Le nostre anime di notte di Kent Haruf
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Le nostre anime di notte di Kent Haruf Le nostre anime di notte è l’ultimo romanzo di Kent Haruf, scrittore molto noto anche per la sua “Trilogia della Pianura”. Pubblicato postumo ha riscosso molto successo, tanto che recentemente ne abbiamo avuto la trasposizione cinematografica con due protagonisti d’eccezione: Robert Redford e Jane Fonda. Questo libro, che ci parla di solitudine, paura di morire e amore, mi è capitato tra le mani in occasione di un breve week end a Pescara e, nonostante il poco tempo a disposizione, l’ho letteralmente divorato. Siamo soltanto due vecchi che parlano al buio Addie e Louis sono due vecchi vedovi e soli, vicini di casa da sempre, con i rispettivi figli che vivono lontano. La solitudine è veramente tanta e quando si ha una certa età capita a volte che si decida di voler vivere gli ultimi anni che restano infischiandosene del giudizio altrui. Un giorno Addie va a trovare Louis a casa sua per parlargli, l’imbarazzo è palpabile nonostante i due si conoscano da tanto tempo, ma la donna si fa coraggio e chiede all’uomo che le sta di fronte se vuole andare la sera da lei per farle compagnia di notte. La notte è infatti il momento più difficile della giornata, nel buio i problemi e le angosce della vita vengono amplificati, le ore non passano mai e lei vuole solo che lui le stia vicino, vuole solo qualcuno con cui parlare. Louis dopo un po’ di sconcerto accetta e inizia così questo
particolare e intenso rapporto notturno tra due anime sole che si svelano l’una all’altra come forse non avevano mai fatto con i rispettivi coniugi. I due vivono come in una bolla di felicità ritrovata e non si accorgono che il paese parla. Ma non sono solo le malelingue a minacciare la loro unione. Uno stile quello di Haruf, essenziale ma coinvolgente, profondo senza risultare pesante. Le frasi scorrono veloci, urge al lettore arrivare alla fine. Un libro che si legge tutto d’un fiato ma che rimane, lascia traccia; fa riflettere, senza per questo risultare melenso e scontato, su quella che è una verità inconfutabile: l’amore non ha età. SINOSSI In una piccola cittadina del Colorado, Addie Moore fa una visita inaspettata al vicino di casa, Louis Waters. Vedovi entrambi da anni, pur abitando l’uno accanto all’altra, non hanno mai avuto molte occasini di contatto. Poiché i rispettivi figli sono lontani, i due vivono da soli nelle loro grandi case. Grazie a questa visita, Addie e Louis iniziano a frequentarsi per dare un senso al tempo che resta loro da vivere.
Italia-Germania, el Partido del Siglo di Carlo Di Porto La chiamano così gli storici del calcio, la partita del 17 giugno 1970 disputata allo stadio Azteca di Città del Messico, semifinale di un mondiale vinto dal Brasile stellare di Rivelino, Gerson, Tostao e Pelè. Un mondiale passato alla storia per ‘questa’ partita in cui però quel Brasile non c’era, perché in campo ci andarono Italia e Germania. Quella notte, per centoventi minuti, il calcio ha scritto una delle pagine più belle della sua storia, una notte di giugno, calda, afosa, una di quelle notti in cui le finestre illuminate nelle case raccontavano di un Paese sveglio davanti alla televisione, ipnotizzato dalla voce di Nando Martellini, un altro che a proposito di storia del calcio qualche cosa potrebbe dire. Famiglie intere, bambini che avevano ottenuto dalle mamme il permesso di rimanere alzati fino a tardi, tanto la scuola il giorno dopo non c’era e nemmeno gli esami. L’Italia si era stretta, unita da una maglia azzurra. Accarezzava Riva, Rivera, Mazzola, eroi di una Italia ancora tramortita dal ’68 appena passato, e con gli anni di piombo dietro l’angolo. L’Italia segna subito, una rasoiata di Boninsegna dopo una manciata di minuti ci porta in paradiso, regge bene poi l’urto di una nazionale tedesca fortissima, sospinta da Franz Beckenbauer e da quel Gerd Muller, folletto sgraziato che come sfiora un pallone fa goal, sempre. Regge fino al novantesimo
