SEMIOTICA 2020-21 II MODULO 7-9 APRILE 2021 - PROF. ILARIA TANI - Modalità compatibilità

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SEMIOTICA 2020-21
II MODULO
7-9 APRILE 2021
PROF. ILARIA TANI
Naturalismo classico
• Epicuro (IV-III sec. a. C.) aveva considerato il linguaggio come qualcosa di «necessario e
  naturale quanto la stessa sensazione immediata» (FFS, I: 105).

Lettera ad Erodoto
Il linguaggio è un’attività umana sviluppata attraverso due stadi distinti:
• nel primo stadio il linguaggio esprime una relazione con la realtà di tipo naturale (emissioni di
    suoni sotto lo stimolo involontario e naturale delle affezioni e delle immagini): reazione
    istintiva all’ambiente. La diversità delle lingue è qui spiegata come diversità degli ambienti in
    cui si trovano i diversi popoli (posizione naturalista)
• nel secondo stadio si introduce la convenzione, a seguito di un movimento di
    razionalizzazione che rende le espressioni naturali più chiare e più concise; e dell’intervento
    di parlanti colti, che tendono a introdurre concetti relativi a cose che non ricadono nella
    percezione (e che dunque non appartengono allo stadio naturale).

Posizione intermedia nella polemica physis/nomos:
Per Epicuro i nomi sono simboli (come per Aristotele), in quanto non riproducono le proprietà
degli oggetti, ma sono naturali (come per Platone) nella loro origine.

Su questa linea si era posto Lucrezio (I sec. a.C.), secondo cui «il linguaggio si sviluppa come
un campo particolare dall’impulso generale verso l’espressione mimico-sensibile, che è innata
e naturale nell’uomo, e che è insita in lui come opera non di riflessione, ma inconsapevole e
involontaria» (FFS, I: 106).
Naturalismo in età moderna: Giambattista Vico
                      (1668-1744)
Alla filosofia di Epicuro si riallaccia nel XVII secolo Vico, nei suoi Principi di una
scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni (1725).

Vico respinge una spiegazione convenzionalistica dell’origine del linguaggio,
difendendo l’idea di un legame naturale delle parole con i loro significati.

• In realtà «quasi tutte le parole sono sorte da qualità naturali delle cose o da
 impressioni sensibili e da emozioni» perciò non appare implausibile l’idea di
 un “dizionario universale” «che indichi il significato delle parole in tutte le
 diverse lingue articolate e le riconduca nel loro insieme ad un’unità originaria»
 (FFS, I: 107) (ciò porta Vico a sviluppare una “etimologia” speculativa del
 tutto arbitraria e ingenua).

• Vico fa intervenire gli elementi fantastico-passionali non solo nella genesi del
 linguaggio, ma anche nelle lingue dell’”uomo civile” che nasce dalla
 trasformazione dell’uomo selvatico grazie alle istituzioni (Formigari 2001:
 142).
Orientamento antropologico: sviluppo della specie umana dall’animismo
primitivo al regno della coscienza, attraverso l’uso dei segni.
L’uomo diviene un essere “discreto”, capace di astrarre e sceverare. Ma gli
elementi fantastico-passionali permangono come strategie adattative del
linguaggio (Formigari, Il linguaggio. Storia delle teorie, Laterza 2001: 139-142)

• Lingua degli dei: uomini imbestiati, dominati dai sensi e dalla fantasia e sprovvisti
 di raziocinio: espressione muta, fatta di gesti e rappresentazioni emblematiche
 (cenni).

• Lingua degli eroi: fase patriarcale e del potere aristocratico: procedure simboliche
 e corpose, produzione di metafore come catacresi (generalizzazione fantastica:
 un solo aspetto, il più rilevante e sensuoso dell’oggetto definito, diviene un tipo;
 analogie tra cose distanti) (voci).

• Lingua degli uomini: avvento della ragione e costituzione delle repubbliche:
 linguaggio emancipato dalla sacralità delle formule e dalla naturale somiglianza
 delle cose, le parole diventano espressione di astrazioni. Il linguaggio diviene una
 istituzione tra le altre, basata sulla convenzione. Ma si conserva l’attività
 metaforizzante come principio permanente della produzione linguistica.
L’importanza di Giambattista Vico

• Nella riflessione di Vico, “al di là delle sue peculiarità barocche”, Cassirer
 individua un passaggio importante per gli sviluppi successivi:

     «In luogo del rapporto, per così dire, statico tra suono e significato,
     subentrò qui un rapporto dinamico: il linguaggio venne ricondotto alla
     dinamica del parlare e quest’ultima poi venne a sua volta ricondotta alla
     dinamica del sentimento e dell’affetto. Quanto più decisamente il sec.
     XVII mise in evidenza la posizione singolare del sentimento, quanto più fu
     spinto ad ammettere che in esso si trovi la base specifica e l’originaria
     potenza creatrice del mondo spirituale, tanto più si vide ricondotto, per
     quanto concerne la teoria dell’origine del linguaggio, alla dottrina di Vico»
     (FFS, I: 108).
e dei suoi eredi
• Rousseau è stato tra i primi ad accettare la dottrina di Vico elaborandola nei
 particolari nel suo Essai sur l’origine des langues, 1782.

