Procida Mediterranea 2022 - Il Carciofo di Procida - il mediterraneo

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Procida Mediterranea 2022 - Il Carciofo di Procida - il mediterraneo
Il Carciofo di Procida

Procida Mediterranea 2022
Il Carciofo di Procida
Mario Mori, Professore associato di Agronomia e coltivazioni erbacee, Dipartimento di Agra-
ria, Università degli Studi di Napoli Federico II
Gennaro Piccirillo, Dottore Agronomo, Dipartimento di Agraria

                                    «L’amore è più intenso tra la terra e chi la lavora da millenni.
                                    Il rapporto dell’uomo con la terra è stato storicamente
                                    complesso e tale da produrre conoscenza utile all’umanità».
                                    (Carmine Nardone)

                                   Un po’ di storia
                                   La potente e controversa Caterina de’ Medici, sposa
                                   di Enrico II, ne era così ghiotta tanto che alla corte di
                                   Francia, leggenda vuole che sia stata proprio lei ad
                                   importarlo lì, non poteva darsi un banchetto senza
                                   che di questo fosse imbandita una piccola montagno-
                                   la che quasi tutta veniva mangiata dalla regina. Addi-
                                   rittura un cronista dell’epoca scrisse di Caterina: “Si
                                   credeva di vederla scoppiare…” (1).
              Mario Mori           Michelangelo Merisi, lo straordinario Caravaggio, era
                                   arrivato finanche alle mani con un cuoco perché
                                    quest’ultimo glieli aveva serviti al burro e non all’olio
                                    come da lui richiesti (2).
                                    Lo stravagante principe Marcantonio Borghese, in un
                                    memorabile pranzo offerto a Papa Innocenzo XII, il
                                    22 aprile 1697, pare ne avesse fatti servire ben 3400
                                    (3).
                                    Il Grande Luigi XIV ne era anch’egli un notevole con-
                                    sumatore per le presunte proprietà afrodisiache.
                                    L’Illuminato Carlo III di Borbone lo definì, “il Re
                                    dell’Orto” (4).
           Gennaro Piccirillo       E ci piacerebbe immaginare che il famoso poeta e
                                    scrittore francese Alphonse de Lamartine, autore tra
gli altri del celebre romanzo “Graziella”, durante il suo soggiorno procidano, abbia co-
nosciuto non solo la dolcezza e la bellezza della sua Graziella, ma anche il sapore e il
profumo di quelli più buoni dell’isola, per lui preparati proprio dalla sua amata giovane
compagna, anche perché poverino, malato di fegato…
Se non lo avete ancora capito, stiamo parlando del Carciofo, il nostro prelibato “Re
dell’Orto”. Conosciuto fin dai tempi dei greci e dei romani, nonostante la sua diffusione
si fosse ampliata notevolmente durante il Medioevo, restava ancora una pianta piutto-
sto rara, addirittura considerata bene di lusso, destinato insomma alle tavole dei ricchi,
fino al XVIII secolo. Questa prerogativa gli consegna una improvvisa fortuna figurativa,
tanto da essere rappresentato in molti dipinti di natura morta tra la fine del Cinquecento
e la metà del Seicento. Una nuova e più vasta fase di espansione si ebbe tra il XVIII e
il XIX secolo, allorquando gli emigranti francesi e spagnoli lo portarono negli Stati Uniti.
Durante tutto l’Ottocento, quando studi scientifici e medici si intensificarono sulle sue
proprietà, vi fu un notevole incremento della sua coltivazione in Italia, in special modo
nelle regioni meridionali. Nel 1811, l’ufficio statistico del Regno di Napoli segnalava la
sua presenza nella zona di Castellammare di Stabia, di Eboli, di Capaccio, in Capitana-
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ta e nelle zone adiacenti i templi di Paestum. Ma un maggiore incremento della coltiva-
zione nell’Italia meridionale si è avuto negli anni Venti del XX secolo, grazie alle impor-
tanti opere di bonifica e trasformazione agraria dovute alla riforma fondiaria (4).
Appartenente alla famiglia delle Asteraceae, sottofamiglia Tubuliflorae, tribù Cynareae,
insomma con nome e cognome scientifico, Cynara cardunculus, subspecie Scolymus,
il carciofo è una specie poliennale. Il
suo capostipite selvatico, dopo l’ultimo
periodo di glaciazione a noi vicino, con-
quistò il bacino del Mediterraneo e in-
torno ai 10-12000 anni fa cominciarono
a differenziarsi diverse specie del gene-
re Cynara, mentre quella appartenente
alla specie Cardunculus si differenziò in
epoca più recente. Grazie all’orologio
molecolare        possiamo       individuare
l’epoca in cui l’uomo cominciò la sua
“domesticazione”, avvenuta all’incirca
duemila anni fa. Si suppone che si ope-
rò innanzitutto una selezione per carat-
teri di gigantismo puntando ad ottenere         Clara Peeters, fiamminga – Natura morta con
capolini di dimensioni molto più grandi              formaggio, carciofo e ciliegie (1625)
di quelli della pianta selvatica (5).
I greci e i romani ci hanno tramandato
moltissime testimonianze sulla pianta
coltivata, quasi tutte però di difficile deci-
frazione linguistica poiché gli scrittori
dell’epoca usavano più nomi per la
stessa pianta o ne usavano uno solo per
un gruppo di specie diverse. I greci per
esempio       adoperavano       la     parola
Scolymus per indicare varie specie di
cardo selvatico. Ma adoperavano anche
il termine Cynara che, più che una spe-
cifica pianta, indicava un gruppo di pian-
te spinose. Anche qui una leggenda.
Zeus rifiutato da una fanciulla appunto
di nome Cynara, la trasformò in una
pianta spinosa. Columella, il celebre
scrittore scientifico romano del I sec. d.
C., nel suo De Re Rustica, Liber secun-
dus, parlando della pianta nota come
Cynara, affermava che “…pinea vertice
pungit”, ossia il capolino è pungente e
che “similis calatho spinisque minanti-
bus horret”, cioè che è simile ad un ca-
nestro irto di spine pungenti. Questa de-
scrizione non ci fa certo pensare ad un
carciofo come lo intendiamo oggi, ma
piuttosto al carciofo selvatico che anco-
ra si può trovare spontaneo nel Sud Ita-
lia. Nessuna notizia certa nemmeno da-
gli scrittori arabi del periodo della con-
quista islamica del Mediterraneo, che si         Pablo Picasso – Donna con carciofo (1941)
limitavano a tradurre testi degli autori la-
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tini sull’argomento, tranne però un significativo dato linguistico per il quale la parola uti-
lizzata nei paesi mediterranei per indicare la pianta del carciofo deriva, guarda caso,
dall’arabo al Qarshuff (spina di terra) da cui l’italiano Carciofo, lo spagnolo Alcachofa, il
portoghese Alcachofra. Proprio per questo potremmo ipotizzare che gli arabi avessero
avuto un ruolo fondamentale per la sua diffusione. Dalle osservazioni in campo sul
progenitore selvatico, dalla miriade di dati letterari e sulle indicazioni etnobotaniche, si
è formulata l’ipotesi che il carciofo sia stato domesticato in Sicilia addirittura in epoca
imperiale romana. In effetti, solo in Italia, nonostante l’avanzare dell’agricoltura intensi-
va, sopravvive una incredibile ricchezza di varietà locali e biotipi di carciofo che non ha
eguali nel resto d’Europa. E secondo Nikolaj Ivanovic Vavilov, agronomo, botanico e
padre della cultura delle risorse genetiche, “laddove c’è la massima variabilità per una
determinata specie, là essa ha avuto origine…” (5).

