XXVII Olimpiadi della Filosofia - Fase di Istituto - Istituto Omnicomprensivo Liceo Scientifico Statale Filadelfia - Philolympia

Pagina creata da Manuel Ferro
 
CONTINUA A LEGGERE
XXVII Olimpiadi della Filosofia – Fase di Istituto – Istituto
Omnicomprensivo Liceo Scientifico Statale Filadelfia

Sezione A - Saggio filosofico in lingua italiana

1) Ambito teoretico
Le vie della scienza ci sono molto utili per predisporre strumentazioni e strategie che
possono rendere la nostra lotta per la sopravvivenza meno faticosa e insicura, ma non
possono orientare secondo giustizia quella lotta, perché nulla possono dirci sulla domanda
del senso e del valore della nostra esistenza, domanda perennemente aperta per
l’intelligenza cosciente che, a differenza di quella animale, non sa accontentarsi del puro
esistere e cerca perciò, oltre le costrizioni e le contraddizioni di qualsivoglia
condizionamento interiore e ambientale, le motivazioni per determinare e sostenere il suo
agire. L’intelligenza cosciente è così per sua natura obbligata a porsi sempre oltre il dato, a
trascendere qualunque situazione esperienziale, a oltrepassare i limiti che la scienza
costantemente interpone.
(V. Destito, L’erranza degli animali coscienti, Adhoc Edizioni, Vibo Valentia, 2016, pp.
207-208).

2) Ambito gnoseologico
La meditazione che feci ieri m’ha riempito lo spirito di tanti dubbi, che, oramai, non è più
in mio potere dimenticarli. E tuttavia non vedo in qual maniera potrò risolverli; come se
tutt’a un tratto fossi caduto in un’acqua profondissima, sono talmente sorpreso, che non
posso né poggiare i piedi sul fondo, né nuotare per sostenermi alla superficie. Nondimeno
io mi sforzerò, e seguirò da capo la stessa via in cui ero entrato ieri, allontanandomi da
tutto quello in cui potrò immaginare il menomo dubbio, proprio come farei se lo
riconoscessi assolutamente falso; e continuerò sempre per questo cammino, fino a che non
abbia incontrato qualche cosa di certo, o almeno, se altro non m’è possibile, fino a che
abbia appreso con tutta certezza che al mondo non v’è nulla di certo.
Archimede, per togliere il globo terrestre dal suo posto e trasportarlo altrove, domandava
un sol punto fisso ed immobile. Così io avrò diritto di concepire alte speranze, se sarò
abbastanza fortunato da trovare solo una cosa, che sia certa e indubitabile.
Io suppongo, dunque, che tutte le cose che vedo siano false; mi pongo bene in mente che
nulla c’è mai stato di tutto ciò che la mia memoria, riempita di menzogne, mi rappresenta;
penso di non aver senso alcuno; credo che il corpo, la figura, l’estensione, il movimento ed
il luogo non siano che finzioni del mio spirito [chimerae]. Che cosa, dunque, potrà essere
reputato vero? Forse niente altro, se non che non v’è nulla al mondo di certo.
Ma che ne so io se non vi sia qualche altra cosa, oltre quelle che testé ho giudicato incerte,
della quale non si possa avere il menomo dubbio? Non v’è forse qualche Dio, o qualche
altra potenza, che mi mette nello spirito questi pensieri? Ciò non è necessario, perché forse
io sono capace di produrli da me. Ed io stesso, almeno, sono forse qualche cosa? Ma ho già
negato di avere alcun senso ed alcun corpo. Esito, tuttavia; che cosa, infatti, segue di là?
Sono io talmente dipendente dal corpo e dai sensi, da non poter esistere senza di essi? Ma

                                                                                             1
mi sono convinto che non vi era proprio niente nel mondo, che non vi era né cielo, né terra,
né spiriti, né corpi; non mi sono, dunque, io, in pari tempo, persuaso che non esistevo? No,
certo; io esistevo senza dubbio, se mi sono convinto di qualcosa, o se solamente ho pensato
qualcosa. Ma vi è un non so quale ingannatore potentissimo e astutissimo, che impiega
ogni suo sforzo nell’ingannarmi sempre. Non v’è dunque dubbio che io esisto, s’egli
m’inganna; e m’inganni fin che vorrà, egli non saprà mai fare che io non sia nulla, fino a
che penserò di essere qualche cosa. Di modo che, dopo avervi ben pensato, ed avere
accuratamente esaminato tutto, bisogna infine concludere, e tener fermo, che questa
proposizione: Io sono, io esisto, è necessariamente vera tutte le volte che la pronuncio, o
che la concepisco nel mio spirito.

