Le nostre anime di notte di Kent Haruf

Pagina creata da Letizia Mancuso
 
CONTINUA A LEGGERE
Le nostre anime di notte di Kent Haruf
Le nostre anime di notte di
Kent Haruf
Le nostre anime di notte è l’ultimo romanzo di Kent Haruf,
scrittore molto noto anche per la sua “Trilogia della
Pianura”.

Pubblicato postumo ha riscosso molto successo, tanto che
recentemente ne abbiamo avuto la trasposizione cinematografica
con due protagonisti d’eccezione: Robert Redford e Jane Fonda.

Questo libro, che ci parla di solitudine, paura di morire e
amore, mi è capitato tra le mani in occasione di un breve week
end a Pescara e, nonostante il poco tempo a disposizione, l’ho
letteralmente divorato.

        Siamo soltanto due vecchi che parlano al buio

Addie e Louis sono due vecchi vedovi e soli, vicini di casa da
sempre, con i rispettivi figli che vivono lontano. La
solitudine è veramente tanta e quando si ha una certa età
capita a volte che si decida di voler vivere gli ultimi anni
che restano infischiandosene del giudizio altrui.

Un giorno Addie va a trovare Louis a casa sua per parlargli,
l’imbarazzo è palpabile nonostante i due si conoscano da tanto
tempo, ma la donna si fa coraggio e chiede all’uomo che le sta
di fronte se vuole andare la sera da lei per farle compagnia
di notte. La notte è infatti il momento più difficile della
giornata, nel buio i problemi e le angosce della vita vengono
amplificati, le ore non passano mai e lei vuole solo che lui
le stia vicino, vuole solo qualcuno con cui parlare.

Louis dopo un po’ di sconcerto accetta e inizia così questo
Le nostre anime di notte di Kent Haruf
particolare e intenso rapporto notturno tra due anime sole che
si svelano l’una all’altra come forse non avevano mai fatto
con i rispettivi coniugi. I due vivono come in una bolla di
felicità ritrovata e non si accorgono che il paese parla. Ma
non sono solo le malelingue a minacciare la loro unione.

Uno stile quello di Haruf, essenziale ma coinvolgente,
profondo senza risultare pesante. Le frasi scorrono veloci,
urge al lettore arrivare alla fine.

Un libro che si legge tutto d’un fiato ma che rimane, lascia
traccia; fa riflettere, senza per questo risultare melenso e
scontato, su quella che è una verità inconfutabile: l’amore
non ha età.

SINOSSI
In una piccola cittadina del Colorado, Addie Moore fa una
visita inaspettata al vicino di casa, Louis Waters. Vedovi
entrambi da anni, pur abitando l’uno accanto all’altra, non
hanno mai avuto molte occasini di contatto. Poiché i
rispettivi figli sono lontani, i due vivono da soli nelle loro
grandi case. Grazie a questa visita, Addie e Louis iniziano a
frequentarsi per dare un senso al tempo che resta loro da
vivere.
Italia-Germania, el Partido
del Siglo
di Carlo Di Porto

La chiamano così gli storici del calcio, la partita del 17
giugno 1970 disputata allo stadio Azteca di Città del Messico,
semifinale di un mondiale vinto dal Brasile stellare di
Rivelino, Gerson, Tostao e Pelè. Un mondiale passato alla
storia per ‘questa’ partita in cui però quel Brasile non
c’era, perché in campo ci andarono Italia e Germania. Quella
notte, per centoventi minuti, il calcio ha scritto una delle
pagine più belle della sua storia, una notte di giugno, calda,
afosa, una di quelle notti in cui le finestre illuminate nelle
case raccontavano di un Paese sveglio davanti alla
televisione, ipnotizzato dalla voce di Nando Martellini, un
altro che a proposito di storia del calcio qualche cosa
potrebbe dire. Famiglie intere, bambini che avevano ottenuto
dalle mamme il permesso di rimanere alzati fino a tardi, tanto
la scuola il giorno dopo non c’era e nemmeno gli esami.
L’Italia si era stretta, unita da una maglia azzurra.
Accarezzava Riva, Rivera, Mazzola, eroi di una Italia ancora
tramortita dal ’68 appena passato, e con gli anni di piombo
dietro l’angolo.

