 SETTEMBRE 2018

                               LA SICILIA

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Il crollo del ponte Morandi

Genova, scontro sul decreto si rafforza l’asse
Toti-Salvini
L’ipotesi di un tandem tra il governatore e un commissario per la ricostruzione Il
vicepremier: "È giusto che il nome sia concordato con chi gestisce gli enti locali"

tommaso ciriaco,

roma
genova
Andato a vuoto il primo tentativo diretto di venerdì scorso con il presidente del Consiglio, la coppia inseparabile
Giovanni Toti & Marco Bucci ha cambiato bersaglio: Matteo Salvini. Con il leader della Lega il rapporto è forte e
consolidato nel tempo e questa è l’ora di una precisa, e incalzante, richiesta. Ovvero che la struttura commissariale che
dovrà occuparsi della demolizione del Morandi e della successiva ricostruzione rimanga entro la diretta sfera di
influenza di Regione Liguria e Comune di Genova. Chiamate e messaggini diretti sul cellulare del ministro dell’Interno
per ora hanno sortito solo una dichiarazione pubblica: il nome del commissario « è giusto che venga concordato con gli
enti locali — le parole del vicepremier — perché questo governo non farà come in passato quando non si
condividevano le scelte coi territori».
Questo in chiaro. Dietro le quinte invece la Lega, dato il pressing, lavora ad un compromesso: lasciare a Toti la
gestione delle operazioni già avviate — cioè ancora svariati mesi davanti di controllo diretto dell’emergenza — per poi
affiancarlo ad un commissario terzo per la ricostruzione. Tradotto, una specie di tandem.
Il nodo di fondo è che il "decreto Genova" annunciato in settimana manca ancora della più importante informazione: chi
appunto gestirà i lavori dei prossimi mesi. In ballo c’è una partita di potere non indifferente, anche perché la struttura
commissariale avrà la possibilità di " bypassare" i normali vincoli normativi. Toti gode dell’appoggio della Lega (con la
quale governa la Regione) e ha già coinvolto Autostrade spa nel progetto del nuovo ponte; i 5Stelle invece ne fanno una
questione di principio, la concessionaria deve starne fuori e semplicemente mettere mano al portafoglio, con i lavori
affidati a Fincantieri. Due posizioni evidentemente inconciliabili. « Al M5S sembra non interessare nulla della
ricostruzione, a loro basta far fuori Aspi » , lo sfogo di Toti con i suoi. E su questo ha ragione, perché il ministro
Danilo Toninelli non si smuove di un millimetro. Chi si trova in mezzo al fuoco incrociato è il sottosegretario alle
Infrastrutture Edoardo Rixi. Leghista, genovese, ex assessore di Toti e vicesegretario di Salvini, ma sotto il cappello di
Toninelli: «In questa fase meglio se Autostrade sta da parte», dice Rixi, il quale in fondo potrebbe rappresentare il
compromesso vivente di questa faccenda. Così come un ruolo di mediazione è quello che sta esercitando il
sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti: « Nel decreto c’è anche la possibilità di andare a
revisionare tutte le situazioni delle vecchie concessioni autostradali attraverso l’intervento dell’Autorità dei Trasporti»,
ha detto ieri, confermando un’ipotesi di cui Repubblica nei giorni scorsi aveva anticipato i contenuti.
Quanto al resto del "decreto Genova", si racconta che sia Salvini che l’altro vicepremier, Luigi Di Maio, si siano
infastiditi per la mancata collegialità della coppia Conte- Toninelli, e questo anche se dal Carroccio fanno sapere che «
chi parla di divisioni cerca di creare malumori che non esistono » ( stessa versione arriva da Palazzo Chigi). Tornando
comunque al nodo commissario, si sa che l’orientamento generale è di tenere fuori dalla rosa dei papabili figure
strettamente politiche. Girano i nomi della prefetta genovese Fiamma Spena, della commissaria per i lavori del terzo
valico Iolanda Romano, della capo ufficio emergenze della Protezione civile Titti Postiglione.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Giorgetti: "Si potrebbero rivedere le concessioni attraverso l’intervento
dell’Authority"
Il ricordo I fiori deposti su una ringhiera davanti al moncone del ponte Morandi: nel crollo, il 14 agosto, sono morte 43
persone
MARCO BERTORELLO/ AFP
L’ultimo selfie della polemica
La foto postata ieri su Instagram (e poi cancellata) dal ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli con la chiosa: "Ho
revocato la revoca della concessione al mio barbiere"
POLITICA                                                                                                     16/9/2018