• Ma è in particolare Johann Georg Hamann a condividere diversi punti della
 riflessione di Vico, tra cui la sua concezione della poesia come “lingua madre”
 del genere umano. Per lui il linguaggio è «il padre della ragione e della
 rivelazione, il suo alfa ed omega», «la ragione è linguaggio, logos», ma
 proprio in quanto tale mostra l’insussistenza della ragion pura (contro Kant)
 (FFS, I: 109):

     «E infatti il linguaggio non è un’accolta di simboli discorsivi convenzionali
     per concetti discorsivi, ma è il simbolo e il rispecchiamento della stessa
     vita divina che ovunque ci circonda, visibile-invisibile, misteriosa e
     rivelata. Come per Eraclito, così per Hamann in esso vi è tutto ad un
     tempo: estrinsecazione e privazione, occultamento e rivelazione. L’intera
     creazione, la natura come la storia, non è altro che un discorso del
     creatore alla creatura mediante la creatura» (FFS, I. 109-110)
Vico e Humboldt

Jürgen Trabant:
• Apeliotes oder der Sinn der Sprache. Wilhelm von Humboldts Sprach-Bild, München,
  Fink, 1986
• La scienza nuova dei segni antichi. La sematologia di Vico, Roma-Bari, Laterza, 1996
• Cenni e voci. Saggi di sematologia vichiana, Napoli, Arte tipografica, 2007
• Cenni, voci e parole. Vico e Humboldt, in Albano Leoni et al. (a cura di), Tra linguistica
  e filosofia del linguaggio. La lezione di Tullio De Mauro, Roma-Bari, Laterza, 2013.

Vico e Humboldt rispondono a tre domande della tradizione filosofico-linguistica
europea:
   ! La funzione del linguaggio
   ! L’origine del linguaggio
   ! La diversità delle lingue

Nella loro riflessione si oppongono alle figure filosofiche centrali della loro
epoca: Vico a Descartes, Humboldt a Kant; così facendo si oppongono al De
interpretatione di Aristotele (che rappresenta lo sfondo comune di Descartes e
di Kant).
Funzione del linguaggio
Secondo la classica concezione europea di Aristotele la mente (psyché) forma concetti
(pathemata tes psyches) che sono immagini (homoiomata) delle cose (pragmata). Le
immagini e le cose sono uguali per tutti. Le voci sono segni (semeia) diversi nelle diverse
lingue, connesse con i concetti ad placitum (arbitrariamente).

Vico critica «la massima di «Aristotele»: «Che le voci umane articolate significano a
placito»

   «Ma delle lingue volgari egli è stato ricevuto con troppo di buona fede da tutti i filologi
   ch’elleno significassero a placito, perch’esse, per queste lor origini naturali, debbono
   aver significato naturalmente».

Humboldt critica l’idea che la lingua nasca per convenzione e che la parola non sia che
un segno di una cosa da essa indipendente:

   «Sull’interessante svolgimento di ogni studio linguistico esercita l’effetto più infelice la
   veduta ristretta secondo cui la lingua si sarebbe originata per convenzione, e la parola
   altro non sarebbe che il segno di una cosa da essa indipendente o di un concetto
   altrettanto indipendente. Questa opinione, fino ad un certo punto innegabilmente
   giusta, ma falsa quando sia sospinta troppo oltre, uccide ogni spirito e bandisce ogni
   vita, non appena diventi dominante» (1806).
Lingua e immaginazione
Per Vico la lingua è soprattutto elaborazione del pensiero prodotta non in modo
arbitrario ma a immagine delle cose, in quanto opera della immaginazione.

Che le voci siano naturali (non arbitrarie) non significa che siano universali:
piuttosto presentano «diversi aspetti» delle cose perché sono legate alle diverse
nature e ai diversi costumi dei popoli:

  «siccome han guardato le stesse utilità o necessità della vita umana con aspetti diversi»

Anche per Humboldt la lingua non è un mezzo per comunicare il già noto ma per
scoprire qualcosa di nuovo, cioè per formare (bilden) pensieri. La formazione del
pensiero è un processo iconico, analogo allo schematismo kantiano. Anche per
Humboldt questo processo del pensiero non è universale ma dipende dalla diversità
delle lingue, che non sono insiemi di suoni e segni fonicamente diversi ma
semantiche diverse (Weltansichten):