Morfologia e fisiologia
Dicevamo che il carciofo è una
pianta poliennale. Se generata dal
frutto detto achenio, presenterà una
radice principale fittonante e nume-
rose radici secondarie, mentre se
generata dal carduccio presenterà
radici avventizie fibrose che col
passare del tempo diventano car-
nose, si ingrossano perdendo la
funzione di assimilazione per assu-
mere quella di accumulo di sostan-
ze di riserva. Quanto più si sviluppa
la pianta tanto più diventa evidente
                                                  Acheni di carciofo, frutti secchi indeiscenti
il fusto rizomatoso, detto comune-
mente ceppaia o ceppo, su cui si
differenziano le gemme che daran-
no origine ai germogli, a loro volta
detti polloni o carducci e poi agli
steli e ai capolini. La differenziazio-
ne dei germogli non avviene con-
temporaneamente, per questo mo-
tivo sulla stessa pianta si troveran-
no germogli di età diversa. La
gemma apicale si evolverà e darà
così origine allo stelo che allungato
all’apice porterà il capolino. Di nor-
ma l’asse fiorale o stelo fiorifero
raggiunge i 40-80 cm di altezza,
mentre nelle cultivar ibride può rag-
giungere anche i 140 cm. Legger-
mente scanalato longitudinalmente,
eretto, ramificato, di colore verde-
grigio, coperto di peli e con foglie
alterne, ha la caratteristica di porta-
re all’apice delle ramificazioni late-
rali altri capolini. Le foglie sono di
colore verde ma di differenti tonali-                         Carducci di carciofo
tà. I peli tettori (coprenti) sono pre-
senti in quantità diversa, a seconda
della popolazione e della cultivar,

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                             Struttura del capolino del carciofo

