San Bonaventura informa - Pontificia Facoltà Teologica "San Bonaventura"

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San Bonaventura informa - Pontificia Facoltà Teologica "San Bonaventura"
San Bonaventura
                ANNO IX - Nº 102/103
                                                                                           informa

Editoriale                                                           In questo numero
Sant’Antonio di Padova e la spiritualità francescana

Antonio ha contribuito in modo significativo allo svi-
luppo della spiritualità francescana, con le sue spiccate
doti di intelligenza, di equilibrio, di zelo apostolico e,
principalmente, di fervore mistico. […]
Antonio ci ricorda che la preghiera ha bisogno di un’at-
mosfera di silenzio che non coincide con il distacco dal
rumore esterno, ma è esperienza interiore, che mira a
rimuovere le distrazioni provocate dalle preoccupazioni
dell’anima, creando il silenzio nell’anima stessa.
Secondo l’insegnamento di questo insigne Dottore fran-
cescano, la preghiera è articolata in quattro atteggia-
menti, indispensabili, che, nel latino di Antonio, sono
definiti così: obsecratio, oratio, postulatio, gratiarum
actio. Potremmo tradurli nel modo seguente: aprire fi-
duciosamente il proprio cuore a Dio; questo è il primo
passo del pregare, non semplicemente cogliere una pa-
rola, ma aprire il cuore alla presenza di Dio; poi collo-
quiare affettuosamente con Lui, vedendolo presente con
me; e poi - cosa molto naturale - presentargli i nostri
bisogni; infine lodarlo e ringraziarlo.
In questo insegnamento di sant’Antonio sulla preghiera         focus:  800  anni      di   sant’antonio
cogliamo uno dei tratti specifici della teologia france-       francescano - p. 2
scana, di cui egli è stato l’iniziatore, cioè il ruolo asse-
gnato all’amore divino, che entra nella sfera degli affet-     vita francescana: la preghiera nella
ti, della volontà, del cuore, e che è anche la sorgente da     regola non bollata - p. 5
cui sgorga una conoscenza spirituale, che sorpassa ogni        santità francescana: francesco di osuna,
conoscenza. Infatti, amando, conosciamo. […]                   mistico della scuola spagnola - p. 8
Antonio più volte invita i fedeli a pensare alla vera ric-
chezza, quella del cuore, che rendendo buoni e miseri-         tra penultimo e ultimo: il cristianesimo,
cordiosi, fa accumulare tesori per il Cielo. […]               l’ultimo che passa per il penultimo - p. 11
Non è forse questo un insegnamento molto importante            storia e personaggi: padre stefano ignudi,
anche oggi, quando la crisi finanziaria e i gravi squilibri    illustre dantista - p. 15
economici impoveriscono non poche persone, e creano
condizioni di miseria? Nella mia Enciclica Caritas in          la fraternità dei laici: charles gounod e
veritate ricordo: “L’economia ha bisogno dell’etica per        la sua “ave maria” - p. 19
il suo corretto funzionamento, non di un’etica qualsiasi,      miscellanea francescana: l’attualità
bensì di un’etica amica della persona”.                        nella teologia e nella chiesa - p. 22
Antonio, alla scuola di Francesco, mette sempre Cristo
                                                               novità editoriali:     suggerimenti     di
al centro della vita e del pensiero, dell’azione e della       lettura - p. 24
predicazione. È questo un altro tratto tipico della teolo-
gia francescana: il cristocentrismo.                           appuntamenti: esercizi spirituali, convegni
                                                               e corsi del nuovo a.a. - p. 26
                                          Benedetto XVI        francescanamente parlando: don coppola
                                                               coordinatore     di   “fratelli tutti”;
           Dall’Udienza generale del 10 febbraio 2010          “in parole francescane” - p. 28

luglio/agosto 2021
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focusantonio 20-22

                    800 anni di sant’Antonio francescano
                SUI PASSI DELLA STORIA CON IL PROGETTO “ANTONIO 20-22”

                       di Alberto Friso*

Antonio segreto è il titolo di un bel romanzo storico uscito da pochi mesi per le Edizioni Messaggero
Padova. Un titolo quanto mai indovinato, problematizzante. Come è possibile sia «segreto» colui che
è definito come «il Santo che il mondo ama»? Tutta la cristianità (e non solo) conosce Antonio, ma
si perde poi fin da subito anche sulle più elementari
note biografiche, tanto che, ad esempio, ancora è
quasi sempre necessario precisare che il nostro è
familiarmente «di Padova», ma non «da Padova».
Sì, è singolare la collocazione di sant’Antonio nella
storia della Chiesa e nella percezione che di lui
ha il popolo di Dio. Doctor Evangelicus, illustre
teologo, Santo dei miracoli, riferimento dei dotti e
dei piccoli, potente intercessore, amico degli ultimi,
una fama che travalica i confini dei tempi e delle
religioni… Come si spiega? «Perché a te, Antonio?»
si interrogava senza alcuna retorica padre David
Maria Turoldo, cercando con lo sguardo della fede
e dell’intelletto di penetrare il mistero della santità.
La domanda è ancora là, a disposizione di quanti
vogliano cimentarsi.
La rubrica che San Bonaventura informa avvia con                          Fonte:Archivio SBi