minuto, quando Schnellinger arpiona un pallone in mezzo l’area di rigore e pareggia. Sembra la fine di un sogno, si vive lo sconforto, un sentimento tutto italiano, il presagio di una fine che sembra già scritta “ma ti pare che vinciamo noi?”. Al novantaquattresimo il goal di Gerd Muller (e ti pareva) sembra certificare il tutto, eccola la fine. No! l’Italia pareggia, segna Burnich che per fortuna di tedesco ha solo il nome e siamo solo al novantottesimo, segna ancora Riva siamo in vantaggio e siamo al centoquattresimo, è sfiancante solo scriverlo un numero così. Ci si abbraccia, si piange, si fuma e chissenefrega che ore sono. Italia-Germania è adesso, non dorme nessuno. Segna ancora Gerd Muller, insopportabile Gerd Muller, la disperazione ci assale, siamo 3-3 e mancano un pugno di minuti alla fine della partita. E Adesso? È finito tutto, per i tifosi non c’è più niente da fumare, da bere, niente da rompere! Ma l’Italia c’è ancora. C’è Gianni Rivera che segna il rigore in movimento più importante della storia del calcio nazionale, si la storia, sempre la storia, la storia stavolta siamo noi. L’Italia esplode abbracciandosi, perché in quella storia, stavolta, ci siamo noi e ci saremo per sempre, perché di “Partido del siglo” ce ne sarà sempre e solo uno. Al Napoli il primo trofeo post-pandemia di Carlo Di Porto Il Napoli vince il primo trofeo post-Covid e alza al cielo la Coppa Italia 2020, mentre il suo allenatore, Rino Gattuso, abbassa gli occhi verso l’abisso del dolore, a pochi giorni dalla prematura scomparsa della sorella per un male
incurabile. Forse la faccia di Gattuso meglio di qualunque altra cosa fotografa la partita e più in generale il momento che sta vivendo il calcio italiano. Uno spettacolo triste, silenzioso, un teatro vuoto dove gli attori recitano più per se stessi che per un pubblico che non c’è. Il calcio dovrebbe essere allegria, colori, rumori, sensazioni che rimangono impressi per sempre nel cuore e nella mente non solo dei calciatori, ma anche degli spettatori. L’arena oggi è vuota, tristemente riempita di pixel elettronici per il telespettatore e di rumori sintetizzati da chissà quale computer. Manca il cuore, la passione, il sentimento, mancano le esclamazioni di meraviglia per una giocata di Ronaldo o un dribbling di Mertens. É un calcio disinnescato, depotenziato, è un calcio che non ci piace. Ci sono voluti i calci di rigore per decretare il successo del Napoli: sbagliano Dybala e Danilo per la Juventus e, senza demeritare, ad esultare è la squadra partenopea, ma è il resto a rimanere impresso nella nostra mente. La desolante solitudine del tifoso, abbandonato davanti alla TV alla ricerca di una passione perduta. Proprio ieri, nel cinquantenario della partita del secolo, di quella partita che mai come nessuna aveva reso calcio e tifosi una cosa sola. Le assaggiatrici di Rosella Postorino Premio Campiello 2018 Le assaggiatrici di Rosella Postorino è un libro d’invenzione ispirato alla vera storia di Margot Wolk, una delle
assaggiatrici di Adolf Hitler nella caserma di Krausendorf, a due passi da La Tana del Lupo, il quartier generale del Führer, zona nascosta e mimetizzata all’interno della foresta. La protagonista è Rosa Sauer, una giovane berlinese in fuga dalla città che vive insieme ai suoceri per salvarsi dai bombardamenti e che attende con trepidazione il ritorno del marito Greg dal fronte. Viene scelta, insieme ad altre nove ragazze, per assaggiare quotidianamente i pasti preparati per Hitler. La paura entra tre volte al giorno, sempre senza bussare, si siede accanto a me, e se mi alzo mi segue, ormai mi fa quasi compagnia. Le assaggiatrici di Postorino Rosa proviene da una famiglia che disapprova in modo esplicito il regime nazista eppure di fronte alle violenze e ai soprusi del regime nazista ha la meglio l’istinto di sopravvivenza. La chiave di lettura de Le assaggiatrice è, senza dubbio, il conflitto tra bene e male, l’ambiguità delle pulsioni umane e l’istinto di sopravvivenza.