                                  Infiorescenza del carciofo

sia sulla lamina sia sul picciolo della foglia. Naturalmente la formazione del capolino ha
inizio dall’apice vegetativo che, dopo una fase di transizione, giunge alla forma globo-
sa, appiattendosi e allargandosi. Questo, il capolino, a seconda della cultivar o dello
stadio in cui viene raccolto, può superare i 400 grammi di peso e assume diverse for-

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me che per semplicità possono essere ricondotte a quella cilindrica, conica, ovoidale,
ellissoidale, sferica e subsferica. Nell’insieme è costituito da un peduncolo di lunghezza
e diametro variabili e dal ricettacolo (fondo), nella parte più esterna del quale vanno ad
inserirsi le bràttee o squame involucrali, mentre in quella più interna sono inseriti i fiori
di colore violetto di diversa tonalità. Le bràttee sono più spesse e più carnose alla base
e più sottili all’apice, più consistenti all’esterno e più tenere all’interno. Anche esse as-
sumono forme molto diverse tra loro: allungata, ovale, rotonda e di passaggio tra que-
ste. Il margine superiore può essere intero, inciso con varia profondità e anche intro-
flesso; l’apice può risultare appuntito, arrotondato, smussato, inerme o con presenza di
spine di lunghezza diversa. Anche il colore della parte dorsale differisce da cultivar a
cultivar. La parte ventrale è sempre più chiara di quella dorsale e tende al giallo chiaro
quanto più ci si avvicina all’attacco sul ricettacolo, presentando un rigonfiamento più o
meno evidente. Più si va verso il centro più le bràttee assumono colore chiaro. Nella
nostra chiacchierata sul carciofo, a titolo di esempio, meritano di essere ricordati anche
i numeri di bràttee presenti nelle diverse cultivar nelle quali ci imbattiamo spesso e vo-
lentieri al mercato: 125-150 nelle cultivar spinose, nel Precoce violetto di Chioggia e
nel precoce di Jesi; 150-175 nelle cultivar degli areali del Catanese, nel Violetto di To-
scana, nel Gros Camus de Bretagne, nel Castellammare di Stabia; 175-200 nel Bianco
Tarantino, Masedu, Green Globe, Camard. I fiori, detti flosculi, sono ermafroditi (mono-
clini), tubulosi, tipici delle Asteraceae. Il frutto, definito impropriamente seme, è un
achenio, frutto secco che a maturità non si apre, indeiscente. Oggi viene usato molto
per la propagazione gamica del carciofo, in quanto sono state introdotte diverse culti-
var ibride. Vi si ricava un olio molto adatto per l’alimentazione umana e animale; si ot-
tengono anche farine con un buon contenuto proteico e recenti studi hanno valutato la
buona possibilità di usarli come biocarburanti o per la preparazione di cosmetici (6).
Aspetti nutrizionali, fitoterapia e medicina
Come tutti ben sappiamo, il sapore del nostro ortaggio è dolce-amaro. La parte edule
del capolino è costituita dalla base carnosa dell’infiorescenza (ricettacolo o fondo) e
dalle bràttee interne più tenere che l’avvolgono. I più ghiotti preferiscono anche la parte
superiore del gambo… Torniamo solo per un attimo ai nostri antenati romani che lo
apprezzavano molto per il suo gusto “raffinato”. A conferma di questa preferenza ci
viene ancora una volta in soccorso uno dei più eminenti “agronomi” dell’epoca, il Co-
lumella che dice, appunto: ”piantate il carciofo spinoso, che caro sarà al bevitore Bac-
co, non tanto caro ad Apollo canoro; esso viene talvolta in forma di chiuso violaceo co-
rimbo, talvolta verdeggia la chioma colore del mirto e il capo sul collo piegando or tutto
aperto rimane or stringe la cima e somiglia a verde pigna ora sembra un cestello e
s’arma di spine paurose or pallido imita la foglia d’acanto ritorta”. Molto suggestiva
questa fotografia tramandataci dagli antichi romani…, ma per noi, questo antico e nobi-
le ortaggio ricopre un importante ruolo soprattutto nella nostra dieta perché fornisce un
basso apporto calorico, appena 22 kcal per 100 g di prodotto fresco, è ricco di minerali
(potassio, calcio, fosforo e ferro) e ha un non troppo alto contenuto di vitamine (la più
presente è la B9 o acido folico) (7). Pur essendo un prodotto cosiddetto di stagione può
essere presente sulle nostre tavole per un lungo periodo dell’anno, da ottobre a mag-
gio. Ma la cosa più interessante, in seguito a recenti studi, è che il carciofo ha mostrato
di avere dei componenti “non nutrienti” che svolgono una profonda azione protettiva
per la nostra salute: l’inulina (polimero del fruttosio), i fitosteroli, e altri composti di natu-
ra polifenolica, come la cinarina. Notevole l’apporto di fibra alimentare, capace di sti-
molare al meglio la funzionalità dell’intestino e probabilmente anche di tenere sotto de-
terminati livelli il glucosio e il colesterolo nel sangue. Nello specifico, l’inulina è un poli-
saccaride idrosolubile, non digerito dai nostri succhi intestinali, ma metabolizzato dai
bifidobatteri, per cui è definita sostanza prebiotica, in quanto favorisce la proliferazione
di batteri utili al nostro organismo e inibisce quella dei batteri dannosi. I fitosteroli, com-
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posti di natura steroidea, inibiscono l’assorbimento intestinale del colesterolo, se as-
sunti fino a un massimo di 2 g/giorno.
La cinarina, infine, estere dicaffeico dell’acido chinico, viene impiegata molto in farma-
cologia per la sua azione diuretica e coleretica, perché favorisce la secrezione biliare
da parte delle cellule del fegato. Questa sostanza, di sapore amarognolo, viene idroliz-
zata nel tratto gastro-intestinale, producendo acido caffeico. L’azione coleretica favori-
sce l’assorbimento dei grassi e regola il metabolismo lipidico. Recentemente è stato
dimostrato che estratti di carciofo contenenti queste sostanze sono risultati molto effi-
caci nella prevenzione dell’aterosclerosi, sia perché inibiscono la sintesi del colesterolo
sia perché aumentano la secrezione biliare, limitando l’ossidazione delle lipoproteine a
bassa densità. Per avere beneficio dalle sostanze contenute nel carciofo bisognerebbe
consumarne 200-250 g (circa una porzione) di prodotto fresco e crudo. Infatti dopo la
cottura, 100 g di prodotto fresco si riducono a 74 g. Oggi le proprietà farmacologiche e
terapeutiche del carciofo sono più che ufficialmente riconosciute e documentate nei
trattati di erboristeria e nei libri di fitoterapia e farmacognosia generale, dove viene
consigliato il consumo del carciofo proprio in quanto sostanza coleretica, diuretica,
epatoprotettiva ed epatostimolante. Da queste basi, i più recenti studi hanno sì confer-
mato ancora una volta la valenza di queste sostanze sul nostro organismo, ma soprat-
tutto hanno mirato a quantificare quali siano i dosaggi effettivamente efficaci per rag-
giungere gli effetti benefici sul nostro organismo (8).