questo numero del mensile cercherà di entrare nella vita e nella storia di Antonio di Padova a partire
dagli anni di Fernando da (questa volta sì) Lisbona, nelle pieghe della biografia e del carisma del frate
portoghese e del suo lascito spirituale.
A ben guardare, ogni facoltà teologica francescana è figlia di quella brevissima lettera, quasi un tweet
di Francesco al suo confratello, un telegramma se preferite, gravido di conseguenze: «A frate Antonio,
mio vescovo, frate Francesco augura salute. Ho piacere che tu insegni la sacra teologia ai frati, purché
in questa occupazione tu non estingua lo spirito dell’orazione e della devozione, come è scritto nella
Regola» (FF 251, 252).
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Non abbastanza si sottolinea che questo «dilemma» Antonio lo risolse al meglio, ricomponendo nella sua
persona il profilo del dotto e dell’orante, l’insegnamento e la preghiera, lo studio e la contemplazione,
in un tutt’uno esemplare che parla ancora oggi tanto all’erudito quanto al semplice fedele.
In definitiva, per lo spessore, la fama, la storia, l’affinità di condizione (chi oggi come oggi non si trova
a dover fare i conti con la conciliazione tra fede e ragione, feria e festa?), non ci sarebbe necessità di
un’occasione particolare per occuparsi di Antonio.
Tuttavia, il pallottoliere della storia ci offre tre significativi anniversari ottocentenari in successione
che caratterizzano dal punto di vista antoniano il triennio 2020-2022 e che diventano opportunità per
tornare a interrogare la figura di Antonio di Padova.
Riavvolgiamo il nastro fino al 1220 e fermiamoci a Coimbra. Qui vive il giovane canonico agostiniano
portoghese don Fernando Martins de Bulhões, al monastero di Santa Croce dove ha modo di incontrare
cinque frati italiani diretti missionari in Marocco. La loro predicazione li porta nel giro di pochi mesi a
essere martirizzati: sono i protomartiri francescani venerati a Coimbra e a Terni. La loro testimonianza
spinge don Fernando a volerne replicare le gesta: lascia gli agostiniani, abbraccia i francescani, prende
il nome di Antonio, parte per il Marocco dove però si ammala gravemente... Frustrato, tenta di rientrare
in Portogallo, ma una furiosa tempesta lo sbatte sulle coste della Sicilia, nella primavera del 1221.
Ospitato dai frati di Messina, Antonio a piedi risale con loro l’Italia fino ad Assisi, dove il 30 maggio
per la prima volta incontra Francesco nel contesto della grande assemblea del Capitolo delle stuoie.
Terminata l’assise, il giovane si aggrega a una fraternità romagnola diretta verso il nord Italia.
Fa vita eremitica sulle colline forlivesi, a Montepaolo, finché il 24 settembre 1222, sceso a Forlì per le
ordinazioni sacerdotali, viene a mancare il predicatore preposto, nessuno se la sente di improvvisare,
viene chiesto a frate Antonio e… tutti possono apprezzare la sua capacità ed efficacia di evangelizzatore.
La dimensione dell’annuncio, il mandato di far conoscere Gesù tra la gente rimarrà il suo tratto distintivo
per il resto dei suoi giorni.
Per valorizzare questi anniversari è stato varato il progetto «Antonio 20-22», voluto e ideato dai Frati
minori conventuali della Provincia
Italiana di S. Antonio di Padova, in alcune
delle principali sue diverse espressioni:
la Basilica del Santo, il Messaggero di
sant’Antonio, l’Associazione Cammino
di sant’Antonio, il Centro Francescano
Giovani - Nord Italia, la Peregrinatio
antoniana. «Antonio 20-22» è inoltre
patrocinato direttamente dall’intera
famiglia francescana che vive e prega nel
                                                                         Fonte:Archivio SBi
nostro Paese, ovvero i frati (conventuali,
minori, cappuccini e il Terzo ordine regolare, con l’Unione Conferenze dei Ministri Provinciali della
Famiglia francescana d’Italia); le clarisse (Federazioni delle Clarisse in Italia); le suore francescane
di vita attiva (MoReFra, il Movimento delle Religiose Francescane); i laici francescani (OFS d’Italia,
Ordine francescano secolare).
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Svariate sono le iniziative che si stanno vivendo in questi mesi, al netto degli sconvolgimenti che la
pandemia ha portato, annullando gli eventi in Marocco e limitando quelli in Portogallo previsti nel 2020.
Per l’Italia, la più evocativa delle proposte prevede di attraversare a piedi a staffetta l’intero stivale
lungo la direttrice sud-nord, per un totale di 1990 chilometri in poco meno di cento tappe.
Per farlo, si seguirà il «Primo cammino» percorso da Antonio nel nostro Paese, da Capo Milazzo
                                                                             (ME), dove egli sbarcò,
                                                                             naufrago (nella foto la
                                                                             rievocazione del marzo
                                                                             scorso), fino ad Assisi dove
                                                                             Antonio giunse, dicono le
                                                                             fonti, «come potè».
                                                                             Da      qualche    anno     i
                                                                             «tracciatori» del Cammino
                                                                             di sant’Antonio, afferenti
                                                                             all’omonima associazione,
                                                                             stanno infatti lavorando
                             Fonte: www.santantonio.org
                                                                             all’impresa di individuare il
percorso più idoneo tra Sicilia, Calabria, Campania, Lazio e Umbria, dove tale Cammino strutturato
ancora non esiste.
Il tratto successivo di collegamento con Padova è invece già tracciato, frecciato, registrato nell’Atlante
digitale dei cammini d’Italia del MiBACT, descritto nella Guida al Cammino di sant’Antonio. 430
chilometri a piedi da Padova a La Verna, EMP - Terre di mezzo (Padova-Roma 2018). Si aggiungono
infine due altri tronconi: un collegamento Montepaolo-Rimini e un cammino più strutturato,
inaugurato lo scorso giugno, che collega Gemona del Friuli (UD), custode della prima chiesa dedicata
a sant’Antonio, con Padova. Questi tratti «accessori» verranno camminati nel 2021; da luglio a ottobre
2022, invece, il percorso da Capo Milazzo a Padova. «Antonio 20-22» non è poi solo pellegrinaggio
a piedi: una serie di eventi di carattere culturale, spirituale, divulgativo, di comunicazione stanno
interessando i territori attraversati.
Le varie iniziative – tra cui la rubrica antoniana che prende il via con questa introduzione – aiuteranno
a scoprire «Antonio segreto»? Troppo facile sarebbe rispondere affermativamente. L’auspicio è
che déstino sana curiosità e che aiutino a ripensare un’immagine a volte troppo stereotipata, nella
convinzione che l’approfondimento della biografia, del pensiero e della vocazione di Antonio non
scalfirà l’affetto di cui già egli gode, ma potrà a Dio piacendo aumentarlo, rendendo il Santo un
inseparabile compagno di strada nel cammino della vita.

*Francescano secolare, giornalista e project event manager di “Antonio 20-22”

      Antonio 20-22

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vita francescana

                     LA PREGHIERA NELLA REGOLA NON BOLLATA
                             protettiva E rivolta al sommo bene

                       di Emil Kumka*

La preghiera di Francesco si nutre e riflette la Parola di Dio, che per lui fu pari al sacramento, poiché in
essa l’Assisiate percepiva la presenza reale e viva del Signore. Non è sorprendente dunque che nei suoi
scritti laudativi, esortativi, giuridici ed epistolari, la tematica del pregare, adorare, contemplare, rendere
grazie a Dio è sempre accompagnata da citazioni bibliche, scelte e unite insieme con un’intuizione
geniale, perché guidata dallo Spirto Santo.
Francesco non offre un trattato di preghiera, neanche un metodo rigido o forme che dovremo osservare
in maniera particolare. Ciò che lascia è lo spirito di preghiera autentica, cosicché Tommaso da Celano
dipinge un quadro di Francesco orante: «Quando pregava
nelle selve e in luoghi solitari, riempiva i boschi di gemiti,
bagnava la terra di lacrime, si batteva con la mano il
petto; e lì, quasi approfittando di un luogo più intimo e
riservato, dialogava spesso ad alta voce con il suo Signore:
rendeva conto al Giudice, supplicava il Padre, parlava
all’Amico, scherzava amabilmente con lo Sposo. E in
realtà, per offrire a Dio in molteplice olocausto tutte le
fibre del cuore, considerava sotto diversi aspetti Colui che
è sommamente Uno. Spesso, senza muovere le labbra,
meditava a lungo dentro di sé e, concentrando all’interno
le potenze esteriori, si alzava con lo spirito al cielo. In tale
modo dirigeva tutta la mente e l’affetto a quell’unica cosa                        Fonte:Archivio SBi