  «La somma del conoscibile si trova, come campo che la mente umana deve coltivare, fra tutte le
  lingue e indipendente da esse, al centro; l’uomo si può avvicinare a questo campo puramente
  oggettivo solamente secondo la sua maniera di pensare e di sentire, cioè in maniera soggettiva».
• Sia Vico che Humboldt riconoscono anche la funzione comunicativa
 del linguaggio (presupposta nella definizione dell’uomo come un
 essere sociale), ma la funzione specie-specifica del linguaggio è
 quella cognitiva (la funzione che Bühler chiama Darstellung).
Origine del linguaggio
Su questo punto le strade di Vico e di Humboldt si allontanano:

• Humboldt dichiara esplicitamente di non volersi occupare della questione
 (una delle più discusse nella tradizione filosofico-linguistica europea),
 innanzitutto per ragioni scientifiche: dei mondi preistorici non sappiamo nulla,
 non ci sono documenti; sappiamo però come funziona il linguaggio, è

     «il lavoro eternamente ripetuto della mente per rendere il suono articolato capace di esprimere
     il pensiero».

  Non sappiamo nulla dell’origine come inizio temporale, ma possiamo
  osservare e descrivere il linguaggio nell’attività di produzione. Humboldt qui
  riprende la distinzione di Kant tra cominciamento (Anheben) e scaturigine
  (entspringen).

  Vico invece non vede alcun problema nel raccontare una storia sull’origine
  dell’umanità priva di conferme documentali, la sua è una prospettiva pre-
  kantiana e pre-storicistica.
• La storia di Vico si spinge oltre il linguaggio fonico e verbale, è una storia della
  semiosi umana.

• Il pensiero dell’inizio si appropria del mondo con il corpo intero: il corpo intero si
  riferisce al mondo e il corpo intero imita questo mondo.
• Deixis e mimesis (poiesis) sono i primi momenti e movimenti di questa origine.
  Non è solo la voce che si riferisce al mondo, cioè mostra e imita il mondo, ma
  tutto il corpo: movimenti deittici delle braccia, movimenti mimetici del corpo.

• All’inizio questi cenni e atti sono più importanti delle voci, però cenni e voci,
  semiosi visiva (lettere) e semiosi fonica (lingue) hanno lo stesso compito e
  nascono insieme: «Nacquero esse gemelle […] le lettere con le lingue».

• Solo gradualmente il pensiero diviene fonico e il linguaggio sempre più articolato:
  addomesticando il suono selvaggio, il gemello fonetico diviene sempre più
  importante. Vico è un sematologo (Trabant): la sua prospettiva sulla genesi della
  conoscenza umana può essere accostata a Peirce, per il quale il pensare è
  sempre incorporato (embodied): non si dà mai pensiero indipendente da un
  significante (representamen). Il pensiero usa tutte le possibilità del corpo,
  soprattutto i cenni, gli atti, gli schemata del corpo visivo e tattile. Come in Vico, la
  filosofia della conoscenza di Peirce non è una filosofia del linguaggio ma una
  filosofia semiotica.
• Al contrario, Humboldt parla solo della voce, mai del corpo, è molto linguistico e
  molto grammatico. L’articolazione (fonetica e semantica: doppia articolazione) è al
  centro della sua teoria linguistica, è l’essenza del linguaggio.

• Il suo concetto di lingua è molto più ridotto di quello di Vico, riguarda solo la lingua
  fonica, verbale.

• Le lingue sono articolazioni diverse del mondo, segmentazioni diverse del campo
  del conoscibile (Weltansichten).

• Humboldt si concentra proprio su questa diversità linguistica in cui vede,
  leibnizianamente, la ricchezza della mente umana: la sua linguistica è una
  scienza della mente umana nella sua diversità; le lingue vanno descritte nella loro
  individualità (carattere) e la loro «totalità» ci dice cosa sia il linguaggio umano. La
  scienza di Humboldt è una scienza ermeneutica («Studium», non propriamente
  scienza): ricerca di forme individuali.

• Anche Vico vede la diversità delle cose umane, ma mira all’universale dietro la
  diversità (il dizionario mentale comune), la sua posizione è quella della vecchia
  epistemologia (basata sul concetto di universale sovratemporale).
In conclusione
• Le critiche antiaristoteliche di Vico e di Humboldt possono aiutarci a ripensare
 alcuni orientamenti della contemporanea filosofia cognitiva, che assume
 spesso il pensiero come una dimensione universale mentale (universal
 grammar: Chomsky) o come il prodotto di un corpo universale (Lakoff,
 Johnson), senza considerare il linguaggio e soprattutto senza considerare le
 lingue, ridotte a strumenti di comunicazione. Le diversità semantiche
 sarebbero cose da trascurare.

• Vico ci insegna che la linguistica si deve anche occupare delle altre forme di
 semiosi se vuole capire davvero il linguaggio.

