Semiotica 2021-22 Prof. Ilaria Tani - Facoltà di Lettere e Filosofia
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Semiotica 2021-22 Prof. Ilaria Tani
Semeion, tekmerion, onoma, symbolon • Semeion (segno) e tekmerion (prova, indizio, sintomo) sono usati come sinonimi da Parmenide e Ippocrate (V sec. a.C.). Queste espressioni non si riferiscono al segno linguistico. La conoscenza degli uomini procede per indizi, diversamente da quella degli dei, che hanno «immediata certezza» «delle cose invisibili e delle cose mortali» (pensiero attribuito ad Alcmeone, in Diogene Laerzio, Vite, VIII: 83). Ippocrate: il segno (sintomo) va valutato contestualmente: «se p allora q, ma a patto che intervengano i fattori y, z» (Eco 1984: 22-23). • Onoma = nome, parola: il nome stabilisce una pseudoequivalenza con la realtà, occultandola. Onomazein: assegnare un nome arbitrario che non corrisponde alla realtà, ma ritenendolo vero (cfr. Parmenide). • Symbolon = marca di riconoscimento, gettone (ma Aristotele lo usa per le parole, i nomi). • La riflessione sul segno linguistico (in Platone e in Aristotele) introduce «una differenza tra significante e significato, e soprattutto tra significazione (dire che cosa una cosa è: funzione che svolgono anche i termini singoli) e riferimento (dire che una cosa è: funzione che svolgono solo gli enunciati completi) (Eco 1984: 23).
Il segno non linguistico per Aristotele La teoria del segno viene distinta da quella del linguaggio e si colloca nel punto di intersezione tra logica e retorica. Analitici Primi, secondo libro, capitolo 27 (II, 70a), Retorica, primo libro (I, 1357a) Definizione di segno: «Quando, in concomitanza con l’essere di un certo fatto, un altro è, oppure quando, in concomitanza al verificarsi di un evento, un altro evento si verifica, anteriormente o posteriormente, questi ultimi sono segni dell’essere o del verificarsi dei primi» (Analitici Primi, II, 70a7-9) Relazione di implicazione tra due fatti o due eventi a livello ontologico: “p implica q”, dove p e q sono due fatti o due eventi che si verificano in connessione l’uno con l’altro (livello ontologico delle cause). Sul piano epistemologico dell’acquisizione di conoscenza, il segno viene a configurarsi come quel dispositivo che permette di passare da p a q, secondo una formula del tipo “p è segno di q”. Il segno permette cioè una conoscenza che parte dal conseguente (cfr. Confutazioni sofistiche,167b1-8).
Concepito in questo modo, il segno può condurre a conclusioni fuorvianti, come avviene quando qualcuno, avendo osservato che la terra è bagnata quando è piovuto, concludesse che ogni volta che si trova la terra bagnata, ciò sia in conseguenza del fatto che ha piovuto. Un altro esempio coinvolge le relazioni tra proprietà piuttosto che tra eventi: se qualcuno, avendo osservato che il miele ha la proprietà di essere giallo, concludesse che si può riconoscere il miele per il semplice fatto che qualcosa è giallo, correrebbe il rischio di scambiare per miele il fiele, che ha la stessa proprietà di essere giallo. Importante: i due termini dell’implicazione (fatti, eventi o proprietà) sono espressi linguisticamente da proposizioni, ne deriva un’idea di segno come entità che viene identificata da una proposizione, la quale forma la premessa di un ragionamento inferenziale.
Semeion e tekmerion Tekmerion: prova come segno necessario, da cui si sviluppa un’inferenza inquadrabile nella prima figura del sillogismo (affermativa universale) la febbre è segno di malattia, necessariamente: se ha la febbre, allora è malato = affermativa universale: tutti coloro che hanno la febbre sono malati; non vale però l’inverso: non tutti coloro che sono malati hanno la febbre (il carattere bicondizionale è proprio invece della equivalenza) > alcuni sono malati e hanno la febbre (segno debole) Semeion: segno non necessario e perciò confutabile, può risultare vero ma può anche non esserlo (grado minore di rispettabilità e conclusività), da cui si sviluppano inferenze proprie della seconda e terza figura del sillogismo (affermativa particolare) Se ha la respirazione alterata, allora ha la febbre (probabilità, segno debole) se una persona è pallida, allora è malata (probabilità, segno debole) se Pittaco è eccellente, i sapienti sono eccellenti (esempio, forma dell’induzione: Pittaco è eccellente e alcuni sapienti sono eccellenti) Questi casi hanno la forma logica della congiunzione, non della implicazione: alcune persone sono pallide e sono malate.