che chiedeva a Dio: non era tanto un uomo che prega, quanto piuttosto egli stesso tutto trasformato in
preghiera vivente» (Mem 94).
Nella RegNB possono essere individuati diversi brani che parlano o si riferiscono alla preghiera. Non è
luogo qui per fare una rassegna, ma si tratta piuttosto di cogliere alcune caratteristiche e forse anzitutto
la dimensione particolare che il Serafico Padre attribuisce a quest’attività di vita, affinché possa essere
veramente religiosa.
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«Dice il Signore: «Questa specie di demoni non se ne può andare se non con il digiuno e con la
preghiera» (cfr. Mc 9,28). E ancora: «Quando digiunate, non assumete un’aria malinconica come gli
ipocriti» (Mt 6,16). Perciò tutti i frati, sia chierici sia laici, recitino il divino ufficio, le lodi e le orazioni
così come sono tenuti a fare. I chierici facciano l’ufficio e lo dicano per i vivi e per i morti, secondo la
consuetudine dei chierici. E per i difetti e le negligenze dei frati dicano, ogni giorno, il Miserere mei,
Deus (Sal l50) con il Pater noster; per i frati defunti dicano il De profundis (Sal 129) con il Pater noster.
I laici poi dicano […] per i defunti sette Pater noster con il Requiem eternam; per le mancanze e le
negligenze dei frati tre Pater noster ogni giorno» (RegNB 3,1-6.10).
Oltre alla chiara partecipazione nella preghiera liturgica della Chiesa, la preghiera riparatoria per le
mancanze dei confratelli è un appello molto caratteristico per il senso autentico della fraternità.
Si crede un appunto che vale la pena ricordare e prendere seriamente in considerazione, perché sfugge
                                                                    facilmente la carità della domanda rivolta
                                                                    a Dio per chi sbaglia, per chi è antipatico,
                                                                    per chi non fa nulla di propositivo o di
                                                                    impegnativo, per chi non se ne importa
                                                                    degli altri, per chi gode nel complicare la
                                                                    vita degli altri, ecc. La responsabilità nella
                                                                    e della preghiera è un orizzonte che fu
                                                                    molto caro a Francesco.
                                                                    «E prego il frate infermo di rendere grazie
                                                                    di tutto al Creatore, e quale lo vuole il
                          Fonte:Archivio SBi                        Signore, tale desideri di essere, sia sano
che malato, poiché tutti coloro che Dio ha preordinato alla vita eterna (cfr. At 13,48), li educa con
i richiami stimolanti dei flagelli e delle infermità e con lo spirito di compunzione, così come dice il
Signore: «Io quelli che amo, li rimprovero e li castigo» (Ap 3,19)» (RegNB 10,3).
La consapevolezza della preghiera nella malattia, quando tocca ognuno di noi, non deve limitarsi alla
supplica del ritorno alla piena salute e alla possibilità d’agire. Francesco qui scende molto profondamente
nella relazione tra il frate e Dio, proprio nella situazione in cui si verifica la speranza e la fede posta
da me nelle mani del Signore, espressa nella carità pronta ad accogliere pure la prova fisica o morale
legata alla salute. L’Assisiate ebbe la lunga e mortificante esperienza della malattia e della dipendenza
dagli altri a questo motivo, perciò, con saggezza e con fermezza indica la via giusta per ogni frate
oppresso dall’infermità, e cioè, la volontà di Dio e la sua carità che si esprime anche nei modi a noi
difficili da accettare e da comprendere con la sola ragione e volontà unicamente umana. Il rendere
grazie per la sofferenza sembra assurdo finché non si assume la prospettiva kenotica, che fu basilare
per Francesco e dovrebbe essere tale per ogni credente in Gesù Cristo. Questa è un’altra dimensione
orante del Fondatore: rendere grazie per ogni cosa, quella bella e piacevole, come per quella cattiva e
sgradevole.
«E restituiamo al Signore Dio altissimo e sommo tutti i beni e riconosciamo che tutti i beni sono suoi
e di tutti rendiamo grazie a lui, dal quale procede ogni bene. E lo stesso altissimo e sommo, solo vero
Dio abbia, e gli siano resi ed egli stesso riceva tutti gli onori e la riverenza, tutte le lodi e le benedizioni,
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E quando vediamo o sentiamo maledire o fare del male o bestemmiare Dio, noi benediciamo e facciamo
del bene e lodiamo Dio (cfr. Rm 12,21), che è benedetto nei secoli (Rm l,25)» (RegNB 17,17-19).
In Francesco troviamo una forte sottolineatura di un attributo di Dio: il bene. Da Lui ogni bene
proviene, in Lui ha la sua origine e il compimento tramite l’azione sia della grazia, sia di quell’umano
operare. Qui entrano anche forti connotazioni Trinitarie, le quali trovano nell’Assisiate la caratteristica
dominante del bene, perché la vita divina è uno scambio continuo di amore tra le Tre Persone.
Dio è percepito come bene proprio perché Trinità. Francesco in tale prospettiva proponeva la
preghiera di rendimento di grazie e di lode dovuta solo al Signore, di più, insistette tanto per
questa caratteristica di orazione dei frati. Invece l’aspetto di coprire il male e le maledizioni con le
benedizioni è un profondo messaggio teologico, nonché una sfida che noi siamo chiamati ad accettare.
Bilanciare l’azione del maligno con la benedizione e l’invocazione del Signore è fondamentale
nell’economia spirituale, e per di più,
serve a noi come un freno interiore per
non cedere alla facile maledizione rivolta
a chi ci ha fatto del male o che fa il male
gratuitamente agli altri.
Siamo invitati dal Serafico Padre a
proteggere con la benedizione le persone
che sono nel mirino del male, perché
non cadano, non disperino e non entrino
nella falsa logica che Satana suggerisce:
sei abbandonato da Dio, sei solo, di te
nessuno si prende cura, dunque Dio non
                                                                       Fonte: Avvenire
esiste. La preghiera di Francesco, e anche
nostra, è protettiva, rivolta al sommo bene che è l’unico capace di vincere e annientare l’azione del male.
«E guardiamoci bene dalla malizia e dall’astuzia di Satana, il quale vuole che l’uomo non abbia la sua
mente c il cuore rivolti al Signore Dio, e girandogli intorno desidera distogliere il cuore dell’uomo
con il pretesto di una ricompensa o di un aiuto, e soffocare la parola e i precetti del Signore dalla
memoria. […] E sempre costruiamo in noi un’abitazione e una dimora permanente (cfr. Gv 14,23)
a lui, che è il Signore Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo, che dice: «Vigilate dunque e
pregate in ogni tempo, perché siate ritenuti degni di sfuggire a tutti i mali che stanno per venire e di
stare davanti al Figlio dell’uomo (Lc 21,36). E quando vi metterete a pregare (Mc 11,25), dite (Lc
11,2): Padre nostro che sei nei cieli (Mt 6,9). E adoriamolo con cuore puro, perché bisogna pregare
sempre senza stancarsi mai (Lc 18,1); infatti il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che
lo adorano, bisogna che lo adorino in spirito e verità (Gv 4,23-24)» (RegNB 22, 19-20; 27-30).

*OFMConv, docente di Francescanesimo

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santità francescana

                                 Francesco di Osuna
                      grande mistico della scuola spagnola

                     di Raffaele Di Muro*

Francesco di Osuna nasce nel 1492 e poco si sa della sua famiglia di origine, se non il fatto che i suoi
membri sono al servizio dei conti di Urena che hanno il possesso della signoria di Osuna dal 1474.
Non ci sono notizie certe relativamente alla sua infanzia. A circa diciotto anni si orienta verso il
sacerdozio e la vita francescana entrando tra i frati minori di Castiglia.
Dal 1523 risiede nel convento di Guadalajara, dove si distingue come ottimo maestro di spirito e
punto di riferimento per il discernimento di tante persone.
Si distingue per il suo spirito di preghiera e per il suo
essere valido teologo.
Suo obiettivo importante è quello di sistematizzare
teologicamente la dimensione dell’orazione.
Per questo compone l’Abbecedario spirituale (in sei
volumi di cui gli ultimi due pubblicati postumi).
Gli vengono affidati anche incarichi di governo ai quali
rinuncia preferendo la via della preghiera e dello studio.
Nel 1534 si reca anche ad Anversa trattenendosi per due
anni e mezzo dove rimane impressionato negativamente
dagli sforzi di Enrico VIII di annullare il matrimonio con
Caterina d’Aragona.
Notevole è la sua attività letteraria con la composizione
dell’Expositionis super «Missus est» e dell’Alter
sermonum liber super «Missus est».                                            Fonte: Archivio SBi