L’Italia segna subito, una rasoiata di Boninsegna dopo una
manciata di minuti ci porta in paradiso, regge bene poi l’urto
di una nazionale tedesca fortissima, sospinta da Franz
Beckenbauer e da quel Gerd Muller, folletto sgraziato che come
sfiora un pallone fa goal, sempre. Regge fino al novantesimo
minuto, quando Schnellinger arpiona un pallone in mezzo l’area
di rigore e pareggia. Sembra la fine di un sogno, si vive lo
sconforto, un sentimento tutto italiano, il presagio di una
fine che sembra già scritta “ma ti pare che vinciamo noi?”. Al
novantaquattresimo il goal di Gerd Muller (e ti pareva) sembra
certificare il tutto, eccola la fine. No! l’Italia pareggia,
segna Burnich che per fortuna di tedesco ha solo il nome e
siamo solo al novantottesimo, segna ancora Riva siamo in
vantaggio e siamo al centoquattresimo, è sfiancante solo
scriverlo un numero così. Ci si abbraccia, si piange, si fuma
e chissenefrega che ore sono. Italia-Germania è adesso, non
dorme nessuno. Segna ancora Gerd Muller, insopportabile Gerd
Muller, la disperazione ci assale, siamo 3-3 e mancano un
pugno di minuti alla fine della partita. E Adesso? È finito
tutto, per i tifosi non c’è più niente da fumare, da bere,
niente da rompere! Ma l’Italia c’è ancora. C’è Gianni Rivera
che segna il rigore in movimento più importante della storia
del calcio nazionale, si la storia, sempre la storia, la
storia stavolta siamo noi. L’Italia esplode abbracciandosi,
perché in quella storia, stavolta, ci siamo noi e ci saremo
per sempre, perché di “Partido del siglo” ce ne sarà sempre e
solo uno.

Al Napoli il                     primo          trofeo
post-pandemia
di Carlo Di Porto

Il Napoli vince il primo trofeo post-Covid e alza al cielo la
Coppa Italia 2020, mentre il suo allenatore, Rino Gattuso,
abbassa gli occhi verso l’abisso del dolore, a pochi giorni
dalla prematura scomparsa della sorella per un male
incurabile. Forse la faccia di Gattuso meglio di qualunque
altra cosa fotografa la partita e più in generale il momento
che sta vivendo il calcio italiano. Uno spettacolo triste,
silenzioso, un teatro vuoto dove gli attori recitano più per
se stessi che per un pubblico che non c’è. Il calcio dovrebbe
essere allegria, colori, rumori, sensazioni che rimangono
impressi per sempre nel cuore e nella mente non solo dei
calciatori, ma anche degli spettatori. L’arena oggi è vuota,
tristemente riempita di pixel elettronici per il
telespettatore e di rumori sintetizzati da chissà quale
computer. Manca il cuore, la passione, il sentimento, mancano
le esclamazioni di meraviglia per una giocata di Ronaldo o un
dribbling di Mertens. É un calcio disinnescato, depotenziato,
è un calcio che non ci piace.

Ci sono voluti i calci di rigore per decretare il successo del
Napoli: sbagliano Dybala e Danilo per la Juventus e, senza
demeritare, ad esultare è la squadra partenopea, ma è il resto
a rimanere impresso nella nostra mente. La desolante
solitudine del tifoso, abbandonato davanti alla TV alla
ricerca di una passione perduta. Proprio ieri, nel
cinquantenario della partita del secolo, di quella partita che
mai come nessuna aveva reso calcio e tifosi una cosa sola.

Le assaggiatrici di Rosella
Postorino

 Premio Campiello 2018
Le assaggiatrici di Rosella Postorino è un libro d’invenzione
ispirato alla vera storia di Margot Wolk, una delle
assaggiatrici di Adolf Hitler nella caserma di Krausendorf, a
due passi da La Tana del Lupo, il quartier generale del
Führer, zona nascosta e mimetizzata all’interno della foresta.

La protagonista è Rosa Sauer, una giovane berlinese in fuga
dalla città che vive insieme ai suoceri per salvarsi dai
bombardamenti e che attende con trepidazione il ritorno del
marito Greg dal fronte. Viene scelta, insieme ad altre nove
ragazze, per assaggiare quotidianamente i pasti preparati per
Hitler.