Aristotele attribuisce al semeion il ruolo basilare di essere uno degli elementi che forniscono le premesse per quel particolare tipo di sillogismo conosciuto come entimema (An. Pr. II, 70a9-10 e Rhet. I, 1357a30-32). Entimema: sillogismo accorciato, una delle sue premesse resta implicita, poiché la si considera ben nota o ovvia (doxa). Il fine dell’entimema è persuadere più che dimostrare (per questo la tradizione successiva lo definirà anche “sillogismo retorico”): le sue premesse non sono necessariamente vere, ma è sufficiente che siano soltanto probabili. La teoria dei segni non verbali pone il problema di come si acquisisce la conoscenza indiretta risalendo dagli effetti alle cause. Aristotele si muove a fatica tra questi vari segni, perché conosce il sillogismo apodittico, ma non chiaramente il sillogismo ipotetico. «Nella scienza vera e propria, fondata sul sillogismo perfetto, il semeion non trova posto. Al contrario, nelle scuole postaristoteliche, l’inferenza da segni acquista un ruolo centrale: dalla retorica e dialettica, suoi punti di partenza, il segno viene esteso alla scienza in generale e alla filosofia nel suo grado più alto. Gli stoici e gli epicurei vedono nel segno il procedimento canonico del passaggio da ciò che è noto a ciò che è ignoto» (Manetti, Le teorie del segno nell’antichità classica, 1994: 145)
Stoicismo antico (III sec. a.C.: Zenone, Cleante, Crisippo) Come Aristotele, gli stoici distinguono due aree semiotiche: • linguaggio verbale: analisi delle relazioni tra linguaggio, pensiero e realtà: distinzione tra espressione (semainon), contenuto (semainomenon) e referente (tynchanon). • segno non linguistico: analisi delle condizioni di correttezza logica dell’inferenza semiotica al fine di garantire i contenuti di conoscenza forniti dal segno.
«Alcuni hanno riposto il vero e il falso nella cosa “significata” (to semainomenon), altri nella voce (phone), altri infine nel movimento del pensiero. Della prima opinione sono stati i portabandiera gli stoici col sostenere che sono tra loro congiunte tre cose, ossia la cosa significata (to semainomenon), quella significante (to semainon), e quella che si trova ad esistere (to tynchanon), e che, tra queste, la cosa significante è la voce (ad esempio la parola “Dione”); quella significata è lo stesso stato di cose (auto to pragma) indicato dalla voce pronunciata (to hyp’autes deloumenon), che noi percepiamo come coesistente (paryphistamenon) con il nostro pensiero (dianoia), mentre i barbari, pur ascoltando la voce che lo indica, non lo comprendono; infine, ciò che si trova ad esistere è quello che sta fuori di noi (ad esempio, Dione in persona). Di queste cose due sono corpi, cioè la voce e ciò che si trova ad esistere, ed una è incorporea, cioè l’oggetto significato o “detto” (lekton), e proprio quest’ultimo è vero o falso» (Sesto Empirico, Adv. Math., VIII, 11-12). In questo passo vengono usati i termini “significante” e “significato”, ma non il termine “segno”. Come già per Aristotele, l’idea di “segno” (semeion) appartiene ad una differente sfera – non linguistica – della teoria semiotica.
Significazione linguistica Semainomenon/lekton (contenuto, significato) (detto) Tynchanon Semainon (oggetto esterno, (espressione, referente) significante)
• Espressione: – Voce – Voce articolata (lexis) – Parola (dotata di contenuto) • Contenuto (lekton) = esprimibile, dictum, dicibile (distinto da idea, affezione dell’anima, rappresentazione psicologica). È una proposizione. Il lekton è un incorporale. La categoria degli incorporali comprende: vuoto, relazioni spaziali, sequenze cronologiche, azioni, eventi, superficie geometrica, ecc. cioè modi dell’essere, o meglio modi di guardare alle cose, entia rationis.