Alla fine del 1536 torna in Spagna e riprende l’attività di scrittore e di rinomato predicatore.
Muore tra il 1540 e il 1541.
Circa la dottrina di questo autore, va detto che nell’Abbecedario egli descrive un percorso di unione con
Dio che valorizza al massimo la preghiera ed il raccoglimento. L’ascesi è davvero molto importante
nel suo impianto teologico. Essa è caratterizzata soprattutto dalla rinuncia ai beni del mondo
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per scegliere Cristo come assoluto della propria esistenza. Respinge quanto riguarda i fenomeni
straordinari e si concentra esclusivamente sulla realizzazione di un percorso di conversione.
Man mano che il credente impara a fare a meno delle attrattive della terra e riesce a trovare la giusta
concentrazione per la propria orazione, si incammina verso un itinerario di perfezione che raggiunge la
contemplazione di Dio che è tipica del cristiano perfetto.
Anche nella dottrina dell’Osuna si può riscontrare la gradualità di un itinerario che parte dalla
purificazione dovuta ad uno stile penitenziale e raggiunge la fase contemplativa.
Molto importante anche per la mistica carmelitana si rivela l’opera di questo autore che incide
notevolmente sulla mistica francescana.
Francesco, perfettamente in linea con la tradizione serafica, pone la croce di Cristo al centro della
meditazione. Significative sono le parole
che seguono: “Per cui si può affermare
che Dio si china con la sua grazia verso
i cuori, che vede occupati nelle cose
della sacra passione che riguardano
il Signore. Non ci deve stupire che il
Signore si chini e giunga a colui che
pensa alla sua passione, perché è cosa
propria del povero cercare ospitalità
dove si alberga, del malato andare da
chi lo curi, e del triste portarsi da chi
lo consoli, e del bisognoso cercare
chi lo sottragga dalle necessità. Senza
dubbio è motivo di pianto per i devoti
che il Signore appassionato per noi non
abbia ancora dove posare il capo; forse
troverà un cuore che lo voglia ricevere
per compassione. Temi per caso, anima
mia, di pungerti con la corona? Saresti
fortunata se tu, donandogli per cuscino                             Fonte:Vocazione francescana

il tuo cuore, ti coprissi delle sue piaghe. Potresti dire con la sposa, che dalla carità che gli hai chiesto di
fare, ti sono sorte delle piaghe. Questo è ciò che, da questo momento, devi ottenere. Non temere così
gloriose piaghe, perché non c’è cosa più dolce di quelle del piagato e ferito Signore. Vedendoti colpito
da queste piaghe, subito, dirà che egli è sano e si occuperà del curarsi e del dolersi con te, da ciò verrà
a te una gran consolazione” (Abbecedario spirituale, I, 3.)
La croce è motivo di meditazione e soprattutto di accoglienza da parte del contemplativo. Soffermarsi
su questo grande mistero vuol dire saperlo accogliere nella propria esistenza, sapersi conformare ai
dolori del Signore.
Il francescano spagnolo invita a non aver paura della realtà della sofferenza di Cristo perché essa è
foriera di grande consolazione.
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Infatti, il Signore che trova accoglienza nei cuori dei fedeli e li trova disposti a condividere la passione
è prodigo di gioia grande verso chi è maggiormente disponibile.
In accordo con la tradizione francescana la kenosi di Gesù fa parte integrante di un itinerario mistico,
                                                      ma è anche espressione del fatto che non basta
                                                      ammirare la croce e guardarla con distacco, bensì
                                                      a «entrare» in essa e a portarne nella propria vita le
                                                      conseguenze ed i salvifici frutti.
                                                      Notevole è il contributo spirituale di questo autore
                                                      circa l’importanza del raccoglimento in funzione
                                                      della vita mistica: insieme all’orazione questo
                                                      elemento del vissuto spirituale aiuta a progredire
                                                      nella conoscenza di sé e dei misteri di Cristo e
                                                      nella preziosa mediazione della sua umanità.
                                                      Secondo Francesco di Osuna, particolarmente
                      Fonte:Pinterest                 importante è la riflessione sulla passione del
Signore. L’amore rappresenta il cuore degli scritti di questo frate francescano: con esso si arriva
all’unione con Dio e a donare il massimo della carità possibile ai fratelli. Il suo contributo alla
spiritualità spagnola del suo tempo è di spessore.

*OFMConv, Preside del Seraphicum e docente di Spiritualità Francescana
     @raf_frate

Bibliografia

M. Q. GARCÍA, Francisco de Osuna, in Mistici Francescani IV, Editrici Francescane, Padova 2010, 343-790;
U. OCCHIALINI, Francesco di Osuna, in Nuovo Dizionario di Mistica, LEV 2016, 845-847.

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tra penultimo e ultimo

                                     I l c r is t ia n e si m o
                            l’ultimo che passa per il penultimo

                     di Domenico Paoletti*

Nella nostra riflessione su penultimo e ultimo stiamo tentando di tematizzare la loro intrinseca relazione
soffermandoci sul mistero dell’Incarnazione: evento centrale della fede cristiana, accaduto nella storia,
che tiene insieme l’Ultimo - (Dio) - la trascendenza e il penultimo - (la creazione) - l’immanenza.
Il mistero dell’Assoluto, che si scioglie restando assoluto! Questa relazione tra Dio e l’uomo in Gesù di
Nazareth provoca la ragione fino a rasentare l’assurdo dell’incomprensibile.
È sempre vero quanto afferma sant’Agostino: “Si comprehendis, non est Deus” – Se tu lo comprendi,
allora non è Dio (Sermo 117). La relazione tra Dio e l’uomo Gesù è stata ed è oggetto di riflessione e
dibattito teologico lungo i secoli, con i Concili
che hanno tentato di definire l’indefinibile: Gesù
Cristo vero Dio e vero uomo, due nature distinte
e non separate, unite nella stessa persona.
Oggi va riconosciuto che la ricerca storico-
critica spinge la teologia a ripensare, mettere in
discussione e comunque approfondire le proprie
categorie e i propri modelli e presupposti.
Questa relazione tra Dio e l’uomo, inscindibile
dopo l’Incarnazione, non è forse in parte
analogicamente ravvisabile nella relazione tra                          Fonte: Archivio SBi

‘causa prima’ e ‘cause seconde’ della filosofia classica? Una distinzione - non separazione - che aiuta a
non cadere nell’idea del “Dio tappabuchi” che interviene per supplire con la sua potenza alla deficienza
delle cause seconde.
Karl Rahner afferma che nell’uomo Gesù «la tendenza fondamentale della materia a trovare se stessa
nello spirito perviene al suo traguardo definitivo mediante l’autotrascendenza».
Possiamo dire che Dio comunica se stesso, e in tal modo permette alla materia di evolvere verso forme di
vita sempre più complesse e definitive. Per quanto riguarda l’amore radicale e incondizionato di Gesù,
verso Dio e verso le creature, possiamo riconoscere che è il pieno compimento dell’autotrascendenza
creaturale.