I 49 milioni da restituire allo Stato

Fondi truffati, la Lega tratta rate da 2 milioni
giuseppe filetto marco preve,

genova
Se si esclude la ferita all’orgoglio leghista del suo leader, l’accordo ormai imminente fra il Carroccio e la procura di
Genova sulla rateizzazione dei 49 milioni che il partito di Matteo Salvini deve restituire allo Stato, farà comodo a
entrambi.
Il via vai di questi giorni degli avvocati di Salvini, Giovanni Ponti e Roberto Zingari, fra gli uffici dei magistrati al nono
piano del tribunale di Genova e la casa madre milanese di via Bellerio, conferma che quella che mediaticamente è ormai
diventata la " trattativa" manca solo del sigillo finale.
Da un lato la giustizia italiana non sarà più costretta a dare la caccia anche ai piccoli versamenti periferici o setacciare
in continuazione le casse di associazioni e onlus vicine al partito come espressamente hanno autorizzato i giudici della
Cassazione e del Riesame di Genova.
Sull’altro fronte, la Lega potrà organizzare la propria vita di partito sapendo di poter contare comunque su una liquidità
di cassa, seppur ridotta.
Il punto è proprio questo. Considerato che la somma rimanente da restituire è di poco superiore ai 46 milioni, sono i
dettagli della rateizzazione che faranno la differenza.
Al momento si dispone solo di voci e indiscrezioni. Si parla di una cifra semestrale che potrebbe aggirarsi sui due
milioni, per un totale di quattro milioni l’anno, quindi con una prospettiva di saldo finale fra una dozzina di anni.
Potrebbero però anche essere inserite voci che consentano di aumentare i prelievi statali dal conto di transito che verrà
appositamente creato, ma dopo un certo numero di anni o a fronte di introiti maggiori nelle casse del partito.
Nella memoria che depositarono presso il Tribunale del Riesame per evitare i sequestri, gli avvocati della Lega
certificarono che nella cassaforte del Carroccio, da settembre 2017 a luglio 2018, erano entrati cinque milioni e 600
mila euro, principalmente sotto forma di versamenti di privati cittadini e di quote dello stipendio dei parlamentari. E’ una
base concreta sulla quale si intavolerà il dialogo fra le parti in cerca di un punto di equilibrio.
Pare che della questione si occupino direttamente, assieme agli avvocati, gli "uomini dei numeri" della Lega e in
particolare il deputato tesoriere Giulio Centemero e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti.
Ma l’ultima parola spetterà comunque a Salvini. Per il segretario, nonchè ministro dell’Interno, l’ostacolo principale è
quello psicologico. La rateizzazione implica la pubblica accettazione del fatto che quei milioni la Lega " deve" restituirli
anche se ha sempre sostenuto che erano frutto degli errori della precedente gestione. Ma proprio la condanna per truffa
sui rimborsi elettorali di Umberto Bossi e dell’ex tesoriere Francesco Belsito ha fatto venire meno i requisiti "fiduciari"
previsti dalla legge per i rimborsi del periodo 2008- 2010. Senza contare che l’eventuale accordo non farebbe venire
meno l’inchiesta bis per riciclaggio sulla parte di quei soldi che, secondo i pm, sarebbero finiti in un fondo
lussemburghese quando i segretari erano Maroni e poi lo stesso Salvini.
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Dopo gli attacchi dei 5Stelle