Lektón È una categoria semiotica. Il lekton è normalmente inteso come il giudizio espresso da un enunciato relativo ad un oggetto: “ciò che è detto”; l’espressione copre dunque sia il “giudizio”, sia lo “stato di cose che è significato da una parola o da una serie di parole”. Seneca (Epistulae Morales, 117, 13), citando l’esempio di una proposizione (“Catone cammina”) (diversamente da Sesto Empirico, che usava un singolo nome e per di più un nome proprio, “Dione”), richiama l’attenzione sulla distinzione tra l’oggetto di riferimento, che è un oggetto materiale – in questo caso, Catone – ed una asserzione intorno a questo oggetto (“Catone cammina”), dove l’asserzione è un’entità incorporea. Il lekton coincide proprio con questa asserzione. Seneca propone tre differenti traduzioni latine del termine: enuntiatum (“enunciato”), effatum (“affermazione”), dictum (“asserzione”).
«the lekton is defined as the objective content of act of thinking (noesis), or, what come to the same thing in Stoicism, the sense of significant discours» (Long, Language and Thought in Stoicism, in A.A. Long (ed.), Problems in Stoicism, London, 1971: 82)». Il lekton è dunque il contenuto dell’attività di pensiero che coincide con il senso del discorso significante. I lekta sono incorporei e in quanto tali «non possono essere disgiunti da qualcosa di corporeo che faccia in qualche modo da supporto ad essi e che permetta la loro esprimibilità» (Mignucci, Il significato della logica stoica, Patron, 1965: 92-93). Il supporto dei lekta viene da alcuni interpreti collocato nei suoni della voce, da altri nell’attività della mente che pensa.
Rapporto tra lektón e pensiero Gli stoici «affermano che il lektón è ciò che sussiste in conformità con una rappresentazione razionale (loghiké phantasìa) e che una rappresentazione razionale è quella secondo cui il rappresentato (phantasthén) può essere espresso in parole» (Sext. Emp. Adv. Math., VIII, 70). Occorre dunque distinguere il lektón, che rappresenta il livello del “significato”, dalle “rappresentazioni razionali” (loghikai phantasìai), che sono forme di attività intellettiva (o pensieri) esprimibili in parole (logikai). Tra i contenuti della attività rappresentativa della mente e il loro essere significati attraverso le parole si dà comunque una stretta connessione: per gli stoici esiste una sostanziale identità tra i processi del pensiero e quelli della comunicazione linguistica (Manetti, Le teorie del segno nell’antichità classica, Bompiani, 1987/1994:142-43).
La proposizione e le sue parti Lekton completo è la proposizione, come rappresentazione del pensiero, ciò che può essere veicolato dal discorso. Lekta incompleti sono le parti di una proposizione (tra cui il soggetto e il predicato, che sono categorie del contenuto, non grammaticali o dell’espressione, unità culturali risultanti da una segmentazione astratta del campo noetico). Semainomenon (lekton incompleto) = contenuto espresso dal semainon, che assieme ad altri contenuti va a costituire la proposizione (lekton completo).
Teoria del segno Il lekton è un elemento centrale della teoria del linguaggio, ma è anche una nozione fondamentale della teoria del segno […] è un fattore di mediazione fra le due teorie (Manetti, 1994: 143). I segni (semeia) per gli stoici sono soprattutto dei lekta, in quanto sono costituiti da proposizioni. Nella semiotica stoica si realizza una saldatura “di diritto” tra la dottrina del linguaggio e la dottrina dei segni: «perché ci siano segni occorre che siano formulate proposizioni e le proposizioni debbono organizzarsi secondo una sintassi logica che è rispecchiata e resa possibile dalla sintassi linguistica» (Eco, 1984: 30). Però gli stoici non dicono ancora che le parole sono segni (come farà Agostino) e adottano una differenza lessicale tra semainon/semainomenon e semeion).
Come Aristotele, gli stoici ritenevano i segni uno strumento per raggiungere la conoscenza e/o per ampliarla. Perciò i segni dovevano essere tali da offrire la massima garanzia di sicurezza. Occorreva dunque testare la tenuta logica dei ragionamenti entro i quali i segni potevano essere impiegati. Mentre però Aristotele usa una logica dei termini o delle classi per il suo sillogismo, gli stoici introducono una logica di tipo proposizionale. La posizione del segno cambia radicalmente. L’inferenza semiotica si sposta dalla retorica e dialettica, dove essa era collocata inizialmente, alla scienza in generale. Gli stoici vedono nel segno il procedimento canonico del passaggio da ciò che è noto a ciò che è ignoto.