• Humboldt ci insegna che la linguistica deve essere anche (non solo) una
 disciplina ermeneutica.
Ritorno al pensiero classico
Essere, pensiero e linguaggio

  «Il problema filosofico dell’origine e dell’essenza del linguaggio è in fondo antico
  quanto il problema dell’essenza e dell’origine dell’essere» (FFS, I: 63)

• Nella filosofia occidentale la riflessione sul linguaggio nasce all’interno della
 riflessione sull’essere (ontologia) e la sua conoscibilità (gnoseologia).

• Cassirer sottolinea una cesura tra la mentalità arcaica che si esprime nella
 forma del mito e l’approccio filosofico al linguaggio proprio dell’età classica.

  «La cesura ha una sua ragion d’essere nella teoria cassireriana delle forme
  simboliche      (mito,    linguaggio,    conoscenza)     come    configurazioni
  fenomenologiche dello Spirito, ma crea qualche imbarazzo allo storico, che
  dovrebbe spiegare il passaggio, nel giro di poche generazioni, dalla
  concezione magica della parola ad analisi metalinguistiche raffinate come
  quelle dei filosofi del V-IV secolo a. C.» (Formigari 2001: 27).
Parola e cosa nel pensiero mitico
Nel pensiero mitico parola e cosa sono equivalenti: manca ancora l’idea del
simbolo come pure la nozione di designazione; il nome coincide con l’essenza
della cosa (Locke distinguerà invece essenza nominale/essenza reale), la
parola appare dotata di poteri magici: possedere il nome implica esercitare un
dominio sull’oggetto (“prassi” magica) (FFS, I: 64).

• Cfr. Introduzione:
  «Pertanto per le prime manifestazioni, per così dire, ingenue e irriflesse del pensiero
  legato al linguaggio, e così pure per il pensiero del mito è caratteristico come per esse
  il contenuto della “cosa” e quello del “simbolo” non si distinguano nettamente, ma con
  perfetta indifferenza siano soliti trapassare l’uno nell’altro. Il nome di una cosa e la
  cosa stessa sono inseparabilmente fusi; la mera parola o immagine cela in se stessa
  un magico potere grazie al quale ci è dato appropriarci dell’essenza della cosa. E
  basta soltanto volgere questa intuizione dal reale all’ideale, da ciò che appartiene alla
  cosa a ciò che appartiene alla funzione per scoprire effettivamente in essa un fondo di
  vero. Perché in effetti, nello sviluppo immanente dello spirito, l’acquisizione del
  simbolo costituisce sempre un primo e necessario passo per l’acquisizione della
  conoscenza obiettiva dell’essenza» (FFS I: 25)
Eraclito
                                 (VI-V sec. a.C.)

• Rappresenta un momento di passaggio a una nuova epoca, segnata dalla
 trasformazione della «connessione mitico-magica delle forze» «in una
 connessione della ragione» (FFS, I: 66), nella identità «tra la totalità del
 linguaggio e la totalità della ragione» (FFS, I: 71).

• Logos è «ciò che guida il tutto», regola universale del linguaggio e del pensiero,
 che può essere colta solo nella totalità dei fenomeni linguistici e del pensiero.

• Accento sull’antifrasi: «l’arco ha per nome vita e per opere la morte»; «ogni
 singolo contenuto linguistico è sempre ad un tempo rivelazione e velame della
 verità dell’essere; è sempre ad un tempo puramente significativo e solamente
 allusivo» (FFS, I: 69)

• Questa prospettiva metafisica unifica due opposte concezioni: «la dottrina
 dell’identità di parola e di essere e dell’opposizione tra parola ed essere», (FFS, I:
 69).
• Le due linee che Eraclito aveva cercato di unificare dopo di lui si divaricano,
 alimentando il dibattito sulla correttezza dei nomi (cfr. Senofonte, Memorabili):
 tra la forma linguistica e la forma dell’essere sussiste un legame naturale
 oppure convenzionale? (FFS, I: 70).

• Cratilo (tra i maestri di Platone e allievo di Eraclito, secondo Aristotele)
 svilupperà il primo punto (le parole consentono di conoscere l’essenza delle
 cose), la sofistica il secondo.

• Se si accetta la connessione tra linguaggio e pensiero, «l’elemento di arbitrio,
 che inevitabilmente è legato alla parola, non dovrà rendere problematica
 anche la determinatezza oggettiva e la necessità oggettiva del pensiero e dei
 suoi contenuti?» (FFS, I: 70).

• Su queste considerazioni fiorisce la riflessione sofistica sulla relatività di tutta
 la conoscenza e sull’uomo come “misura di tutte le cose”.
• La sofistica «si trova perfettamente a suo agio in quel dominio intermedio
 delle parole, che sta tra la realtà “oggettiva” e la “soggettiva”, tra l’uomo e le
 cose; essa si consolida in questo dominio per condurre da qui la sua lotta
 contro le pretese del pensiero “puro” che si pretende universalmente valido»
 (FFS, I: 70).