(R. Cartesio, Meditazioni metafisiche, II, 1641, in Opere, a cura di E. Garin, vol. I, Laterza,
Vari 1967, pp. 205-206).

3) Ambito etico-politico
Ora, prima che parliamo della bontà propriamente detta, [...] toccheremo di un grado
intermedio, semplice negazione della malvagità: della giustizia. [...] si chiama giusto
chiunque spontaneamente riconosca i limiti posti dalla morale fra il diritto e il torto,
rispettandoli anche se non protetti dallo Stato, né da nessun altro potere; secondo la nostra
teoria, giusto è chi, nell’affermazione della propria volontà, non va mai fino alla negazione
della volontà che si manifesta in un altro individuo. Il giusto non infliggerà mai delle
sofferenze agli altri, per accrescere il proprio benessere: non commetterà mai nessun
delitto, e rispetterà sempre i diritti e la proprietà di ciascuno. […]
Nel suo grado supremo, il sentimento di giustizia non si distingue più dalla bontà vera e
propria, il carattere della quale non è soltanto negativo.
Mentre l’uomo semplicemente giusto si limita a non infligger dolori; mentre in genere la
più parte degli uomini vede e conosce da vicino innumerevoli creature che soffrono, ma
non si sa decidere ad offrire un sollievo, poiché ciò esigerebbe ad offrire un sollievo,
poiché ciò esigerebbe da parte loro qualche privazione; mentre, in una parola, in ciascuno
di costoro sembra predominare l’idea di una radicale differenza fra il proprio io e quello
degli altri; al contrario, in un animo nobile quale quello supposto, la differenza si riduce a
un minimo; il principium individuationis, la forma del fenomeno, non lo domina più con la
forza consueta. Le sofferenze altrui lo commuovono quasi come le proprie; procura perciò
di ristabilire l’equilibrio fra le une e le altre; con il rinunziare ai piaceri, con l’imporsi delle
privazioni, al solo fine di addolcire le sofferenze altrui. La differenza fra lui e gli altri
esseri, che al malvagio appare smisurata, non né che un fenomeno passeggero ed illusorio.
E il buono se ne accorge; riconosce, in via immediata e senza raziocinii, che l’in sé del
fenomeno è identico, e in lui, e negli altri, coincidendo con quella volontà di vivere, in cui
sta l’essenza di ogni cosa, e che vive in tutto; anzi, estende tale identità anche ai bruti e
all’intera natura.
(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, 1819, trad. it. di N. Palanga,
a cura di G. Riconda, Mursia, Milano 1969, pp. 412-414).