Definizione di segno «Gli stoici, volendo presentare la nozione di segno, dicono che è una proposizione (axioma) che è l’antecedente (prokathegoumenon) in un condizionale vero (en hyghiei synemmenon), e che è rivelatore del conseguente (ekrkalyptikon tou legontos). E dicono che la proposizione è un lekton completo in se stesso […]. Essi chiamano antecedente la prima proposizione di un condizionale che comincia con il vero e finisce nel vero. Essa fa scoprire il conseguente poiché la proposizione “essa ha latte” sembra essere rivelatrice (delotikon) di quest’altra “essa ha concepito”» (Sesto Empirico, Pyrr. Hyp., II, 104-106) Segno è la proposizione che traduce in termini linguistici un fatto o un evento. Tale conoscenza viene considerata affidabile se il segno si inquadra nella struttura logica di un condizionale valido. Il condizionale assume la forma di una proposizione complessa che segue lo schema “Se p, allora q”, in cui p e q sono due proposizioni. Il segno deve permettere di passare dal piano strettamente logico a quello epistemico. Appartiene a un campo distinto sia da quello logico che da quello semantico in senso stretto. Così per gli stoici il segno non solo deve avere una corretta costruzione dal punto di vista logico, da individuarsi nella possibilità di permettere un’inferenza valida tra due proposizioni vere, ma deve anche essere un dispositivo capace di fornire un’informazione nuova: il segno è il procedimento canonico del passaggio dal noto all’ignoto.
Doppia classificazione dei segni secondo due linee oppositive • Scompare la distinzione tra tekmerion e semeion: i segni sono tutti semeia. Manetti (1994: 146) avanza l’ipotesi che la scomparsa del tekmerion sia una conseguenza dell’abbandono del sillogismo e della sua distinzione in figure. • Emerge un’altra distinzione: Segno particolare (o proprio) (idion semeion) è un segno necessario, in quanto non può esistere senza la cosa significata (cfr. segno necessario di Aristotele) Segno generale (o comune) (koinon semeion) può esistere sia che l’oggetto non percepito esista, sia che non esista (Filodemo, De signis, I, 1-19; XIV, 2-11). I segni comuni non sono legati necessariamente a un tipo di oggetto, ma possono indicarne uno tra molti, come ad esempio lo sbadiglio, che può essere segno di stanchezza o di noia, oppure possono attivare una inferenza, non sempre valida (es. la bontà di un uomo segno della sua ricchezza). (cfr. segni di seconda e terza figura di Aristotele).
• Un’altra opposizione (filologicamente più incerta, ma che Sesto assimila alla prima): «Dei segni […], secondo costoro [i dogmatici], alcuni sono rammemorativi (hypomnestika], altri indicativi (endeiktika]. Chiamano segno rammemorativo quello che, osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, appena esso si presenta, se quella è avvolta nell’oscurità, ci conduce a ricordare la cosa che è stata osservata insieme a tal segno e che non si presenta ora in maniera evidente, come avviene per il fumo e il fuoco. È invece indicativo, come dicono, quel segno che, non osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, pure, per la propria natura e costituzione, segnala ciò di cui è segno; così, per esempio, i movimenti del corpo sono segni dell’anima» (Sesto Empirico, Hyp. Pyrrh., II, 100-101) Segno rammemorativo (hypomnestikon semeion): è qualcosa che in altre occasioni è stato osservato in congiunzione con qualcos’altro, e che, in assenza di quest’altro, permette di richiamarlo alla memoria, come il fumo quale segno del fuoco (Sesto Empirico, Adv. Math., VIII, 152; Pyrrh. Hyp., II, 100): Segno indicativo (endeiktikon semeion) è qualcosa che segnala qualche altra cosa la cui natura resta non accessibile (Sesto Empirico, Pyrrh. Hyp., II, 101). Ne sono esempi i movimenti del corpo che costituiscono segni dell’anima o il rossore che diviene segno della vergogna (Sesto Empirico, Adv.Math., VIII, 173), o il sudore, segno dell’esistenza dei pori.