• Apre così allo sviluppo dell’eristica come speculazione estrema sulla
 molteplicità semantica della parola, sull’ambiguità e l’arbitrio delle parole.

• Contro questi esiti relativistici Socrate enfatizza «la determinatezza e
 univocità» del significato, non come un dato ma come una «latente
 esigenza».

  «La presupposta unità del significato delle parole diviene per lui il punto di partenza
  nel quale egli inserisce la sua domanda caratteristica, la domanda del ti esti, sul
  significato identico e permanente del concetto […]. Sullo sfondo della mutevole e
  indeterminata forma delle parole deve essere mostrata l’identica e durevole forma dei
  concetti, come il vero eidos che solo fonda la possibilità sia del parlare che del
  pensare» (FFS, I: 71).

• In questo quadro si colloca la riflessione di Platone sul linguaggio.
Platone
                       (Atene 428/7 a.C – 348/7 a.C.)

• semeion:
  • divinazione (Repubblica, 382; Timeo, 71a-72 b; Fedro, 244b-c);
  • scrittura e linguaggio (Fedro, 247c-276a; Sofista, 262a: nome = semeion tes
    phones, “segno vocale”);
  • fatti psicologici, in particolare memoria: la mente è descritta come una tavoletta di
    cera su cui sono impressi i segni prodotti dalla percezione [ton aistheseon semeia]
    (Teeteto, 191a-195b).

  deloma: segno linguistico =, “rivelazione” di una entità non percepibile
  (“significato” di una parola, o “essenza” di un oggetto) (Cratilo, Sofista).
Cratilo
• Porta  alle estreme conseguenze (reductio ad absurdum) l’idea della
 correttezza dei nomi (della coalescenza parola-cosa, linguaggio-essere),
 attraverso il confronto tra l’idea naturalistica (rappresentata da Cratilo) di una
 relazione parola-cosa basata sulla somiglianza e l’opposta tesi della
 convenzionalità (Ermogene) dei nomi.

• La soluzione viene trovata in una terza tesi, basata su «una più profonda
 relazione indiretta»:

  «nella costruzione e nel graduale procedere del sapere dialettico la parola mantiene
  un posto e un valore ad essa propri. Gli incerti confini, la stabilità sempre soltanto
  relativa del significato delle parole diventano per il dialettico uno sprone per elevarsi in
  contrapposizione e in lotta con esso, all’esigenza dell’assoluta stabilità del contenuto
  significativo dei concetti puri» (FFS, I: 72).

• Il valore della parola consiste nel suo farsi strumento di insegnamento e
 distinzione di essenze, ma come ogni strumento, le parole possono essere
 usate più o meno bene. La vera conoscenza si pone al termine del percorso
 dialettico.
Platone qui affronta problemi fondamentali, su cui si soffermerà la successiva
riflessione filosofica e linguistica.
(Kretzmann, Plato on the correctness of names, in “American Philosophical
Quarterly”, 8, 1971).

1.   Cratilo e Ermogene ritengono entrambi che il nome è sempre corretto rispetto
     all’oggetto cui viene applicato.

2.   Ma secondo Cratilo la correttezza ha un fondamento naturale (“esiste
     naturalmente un genere di correttezza del nome”), mentre secondo Ermogene
     è basata sull’accordo e sull’abitudine “la correttezza dei nomi è la
     convenzione”)

3.   Per Cratilo il rapporto di correttezza è universale (è lo stesso per i greci e i
     barbari); per Ermogene la relazione di correttezza è limitata alla comunità
     linguistica che ha stabilito l’accordo: «Nessun nome esiste per natura per
     nessuna cosa particolare, ma piuttosto per legge e per abitudine di quelli che
     usano il nome e chiamano le cose attraverso esso»; «I nomi sono
     convenzionali e rivelano le cose a quelli che hanno stabilito la convenzione»; i
     nomi possono essere cambiati: Qualsiasi nome uno imponga ad una cosa è
     quello corretto; e se uno cambia questo nome per un altro, il secondo è non
     meno corretto del precedente».
Socrate confuta entrambe le posizioni per sostenere una tesi alternativa:

• Se Ermogene avesse ragione (tesi convenzionalista), la dialettica sarebbe
 minacciata da un soggettivismo che renderebbe impossibile giungere a
 conclusioni ferme e condivise.

• Se Cratilo avesse ragione (tesi naturalista), la ricerca dialettica su che cosa sia
 una certa entità sarebbe impedita dal fatto che il nome-immagine dell’oggetto ne
 rivelerebbe la natura prima ancora che la ricerca dialettica abbia inizio.