Il carciofo in cucina
I numerosi benefici attribuiti al carciofo però non devono essere vanificati con cotture
sbagliate. Alcuni ricercatori hanno sottoposto i carciofi a tutte le diverse modalità di cot-
tura casalinga e hanno constatato che il carciofo anche dopo la stessa mantiene alta la
sua attività antiossidante più di tutti gli altri ortaggi. In Italia si annoverano ben 279 ri-
cette a base di carciofo, senza contare le varianti più locali, anzi familiari tramandate di
padre in figlio. La Puglia la fa da padrona con ben 62 ricette, seguita dalla Sicilia con
40, seguono il Veneto con 25, la Campania e la Liguria con 24, il Lazio con 17 e poi
tutte le altre regioni a seguire (9). Basterebbe leggere solo l’intestazione di alcune di
esse e subito ne sarebbe evocato il profumo, il sapore, con tanto di acquolina in boc-
ca…
 …con agnello porchettato (Abruzzo); tagliatelli ai carciofi e polpettine di agnello (Basi-
licata); frittata di carciofo e caciocavallo (Calabria); arrostiti alla brace, fritti, pomodori
carciofi e acciughe, tortino di carciofi e calamaretti, risotto con carciofi, in umido, car-
cioffole m’buttunate e direttamente dall’isola di Procida: carciofi alla Giuditta, le trofie ai
carciofi, carciofi ripieni, carciofi lessati conditi con sale e olio, cuori di carciofo dorati e
fritti, pizza di carciofi, tortino di carciofi con pancetta, uova e ricotta, carciofi arrostiti
conditi con prezzemolo e aglio, cuori di carciofi ripieni (Campania); alla petroniana
(Emilia-Romagna); al tegame alla maniera della Venezia Giulia (Friuli Venezia Giulia);
alla ciociara, alla giudìa, coratella con carciofi alla romana, spezzatino di agnello e car-
ciofi (Lazio); con patate a funghetto, fegatini di pollo con carciofi, torta verde di carciofi
e bietole da costa, gronco con carciofi alla genovese (Liguria); risotto con funghi e car-
ciofi (Lombardia); costolette di agnello con carciofi (Marche); al tonno, carciofi cicorie e
fave (Molise); caponet alla piemontese, fondi di carciofi con semolino (Piemonte); bu-
catini e carciofi alla fasanese, budella di agnello e pollo con i carciofi, canolicchi e car-
ciofi, minestra di patate e carciofi, torta salata di carciofi e ricotta, riso e carciofi all’uso
di Trani, orzo mantecato ai carciofi e vongole, minestra di fave e carciofi, tortino di car-
ciofi e cozze con salsa di cipollotto, con piselli e uova (Puglia); agnello in umido e car-
ciofi, frittata di carciofi alla sarda, carciofi e bottarga (Sardegna); carciofo ai pomodori
secchi, con salsiccia fresca, con il tappo, in tegame con il limone, spaghetti alla menfi-
tana, tortiera con le sarde alla siciliana, carciofi a piripicchio, gateau di sarde e carciofi
(Sicilia); alla casseruola, spezzatino di pollo in carciofaia, seppie con carciofi, garmugia
                                                                                               6
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Il Carciofo di Procida