Il segno ha la forma della implicazione (se p allora q): il fumo non è segno se qualcuno non lo interpreta come antecedente di un ragionamento ipotetico (se c’è fumo…) che si correla per inferenza al conseguente (...allora c’è fuoco) (Eco 1984:29). «Il segno non riguarda quel fumo e quel fuoco, ma la possibilità di un rapporto da antecedente a conseguente che regola ogni occorrenza del fumo (e del fuoco). Il segno è tipo, non occorrenza» (Eco 1984: 30). Solo se già possiedo la legge generale per cui “se fumo allora fuoco” sono in grado di rendere significante il dato sensibile vedendolo come quel fumo che può rivelarmi il fuoco (ivi: 32). Nonostante la differenza tra la coppia semainon/semainomenon e semeion, nella semiotica stoica teoria del linguaggio e teoria dei segni cominciano a fondersi : perché ci siano segni occorre che siano formulate proposizioni e le proposizioni debbono organizzarsi secondo una sintassi logica che è rispecchiata e resa possibile dalla sintassi linguistica. I segni affiorano solo in quanto sono esprimibili razionalmente attraverso elementi del linguaggio. Il linguaggio si articola in quanto esprime eventi significativi (cfr. Lotman: la lingua è sistema modellizzante primario).
La teoria del segno si inserisce in una metafisica secondo cui il reale è costituito da una catena ininterrotta di eventi, legati tra loro da rapporti di causa-effetto. Tali relazioni sono considerate necessarie in quanto dipendenti dall’ordine razionale della divino. Pertanto, la consequenzialità necessaria nella relazione segnica valida riproduce quella stessa consequenzialità che si rintraccia a livello della concatenazione degli eventi. Si viene così a istituire una relazione necessaria tra concetti e proposizioni sul piano logico e tra cause ed effetti sul piano metafisico. Gli dei possiedono la conoscenza dell’intera catena causale che lega gli eventi, mentre tale conoscenza è preclusa agli uomini. Questi ultimi non possono conoscere le cause ma solo gli indizi caratteristici delle cause degli eventi e su questi si basano per predire il futuro. Ma i condizionali intorno al futuro degli uomini mancano di necessità. Nella scienza umana, che per gli stoici è la dialettica, il segno deve basarsi su un’implicazione necessaria, ma non di tipo analitico e a priori (come, “se è giorno, c’è luce”), bensì epistemologico: il segno è una inferenza che va dalle cose manifeste a quelle non percepite, è cioè un fattore di accrescimento del sapere.
Agostino di Ippona (354-430 d.C.) Con Agostino la teoria del segno e quella del linguaggio convergono (anticipa di 15 secoli quanto accadrà con Saussure). Il trattato De dialectica (387 d.C) testimonia la vicinanza di Agostino alla dottrina stoica. Anche per Agostino la conoscenza umana poggia sui segni. Differenze: ! Per gli stoici segni (semeia) sono i segni non verbali (fumo che svela il fuoco; cicatrice che indica la ferita), Agostino include nei segni anche i segni verbali, accanto ai gesti, alle insegne militari, alle fanfare, alla pantomima, ecc.: «Noi diciamo in generale segno tutto ciò che significa qualche cosa, e fra questi abbiamo anche le parole» (De magistro, 4.9). ! Gli stoici avevano centrato l’attenzione sull’enunciato come congiunzione tra semainon e semainomenon, Agostino considera la singola espressione linguistica (verbum:parola) congiunzione del significante con il significato. ! La teoria del linguaggio degli stoici è formale (il lekton non coincide con alcuna sostanza) e centrata sulla significazione, la teoria del segno di Agostino ha un carattere psicologistico (i significati si trovano nell’animo) e comunicazionale (passano nell’animo dell’ascoltatore) (Manetti, Le teorie del segno nell’antichità classica, 1987: 227)
dicibile (cfr. lekton) vox articulata res Agostino, De dialectica, cap. V Res indica un oggetto qualsiasi, percepibile con i sensi o con l’intelletto, oppure non percepibile Designazione: la parola può rimandare a se stessa come proprio referente, in tal caso è verbum (cfr. funzione metalinguistica); oppure può rimandare a un referente diverso (funzione denotativa), e allora è dictio. Questa nozione è l’elemento di congiunzione tra la teoria del linguaggio e quella del segno (Baratin, 1981): la dictio assume alcune delle funzioni che prima spettavano all’enunciato, in particolare quella di essere segno. Dictio traduce l’espressione stoica lexis (significante articolato, “la più piccola parte dell’enunciato costruito”).