• Per Socrate il nome è una “rivelazione” (deloma), non però dell’oggetto o della
 sua essenza, ma dell’opinione (doxa) che si erano fatti degli oggetti i primi
 “nomoteti”, cioè i creatori di nomi. Il nome funziona sulla base di due fattori: l’uso
 (ethos) e la relazione che si stabilisce tra gli utenti del nome (xyntheke o
 “convenzione”).

• Accentuazione della funzione comunicativa rispetto alla funzione cognitiva: il
 linguaggio in sé non è uno strumento sufficientemente valido ai fini del
 raggiungimento della conoscenza, per cui è necessario rivolgersi direttamente
 alle cose stesse, ma può essere un ottimo strumento di comunicazione.
Strumentalismo linguistico
• La contrapposizione natura-convenzione (physis/nomos) perde parte della sua
 forza: la strumentalità del linguaggio deve comunque sottostare a fini (insegnare e
 distinguere) che non possono essere puramente soggettivi.

• Il significato sta nel valore generico del segno, nella sua capacità di designare
 classi di oggetti consapute (Pagliaro).

  • «L’idea della lingua come strumento di controllo e organizzazione dell’esperienza vale per ogni
    filosofia che tiene distinta la sfera del pensiero e quella dell’essere. Confutare le posizioni
    estreme serve a Platone per distinguere la sfera linguistica dalla sfera ontologica, per dire che
    una cosa sono le parole e altro gli enti, per affermare la funzione conoscitiva del linguaggio e al
    contempo i suoi limiti come strumento euristico» (Formigari 2001: 31).

• L’idea del linguaggio come strumento della conoscenza si salda con quella della
 mediazione linguistica come dispositivo primario del rapporto con il mondo.

• Giudice    di un buon uso delle parole è il dialettico, che davanti
 all’’indeterminatezza e all’instabilità del significato delle parole si mette a ricercare
 l’«assoluta stabilità del contenuto significativo dei concetti puri» (FFS, I: 72).
La VII Lettera
• Si ricollega direttamente al Cratilo, individuando diversi gradi della conoscenza
 che conducono alla intuizione del vero essere: i gradi inferiori della conoscenza
 sono costituiti dal nome (onoma), dalla definizione delll’oggetto (logos) e dal suo
 riflesso sensibile (eidolon):

  «Così ad esempio l’essenza del cerchio è concepita in questa triplice maniera: una volta in
  quanto semplicemente pronunciamo il nome di cerchio, un’altra in quanto determiniamo e
  circoscriviamo con maggior rigore questo nome attraverso la spiegazione di ciò che con
  esso si intende, in quanto, per esempio, “definiamo” il cerchio come quella figura che in tutti
  i sensi ha la medesima distanza fra i punti della periferia e il centro, e finalmente in quanto
  ci poniamo dinanzi una qualsiasi figura sensibile, sia essa tracciata sulla sabbia o preparata
  dal tornitore come immagine, modello del cerchio. Nessuna di queste rappresentazioni date
  nella parola, nella definizione e nel modello raggiunge e coglie la vera essenza del cerchio»
  (FFS, I: 72)

• Si tratta infatti di gradi preliminari, che appartengono al dominio del divenire, ma
 preparano i gradi più alti (quarto e quinto) della conoscenza, quella scientifica e
 l’intuizione dell’idea. Il nome e l’immagine sono cioè «gli strumenti mediante i
 quali solamente noi possiamo elevarci con un progresso graduale e continuo alla
 conoscenza» (FFS, I: 73).
Importanza della VII Lettera

  «In questi sviluppi della VII Lettera platonica, per la prima volta nella storia
  del pensiero, viene fatto il tentativo di determinare e circoscrivere in senso
  puramente metodologico il valore conoscitivo del linguaggio. Il linguaggio è
  riconosciuto come un primo punto di partenza della conoscenza, ma esso,
  del pari, non è che un semplice punto di partenza. La sua consistenza è
  ancora più fugace e mutevole di quella della rappresentazione sensibile; la
  forma fonica della parola o della proposizione che si costruisce con gli
  onomata e i remata coglie il contenuto specifico dell’idea ancor meno di
  quanto non faccia il riflesso o copia sensibile. E tuttavia, d’altra parte, rimane
  conservato un nesso determinato tra parola e idea» (FFS, I: 73).
Importanza di Platone

• «Ogni linguaggio in quanto tale è “rappresentazione”, è presentazione di un
 “significato” determinato mediante un “simbolo” sensibile» (FFS, I: 74). In
 Platone per la prima volta il concetto di rappresentazione acquista un
 significato centrale.