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La Risurrezione di Gesù nel suo vero corpo non è altro che la pienezza compiuta dell’humanum.
L’incarnazione, letta in chiave relazionale e dinamica dal profondo della realtà, non è da intendersi
                                            soltanto come la ‘struttura’ della persona di Gesù, vero Dio e
                                            vero uomo, ma anche come le concrete e storiche modalità della
                                            sua vita. Il quarto evangelista non dice che il Verbo «si fece
                                            uomo», ma che «si fece carne», per sottolineare che il Figlio
                                            di Dio non è fuggito dall’esperienza umana della caducità, del
                                            divenire, del bisogno, della solidarietà con gli altri esseri ecc.
                                            Giovanni è in polemica contro tendenze di tipo dualistico
                                            che, contrapponendo il mondo di Dio al mondo dell’uomo,
                                            insegnavano a fuggire dalla realtà umana.
                                            Per Giovanni invece lo stile di Dio non è l’evasione ma
                                            l’assunzione, in cui tutto trova il suo senso e compimento.
                                            Proprio la sfera dell’umano è il luogo della manifestazione di
                                            Dio – senza sottrarvi nulla, neppure quegli aspetti che troppo
                                            spesso si tende a ritenere indegni di Dio –, della sua presenza
               Fonte: Archivio SBi          e della sua rivelazione.
Le realtà penultime sono realtà aperte all’Ultimo, che è Gesù, il quale ha preferito una condizione
umana in tutto e per tutto simile alla nostra.
Allora non possiamo e non dobbiamo disprezzare il mondo (perché materiale e caduco) e tutta la realtà
penultima; non possiamo fuggire dal penultimo e dai suoi problemi con la scusa di andare in cerca
dell’ultimo-assoluto.
Dobbiamo invece vivere nel mondo penultimo, soffrire e partecipare, condividere e farci carico del
peso della storia umana.
Il mondo e la storia (=tutte le cose) trovano in Gesù Cristo senso e unità (cf Col 1,15-20), la storia trova
il suo significato, la consistenza a cui aspira, la radice del proprio esistere e il fine a cui tendere: in
breve, la salvezza, il compimento inteso come comunione. Cristo non è solo il rivelatore di Dio, in Lui
la realtà, ogni realtà, acquista unità, senso e coesione.
Una tale cristologia integrale si muove nella linea dell’antica riflessione sapienziale, portandola a
compimento. La riflessione sapienziale è alla ricerca dell’unità delle cose e di un senso e di un ordine
sul quale fare affidamento.
L’essere umano sperimenta oggi un particolare disagio - anche se non sempre in modo consapevole -
nella dispersione e nella frammentarietà.
Nel primo racconto di creazione di Genesi troviamo il mandato divino di ‘dominare il mondo’: cioè di
conoscerlo e di lavorarlo, di porlo al servizio di tutti gli esseri umani, di tutti e di ognuno. Ma che senso
ha alla fine tutto questo lavoro dell’uomo nel mondo, se il mondo è destinato a sparire, se l’uomo stesso
è annullato dalla morte?
La domanda posta dal Qohelet (1,1 ss.), offre una risposta forse bisognosa di ulteriore compimento:
«Tutto è vanità». A meno che tutto non possa evolversi e trasformarsi secondo un progetto di amore e
di comunione. L’inno della lettera ai Colossesi (1,15-20) ci ricorda che questo progetto c’è realmente.

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Tutta la creazione trova in Cristo la sua consistenza, la storia umana (il nostro tempo con le nostre
esperienze penultime) va oltre, perché il muro della morte/del non senso è infranto. L’incarnazione
dice che gli uomini e le loro cose hanno un valore in-finito, perché sono entrate nel mondo di Dio e
Dio è entrato nel mondo degli uomini e delle cose.
Il logos cristiano dice che Cristo Logos è il progetto: in Lui tutto trova unità e coesione. Gesù nella
sua umanità realizza la piena unità di Parola (senso ultimo) e di carne (realtà penultima).
Nel cristianesimo la verità non è dell’ordine del pensiero; ma la si coglie in un corpo e in una carne.
Nell’incarnazione Dio sperimenta la condizione umana dall’interno. Dio fa abitare la propria divinità
nella carne umana, l’uomo dona a Dio la propria umanità; Dio si fa uomo perché l’uomo, seguendo
le tracce del Figlio Gesù Cristo, incontri Dio in pienezza: ecco il sacrum commercium del Natale.
L’incarnazione narra che tutto ciò che è umano, dal concepimento di una singola persona fino alla sua
morte, è oggetto dell’interesse di Dio, avvolto dall’amore di Dio. La carne umana è la dimora di Dio;
l’umanità di Gesù Cristo è il luogo di Dio.
Il messaggio dell’incarnazione è che la vita di Gesù, nel suo quotidiano dispiegarsi - fatto di incontri
e di amicizie, di servizio e di amore, di
dedizione radicale agli altri e di obbedienza
al Padre - ci insegna a vivere secondo Dio la
vita buona, illuminando con la Risurrezione
la questione dell’esito e del senso. Il cristiano
è chiamato a essere testimone privilegiato di
questa dimensione trascendente del mondo
penultimo: cioè della vocazione del mondo
ad ‘andare oltre’. Il fatto che il cristiano
attenda il futuro sperato, non è rifiuto del
suo impegno nel mondo e del valore del
mondo: al contrario, salva quell’impegno,
gli dà consistenza e direzione.                                            Fonte: Twitter

L’escatologia cristiana, la realtà ultima, ci dice che Cristo stesso, risorto nel suo vero corpo, è il nuovo
cielo e la nuova terra, e dona senso e compimento alla ‘nostra’ terra e al ‘nostro’ cielo. L’eternità non
può essere vuota e indeterminata, perché nella temporalità glorificata del Risorto l’eternità entra
nel tempo: senza annullarlo, ma arricchendolo di una nuova consistenza. L’eternità-ultimità del
Risorto si inserisce nella storia attraverso le fasi di una temporalità rigenerata, misurata dal riceversi
‘riconosciuto’ e ‘riconoscente’ con cui ci si affida al Padre.
Il compimento dell’humanum in Cristo ha la forma del definitivo del tempo e della storia, dove
l’uomo ha costruito la sua identità che sarà per sempre. Siamo nell’attesa carica di speranza, in un
processo di trasformazione e purificazione che ci prepara alla comunione piena con Dio, con i fratelli
e le sorelle, e con tutto il creato: la Risurrezione di Gesù Cristo è l’orizzonte del compimento del
cammino e di tutta la realtà in Dio. La risurrezione, così posta al centro, illumina le realtà penultime
e i misteri/problemi della persona umana. E tutto ciò avviene nella tensione tra continuità e novità
inattesa e sorprendente, novità che va al di là della condizione precedente.
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La relazione tra l’esame di alcune realtà dell’humanum e il mistero di Gesù Cristo ci permette di
illuminare il legame tra penultimo e ultimo in prospettiva del compimento, come ben espresso
dalla nota e citata affermazione del Concilio Vaticano II: «In realtà solamente nel mistero del Verbo
incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo» (cf Gaudium et spes 22). Gesù Cristo è l’irruzione di
Dio nella storia indispensabile per rivelare l’essere umano a se stesso decifrandolo, interpretandolo e
trasfigurandolo.
Nelle prossime riflessioni cercheremo di cogliere il nesso tra i misteri e problemi penultimi dell’uomo
- nascita, crescita, libertà, amore, limite, malattia, lavoro, amicizia, solitudine, morte - e il mistero di
Cristo che li attraversa portandovi l’ultimità del senso, la “vita eterna”.
In verità la morte è il più drammatico mistero-problema dell’esistenza umana. Senza la realtà ultima
come compimento e pienezza delle realtà penultime, la morte è la fine della vita e di ogni realtà
sperimentabile. Fondata sull’evento pasquale, la fede cristiana ci ricorda che la soluzione del problema
della morte è al centro del credere. Infatti il nucleo centrale, il fondamento e la ragione dell’annuncio
cristiano è che Cristo “morendo ha vinto la morte e risorgendo ha ridato a noi la vita”. Se la ragione
                                                         chiusa al trascendente confessa la vittoria della
                                                         morte sulla vita, la fede cristiana proclama la
                                                         vittoria della vita sulla morte.
                                                         L’evento di Cristo morto e risorto non abolisce la
                                                         morte, Egli è morto e noi pure sperimentiamo la
                                                         morte, ma lo stesso morire cambia di segno: non
                                                         è lo sprofondare nell’abisso del nulla, ma la porta
                                                         che si apre sulla vita eterna con Dio, tanto che
                                                         possiamo affermare con fondamento che nella
                                                         morte la vita non è tolta ma trasformata.
                                                         È la luce pasquale che passa per le realtà penultime
                                                         a illuminare tutti gli aspetti – ombre comprese.
                                                         Questa luce non è un’idea ma un evento:
                      Fonte: Archivio SBi                « … l’incontro con un avvenimento, con una
Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte, e con ciò la direzione decisiva» (Benedetto XVI, Deus
caritas est, 1).