alla lucchese (Toscana); ripieni al tegame alla perugina (Umbria); parmigiana di carciofi
alla valdostana (Val d’Aosta); articiochi co’ l pien de luganega, alla grega, alla veneta,
carpaccio con castraure di Sant’Erasmo, figà’ co’ le castraure, crostata farcita con fondi
di carciofi (Veneto); carciofi e mezzena, fritto di carciofi e finocchietto (Prov. Autonoma
di Trento):
Beh…, allora come è andata?

La coltura in Campania
Il consumo di carciofo nella dieta degli italiani è di gran lunga il più elevato del mondo:
circa 8 Kg/pro capite/anno. Il 95% dei capolini prodotti in Italia è destinato al mercato
interno, ma nonostante il nostro paese sia il primo produttore al mondo, con il 35% del-
la superficie e della produzione totale, ne importa comunque discrete quantità nei mesi
invernali quando la produzione interna rallenta per cause climatiche.
Sul territorio nazionale, anche se concentrata prevalentemente in Puglia, Sicilia e Sar-
degna, la coltivazione è diffusa e radicata in molte altre regioni, come Lazio, Campa-
nia, Toscana e poi Liguria, Emilia-Romagna, Veneto e Marche, nelle quali sono pre-
senti numerosi ecotipi. In Campania, benché sia dimostrato il suo consumo fin dai tem-
pi dei romani, le prime informazioni sul suo conto risalgono al XV secolo. In esse si fa
riferimento al carciofo di Schito, coltivato appunto nei cosiddetti, Orti di Schito, areale
posto alla periferia nord di Castellammare di Stabia ai confini con Pompei. Tale area
venne formata, come è facile intuire, dai depositi di lava e lapilli emessi dal Vesuvio in
quella storica e devastante eruzione del 79 d.C., che coprì tutta la zona sottostante il
vulcano. L’eccezionale fertilità di questi orti li farà definire, “il miglior dono fatto dal Ve-
suvio con l’eruzione” che seppellì Stabiae e Pompeii. Inoltre, presso la corte dei Bor-
bone, riscosse un tale successo che la sua produzione fu notevolmente sostenuta e
aumentata. La regione Campania è al quarto posto nella produzione nazionale, dopo
Puglia, Sicilia e Sardegna, con una superficie superiore ai 2000 ha e una produzione di
34663 t annue. Storicamente la coltivazione del carciofo di Castellammare di Stabia
ebbe una svolta a partire dal 1920, quando il carciofo lasciò le aree marginali dei giar-
dini e degli orti per passare su aree coltivate più ampie, sui filari e con sesti d’impianto
regolari giunti fino ad oggi. Il carciofo di Schito divenne sinonimo di Carciofo di Castel-
lammare di Stabia e per le sue notevoli qualità organolettiche colonizzò altre aree orti-
cole importanti campane, come l’agro Sarnese-Nocerino e la piana del Sele, dove dagli
anni Cinquanta in poi la sua coltivazione raggiunse produzioni notevolmente elevate,
tanto da essere diventata oggi leader regionale con quasi 2000 ha utilizzati. Nello spe-
cifico, nella zona di Capaccio-Paestum si coltiva l’ecotipo denominato Tondo di Pae-
stum. Questo altro non è che il Carciofo di Castellammare (ex C. di Schito), ridefinito
Carciofo o Tondo di Paestum, coltivato nei comuni di Agropoli, Battipaglia, Eboli, Bel-
lizzi, Pontecagnano Faiano e Serre. Nonostante le tipiche condizioni climatiche del me-
ridione italiano, la coltivazione del carciofo in Campania è rappresentata esclusivamen-
te da ecotipi a produzione tardiva o primaverile. La tipologia classica a cui fa riferimen-
to il carciofo campano è quella denominata Romanesco. Caratterizzata da piante a ta-
glia grande, con grandi foglie basali a formare la rosetta che possono raggiungere il
mezzo metro d’altezza, quasi un metro con il capolino principale, il cui peso può rag-
giungere anche i 450 g, sostenuto da un robusto peduncolo. Vengono chiamati comu-
nemente mamme, mammolelle o mammarelle, con bràttee molto serrate e senza spi-
ne, mentre i capolini secondari, con peso tra i 150 e i 250 g, vengono chiamati figli. In
questo ecotipo la forma del capolino principale è sferica o leggermente sub-sferica, con
un diametro e un’altezza intorno agli 11 cm, mentre i secondari hanno una forma più
lunga e le bràttee sono un po’ più lasse.