Mattarella difende la stampa "Strumento di
democrazia"
Per il capo dello Stato "non può essere oggetto di insidie volte a fiaccarne l’autonomia" Il
plauso di Fnsi e Fieg

umberto rosso,

roma
L’allarme per la raffica di attacchi ai giornali, in cui si son lanciati i 5Stelle, è arrivato fino al Colle. E rischia di aprire un
nuovo caso. Sergio Mattarella coglie l’occasione di un messaggio di augurio a due quotidiani siciliani che escono con
una nuova veste grafica, per mettere in guardia: la voce libera dei giornali non si tocca, « è un elemento portante e
fondamentale della democrazia». La libertà di stampa non può che essere « incondizionata » e, aggiunge non a caso il
presidente della Repubblica, « non può essere oggetto di insidie volte a fiaccarne la piena autonomia e a ridurre il ruolo
del giornalismo » . La chiave di lettura del messaggio presidenziale sta proprio qui. Perché fra queste insidie, con tutta
probabilità, c’è dentro anche la campagna sferrata contro la " stampa nemica" dal vice premier Di Maio, che nella legge
di bilancio minaccia di tagliare ai giornali ogni pubblicità delle aziende controllate dallo Stato.
Non è la prima volta che Mattarella scende in campo nella difesa della libera informazione ( da ultimo nel discorso del
Ventaglio, a fine luglio), ma il richiamo del Quirinale adesso arriva proprio mentre la maggioranza manifesta sempre più
spesso ostilità alla carta stampata critica, annunciando tagli che per la stessa Federazione nazionale della stampa hanno
un sapore sgradevole assai: ritorsione e bavaglio. Misure sulle quali, naturalmente, il presidente non entra nel merito.
Ma è il nodo politico di questo nuovo scontro che sale alla sua attenzione. Un altro caso di tensione. Dopo le parole con
cui ha " sconfessato" l’attacco di Salvini ai magistrati che lo indagano per il sequestro dei migranti sulla Diciotti ( «
nessuno è al di sopra della legge » ), o l’intervento di Riga con il quale il capo dello Stato ha appena condannato il
ritorno ai nazionalismi e il rischio di sforare i conti in una specie di " grande baratto" contabile privo di valori con la Ue.
Mattarella – che domani sarà all’Elba per aprire il nuovo anno scolastico e poi tornerà il 21 a Genova per il Salone
nautico - nel suo messaggio di buon lavoro ai " rinnovati" Gazzetta del Sud e Giornale di Sicilia avverte dunque che «
una stampa credibile » , sgombra da « condizionamenti di poteri pubblici e privati » , e società editrici capaci di
sostenere lo sforzo dell’innovazione, rappresentano « strumenti importanti a tutela della democrazia ». Questa - e suona
come un avviso ai naviganti - è la consapevolezza che «deve saper guidare l’azione delle istituzioni». Però secondo il
ministro Di Maio, che martella sul tema con post e apparizioni tv, i giornalisti sarebbero solo agli ordini di « prenditori-
editori impegnati in un’operazione di discredito e attacco del governo, con ogni tipo di falsità e illazioni nei confronti del
M5S » . Solo e soltanto fake news. Per l’altro vicepremier Matteo Salvini la libertà di stampa può anche essere
«qualcosa di molto soggettivo » . E per il sottosegretario all’editoria Crimi, che ha presentato un suo piano, « la pacchia
è finita » . Da qui la ricetta punitiva: via gli avvisi obbligatori per le aste pubbliche sui giornali, via i contributi pubblici
(peraltro, a dispetto di certa propaganda già cancellati da tempo) e via ogni tipo di pubblicità delle aziende di Stato sui
giornali non allineati. Dalla Fnsi, un caloroso grazie a Mattarella, « riafferma valori non scontati » . E un plauso anche
dal presidente della Federazione degli editori, Andrea Riffeser: «I giornali sono liberi quando non subiscono
condizionamenti ».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
FRANCESCO AMMENDOLA/ ANSA
CRONACA                                                                                                        16/9/2018