*OFMConv, docente di Teologia fondamentale e definitore della Custodia del Sacro Convento di Assisi
     @fraterdominicus

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storia e personaggi

                                   PADRE STEFANO IGNUDI
                     IL FRATE MINORE CONVENTUALE ILLUSTRE DANTISTA

                         di Francesco Costa*

P. Stefano Ignudi, rettore nato, che ebbe tra i chierici anche san Massimiliano M. Kolbe, non fu solo
un grande educatore, ma anche un religioso dalla cultura poliedrica, oratore affascinante, lavoratore
instancabile nell’Ordine e nella Chiesa. Ebbe forse un solo difetto: quello d’essere più papalino dei
papi, vale a dire un inguaribile nostalgico del potere temporale dello Stato pontificio. Per lui il 20
settembre 1870, data in cui l’anticlericale e massonica Italia del suo tempo, attraverso la Breccia di
Porta Pia aveva invaso lo Stato pontificio, era un giorno di lutto. Qui appresso di quest’uomo singolare,
fra l’altro, religioso di grande pietà, tracciamo un sobrio profilo prima di soffermarci brevemente sulla
sua profonda conoscenza della Divina Commedia.

Cenni biografici
Primogenito di dieci figli, nacque a Genova il 28 febbraio 1865 da Aurelio e Angela Maria Restani,
donna molto pia (era terziaria domenicana), al contrario del marito, un toscano, forse garibaldino,
avverso ai preti, che tuttavia non omise di far rigenerare al fonte battesimale il suo piccino, che chiamò
Giuseppe Michele. Dopo gli studi elementari, il primo scontro del
ragazzo con il padre che, anticlericale, si opponeva all’entrata del
figlio nel seminario arcivescovile di Genova; ma Giuseppe, tipo
volitivo, nel 1878 (aveva 13 anni), fugge da casa, ottenendo poco
dopo, in nome della libertà, anche il consenso del sig. Aurelio, che
lentamente tornerà alla pratica religiosa, e nel 1914, nel santuario
di Nostra Signora di Lourdes a Campi Cornigliano Ligure, il figlio
sacerdote celebrerà la S. Messa per il 50° del loro matrimonio.
Dopo gli studi ginnasiali, liceali e di filosofia compiuti in seminario
con esito brillante (1878-86), un cambiamento di rotta avviene nella
vita del Nostro, che decide di lasciare il seminario per abbracciare la             Fonte: Archivio SBi

vita religiosa. D’anni 21 entra nel noviziato dei frati minori conventuali in San Miniato (Pisa), mutando
il nome di battesimo in quello di Stefano ed emettendo i voti semplici il 13 dicembre 1887.

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Inizia quindi a Roma il quadriennio teologico al Pontificio Collegio di Propaganda Fide (1887-91),
laureandosi a pieni voti.
Nel frattempo, emessi il 30 marzo 1891 i voti solenni, il successivo 12 luglio è ordinato sacerdote, ma
contemporaneamente ha seguito le lezioni di mons. Giacomo Poletto alla Cattedra Dantesca (1886-
91) e ha conseguito all’Apollinare il diploma di “Alta Letteratura” italiana, latina e greca (1887-91).
Se si eccettua il biennio in cui p. Ignudi, dopo il presbiterato, è docente di letteratura italiana a Colle
Val d’Elsa (Siena) (1891-94) e un anno di docenza teologica nel convento di Genova (1894-95), egli
trascorrerà il resto della vita nella Città Eterna al servizio dell’Ordine e della Santa Sede.
Chiamato, infatti, in Curia generale (1895), è incaricato dal ministro generale Lorenzo Caratelli di
curare una nuova edizione del Manuale dei novizi e professi chierici e laici, edito nel 1897; insegna
come sostituto nell’Istituto Leoniano di Alta Letteratura all’Apollinare; inizia la pubblicazione degli
atti ufficiali della Curia generale con il titolo Notitiae ex Curia Generalitia OFMConv, che egli
personalmente dirige, e il cui titolo nel 1915 muterà in Commentarium Ordinis.
Dal 1904 al 1910 è per la prima volta Rettore del Collegio Serafico Internazionale al Palatino, dirigendo
in pari tempo la scuola dell’incipiente Facoltà Teologica.
Segretario generale dell’Ordine (1904-13), la sua figura si erge a gran “Tutor et Defensor Ordinis”,
avendo propugnato con vigore nel 1908-09 e nel 1913 il diritto all’esistenza della sua famiglia religiosa
in circostanze critiche nelle quali qualcuno si adoperava per affossarla; Guardiano ai SS. Apostoli
(1913-16), tornò di nuovo a reggere il Collegio Serafico Romano (1916-24).
P. Ignudi fu il Rettore che maggiormente influì nella formazione sacerdotale di Massimiliano M. Kolbe
                                     (1916-19, nella foto), istillandogli amore e obbedienza al Papa, e
                                     preparandolo a servirsi d’ogni mezzo lecito per la conversione dei
                                     nemici della Chiesa.
                                     Già attempato, p. Ignudi fu anche Rettore nel convento di S. Giacomo
                                     alla Lungara (1924-40), da dove si recava in via S. Teodoro per la
                                     docenza della teologia ascetica e della sacra eloquenza (1924-35).
                                     Non meno intensamente il Nostro lavorò nella Vigna del Signore.
                                     Oratore molto gradito, gli giungevano richieste da tutta l’Italia.
                                     Sarebbe lungo elencare i suoi assidui corsi di predicazione svolti in
                                     Avvento, in Quaresima, per novene, tridui, mese di maggio, mese del
                                     Sacro Cuore, in tutta l’Italia e a San Pietro in Vaticano.
                                     Per il Vicariato di Roma, nel 1907 fu censore dei libri; esaminatore del
                                     clero romano (1912-1932); redattore degli “Avvisi sacri” del Vicariato
           Fonte: Archivio SBi      per le principali festività dell’anno; redattore dell’agenzia Fides per la
Preservazione della Fede. In Vaticano nel 1918 fu eletto Consultore della S. Congregazione delle Università
degli Studi, e nel 1923 Consultore della S. Congregazione dei Riti nella sezione per le cause dei santi; fu
inoltre Consultore della S. Congregazione del Concilio per l’ufficio catechistico eletto nel 1934.
Quanto alla produzione letteraria, a parte i tre volumi postumi di commento alla Commedia di
Dante (1948-49), dei quali si dirà più oltre, non si contano gli articoli pubblicati in giornali e riviste
(L’Osservatore Romano, L’Immacolata del p. Luigi Pona, Regina dei cuori dei PP. Monfortani, ecc.);
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ma ben più preziosa dal lato storico è la registrazione degli atti dei Capitoli generali celebrati nel 1919,
nel 1924, e nel 1930, quest’ultimo celebrato al Sacro Convento di Assisi, restituito all’Ordine il 4
ottobre 1927. P. Ignudi lavorò fin quasi alla fine dei suoi giorni. Dopo breve malattia, confortato della
benedizione del Santo Padre Pio XII, si spense piamente ai SS. Apostoli il 2 giugno 1945 a 80 anni.