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Procida Mediterranea 2022 - Il Carciofo di Procida - il mediterraneo
Mario Mori-Gennaro Piccirillo

     Carciofo di Procida

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Procida Mediterranea 2022 - Il Carciofo di Procida - il mediterraneo
Il Carciofo di Procida

Essendovi solo piccole differenze morfologiche e di epoca di produzione tra questi eco-
tipi, il Carciofo di Castellammare, il Campagnano e il Tondo di Paestum, come già
spiegato poco prima, rientrano in un unico gruppo definito dei carciofi Romaneschi al
quale fa riferimento il Disciplinare di Produzione del carciofo di Paestum IGP (iscrizione
nel "Registro delle denominazioni di origine protette e delle indicazioni geografiche pro-
tette" ai sensi del Reg. CE n. 465/2004, elaborato ai sensi del regolamento (CEE) n.
2081/92). In Campania, altresì, è rinomata tutta una serie di cosiddetti Carciofi minori,
considerati a giusta ragione prodotti di nicchia, che presentano però peculiarità molto
apprezzate dai consumatori. Per esempio, il Carciofo Bianco di Pertosa (Sa), più tardi-
vo di quello di Paestum, coltivato su pochissimi ettari, per le sue dimensioni è ideale
per la trasformazione in carciofini sott’olio. Altro prodotto di nicchia è il cosiddetto Ca-
puanella, anch’esso su pochissimi ettari tra Capua e Caserta. La sua peculiarità è il
cuore molto grosso e carnoso, con bràttee interne tendenti in punta al color violaceo
(10). Ma molto, molto rinomato è il Carciofo tardivo di Procida, coltivato prevalentemen-
te sull’omonima isola, anch’essa come noto di origine vulcanica, a Monte di Procida e
anche a Ischia. Il MIPAAF, con Decreto 15 febbraio 2021, ha pubblicato nella G.U. del
26 febbraio 2021 l’Aggiornamento dell’elenco nazionale dei Prodotti Agroalimentari
Tradizionali (PAT), ai sensi dell’art. 12, comma 1, Legge 12 dicembre 2016, n. 238, nel
quale il Carciofo di Procida è iscritto al n. 163 dei PAT della Regione Campania. Anche
il carciofo di Procida è riconducibile al tipo Romanesco ed era fino a qualche anno fa
richiestissimo in tutta l’area flegrea. La pianta è rustica e molto vigorosa, in grado di
produrre capolini anche del terzo, quarto e quinto ordine, con quelli del primo di grandi
dimensioni e di forma globosa, di colore verde chiaro con venature violacee e capolini
secondari di dimensioni inferiori e di colore quasi violaceo. Oltre che fresco, il carciofo
di Procida viene commercializzato anche confezionato artigianalmente sott’olio, secon-
do un’antica ricetta che prevede che i capolini del secondo ordine e successivi venga-
no puliti, sbollentati in acqua, aceto di vino bianco e sale e conservati in vasetti di vetro
con aggiunta di olio extravergine di oliva, aglio, origano e peperoncino piccante.
La prima peculiarità del carciofo di Procida è rappresentata dal fatto che viene ancor
oggi coltivato nelle cosiddette parule, tipico orto del luogo, di grandi ed estese dimen-
sioni, situato nelle vicinanze del mare, con irrigazione di acqua leggermente salmastra
raccolta nei pozzi scavati a livello del mare. Questo tipo di irrigazione rende il suo sa-
pore unico e di conseguenza è molto apprezzato. Durante il processo di crescita, visto
che il carciofo non ha bisogno di alcun trattamento chimico di protezione, si usa sull'i-
sola spargere ogni tanto sul fogliame e sul fiore un po' di cenere per impedire alle lu-
mache di aggredirlo. La pianta, in tutto il suo processo, si nutre solo di acqua e ha un
fogliame folto e quelle non commestibili sono molto gradite alle mucche. Viene conci-
mata con materiale organico e durante la crescita si rincalza periodicamente per evita-
re che il vento possa abbatterla. La gemma-mammarella che già si presenta abbastan-
za gonfia e turgida a fine febbraio, se il freddo non è stato molto rigido, a marzo è già
commestibile. Il carciofo procidano produce una sola mammarella di colore verdone
scuro e 4 o 5 piccole mammarelle, cosiddette "figlie", tant’è che “’e figlie so bbuone
chille d’’e carcioffole…”, e infine, boccioli di mammarella della grandezza di un uovo, i
cosiddetti "nipoti".
Oltre alla mammarella, è commestibile anche il cardo. Due operazioni vengono solita-
mente effettuate in giugno, la prima consiste nello staccare un pezzo del rizoma-radice
per trapiantarlo in altro terreno e già in novembre germoglierà un nuovo cardo; la se-
conda vedrà la pianta, ormai priva di fiore e secca, preparata alla nuova fioritura ta-
gliando appunto il cardo secco all'altezza del terreno.
Insieme al limone, il carciofo procidano rappresenta la coltivazione più diffusa e parti-
colare dell’isola. Benché riconosciuto come PAT, purtroppo rischia, assieme a tutte le
                                                                                            9
Mario Mori-Gennaro Piccirillo