Intervista
L’intervento del pubblico

L’Anas prova il rilancio "Siamo pronti a
prendere nuove tratte di autostrade"
L’ad Armani: " Problemi con Toninelli? Il mio mandato è a disposizione Abbiamo
competenze per crescere e la nostra rete è molto migliorata"

MARCO PATUCCHI,

ROMA
Il 15 agosto, mentre ancora si scava tra le macerie del Ponte Morandi, il ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli,
annuncia l’idea di trasferire dal gruppo Benetton all’Anas la gestione delle autostrade. Il 12 settembre, in un’audizione
parlamentare sull’accorpamento Fs- Anas, sempre Toninelli afferma che l’operazione si è risolta in un « tornaconto
personale per quei manager che si sono visti moltiplicare lo stipendio » , puntando dunque implicitamente il dito anche
verso Gianni Vittorio Armani, amministratore delegato della stessa società alla quale il ministro potrebbe consegnare le
autostrade italiane.
Cosa sia cambiato in meno di un mese proviamo a capirlo parlando con Armani, manager cinquantenne da tre anni alla
guida dell’azienda pubblica delle strade dopo una carriera nel gruppo Terna, che innanzitutto prova a chiarire lo stato
dei suoi rapporti con il governo: « Ho messo a disposizione di Toninelli il mio mandato, sia incontrandolo di persona
che scrivendogli. E’ impossibile lavorare in un’azienda pubblica senza la fiducia dell’esecutivo. Al momento non ho
avuto riscontri, dunque vado avanti cercando di recuperare un’immagine di credibilità ed efficienza dell’Anas, puntando
risorse economiche e umane sulla manutenzione, la tecnologia, la programmazione a medio termine. In questo senso,
siamo prontissimi a gestire altre tratte autostradali visto che già abbiamo una rete dieci volte quella di qualunque gestore
».
Scandali giudiziari, partitocrazia e consuetudini "parentocratiche" hanno lasciato segni indelebili nell’immagine
dell’Anas.
Come pensa di scrostarli?
«Nell’immaginario degli italiani ormai tutte le istituzioni statalisono viste come inutili se non addirittura dannose. E’
l’effetto della disorganizzazione della cosa pubblica. Noi ci stiamo lavorando a fondo dotandoci di capacità di controllo
e misurazione: solo così si intercetta la disonestà e si allontanano i disonesti. Credo che i risultati siano tangibili, la rete
Anas è molto migliorata.
Tornando al contesto generale, penso che un governo con una maggioranza così forte abbia tutte le possibilità di
ricostruire la credibilità dello Stato».
La tragedia di Genova non aiuta…
«Solo le indagini della procura potranno accertare cosa sia accaduto veramente e perchè.
In questo caso non c’è un problema di risorse finanziarie, come è accaduto per i gestori pubblici con i tagli del bilancio
degli ultimi venti anni, e neanche un problema di qualità del personale perché Autostrade per l’Italia ha potuto assumere
i migliori tecnici sul mercato senza avere il blocco delle assunzioni. Non si può escludere nessuna causa, ma in ogni
caso andrebbe analizzato ed eventualmente rivisto il rapporto tra ministero e privati. Insomma, un ruolo diverso dello
Stato sia nel controllo che nella gestione, prevedendo capacità di assunzione di personale e risorse finanziarie
adeguate».
In realtà sono crollati anche ponti su tratte gestite dall’Anas.
«E’ vero ma nell’unico caso in cui purtroppo è stata coinvolta una persona, il viadotto non era di proprietà di Anas. C’è
un problema di individuazione della responsabilità delle infrastrutture che stiamo affrontando insieme al ministero».
Cosa risponde a chi sottolinea come il passaggio di Anas nel gruppo Fs abbia significato un aumento consistente della