  La paura entra tre volte al giorno, sempre senza bussare,

  si siede accanto a me, e se mi alzo mi segue, ormai mi fa
                       quasi compagnia.

                    Le assaggiatrici di
                    Postorino

Rosa proviene da una famiglia che disapprova in modo esplicito
il regime nazista eppure di fronte alle violenze e ai soprusi
del regime nazista ha la meglio l’istinto di sopravvivenza.

La chiave di lettura de Le assaggiatrice è, senza dubbio, il
conflitto tra bene e male, l’ambiguità delle pulsioni umane e
l’istinto di sopravvivenza.
Rosa vive un profondo senso di colpa per non ribellarsi allo
stato in cui vive. Mangia ogni giorno quei bocconi aspettando
la morte quando tutto attorno a lei è solo morte, fame e
povertà.
Lei è sia vittima che carnefice. Vittima perché è costretta a
assaggiare il cibo preparato per Hitler ma allo stesso tempo
carnefice perché lei lavora proprio per Hitler.

Alcune pagine sono di grande drammaticità ma scritte con tale
grazia da non cadere mai nella banalità. Mi hanno colpito i
paragrafi in cui si parla dela situazione dei soldati tedeschi
al fronte i quali, spesso, pur di non eseguire gli ordini
crudeli impartiti dall’alto, preferisco suicidarsi. Pagine che
mi hanno fatto riflettere sulla brutalità del regime, sulle
difficoltà di coloro che, pur odiando tale regime, si sono
visti obbligati ad accettare per sopravvivere a dimostrazione
che in guerra non ci sono mai né vinti e né vincitori.

In fondo in un regime totalitario non c’è soltanto uno stato
di oppressione inflitta ma anche la costrizione ad uno stato
di collusione con il regime stesso.

Perché, da tempo, mi trovavo in posti in cui non volevo stare,
            e accondiscendevo, e non mi ribellavo,

e continuavo a sopravvivere ogni volta che qualcuno mi veniva
                         portato via?

 La capacità di adattamento è la maggior risorsa degli esseri
      umani, ma più mi adattavo e meno mi sentivo umana.

SINOSSI
La prima volta in cui Rosa Sauer entra nella stanza in cui
dovrà consumare i suoi prossimi pasti è affamata. “Da anni
avevamo fame e paura,” dice. Siamo nell’autunno del 1943, a
Gross-Partsch, un villaggio molto vicino alla Tana del Lupo,
il nascondiglio di Hitler. Ha ventisei anni, Rosa, ed è
arrivata da Berlino una settimana prima, ospite dei genitori
di suo marito Gregor, che combatte sul fronte russo. Le SS
posano sotto ai suoi occhi un piatto squisito: “mangiate”
dicono, e la fame ha la meglio sulla paura, la paura stessa
diventa fame. Dopo aver terminato il pasto, però, lei e le
altre assaggiatrici devono restare per un’ora sotto
osservazione in caserma, cavie di cui le ss studiano le
reazioni per accertarsi che il cibo da servire a Hitler non
sia avvelenato.

Nell’ambiente chiuso di quella mensa forzata, sotto lo sguardo
vigile dei loro carcerieri, fra le dieci giovani donne si
allacciano, con lo scorrere dei mesi, alleanze, patti segreti
e amicizie. Nel gruppo Rosa è subito la straniera, la
“berlinese”: è difficile ottenere benevolenza, tuttavia lei si
sorprende a cercarla, ad averne bisogno. Soprattutto con
Elfriede, la   ragazza   più   misteriosa   e   ostile,   la   più
carismatica.

Poi, nella primavera del ’44, in caserma arriva un nuovo
comandante, Albert Ziegler. Severo e ingiusto, instaura sin
dal primo giorno un clima di terrore, eppure – mentre su
tutti, come una sorta di divinità che non compare mai, incombe
il Führer – fra lui e Rosa si crea un legame speciale,
inaudito.