• Il rapporto tra parola e idea è definito dal concetto di “partecipazione”
 (méthexis), che implica un elemento di identità e uno di non-identità:

  «Parola e linguaggio mirano all’espressione del puro essere, ma non lo
  attingono mai, perché in essi alla designazione di questo puro essere si
  mescola sempre la designazione di un’altra “qualità” accidentale
  dell’oggetto. Perciò quel che costituisce la vera forza del linguaggio ne
  indica sempre anche la vera debolezza, che lo rende inadatto
  all’esposizione del supremo contenuto conoscitivo, del contenuto realmente
  filosofico» (FFS, I: 75).
Aristotele
                                    (384-322 a.C.)
      Categorie grammaticali e categorie di pensiero

L’analisi delle forme logiche e quella delle forme del linguaggio sono più
intimamente legate, come dimostra la nozione stessa delle “categorie”, che
sono al contempo «le più generali relazioni dell’essere» e «i sommi generi della
predicazione»:

  «Nella categoria di sostanza traluce il significato grammaticale del “sostantivo”,
  nella quantità e qualità e nel “quando” e “dove” traluce ancora chiaramente il
  significato degli aggettivi e degli avverbi di luogo e di tempo e, in particolare, le
  ultime quattro categorie, il poiein [fare] e il paschein [patire], l’echein [avere] e il
  keisthai [giacere], risultano chiare solo se messe in rapporto con determinate
  distinzioni essenziali a cui la lingua greca si attiene nella designazione del verbo
  e dell’azione verbale. La speculazione logica e quella grammaticale sembravano
  qui corrispondersi vicendevolmente e fondarsi l’una sull’altra nel modo più
  completo, e così pure il Medioevo si è attenuto a questa corrispondenza
  seguendo Aristotele» (FFS, I: 76).
Retorica vs dialettica

La “filologia” del Rinascimento mette radicalmente in discussione la filosofia
aristotelico-scolastica e la sua correlazione tra logica e grammatica, ponendo il
nucleo specifico del linguaggio non nella grammatica ma nella stilistica. «Sotto
questo punto di vista i grandi stilisti del Rinascimento attaccano la sillogistica e
le sue forme “barbariche” non tanto sotto l’aspetto logico quanto sotto quello
estetico» (Lorenzo Valla, Dialecticae disputationes), per poi risalire all’originario
concetto platonico della dialettica contro la sua accezione aristotelico-
scolastica.

  «In nome di questo concetto viene ora posta l’esigenza di risalire dalle
  parole alle “cose”, ma tra le scienze della realtà, conformemente alla veduta
  centrale del Rinascimento, che gradualmente si afferma con sempre
  maggiore decisione, stanno al primo posto la matematica e la teoria
  matematica della natura. Di conseguenza, anche nell’ambito della pura
  filosofia del linguaggio, all’orientamento diretto verso la grammatica si
  contrappone sempre più coscientemente e decisamente» l’orientamento alla
  matematica da cui viene fatta dipendere la comprensione sistematica del
  linguaggio (FFS, I: 77-78).
Descartes
Ideale dell’unità del sapere e dell’unità del linguaggio: mathesis universalis e
lingua universalis

  «Come in tutte le conoscenze che pretendono di essere chiamate tali ricorre sempre
  solo l’unica e identica forma fondamentale della conoscenza che è quella della
  ragione umana, così anche alla base di ogni parlare deve stare l’unica forma razionale
  del linguaggio in generale, che viene sì celata dalla ricchezza e varietà delle forme
  lessicali, ma non può da esse essere resa del tutto irriconoscibile».

  «il complesso della coscienza umana, con tutti i contenuti che possono venire a far
  parte di essa, forma un tutto rigorosamente ordinato. Come, perciò, da simboli
  numerici relativamente poco numerosi si può costruire l’intero sistema dell’aritmetica,
  alla stessa maniera anche mediante un numero limitato di simboli linguistici, solo che
  vengano collegati tra loro secondo determinate regole universalmente valide, si
  dovrebbe poter indicare la totalità dei contenuti del pensiero e la sua struttura. Certo,
  Descartes rinunziò allo sviluppo di questo piano: infatti, poiché la creazione del
  linguaggio universale presupporrebbe l’analisi di tutti i contenuti di coscienza nei loro
  elementi ultimi, nelle “idee” semplici costitutive, essa può essere intrapresa con
  successo solo dopo che questa analisi è giunta al termine ed è stato così raggiunto lo
  scopo della “vera filosofia”» (FFS, I: 78)
Progetti di lingue universali
• Sulla scia della riflessione cartesiana, si assiste nel periodo immediatamente
  successivo a un proliferare di sistemi di lingue universali artificialmente create.