sua retribuzione, in barba oltretutto ai tetti fissati dalla legge Madia per i manager pubblici?
«Entrando l’Anas nell’alveo delle Fs, mi è stato chiesto di recepire le regole del gruppo, ovvero di dimettermi dalla
carica di presidente di Anas e di diventarne amministratore delegato e direttore generale, con relativa responsabilità
operativa e relativa retribuzione che peraltro è in linea con gli altri manager del gruppo. Ricordo che le Fs non sono
soggette al tetto previsto dalle alle norme della legge Madia».
E’ vero che il bilancio 2017 dell’Anas è stato approvato contro il parere del governo e risolvendo una mancata
svalutazione del patrimonio da 2 miliardi di euro, con la decisione unilaterale di prolungre la concessione dal 2032 al
2052?
«Con il cambio del contratto di programma legato al passaggio di Anas nel gruppo Fs, su indicazione dell’allora
azionista Tesoro e del ministero delle Infrastrutture abbiamo adottato i criteri contabili internazionali che guardano alla
capacità di generare flusso di cassa futuro invece che al patrimonio nominale.
Dunque i valori nominali non hanno alcun peso in quei criteri. Lo hanno piuttosto le sinergie con le Fs, le efficienze
previste e anche la possibile proroga della concessione dopo la scadenza del 2032. Ma questo non significa
assolutamente che la proroga sia stata già decisa. La scadenza resta fissata al 2032. Il bilancio, dunque, è stato
approvato sulla base di perizie e pareri legali condivise con l’azionista, e tenendo informato il ministero. Anzi, ad agosto
era arrivata addirittura una comunicazione dal ministero nella quale si sollecitava la pubblicazione del bilancio».
Eppure dal ministero sarebbero arrivate ben due lettere per contestare la mossa di Anas. E’ così?
«Sono arrivate due lettere al nostro azionista Fs. La prima dell’11 settembre, dunque un giorno dopo l’approvazione del
bilancio, nella quale si chiedeva di avviare il tavolo di confronto sulla durata della concessione e nel frattempo di non
approvare i conti. Poi, dopo la risposta delle Fs nella quale oltre a far notare che l’approvazione c’era già stata, se ne
spiegava tutto l’iter, il ministero il 14 ha inviato un’altra missiva alle Ferrovie per contestare il presunto allungamento
della concessione».
Come si spiega tutto questo?
«Ci sono state delle incomprensioni. Ho motivo di ritenere che presto sarà tutto chiarito».
L’accorpamento nelle Fs è stato fatto per garantire l’autonomia finanziaria di Anas. Ma ora il governo si prepara a
riportare le lancette indietro, ristaccando Anas dal gruppo delle ferrovie. Condivide il progetto?
«Non abbiamo fatto noi la legge che ha sancito l’accorpamento, abbiamo solo seguito le indicazioni del precedente
governo. Una decisione diversa del nuovo esecutivo è legittima».
E fuori dalle Fs come si potrà sostenere finanziariamente l’Anas?
«Il ministro ci sta lavorando.
L’idea potrebbe essere quella di tariffare i mezzi pesanti stranieri che percorrono le strade gestite da noi. Come avviene
in altri Paesi europei.
Con le Fs poi, anche da società separate, si potranno perseguire sinergie industriali».
© RIPRODUZIONE RISERVATA Serve un ruolo diverso dello Stato sia nel controllo che nella gestione delle tratte Ma
ci vogliono risorse finanziarie per farlo
Al vertice
Gianni Vittorio Armani, guida l’Anas, società entrata nel gruppo Ferrovie dello Stato, dal 2015
POLITICA                                                                                                      16/9/2018