Con una rara capacità di dare conto dell’ambiguità dell’animo
umano, Rosella Postorino, ispirandosi alla storia vera di
Margot Wölk (assaggiatrice di Hitler nella caserma di
Krausendorf), racconta la vicenda eccezionale di una donna in
trappola, fragile di fronte alla violenza della Storia, forte
dei desideri della giovinezza. Proprio come lei, i lettori si
trovano in bilico sul crinale della collusione con il Male,
della colpa accidentale, protratta per l’istinto antieroico di
sopravvivere. Di sentirsi, nonostante tutto, ancora vivi.
Otto anni senza infortuni per
l’azienda Ecotherm di Pomezia

Un successo frutto della passione di tutti

Ecotherm Srl, Società leader nel mercato della consulenza e
delle bonifiche in campo ambientale con sede a Pomezia, ha
raggiunto il traguardo di OTTO anni senza infortuni.

Un importante risultato, che arriva in un momento difficile
per le imprese e per l’economia in generale.

L’azienda è rimasta operativa anche durante questo periodo
così complesso, per garantire ai propri clienti tutto il
supporto necessario in questi giorni così difficili.

“Questo successo – dichiara Luca Caratto, Amministratore
Delegato – è il frutto della competenza e della passione che
tutto il personale Ecotherm dimostra, con il prezioso supporto
di Clienti e Fornitori, giorno dopo giorno, in ogni cantiere,
in ogni progetto, riuscendo a migliorare continuamente la
tutela della sicurezza e della salute di tutti i lavoratori.”

Viene così raggiunta una ulteriore pietra miliare nel cammino
di Ecotherm verso la sostenibilità, che permette all’Azienda
green di Pomezia di proseguire con nuovi ambiziosi obiettivi.
IL TRENO DEI BAMBINI di Viola
Ardone
Spesso diffido dei libri troppo “chiacchierati” dai social, ma
stavolta gli occhi del   bambino in copertina hanno avuto la
meglio.

Il “Treno dei bambini” parla di povertà, di amore, di
decisioni difficili, di partenze e ritorni.

L’autrice, con una forte padronanza di linguaggio e con uno
stile che cattura fin dall’incipit il lettore, ci racconta di
un viaggio che inizia nel 1946 e termina nel 1994.

Amerigo, il protagonista/narratore vive in una Napoli del
secondo dopoguerra, una Napoli piegata ma non spezzata dalla
crisi economica. Da questa Napoli parte con un treno pieno di
bambini dei quali la maggior parte non è mai uscita fuori dal
proprio rione. Amerigo è molto povero, ha le scarpe strette ed
è senza cappotto quando si siede nello scompartimento diretto
in Emilia Romagna, dove tante famiglie si sono rese
disponibili ad offrire a questi piccoli spauriti, qualche mese
di vita confortevole e di studio. Nella stessa Napoli il
bambino ritorna due volte: la prima dopo quei pochi mesi di
calore e benessere, la seconda nel 1994 da adulto, musicista
affermato.

Poi c’è la madre, Antonietta, una donna sola e forte ma
duramente provata dal lutto e dalla povertà. Una donna che, a
dispetto delle male lingue, decide di far partire suo   figlio
su quel treno organizzato dai comunisti, un treno che   non lo
deporterà in Russia ma al Nord, dove forse ci sarà un   futuro
che lei non può garantirgli. Antonietta un figlio lo    ha già
perso, l’altro non sa se e quando lo rivedrà.

Nel treno con Amerigo partono anche Tommasino e Mariuccia, in
tre si fanno coraggio l’uno con l’altro. Bellissimo il punto
in cui il treno esce da una galleria e, con il naso incollato
al vetro del finestrino, vedono per la prima volta nella loro
vita, la neve. “ A’ ricotta, a’ ricotta…” grida Mariuccia.

Una volta arrivati però, i tre bambini vengono separati, si
rincontreranno?

Veramente una bella penna quella di Viola Ardone, una penna
che parla di mamme e di bambini coraggiosi, di miseria e
sofferenza senza però risultare minimamente stucchevole.

 Mia mamma va avanti e io appresso. Per dentro ai vicoli dei
 Quartieri spagnoli mia mamma cammina veloce: ogni passo suo,
           due miei. Guardo le scarpe della gente.