La parola assume ora le funzioni che erano state attribuite dagli stoici all’enunciato, in particolare quella di essere segno. De dialectica, cap. V: • «La parola è, per ciascuna cosa, un segno che, enunciato dal locutore, può essere compreso dall’ascoltatore». • Il segno è «ciò che presentandosi in quanto tale alla percezione sensibile, presenta anche qualche cosa alla percezione intellettuale (animus)». • Il nome significa una cosa, è «segno di» qualcosa. • Agostino unifica la prospettiva equazionale e quella inferenziale a livello della singola parola, senza più considerare i rapporti di equivalenza. • Il modello del segno linguistico finirà gradualmente per diventare il modello semiotico per eccellenza. • La conoscenza delle parole viene così implicata nella conoscenza delle cose.
De doctrina Christiana (397 d.C.) «Ogni insegnamento ha come oggetto cose (res) o segni (signa): ma le cose si apprendono per mezzo di segni. Definisco ora cose in senso proprio quelle che non servono per significare qualcosa, per esempio legno pietra pecora e altro di tal fatta; non però il legno che, come leggiamo, Mosè gettò nelle acque per toglierne l’amarezza, né la pietra che Giacobbe si era posto sotto il capo né la pecora che Abramo immolò in luogo del figlio. Queste cose infatti sono tali da essere anche il segno di altre cose. Ci sono infatti cose di cui facciamo uso solo per significare (in significando), per esempio le parole: nessuno ne fa uso se non per significare qualcosa. Di qui si capisce che cosa io intendo per segno: una cosa che serve per significare qualcosa. Perciò ogni segno è anche una cosa, perché ciò che non è una cosa, non esiste affatto: invece non ogni cosa è anche segno». (De doct.chr. I, II 2) «Il segno è una cosa (res) che, al di là dell’impressione che produce sui sensi, di per se stessa, fa venire in mente (in cogitationem) qualcos’altro» (De doct.chr. II, I, 1).
Significazione naturale Dei segni, alcuni sono naturali (naturalia), altri intenzionali (data). Sono naturali quelli che, senza alcuna intenzionalità e volontà di significare, fanno conoscere, a partire da sé, qualcos’altro oltre sé, come il fumo significa il fuoco: lo fa senza intenzione di significare, ma perché grazie alla osservazione e all’esperienza sappiamo che là sotto c’è il fuoco, anche se si vede solo il fumo. Appartiene a questo genere di segni la traccia dell’animale che passa; e il volto di una persona adirata o triste ne rivela lo stato d’animo anche indipendentemente dalla volontà di chi è adirato o triste, e così dicasi di altro sentimento che viene indicato dall’atteggiamento del volto, anche se noi nulla facciamo per indicarlo […]
Significazione intenzionale Segni intenzionali (data) sono quelli che gli esseri viventi si scambiano gli uni con gli altri per far conoscere, per quanto è possibile, le emozioni del loro animo, i sentimenti, i pensieri; e non c’è altro motivo per noi di significare, cioè di dare un segno, se non per effondere e trasferire nell’animo di un altro ciò che ha nel proprio animo colui che dà il segno […]. Anche gli animali si scambiano tra loro segni con i quali esternano gli appetiti del loro animo: il gallo quando ha trovato da mangiare con voce segnala (dat signum vocis) alle galline di accorrere, e il colombo chiama con un verso lamentoso la colomba e così viene da lei chiamato […].
Posto della parola tra gli altri segni Dei segni con i quali comunichiamo tra noi i nostri sentimenti (sua sensa), alcuni riguardano la vista, i più l’udito, ben pochi gli altri sensi. Così, quando facciamo un cenno, diamo il segno solo agli occhi di colui che in questo modo vogliamo rendere partecipe della nostra volontà. Certi movimenti delle mani significano molte cose e gli attori col movimento di tutte le membra comunicano alcuni segni agli spettatori esperti e quasi conversano con i loro occhi; le bandiere e le insegne militari trasmettono ai soldati attraverso gli occhi la volontà dei comandanti […]. Ma tutti i segni di tal genere, a confronto con le parole, sono molto pochi, perché gli uomini hanno assegnato in primo luogo alle parole il compito di significare tutto ciò che meditano in cuor loro, se hanno intenzione di comunicarlo […]. Infatti, tutti quei segni, i cui vari generi ho brevemente accennato, li ho potuti esprimere con le parole, mentre assolutamente non potrei esprimere le parole con quei segni”. (De doct. Chr. II, III, 4). Il linguaggio verbale è un “sistema modellizzante primario” (cfr. Lotman): questo diviene il criterio della divisione fondamentale dei segni (in verbali e non verbali).