                                                                                                  2
4) Ambito estetico
Per decidere se una cosa sia bella o meno, noi non poniamo, mediante l’intelletto, la
rappresentazione in rapporto con l’oggetto, in vista della conoscenza; la rapportiamo
invece, tramite l’immaginazione (forse connessa con l’intelletto) al soggetto e al suo
sentimento di piacere e di dispiacere. Il giudizio di gusto non è pertanto un giudizio di
conoscenza; non è quindi logico, ma estetico: intendendo con questo termine ciò il cui
principio di determinazione non può essere che soggettivo. […]
Si dà il nome di interesse alla soddisfazione che congiungiamo alla rappresentazione
dell’esistenza d’un oggetto. […] Ora, però, quando ci si chiede se una cosa è bella, non si
vuole sapere se a noi od a chiunque altro importi o possa importare qualcosa dell’esistenza
della cosa; ma, piuttosto, come noi la giudichiamo da un punto di vista puramente
contemplativo (per intuizione o riflessione). […] È facile vedere che quello che importa,
per dire che l’oggetto è bello, e per provare che ho gusto, non è il mio rapporto di
dipendenza dall’esistenza dell’oggetto, ma ciò che in me ricavo da questa
rappresentazione. Chiunque deve riconoscere che un giudizio sul bello cui si mescoli il più
piccolo interesse, è molto parziale, e non costituisce un giudizio di gusto puro. […]
Piacevole è ciò che piace ai sensi nella sensazione. […]Ogni soddisfazione (si dice, o si
pensa) è in sé sensazione (di piacere) […] le impressioni dei sensi, che determinano
l’inclinazione, i princìpi della ragione, che riguardano la volontà, o le forme meramente
riflesse dell’intuizione, che determinano il Giudizio, vengono ad identificarsi quanto
all’effetto sul sentimento di piacere. Non si tratterebbe infatti d’altro che della gioia che si
prova nel sentire il proprio stato; e poiché ogni elaborazione delle nostre facoltà deve
infine rivolgersi al pratico e qui trovare unità come nel suo scopo, non si potrebbe
attribuire loro altra stima delle cose e del loro valore che non consista nel piacere ch’esse
promettono. […]
Il colore verde dei prati è una sensazione oggettiva, in quanto percezione d’un oggetto del
senso; la gradevolezza invece è una sensazione soggettiva, mediante la quale nessun
oggetto è rappresentato: vale a dire, un sentimento, nel quale l’oggetto viene considerato
come oggetto di soddisfazione (e non di conoscenza). […]
È buono ciò che, mediante la ragione, piace per il puro e semplice concetto. Parliamo di
buono a qualcosa (utile), quando ci piace soltanto come mezzo; altre cose le chiamiamo
buone in sé, quando ci piacciono per se stesse. In entrambi i casi è sempre implicito il
concetto di fine, quindi il rapporto della ragione con una volontà (almeno come
possibilità), quindi la soddisfazione per l’esistenza d’un oggetto o d’una azione, vale a dire
un qualche interesse. […]
Definizione del bello desunta dal primo momento
Il gusto è la facoltà di giudicare d’un oggetto o d’una specie di rappresentazione, mediante
una soddisfazione od insoddisfazione scevra d’ogni interesse. L’oggetto d’una tale
soddisfazione si dice bello. […]
[…] quando si è consapevoli del fatto che la soddisfazione che proviamo per qualcosa è del
tutto disinteressata, non possiamo fare a meno di ritenere che contenga un motivo di
soddisfazione per tutti. Infatti qui non ci si basa su qualche inclinazione del soggetto (né su
qualche altro interesse riflesso): chi giudica si sente completamente libero nei confronti
della soddisfazione con cui si volge all’oggetto, per cui non riesce ad attribuire tale

                                                                                              3
soddisfazione ad alcuna circostanza particolare, esclusiva del proprio oggetto, e deve
quindi considerarla fondata su ciò che può presupporre in ogni altro: di conseguenza dovrà
credere d’aver motivo di attendersi da ciascun altro una simile soddisfazione. Parlerà
pertanto del bello, come se la bellezza fosse una proprietà dell'oggetto, ed il giudizio fosse
logico (come se cioè costituisse una conoscenza dell'oggetto mediante concetti di questo).
Infatti, per quanto il giudizio sia soltanto estetico e non implichi che un rapporto della
rappresentazione dell’oggetto con il soggetto, è analogo al giudizio logico sotto questo
profilo, che se ne presuppone la validità per ognuno. Ma questa universalità non può
scaturire neppure da concetti. Infatti dai concetti non si dà passaggio al sentimento di
piacere o di dispiacere […]. Ne consegue che al giudizio di gusto si deve annettere, con la
consapevolezza del suo carattere disinteressato, una pretesa di validità universale, senza che
tale universalità poggi sull’oggetto; vale a dire, la pretesa ad una universalità soggettiva deve
essere legata al giudizio di gusto.
Definizione del bello desunta dal secondo momento
È bello ciò che piace universalmente senza concetto.
(I. Kant, Critica del Giudizio, Analitica del bello, 4-6, 7-10, 16-18, 1790, a cura di A. Bosi,
Utet, Torino 1993).