Il commento alla “Commedia” di Dante
Un interesse particolare ha dimostrato l’Ordine per il Divino Poeta Dante Alighieri, morto “ghibellin
fuggiasco” a Ravenna nel 1321 e sepolto presso la chiesa dei Frati Minori Conventuali di San Francesco.
È merito del p. Severino Ragazzini OFMConv († 1986) il Centro Dantesco fondato nel 1964 a Ravenna
con biblioteca specializzata, Museo della Medaglia di Dante, Cattedra dantesca, Biennale e altre
iniziative, che hanno contribuito a incrementare lo studio e l’approfondimento della vita e dell’opera
del più grande poeta italiano.
Ben più antico è, però, l’amore dei conventuali nei confronti dell’opera del sommo poeta fiorentino
giacché, poco dopo la comparsa della
Commedia vari versetti o episodi
a essa legati, sono citati dai nostri
predicatori, come in un corpus di 68
sermoni d’autore francescano.
Non è certo se quest’opera appartenga
al noto Ruggero da Piazza, grande
storico e Ministro provinciale di
Sicilia, o a uno sconosciuto Ruggero
da Eraclea. È comunque certo
che il codice risale agli anni 1367-
68. L’interesse dell’Ordine per il
capolavoro dantesco è dimostrato                                  Fonte: Archivio SBi

poi soprattutto dalle biblioteche conventuali sparse nelle varie Province, dove non mancano mai le
opere dantesche. Stante il costo della pergamena, sono piuttosto rari gli antichi possessori individuali
della Commedia, ma è possibile citare almeno il caso di fra Matteo Della Porta, arcivescovo di Palermo
(† 1377), che disponeva dell’opera intera.
Non ci è pervenuto il commento alla Commedia di fra Accursio Bonfantini da Firenze, Guardiano
di Santa Croce (1318), Inquisitore in Toscana (1327-34). Gli resta tuttavia l’onore d’aver dato inizio
alla lunga schiera d’interpreti danteschi, e non solo francescani, essendo ritenuto il primo espositore
della Commedia in Santa Croce immediatamente dopo i figli del Divin Poeta. Fino al Cinquecento non
furono pochi gli studiosi dell’Ordine che predilessero la “Divina Commedia”, come la chiamò Giovanni
Boccaccio. Non possiamo enumerarli tutti, ma non mi pare giusto tralasciare il nome del vescovo
Giovanni Bertoldi da Serravalle (San Marino) († 1445), della Provincia delle Marche che, al Concilio
di Costanza (1414-18), profittando di una lunga sosta nei lavori conciliari, tradusse in latino per i Padri
Sinodali le tre cantiche della Commedia, dotandola di un ampio Comentum.

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Dopo il Cinquecento si assiste purtroppo a un progressivo declino degli studi danteschi. In piena
Controriforma, con i protestanti che pretendevano di presentare Dante come il loro antesignano
contro il papato, il clima era tutt’altro che favorevole allo studio sereno del difficile e complesso
mondo dantesco. Da parte cattolica si giunse poi fino al disprezzo della Commedia. Il Gesuita Saverio
Bettinelli († 1808), che reputava Dante uno scrittore mediocre, privo di gusto e di chiarezza, riteneva
che nel poema dantesco potrebbe salvarsi appena un migliaio di versi!
Ma i veri capolavori come la Divina Commedia sono immortali. Presto o tardi tornano a galla.
Nel 1791 il p. Baldassare Lombardi OFMConv († 1802) ruppe il silenzio pubblicando il suo primo
volume sulla Divina Commedia con note (gli altri appariranno postumi). Bastò questa scintilla per
riaccendere il sopito amore verso l’opera maggiore dell’Alighieri. Lo dimostra il sollecito plauso
riscosso dal Lombardi, non solo dai francescani, ma anche da poeti e letterati estranei all’Ordine,
come Vincenzo Monti, Ugo Foscolo, Giuseppe Giusti, Giosuè Carducci. D’allora è ripresa la grande
fioritura di cultori del divino Poeta, in specie tra i minori conventuali, alcuni dei quali noti anche per
la loro cultura dantesca, come p. Leone Cicchitto OFMConv († 1972) e appunto p. Ignudi.
Prima della pubblicazione de La Divina Commedia. Commento, apparsa postuma a Padova nel 1948
                                                   per i tipi del Messaggero di Sant’Antonio, p. Stefano
                                                   aveva manifestato la sua passione per il Sommo
                                                   Poeta fiorentino dando inizio a una sua bibliografia
                                                   dantesca, pubblicata a Torino nel 1897 con un
                                                   commento al Canto di Dante a S. Francesco, poi
                                                   riedito in versione diversa nel 1921 e 1926.
                                                   In un suo denso profilo sul p. Ignudi dantista, apparso
                                                   nella Miscellanea Francescana del 1947, il p.
                                                   Gaetano Stano registra del Nostro un totale di 103
                                                   scritti danteschi editi e 70 inediti.
Emerge, ovviamente, il Commento alla Divina Commedia, opera originale, nel senso che si discosta
dalle solite annotazioni e spiegazioni letterali, facili a trovarsi nelle varie edizioni della Commedia.
Al p. Ignudi interessa porre in evidenza, non solo il supporto filosofico-teologico-ascetico che anima
le tre Cantiche, ma anche l’ingegnosa e meravigliosa struttura del mondo dantesco e l’insuperata
armonia letteraria e poetica. Mi pare che il prof. P. Boncompagni sintetizzi bene l’opera del p. Ignudi
nell’articolo apparso nella Miscellanea Francescana del 1953: «È un’apologia cristiana che postula
il suo valore dal ’sacro poema‘: è frutto di venti anni di meditazione, di analisi psicologica, estetica,
di ricerche, di lavoro indefesso. Teologia, scienza biblica e mistica, i Padri, i Dottori della Chiesa
irradiano di luce e amore divini il commento dell’Ignudi […]. I suoi tre volumi e commenti alle
cantiche dell’Inferno, del Purgatorio, del Paradiso, formano un mirabile trittico che sembra uscito
dalla tavolozza di Giotto per l’afflato mistico, per il fulgore estetico dalla tavolozza del Tiziano o
del Giorgione».