• Nella loro diversità, sono accomunate dal principio «che vi sia un numero limitato di
  concetti, che ciascuno di essi si trovi in una relazione reale assolutamente determinata
  con gli altri, in un rapporto cioè di subordinazione e che lo scopo di una lingua
  veramente perfetta debba consistere nel portare ad adeguata espressione in un
  sistema di simboli questa gerarchia naturale dei concetti» (FFS, I: 79)

• Tra gli esempi citati da Cassirer:
   • Dalgarno, Ars signorum vulgo character universalis et lingua philosophica, 1661
   • Wilkins, An Essay towards a Real Character and a Philosophical Language, 1668

• Non si interrogano propriamente su come trovare l’“ordine naturale”, le vere relazioni
  fondamentali dei concetti, si limitano ad un livello strettamente tecnico.

• Solo Leibniz torna ad interrogarsi in modo nuovo sul problema posto da Descartes,
  ponendo la necessità di un’analisi logica dei contenuti del pensiero basata sull’analisi
  matematica, inscindibile dalla caratteristica.
Differenze tra Descartes e Leibniz
• Come per Descartes, per Leibniz l’autentica lingua universale della conoscenza dipende
  dalla conoscenza stessa, dalla “vera filosofia”.

• Diversamente da Descartes, per Leibniz non si parte dal compiuto possesso della
  conoscenza per poi elaborare la caratteristica universale, al contrario, l’analisi delle idee
  procede solo attraverso la produzione di simboli: come l’algoritmo del calcolo differenziale
  non è solo un mezzo per esporre quanto è stato già trovato ma un metodo d’indagine, così il
  linguaggio non segue il pensiero ma spiana la strada al pensiero.

• Il razionalismo di Leibniz ha una forma più sensibile di quello di Descartes, in quanto mette in
  luce il rapporto tra pensiero e sensibilità: solo il pensiero divino coglie in modo puramente
  intuitivo, immediato, le essenze; lo spirito finito, anche nei gradi più alti della conoscenza
  (algebra, aritmetica), procede necessariamente in modo mediato, simbolico (cieco). Tuttavia
  «ogni simbolo sensibile è portatore di un significato puramente spirituale, che naturalmente
  in esso è dato solo in modo “virtuale” e implicito» (FFS, I: 83).

• Per Descartes la lingua universale è la forma razionale posta alla base di ogni parlare, che
  «pur celata dalla ricchezza e varietà delle forme lessicali» può essere comunque svelata a
  partire da un numero limitato di simboli linguistici (FFS, I: 78). Per Leibniz la lingua
  universale è solo un ideale a cui tendere, non qualcosa di dato da portare alla luce, in tale
  ideale si rivela l’essenza del linguaggio come «testimone autentico dell’unità della ragione»
  (FFS, I: 84).
Stilistica vs grammatica universale
La prospettiva empiristica, con il riconoscimento accordato alla diversità delle
lingue nella realizzazione dei “modi misti”, incrina la fiducia nella possibilità di
una grammatica universale, basata su una concezione logica del linguaggio,
sostituendola con la stilistica di ogni lingua, basata non solo sulla prospettiva
psicologica (Locke) ma anche su quella estetica.

Questo passaggio si afferma con particolare forza con Diderot (Lettre sur les
sourds et muets, 1798), che affronta la questione della individualità della forma
linguistica (e della intraducibilità di un’opera poetica), a partire da un problema
specifico, quello della “inversione” linguistica:

  «la rappresentazione complessiva, il tono e il suono del tutto restano sempre un
  singolare, sottile e intraducibile “geroglifico”» (FFS, I: 96)
Un nuovo concetto di universale
• Con Herder e il romanticismo si afferma un nuovo modo di considerare
 l’universale, non più come astratta unità, contrapposta ai casi particolari ma
 come totalità dei casi particolari.

• Dal punto di vista linguistico, non si va più alla ricerca della struttura della
 lingua universale, dietro le lingue particolari, ma ogni lingua consente
 l’accesso all’universalità del linguaggio (FFS, I: 115).

  «Ovunque viene ora cercato un “universale“: ma questo non viene inteso come
  l’astratta unità di un genere, che si contrapponga ai casi singoli, ma come un’unità che
  si presenta soltanto nella totalità dei particolari. Questa totalità e la legge, il nesso
  interno che in essa si esprime: ecco ciò che ora viene considerato come la genuina
  universalità. Ciò per la filosofia del linguaggio significa che essa rinuncia una volta per
  sempre a scoprire dietro la varietà dei casi singoli e dietro la fortuità storica delle
  singole lingue la struttura universale di una lingua fondamentale e originaria; significa
  pure che essa ricerca la vera universalità dell’“essenza“ del linguaggio non in concetti
  astratti dai casi particolari, ma nella totalità di questi casi particolari. In questa
  connessione dell’idea di forma organica e dell’idea di totalità è indicata la via per la
  quale Wilhelm von Humboldt raggiunge la sua concezione filosofica che racchiude in
  sé al tempo stesso una nuova fondazione della filosofia del linguaggio» (FFS, I: 115).
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