altre tipologie minori di carciofo campane, l’estinzione per la sua limitata produzione e
per l’incapacità di reggere la concorrenza di altre specie orticole e/o frutticole capaci di
ottenere redditi superiori con una migliore utilizzazione della superficie.

Conclusioni
Proprio il caso del carciofo di Procida è illuminante per comprendere, ove mai ve ne
fosse bisogno, che dalla rivoluzione agro-industriale del XIX e XX secolo l’uomo con la
sua politica dissennata del guadagno, ha distrutto millenni di storia agricola.
L’Italia in generale, ancor più la Campania, dispongono di un patrimonio paesaggistico
unico al mondo. Questa unicità avrebbe dovuto essere la base per attivare, nel corso
degli anni, forme di tutela efficaci contro distruzioni, devastazioni, degradi e usi improbi
del suolo.
Purtroppo non lo è stata.
Diciamo purtroppo perché nei sistemi agricoli eco-sostenibili, e il carciofo di Procida po-
trebbe rappresentarne uno a pieno titolo, chi coltiva la terra possiede per tradizione
una profonda conoscenza della biodiversità e delle sue componenti e per questo sa-
rebbe auspicabile che questo sapere venisse integrato in schemi di innovazione agri-
cola tesi a conciliare la tutela delle risorse di un territorio rurale con il suo sviluppo (11).
Una ruralità eco-sostenibile è tuttavia ancora possibile: “tutto lo spazio ha la potenziali-
tà di trasformarsi in un mosaico di attività diverse, un mosaico abitato e con radici rura-
li” (12). Nell’espressione “mosaico di attività diverse” dello spazio rurale è intrinseca-
mente esplicitata quella che comunemente si chiama “multifunzionalità rurale sostenibi-
le” e nell’espressione “mosaico abitato e con radici culturali” vi è tutta la potenzialità e
la nuova complessità del radicamento dell’uomo sul “bio-territorio” in cui abita, quale
fonte essenziale della sua identità culturale.
E l’economia ‘circolare’ diventerebbe possibile anche attraverso una rinnovata azione
dell’artigianato locale: nuove forme di integrazione, nuovi prodotti e soprattutto nuove
attività, sintesi intelligente delle abilità professionali realizzative degli artigiani con le
inedite creatività dell’economia digitale.
Gli spazi rurali della Campania e delle sue isole ancora in parte incontaminate, sono
disseminati di beni culturali di rara bellezza, spesso nascosti e sconosciuti, troppo
spesso abbandonati. La sempre più alta ‘domanda di paesaggio’ della società contem-
poranea riflette, pur tra molte contraddizioni, il bisogno di riprendere il contatto con i
luoghi e di ri-abitare la terra, riscoprendone i valori identitari, rispettandone e valoriz-
zandone le diversità. Anche l’urgenza di un riordino della vita umana a partire dal sod-
disfacimento di bisogni fondamentali (quali ad esempio la tutela della salute, il benes-
sere psicologico, la sicurezza alimentare e ambientale, la necessità di generare nuovi
ambiti occupazionali) sostiene la “domanda di paesaggio” che si avverte per l’appunto
nella società contemporanea (13).
Domanda di paesaggio, equilibrio sostenibile, vivibilità, sono i fondamenti per lo svilup-
po di un nuovo concetto di “valore del territorio rurale”, di un bisogno che ormai
l’umanità sente urgente. Urgente anche la necessità di procedere con forza da una
parte verso la ‘rimediazione’ delle devastanti ferite paesaggistiche del passato e
dall’altra affermare una nuova ‘governance intelligente’ dei sistemi territoriali (14).
Il binomio “paesaggio e patrimonio culturale” abbraccia nel suo insieme la straordinaria
eredità materiale della storia italiana, dalla ricchezza delle opere d’arte a quella della
città e del territorio, doti che hanno fatto sì che luoghi come Matera prima e Procida poi
siano diventate, non a caso, Capitali della Cultura, Europea e Italiana.