SINOSSI
E’ il 1946 quando Amerigo lascia il suo rione a Napoli e sale
su un treno.assiema a migliaia di altri bambini meridionali
attraverserà l’intera penisola e trascorrerà alcuni mesi in
una famiglia del Nord; un’iniziativa del Partito comunista per
strappare i piccoli alla miseria dopo l’ultimo conflitto. Con
lu stupore dei suoi sette anni e il piglio furbo di un bambino
dei vicoli, Amerigo ci mostra un’Italia che si rialza dalla
guerra come se la vedessimo per la prima volta. E ci affida la
storia commovente di una separazione. Quel dolore originario
cui non ci si può sottrarre, perché non c’è altro modo per
crescere.
Quando la casa diventa una
tana
Il lungo confinamento in casa a causa del Covid-19, che ha
portato vittime, e disagi a livello sanitario e politico-
sociale a tutti noi, ha comportato anche un drastico
cambiamento nel nostro stile di vita. In questi giorni,
lontano da familiari, amici e colleghi, abbiamo ricominciato
ad uscire, con sollievo per molti, ma non per tutti. In
effetti dopo il lockdown, l’isolamento e il distanziamento
sociale, molte persone si ritrovano a fare i conti con un
disagio forse anche più dannoso del virus stesso: la paura di
uscire di casa e di tornare alle attività quotidiane di prima.
Preferiscono rimanere in casa piuttosto che ritornare piano
piano a una vita sociale quasi normale, alle azioni di tutti i
giorni. Sono in preda del nervosismo, frustrazione, ansia e
paura soprattutto coloro che vivono situazioni di fragilità
emotiva, o che hanno timore di contrarre il virus.

Tutto ciò rientra nella cosiddetta “Sindrome della capanna” o
del ‘prigioniero’, o cabin fever in inglese, che può comparire
nelle persone che dopo un periodo di clausura, per esempio
dopo una malattia o, come nel nostro caso, dovuta alle misure
restrittive imposte a causa della pandemia. Si riferisce a una
condizione di smarrimento, una voglia di seguitare a rimanere
al sicuro in casa;     una dimensione emotiva già descritta
all’inizio del XX secolo, spesso camuffata e descritta come
poca voglia di uscire di casa a cui si debbono associare le
attuali limitazioni comportamentali imposte dalle Autorità
come l’uso delle mascherine e il mantenimento delle distanze
di scurezza. Non è una malattia, ma una serie di aspetti
comportamentali e psicologici legati a specifiche condizioni.
Per la Società italiana di psichiatria (Sip) sono oltre un
milione gli italiani che rischiano di svilupparla, in questa
fase di post quarantena. “Possiamo dire che la sindrome della
capanna e la movida senza prevenzioni sono due aspetti
reattivi a condizioni ambientali, relazionali, sociali o di
rischio pandemico, esattamente opposti” afferma Massimo Di
Gannantonio, presidente Sip. “Se la movida è rimozione e
negazione del rischio pandemico, la sindrome della capanna è
una fobizzazione, una costruzione reattiva di tipo fobico, a
dei rischi che in maniera sproporzionata vengono vissuti come
enormi, pericolosi, incontrollabili” (fonte Dire). Si ha paura
a riprendere gli impegni fuori casa e si desidera rimanere
ancora un po’ nella sicurezza delle mura domestiche, lontano
dal virus che non è affatto sparito. Per superare il fenomeno,
come dicono gli esperti, si deve prendere tempo, andare avanti
a piccoli passi tra cui, organizzare una routine giornaliera
come la gestione della casa e il tempo libero, accogliere le
nostre emozioni, stabilire obiettivi per        fronteggiare
l’insorgere di preoccupazioni eccessive         cercando di
trasformare in positivo questa esperienza, a partire dal
ridimensionamento dell’utilizzo del superfluo, e se necessario
rivolgersi ai professionisti del settore. Riprenderà meglio
chi saprà accogliere la novità, al di là del fattore
anagrafico.

L’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche
sociali (Irpss) del Consiglio nazionale delle ricerche ha
condotto un’indagine sull’impatto psicosociale dell’epidemia
di Covid-19 in Italia. Dal 9 marzo sono state intervistate 140
mila persone che hanno evidenziato come le preoccupazioni
economiche vengono dopo quelle sanitarie. “Quattro persone su
dieci di quelle interpellate prevedevano di andare incontro a
gravi perdite economiche, più di una su dieci riferiva di aver
perso il lavoro o di aver chiuso la propria attività, e due su
dieci di essere andate in cassa integrazione”, spiega Antonio
Tintori, sociologo e coordinatore della ricerca. Dai risultati
emerge che i sentimenti più diffusi durante l’isolamento sono
stati tristezza, paura, ansia e rabbia, ma anche che la
popolazione ha mostrato buona capacità di reagire
all’interruzione delle relazioni sociali.