Il retroscena
Dopo gli annunci

Addio alla flat tax rinvio tra due anni e tre
aliquote
I 50 miliardi di spesa ipotizzati fanno desistere per ora il governo

ROBERTO PETRINI,

ROMA
La flat tax va in soffitta.
L’incubo di una spesa da 50 miliardi, per finanziare l’idea coltivata dalla Lega e inserita nel contratto di governo, di una
tassa piatta scompare dall’agenda della manovra di bilancio. Che sia stata la dura tirata d’orecchi del presidente della
Bce Mario Draghi, oppure il Quirinale o gli uomini del ministro dell’Economia Giovanni Tria, il fatto è che il progetto
Robin Hood alla rovescia che avrebbe consentito ai ricchi di pagare le stesse tasse dei poveri è stato messo nel
cassetto. Come si ricorderà si sarebbe trattato di introdurre due aliquota 15 e 20 per cento, sotto e sopra 80 mila euro.
Tanti saluti anche all’economista americano, Alvin Rabushka grande propagandista della flat tax in Italia insieme ai
leghisti, che tentò, inascoltato, anche di dare consigli fiscali a George W. Bush. Massimo Bitonci, leghista, le cui
dichiarazioni sembrano ispirate da una certa consapevolezza sui dossier più delicati, ieri ha spiegato chiaro e tondo che
il progetto è ora di arrivare nel 2020 a tre aliquote Irpef e che in quella data si interverrà sulle coperture con taglio delle
cosiddette tax expenditures, cioè delle detrazioni e deduzioni fiscali. Tutto avverrà nel 2020, quando nessuno sa che
tipo di situazione politica avremo di fronte. A dimostrazione che la retromarcia è frutto di un serrato accordo nella
maggioranza ci sono le dichiarazioni di Di Maio, in una intervista a El Mundo, che la vende così: «La flat tax non sarà
rigida e avrà tre aliquote».
Ma c’è di più. I leghisti hanno ritirato anche la proposta di far scendere di un punto l’aliquota Irpef più bassa, dal 23 al
22 per cento, misura che sarebbe costata 4 miliardi e che avrebbe tuttavia dato un beneficio di soli 150 euro medi
all’intero spettro dei contribuenti italiani. Sempre Bitonci: «Inizialmente pensavamo ad una riduzione di un punto
percentuale dell’aliquota Irpef più bassa ma poi si opterà per una rimodulazione a partire dal 2020 con tre aliquote».
Visti i tempi, lo spread e l’aria che tira in Europa forse la retromarcia leghista dimostra un certo senso di responsabilità.
Nella ruvida concezione dell’attività di governo i "verdi" hanno capito che è meglio puntare dritti ai corpi intermedi, alle
categorie sociali ed economiche, al mondo delle imprese piuttosto che sparare nel mucchio. Infatti tengono duro e
puntano su professionisti e artigiani, proprietari di negozi e sul popolo che veleggia nell’evasione.
Per i professionisti e le micro imprese artigiane propongono ormai da settimane l’allargamento del già esistente regime
forfettario semplificato per Iva e Irpef con graduazione fino a 100 mila euro di ricavi che costerebbe circa 1,5 miliardi.
Per i proprietari di immobili si cerca di introdurre, dialogando con la Confedilizia, la cedolare secca Irpef anche per i
negozi. Una misura che era stata tentata in passato anche dal centrosinistra.
Resta l’incognita pensioni: i leghisti ripetono quota 100 con la soglia minima di 62 anni: costa 13 miliardi e stanno
anch’essi valutando. Mentre dai grillini si ripete il mantra del reddito di cittadinanza, senza che emergano nuove
proposte mentre la sottosegretaria Laura Castelli rilancia la proposta di intervenire sui 16 miliardi dei Sad, i sussidi
ambientalmente dannosi, che vanno ai Tir, agli armatori, alle compagnie aere e a molte imprese.
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