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Il Carciofo di Procida

Prima di lasciarci

           «La mia isola ha straducce solitarie chiuse fra muri antichi, oltre i quali si
         stendono frutteti e vigneti che sembrano giardini imperiali. Ha varie spiagge
           dalla sabbia chiara e delicata, e altre rive più piccole, coperte di ciottoli e
         conchiglie, e nascoste tra grandi scogliere. .... Là, nei giorni quieti, il mare è
                   tenero e fresco, e si posa sulla riva come una rugiada…».

                                                                      (L’Isola di Arturo, E. Morante)

                        «Il carciofo dal tenero cuore si vestì da guerriero,
                                  ispida edificò una piccola cupola,
                          si mantenne all’asciutto sotto le sue squame,
                          vicino a lui i vegetali impazziti si arricciarono,
                                            divennero viticci,
                                  infiorescenze commoventi rizomi;
                             sotterranea dormì la carota dai baffi rossi,
                         la vigna inaridì i suoi rami dai quali sale il vino,
                                   la verza si mise a provar gonne,
                                   l’origano a profumare il mondo,
                        e il dolce carciofo lì nell’orto vestito da guerriero,
                                     brunito come bomba a mano,
                                                orgoglioso,
                                             e un bel giorno,
                                             a ranghi serrati,
                                      in grandi canestri di vimini,
                        marciò verso il mercato a realizzare il suo sogno:
                                                  la milizia.
                         Nei filari mai fu così marziale come al mercato,
                   gli uomini in mezzo ai legumi coi bianchi spolverini erano
                                         i generali dei carciofi,
                                              file compatte,
                 voci di comando e la detonazione di una cassetta che cade,
                               ma allora arriva Maria col suo paniere,
                                           sceglie un carciofo,
                                               non lo teme,
                                                lo esamina,
                           l’osserva contro luce come se fosse un uovo,
                                                 lo compra,
                       lo confonde nella sua borsa con un paio di scarpe,
                           con un cavolo e una bottiglia di aceto finché,
                                           entrando in cucina,
                                         lo tuffa nella pentola.
         Così finisce in pace la carriera del vegetale armato che si chiama carciofo,
         poi squama per squama spogliamo la delizia e mangiamo la pacifica pasta
                                          del suo cuore verde»
                                                              (Ode al Carciofo, P. Neruda)
Ambiente e Cultura Mediterranea, dicembre 2021

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Mario Mori-Gennaro Piccirillo

Bibliografia

1)    Leo Codacci, Caterina De’ Medici - Le ricette di una regina, Fazzi Ed., 2016.
2)    Bernardo Pace, Carciofo in Cucina, in Il Carciofo e il Cardo, Collana Coltura e Cultura, ART Ed., 2009.
3)    Guido D’agostino, Borghese Marcantonio, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto Enciclopedia
      Italiana, 1971.
4)    Vito V. Bianco, Nicola Calabrese, Margherita Zalum Cardon, Storia e Arte, in Il Carciofo e il Cardo,
      Collana Coltura e Cultura, ART Ed., 2009.
5)    Domenico Pignone, Gabriella Sonnante, Origine ed Evoluzione, in Il Carciofo e il Cardo, Collana Col-
      tura e Cultura, ART Ed., 2009.
6)    Vito V. Bianco, Nicola Calabrese, Morfologia e Fisiologia, in Il Carciofo e il Cardo, Collana Coltura e
      Cultura, ART Ed., 2009.
7)    Carlo Cannella, Aspetti Nutrizionali, in Il Carciofo e il Cardo, Collana Coltura e Cultura, ART Ed.,
      2009.
8)    Mariangela Rondanelli, Annalisa Opizzi, Francesca Monteferraio, Fitoterapia e Medicina, in Il Carciofo
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9)    Gianfranco Bolognesi, Ricette, in Il Carciofo e il Cardo, Collana Coltura e Cultura, ART Ed., 2009.
10)   Vitangelo Magnifico, Carciofo in Campania, in Il Carciofo e il Cardo, Collana Coltura e Cultura, ART
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11)   Miguel A, Altieri, Susanna B. Hecht, Agroecology and Small Farm Development, in The Journal of Ag-
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12)   Francesco Di Castri, La biodiversità nella società dell’informazione in Rendiconti Accademia Naziona-
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13)   Giuseppe Festa, La Luna è dei Lupi, Salani Ed., 2016.
14)   Carmine Nardone, Paesaggi Rurali, 2017.

                                                                                                          12
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