Anche per l’Organizzazione mondiale di sanità la salute
mentale, e non solo quella fisica, è a rischio a causa della
pandemia così come evidenziato un rapporto Onu sul tema.
“L’isolamento, la paura, l’incertezza, le turbolenze
economiche causano, o potrebbero causare, sofferenze
psicologiche” sostiene Devora Kestel, direttrice del
dipartimento di salute mentale dell’Oms. ”La salute mentale e
il benessere di intere società sono state gravemente colpite
da questa crisi e sono una priorità”.

Compagnia dei Lepini: nuove
frontiere per il turismo
Riceviamo e pubblichiamo , comunicato stampa 3 giugno
2020 de COMPAGNIA DEI LEPINI

Nuove frontiere per il turismo: la
Compagnia dei Lepini è pronta a
sperimentare soluzioni

Tra i vari cambiamenti che il tanto atteso ritorno alla
normalità porterà con sé, trova sicuramente un posto anche il
comparto turistico, un settore che si appresta ad affrontare
una fase nella quale anche il modo di presentarsi e di
“offrirsi” saranno condizionati da nuove regole. Pronta ad
affrontarle si è detta la Compagnia dei Lepini, che ha
analizzato con attenzione le previsioni dell’Osservatorio
Innovazione Digitale nel Turismo della School of Managment del
Politecnico di Milano, presentate nel corso di un seminario
promosso da Lazio Innova e tenuto a Latina da Spazio Attivo,
dal quale è emerso che la maggior parte (83%) degli italiani
intende fare vacanza restando sul suolo nazionale, mentre
oltre il 40% ha dichiarato che sceglierà la propria
destinazione di viaggio in funzione delle rassicurazioni
offerte sulla sicurezza dei luoghi in relazione all’emergenza
sanitaria. L’esigenza di staccare la spina dal lavoro ed
andare in vacanza, quindi, sembrerebbe orientare verso un
turismo domestico e di prossimità: “In questa difficile
situazione – ha sostenuto Quirino Briganti, presidente della
Compagnia dei Lepini – paradossalmente un territorio come il
nostro, situato in prossimità con la grande area metropolitana
di Roma, con una popolazione di più di 4 milioni e, comunque,
insistente in un bacino regionale con una popolazione di poco
meno di 6 milioni di abitanti, si ritrova in uno spazio di
mercato di prim’ordine che, forse per la prima volta, ha un
fortissimo interesse diretto e immediato a scegliere al suo
interno la località per la vacanza 2020”. Con questi
interessanti presupposti la stessa Compagnia dei Lepini, nelle
prossime settimane, lancerà una campagna di comunicazione web
e social finalizzata a far conoscere al più ampio pubblico,
regionale e nazionale, le straordinarie bellezze
naturalistiche, storiche, artistiche e produttive. La campagna
sarà caratterizzata dal pay-off “Monti Lepini, naturalmente
storici” e si avvarrà di una ricca distribuzione di contenuti
multimediali attraverso gli strumenti social e web: “L’enorme
lavoro realizzato dalla Compagnia dei Lepini fino ad oggi
mette il territorio dei Monti Lepini in una condizione di
straordinario vantaggio competitivo rispetto a tutti gli altri
territori della Regione Lazio che concorreranno per acquisire
mercato turistico. Noi disponiamo, da subito, di efficienti
strumenti di informazione sia cartacei come la Guida Turistica
dei Monti Lepini, L’Arte dei Lepini, L’Atlante della Flora dei
Lepini, sia digitali come il portale web della Compagnia dei
Lepini e l’App I Lepini che contiene tutte le informazioni
sulla ricettività, la ristorazione e tutti i servizi turistici
dei Comuni. C’è solo bisogno di diffondere questi strumenti e
di offrirli all’uso dei visitatori”, ha concluso il presidente
della Compagnia dei Lepini.

Febbre di Jonathan Bazzi

Esordio letterario                        candidato            al
Premio Strega 2020
Non sempre è facile mettersi nei panni di un altro ma la
scrittura dinamica di Jonathan Bazzi riesce a catturarti e
farti sentire sulla pelle l’ansia di un bambino e di un uomo
nel sentirsi diverso e inadatto.