Segni visivi e segni uditivi Tra i segni uditivi ci sono quelli estetici emessi dagli strumenti musicali ma anche quelli comunicativi emessi dalla tromba militare. Ma soprattutto le parole: «Le parole, in effetti, hanno ottenuto tra gli uomini il primissimo posto per l’espressione dei pensieri di ogni genere, che ciascuno di essi vuole esternare» (De doct. Chr. II, III, 4). Tra i segni percepibili con la vista vengono considerati i cenni della testa, i gesti, i movimenti corporei degli attori, le bandiere e le insegne militari, le lettere. Segni che riguardano altri sensi sono l’odorato, il gusto, il tatto.
In sintesi Cose Cose che significano Cose in altre cose (segni) senso proprio Signa naturalia (semeia) Signa data (segni intenzionali) (symbola) Fumo Orma Espressione del volto Prodotti dagli esseri umani Prodotti dagli animali visi visivi uditivi
Signa naturalia e signa data Diversamente da Aristotele, che includeva i gridi animali tra i segni naturali [De interpr. 16a], Agostino include i segni prodotti dagli animali tra i signa data. Aristotele opponeva “naturale” e “convenzionale”. Per Agostino i signa data non sono segni convenzionali, ma segni intenzionali, prodotti per intenzione comunicativa (De doctr. Christ., II, III, 4). Proprio per il loro carattere intenzionale i segni animali vengono inclusi in una stessa categoria con quelli umani. L’accento posto sulla nozione di intenzione deriva dall’orientamento della semiologia di Agostino verso la comunicazione: «I segni intenzionali, o meglio creati espressamente in vista della comunicazione, possono essere messi in corrispondenza del symbolon di Aristotele e della combinazione stoica di un significante con un significato; quelli naturali, ovvero già esistenti come cose, corrispondono invece ai semeia, sia aristotelici che stoici» (Manetti, 1987: 240).
res Non significanti significanti segno Verbale Non verbale: Voce articolata gesti, insegne, lettere, parola tromba militare Altra parte del Nome in senso particolare discorso: si, nihil, vel, etc. nome Segno udibile di cose Segno udibile di segni udibili (funzione denotativa: (funzione metalinguistica: dictio) significante verbum) Res sensibili: Romolo, Roma, fluvius Res intelligibili (virtus)
Una semantica a istruzioni • Nel De Magistro si trovano tracce di una concezione semantica affine al modello di ‘semiosi illimitata’ di Peirce: come si può stabilire il significato dei segni? • Il significato di un segno può essere stabilito o espresso mediante altri segni (un sinonimo, un gesto, un dito puntato, un’ostensione) (Markus, 1957, Manetti, 1987: 240). • Semantica dei termini categorematici e sincategorematici: «si nihil ex tanta superis placet urbe relinqui» (Se agli dei piace che nulla sia lasciato di sì grande città (Troia), Virgilio, Eneide, 2,659). • Problema del significato di espressioni come si, nihil, ex. Il significato di ex non è de (criterio dell’equivalenza), ma separazione (da qualcosa che non esiste più, come Troia, o da qualcosa di ancora esistente, come Roma) (criterio dell’implicazione): Se A appare nei contesti x, y, allora significa B; ma se B allora C > regole comuni sia al modello istruzionale che alla semiosi illimitata. • Il significato di un termine «è un blocco di istruzioni per le sue possibili inserzioni contestuali, e per i suoi diversi esiti semantici in contesti diversi (ma tutti ugualmente registrabili in termine di codice)» (Eco 1984: 34) • La semiologia di Agostino assume il modello implicazionale per spiegare anche il funzionamento del segno verbale, proponendosi come una sintesi delle acquisizioni semiolinguistiche del mondo antico (teoria della parola come segno) e anticipazione della semantica «a istruzioni» (Manetti, 1987: 241).
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