Candidata: Roberta L’Abbate

2) Ambito gnoseologico.

Nel brano proposto, tratto dal secondo volume de le Meditazioni metafisiche, opera del
1641 di René Descartes, filosofo più semplicemente conosciuto come Cartesio, vediamo
come, nel suo percorso verso la verità, egli si imbatte in una sorta di vicolo cieco. Ben
sappiamo che, nel pensiero di Cartesio, tale percorso ha come prima meta, la scoperta di
una certezza, in una fase del suo pensiero di dubbio totale. Infatti egli meditando, arriva al
punto di dubitare di ogni cosa esistente nel mondo, addirittura del mondo stesso, e questa
fase la troviamo espressa proprio nella parte iniziale del brano proposto nella traccia.

È interessante come nell’opera sia espresso e racchiuso quel percorso fatto di domande,
riflessioni, dubbi che porteranno il filosofo alla tanto ambita certezza, quella della propria
esistenza, quella del «cogito ergo sum» che caratterizza il suo famoso pensiero. All’inizio
del brano, Cartesio dice di vedersi «come caduto in un’acqua profondissima», e questa è
proprio l’abisso del dubbio, una condizione terribile, dalla quale il filosofo si ritrova
completamente assuefatto, e vi giunge in un modo talmente inaspettato, egli dice, che «non
posso né poggiare i piedi sul fondo, né nuotare per sostenermi alla superficie», perché non
riesce a reagire: è troppa la sorpresa, il buio che lo ha preso alla sprovvista.

                                                                                               4
Inizialmente è, quindi, completamente immerso nell’abisso del dubbio senza muoversi.
Ma vediamo, nel prosieguo, che Cartesio non si arrende al dubbio più totale e riprende la
sua ricerca verso la certezza in qual mare di incertezze: segue, quindi, «da capo la stessa
via», che lo aveva portato a quella condizione di dubbio e la ripercorre, camminando, dice
il filosofo, e volendo arrivare se non alla certezza che vi sia qualcosa di indubitabile nel
mondo, almeno alla certezza che non vi sia nulla di certo. Il suo punto di partenza è ora
nuovamente quello iniziale, ovvero la supposizione che tutto ciò che vediamo sia falso,
punto da cui inizia a meditare e ad elaborare diverse riflessioni. Crede, ad esempio, che la
sua stessa memoria sia costituita da falsi ricordi, magari, come dirà anche nel seguito del
testo, riempita da inganni costruiti ad arte da un genio maligno, un «ingannatore
potentissimo e astutissimo» e che anche inganni siano: corpo, figura, estensione e
movimento. Tutto ciò che vediamo diventa, dunque, oggetto del grande dubbio di Cartesio,
ma questa volta il filosofo riesce a proseguire in avanti nel suo cammino.

Il filosofo francese arriva così ad una prima risposta alla sua domanda «che cosa può
essere reputato vero?»: semplicemente, egli dice, l’unica certezza è che non v’è alcuna
certezza al mondo. A questo punto però sorge in lui il desiderio di ricercare qualcos’altro
che possa essere considerato indubitabile, e inevitabilmente il suo pensiero va ad un Dio,
argomento della ricerca dei filosofi di tutti i tempi, o magari una qualche potenza al di
sopra degli uomini e al di sopra di lui, in modo da produrgli questi pensieri. È in queste
parole che inizia ad intravedersi in Cartesio l’attenzione verso lo stesso atto del pensare;
attenzione che lo porterà alla risposta. Cartesio è consapevole del fatto che sia egli stesso a
crearsi queste riflessioni, domande e risposte, non c’è bisogno dunque dell’esistenza di un
Dio, né tantomeno dice, di un corpo, dei sensi, del cielo perché lui pensa, e questa è di per
sé una verità assoluta. Egli pensa, quindi esiste, è, e non c’è nessun ingannatore che possa
mettere in dubbio che lui sia un qualcosa. È proprio l’atto del pensare la chiave che gli apre
la porta del «cogito ergo sum», della concezione di se stesso come una «res cogitans», un
soggetto pensante. È proprio su questa conclusione che Cartesio baserà il suo pensiero
successivo.

                                                                                             5
Puoi anche leggere