La storia è strutturata in capitoli che alternano l’infanzia
del protagonista e il suo presente in una storia
autobiografica che ha coinvolto lettori e critica di Febbre
tanto da essere uno della magica dozzina candidata per il
Premio Strega 2020.

Se in un primo momento il reale protagonista sembra essere la
sconvolgente scoperta di essere sieropositivo, in effetti ciò
che colpisce è quella sottile e costante patina di sentirsi
sempre diverso da qualcosa, dai propri sogni, dalle
prospettive future, dalle aspettative.

Diverso   e   confuso   in   un   mondo   che   sembra   correre   e
affaccendarsi senza mai osservare davvero l’anima di Jonathan.
Fin dalla prima infanzia, il protagonista non si sente mai
adeguato. La separazione dei genitori, il continuo cambio di
scuola, la sua balbuzie, questa Milano vicina ma in effetti
lontanissima.

Sono cresciuto a Rossano, cap 20089, un paese piccolo ma
neanche poi tanto, all’estrema periferia sud di Milano,
costruito in mezzo alla campagna che costeggia il Naviglio, in
direzione Pavia.

Tutta la crudeltà di una vita vissuta ai margini, non solo
rispetto alla sua omosessualità, ma rispetto all’ambiente che
lo circonda e che appare muto e lontano davanti alla sua
esigenza di essere compreso e protetto.

Un ragazzo che cresce da solo, con un padre che si dimentica
di andarlo a prendere, una madre impegnata nel lavoro e che
preferisce non frequentare più la scuola pur di non leggere ad
alta voce ma è lo stesso ragazzo che riesce, poi, a terminare
gli studi con voti eccellenti proprio perché durante quel
primo isolamento entra in contatto con la parte più intima di
sé stesso e sarà proprio quella sua forza interiore ad
aiutarlo a seguire, senza indugio, la sua strada.

Una forza d’animo capace di sostenerlo nel decidere di
dichiarare apertamente di essere malato di HIV e che proprio
nell’accettazione della sua malattia e dell’uomo che è
diventato che si arriva a definire Rossano il veleno e
l’antidoto chiudendo in qualche modo un cerchio.

Bazzi ha una scrittura sintetica, asciutta e diretta, quasi
fossero delle pennellate di pensiero. I suoi pensieri arrivano
in modo potente e senza tanti fronzoli. Gli aggettivi sono
precisi, sintetici perfetti e la lettura coinvolge al punto di
sentire a pelle i brividi della febbre.

Con Febbre Jonathan Bazzi è al suo primo romanzo ed è tra i 12
finalisti per il Premio Strega 2020.
Febbre di Jonathan Bazzi

Il Colibri di Veronesi

La nuova stagione di Ballestra

L’apprendista di Gian Mario Villalta

Ragazzo italiano di Gian Arturo Ferrari

Città sommersa di Marta Barone

Giovanissimi di Alessio Forgione

La misura del tempo di Gianrico Carofiglio

Almarina di Valeria Parrella

Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli

Breve storia del mio silenzio di Giuseppe Lupo

Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio

SINOSSI
Jonathan ha 31 anni nel 2016, un giorno qualsiasi di gennaio
gli viene la febbre e non va più via, una febbretta, costante,
spossante, che lo ghiaccia quando esce, lo fa sudare di notte
quasi nelle vene avesse acqua invece che sangue. Aspetta un
mese, due, cerca di capire, fa analisi, ha pronta grazie alla
rete un’infinità di autodiagnosi, pensa di avere una malattia
incurabile, mortale, pensa di essere all’ultimo stadio. La sua
paranoia continua fino al giorno in cui non arriva il test
all’HIV e la realtà si rivela: Jonathan è sieropositivo, non
sta morendo, quasi è sollevato. A partire dal d-day che ha
cambiato la sua vita con una diagnosi definitiva, l’autore ci
accompagna indietro nel tempo, all’origine della sua storia,
nella periferia in cui è cresciuto, Rozzano – o Rozzangeles –,
il Bronx del Sud (di Milano), la terra di origine dei rapper,
di Fedez e di Mahmood, il paese dei tossici, degli operai,
delle famiglie venute dal Sud per lavori da poveri, dei
tamarri, dei delinquenti, della gente seguita dagli assistenti
sociali, dove le case sono alveari e gli affitti sono bassi,
dove si parla un pidgin di milanese, siciliano e napoletano.
Dai cui confini nessuno esce mai, nessuno studia, al massimo
si fanno figli, si spaccia, si fa qualche furto e nel peggiore
dei casi si muore. Figlio di genitori ragazzini che presto si
separano, allevato da due coppie di nonni, cerca la sua
personale via di salvezza e di riscatto, dalla periferia,
dalla balbuzie, da tutte le cose sbagliate che incarna (colto,
emotivo, omosessuale, ironico) e che lo rendono diverso.
Un libro spiazzante, sincero e brutale, che costringerà le
nostre emozioni a un coming out nei confronti della storia
eccezionale di un ragazzo come tanti.