*OFMConv, docente emerito di Storia del Francescanesimo

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la fraternità dei laici

                  CHARLES-FRANÇOIS GOUNOD E L’AVE MARIA
       TRA LE SUE OPERE L’INNO E MARCIA PONTIFICALE DELLA CITTà DEL VATICANO

                    di Felice Autieri*

L’uomo
Charles-François Gounod fa parte di quella schiera di personaggi che, per tradizione, sono riconosciuti
come appartenenti all’Ordine francescano secolare, sebbene non abbiamo documenti che ne attestino
l’avvenuta professione.
Gounod nacque a Place Saint-André-des-Arts a Parigi il 17 giugno 1818, secondogenito del pittore
François-Louis e di Victoire Lemachois. Suo padre morì nel 1823 quando Charles aveva cinque anni,
pertanto per problemi finanziari la madre fu costretta a dare lezioni di pianoforte per poter crescere i
figli, di cui Charles fu uno dei suoi primi studenti.
Dopo aver studiato al liceo Saint-Louis terminandolo nel 1835, iniziò nel frattempo gli studi musicali con
Antonin Reicha coetaneo e amico di Beethoven, proseguendoli
poi al Conservatorio di Parigi sotto la guida dei maestri Jacques
Fromental Halévy e Jean-François Lesueur. Nel gennaio del
1831 si recò con la madre ad una rappresentazione dell’Otello di
Rossini, mentre l’anno successivo fu la volta del Don Giovanni
di Mozart: rimase folgorato, tanto che i due avvenimenti lo
convinsero a diventare un compositore. Nel 1839 si recò a Roma
a Villa Medici in seguito alla vittoria del Grand Prix di Roma
per la sua cantata Fernand, approfittò del soggiorno romano per
studiare in particolare la musica religiosa, soprattutto quella di
Giovanni Pierluigi da Palestrina. Rientrato in patria nel 1843 fu
colto da una forte crisi interiore, per la quale trasse conforto dalla
meditazione e dalla preghiera tale da spingerlo ad intraprendere
il cammino sacerdotale. Fu accolto nel seminario della diocesi
di Parigi nel 1847 dall’arcivescovo mons. Denis-Auguste Affre,                   Fonte: Wikipedia

quindi si iscrisse alla facoltà di teologia Saint-Sulpice mentre furono fondamentali per la sua formazione
spirituale i sermoni che il domenicano p. Henri-Dominique Lacordaire teneva nella cattedrale di Notre-
Dame. Tuttavia comprese di non essere chiamato al sacerdozio e lasciò il seminario nel 1848.

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Il musicista e autore de l’Ave Maria

Il Gounod è famoso per essere l’autore dell’Ave Maria, ma in realtà fu cospicua la produzione di musica
sacra e non. A lui appartengono numerose composizioni di oratori, di messe, di requiem e di mottetti,
cantici e melodie con una forte impronta del gregoriano impregnato dalla sua profonda fede religiosa.
Nel 1849, grazie al sostegno di Pauline Viardot, ottenne di musicare il Sapho opera in tre atti su libretto
di Émile Augier, che fu rappresentata per la prima volta all’Opéra di Parigi il 16 aprile 1851 e poco
dopo compose le musiche per l’Ulysse di François Ponsard.
Ormai il percorso era delineato, scrisse musica per molti cori come Le Vin des Gaulois, compose nel
1858 Le Médecin opera comica in tre atti su testo di Molière e su libretto di Jules Barbier e Michel Carré.
L’anno successivo la sua opera Faust fu rappresentata ottenendo un notevole successo con settanta
rappresentazioni nel primo anno, nel 1860 scrisse due opere buffe Filemone et Bauci e La Colombe,
infine nel 1862 musicò La Reine de Saba su libretto di Jules Barbier e Michel Carré, opera che ebbe
quindici repliche.
Nell’ultima parte della sua vita, Gounod compose una grande quantità di musica religiosa in particolare
un gran numero di messe e due oratori: La Rédemption (1882) e Mors et Vita (1885).
                                              Un discorso a parte è la celebre Ave Maria datata al 1859
                                              pensandola sovrapposta al Preludio n. 1 in do maggiore dal I
                                              Libro del clavicembalo ben temperato (BWV 846), composto
                                              da Johann Sebastian Bach 137 anni prima. Gounod vi
                                              aggiunse una battuta in un cambio di armonia del preludio,
                                              in sostanza improvvisò una melodia che si evolveva sugli
                                              arpeggi di cui era composta la partitura di Bach. Il pianista
                                              Pierre Zimmermann, suocero di Gounod, produsse una
                                              versione per violino accompagnata da un piccolo coro.
                                              Solo in seguito fu realizzato l’arrangiamento per violino,
                                              violoncello, pianoforte o harmonium, destinato ad essere
                                              eseguito in concerto con il titolo di Méditation e pubblicato
                                              dalle Heugel & Compagnie a Parigi nel 1859.
                                              Fu ancora lo Zimmermann che lo adattò al canto corale sul
                                              testo della versione latina della preghiera dell’Ave Maria,
                                              con relativo debutto il 24 maggio 1859 con esecuzione della
                                              soprano Caroline Miolan-Carvalho.
                Fonte: Archivio SBi
                                              Il Gounod non avrebbe mai immaginato che accanto all’Ave
Maria di Schubert, quella di Bach-Gounod sarebbe diventata un punto fermo delle celebrazioni dei
matrimoni negli anni a seguire.
Oggi il testo ha subito diversi arrangiamenti strumentali per violino e chitarra, quartetto d’archi,
pianoforte, violoncello e persino tromboni. Cantanti lirici, come Nellie Melba, Franco Corelli e Luciano
Pavarotti oltre a migliaia di cori in tutto il mondo, lo hanno cantato e registrato centinaia di volte nel
corso del XX secolo.
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La morte

Gounod nel 1852 sposò Anna Zimmerman (+1907), a cui rimase legato fino alla morte. Morì il 18
ottobre 1893 a Saint-Cloud mentre stava eseguendo il suo ultimo Requiem in do maggiore al pianoforte.
Il suo funerale ebbe luogo dieci giorni dopo nella chiesa della Madeleine, con l’assistenza di Camille
Saint-Saëns, Théodore Dubois all’organo e Gabriel Fauré alla direzione del coro secondo il desiderio
del defunto, eseguendo la Missa pro defunctis. Fu sepolto a Parigi, nel cimitero di Auteuil.
Pochi sanno che il Gounod fu l’autore dell’Inno e Marcia
Pontificale che è dal 1929 l’inno nazionale dello Stato
Città del Vaticano, mentre negli anni ’60 del XX secolo la
sua Marcia funebre per una marionetta datata 1873, è stata
utilizzata come colonna musicale della serie televisiva che
introduceva i film di Alfred Hitchcock.
Siamo certi che se il Gounod fosse vissuto nel XX secolo
sarebbe morto molto ricco, se non altro per i diritti d’autore
che registi, musicisti ed altri gli avrebbero dovuto pagare a seguito dell’utilizzo delle sue composizioni.

*OFMConv, docente di Storia della Chiesa e Storia del Francescanesimo

Bibliografia
Dictionnaire de la Musique en France au XIXe siècle, a cura di J. M. Fauquet, Ed. Fayard, Paris 2003, p. 523;
Y. BRULEY, Charles Gounod, Bleu nuit éditeur, Paris 2015

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