Un esordio letterario atteso e potente.

La resilienza ai tempi della
pandemia
Se ne è parlato tanto negli ultimi tempi, ma ancor di più in
questo periodo di emergenza sanitaria da Covid-19. Siamo stati
chiusi in casa per oltre due mesi, con la paura di ammalarci,
di avere familiari colpiti dal virus e di perdere il lavoro
(purtroppo in tanti lo hanno perso). Nelle giornate difficili
che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo, ci ha salvato e ci
salva facendoci volgere lo sguardo al futuro, ad una possibile
ricostruzione della nostra vita. Si tratta della resilienza,
dal latino ‘resilire’ che significa rimbalzare, risalire, vale
a dire quella capacità di far fronte in maniera positiva a
eventi traumatici e reagire alle sfide della vita. Chi è
resiliente non si fa piegare dagli ostacoli della vita,
fronteggia le avversità, va avanti nel proprio obiettivo,
guardando al futuro senza lasciarsi sopraffare. Non è una
semplice resistenza, ma un processo dinamico che porta a una
trasformazione personale. Si reagisce a traumi, delusioni e
frustrazioni. Ci si piega al dolore, ma non ci si spezza. Nel
linguaggio marinaro ‘resalgo’ indica il risalire nella barca
dopo un urto o una forte onda che ci ha fatto finire in acqua.

Inizialmente il termine è stato utilizzato dalla fisica dei
materiali per indicare la capacità di un corpo a riprendere la
propria forma iniziale dopo una deformazione causata da un
impatto. Poi è stato usato in altri ambiti come ingegneria,
informatica, biologia e psicologia, dove indica la capacità di
tirarsi fuori dalle esperienze difficili, che non avremmo mai
voluto vivere, ma che ci sono capitate come una malattia, la
perdita di un lavoro o la conclusione di un rapporto
sentimentale. Per R.L. Collins (2009) la resilienza è la
“capacità di adattarsi o riprendersi dopo delle avversità e
sfide e connota la forza interiore, la competenza, l’ottimismo
e la flessibilità”. Elementi genetici e innati predispongono
la persona alla resilienza. E’ una qualità che tutti noi
abbiamo ereditato dalla nostra evoluzione di primati. Se però
non la coltiviamo e non la valorizziamo, rimane solo ‘in nuce’
dentro di noi, non si sviluppa; coltivandola, saremo sempre in
grado, in caso di difficoltà, di superare al meglio la
situazione e rafforzarci per vivere anziché sopravvivere. La
resilienza può essere riparazione ma anche cambiamento,
opportunità come la tecnica del “Kintsugi”, l’arte del
restauro praticata in Giappone per riparare un vaso rotto. Non
vengono nascosti i danni, ma si rimettono i cocci con una
resina speciale mista a oro che rende visibili le crepe che
vengono valorizzate nell’idea di rendere il vaso più bello di
come era origine. Alcune piccole abitudini si possono
sviluppare per potenziare la resilienza personale e ripartire
come farsi guidare dallo stupore; meravigliarsi delle cose;
sviluppare la creatività per esprimere se stessi; curare i
rapporti interpersonali; magari solo con una chiacchierata
telefonica; imparare cose nuove; praticare la flessibilità;
prendersi la responsabilità di azioni ed emozioni; allenare il
senso dell’umorismo, ottimo per alimentare l’ottimismo.

Senza dubbio la resilienza è un’ottima strategia per superare
paura, ansia e tristezza di questi ultimi mesi e ritornare in
forma a livello fisico e psicologico.
Puoi anche leggere