Rosa vive un profondo senso di colpa per non ribellarsi allo stato in cui vive. Mangia ogni giorno quei bocconi aspettando la morte quando tutto attorno a lei è solo morte, fame e povertà. Lei è sia vittima che carnefice. Vittima perché è costretta a assaggiare il cibo preparato per Hitler ma allo stesso tempo carnefice perché lei lavora proprio per Hitler. Alcune pagine sono di grande drammaticità ma scritte con tale grazia da non cadere mai nella banalità. Mi hanno colpito i paragrafi in cui si parla dela situazione dei soldati tedeschi al fronte i quali, spesso, pur di non eseguire gli ordini crudeli impartiti dall’alto, preferisco suicidarsi. Pagine che mi hanno fatto riflettere sulla brutalità del regime, sulle difficoltà di coloro che, pur odiando tale regime, si sono visti obbligati ad accettare per sopravvivere a dimostrazione che in guerra non ci sono mai né vinti e né vincitori. In fondo in un regime totalitario non c’è soltanto uno stato di oppressione inflitta ma anche la costrizione ad uno stato di collusione con il regime stesso. Perché, da tempo, mi trovavo in posti in cui non volevo stare, e accondiscendevo, e non mi ribellavo, e continuavo a sopravvivere ogni volta che qualcuno mi veniva portato via? La capacità di adattamento è la maggior risorsa degli esseri umani, ma più mi adattavo e meno mi sentivo umana. SINOSSI La prima volta in cui Rosa Sauer entra nella stanza in cui dovrà consumare i suoi prossimi pasti è affamata. “Da anni avevamo fame e paura,” dice. Siamo nell’autunno del 1943, a
Gross-Partsch, un villaggio molto vicino alla Tana del Lupo, il nascondiglio di Hitler. Ha ventisei anni, Rosa, ed è arrivata da Berlino una settimana prima, ospite dei genitori di suo marito Gregor, che combatte sul fronte russo. Le SS posano sotto ai suoi occhi un piatto squisito: “mangiate” dicono, e la fame ha la meglio sulla paura, la paura stessa diventa fame. Dopo aver terminato il pasto, però, lei e le altre assaggiatrici devono restare per un’ora sotto osservazione in caserma, cavie di cui le ss studiano le reazioni per accertarsi che il cibo da servire a Hitler non sia avvelenato. Nell’ambiente chiuso di quella mensa forzata, sotto lo sguardo vigile dei loro carcerieri, fra le dieci giovani donne si allacciano, con lo scorrere dei mesi, alleanze, patti segreti e amicizie. Nel gruppo Rosa è subito la straniera, la “berlinese”: è difficile ottenere benevolenza, tuttavia lei si sorprende a cercarla, ad averne bisogno. Soprattutto con Elfriede, la ragazza più misteriosa e ostile, la più carismatica. Poi, nella primavera del ’44, in caserma arriva un nuovo comandante, Albert Ziegler. Severo e ingiusto, instaura sin dal primo giorno un clima di terrore, eppure – mentre su tutti, come una sorta di divinità che non compare mai, incombe il Führer – fra lui e Rosa si crea un legame speciale, inaudito. Con una rara capacità di dare conto dell’ambiguità dell’animo umano, Rosella Postorino, ispirandosi alla storia vera di Margot Wölk (assaggiatrice di Hitler nella caserma di Krausendorf), racconta la vicenda eccezionale di una donna in trappola, fragile di fronte alla violenza della Storia, forte dei desideri della giovinezza. Proprio come lei, i lettori si trovano in bilico sul crinale della collusione con il Male, della colpa accidentale, protratta per l’istinto antieroico di sopravvivere. Di sentirsi, nonostante tutto, ancora vivi.
Otto anni senza infortuni per l’azienda Ecotherm di Pomezia Un successo frutto della passione di tutti Ecotherm Srl, Società leader nel mercato della consulenza e delle bonifiche in campo ambientale con sede a Pomezia, ha raggiunto il traguardo di OTTO anni senza infortuni. Un importante risultato, che arriva in un momento difficile per le imprese e per l’economia in generale. L’azienda è rimasta operativa anche durante questo periodo così complesso, per garantire ai propri clienti tutto il supporto necessario in questi giorni così difficili. “Questo successo – dichiara Luca Caratto, Amministratore Delegato – è il frutto della competenza e della passione che tutto il personale Ecotherm dimostra, con il prezioso supporto di Clienti e Fornitori, giorno dopo giorno, in ogni cantiere, in ogni progetto, riuscendo a migliorare continuamente la tutela della sicurezza e della salute di tutti i lavoratori.” Viene così raggiunta una ulteriore pietra miliare nel cammino di Ecotherm verso la sostenibilità, che permette all’Azienda green di Pomezia di proseguire con nuovi ambiziosi obiettivi.
IL TRENO DEI BAMBINI di Viola Ardone Spesso diffido dei libri troppo “chiacchierati” dai social, ma stavolta gli occhi del bambino in copertina hanno avuto la meglio. Il “Treno dei bambini” parla di povertà, di amore, di decisioni difficili, di partenze e ritorni. L’autrice, con una forte padronanza di linguaggio e con uno stile che cattura fin dall’incipit il lettore, ci racconta di un viaggio che inizia nel 1946 e termina nel 1994. Amerigo, il protagonista/narratore vive in una Napoli del secondo dopoguerra, una Napoli piegata ma non spezzata dalla crisi economica. Da questa Napoli parte con un treno pieno di bambini dei quali la maggior parte non è mai uscita fuori dal proprio rione. Amerigo è molto povero, ha le scarpe strette ed è senza cappotto quando si siede nello scompartimento diretto in Emilia Romagna, dove tante famiglie si sono rese disponibili ad offrire a questi piccoli spauriti, qualche mese di vita confortevole e di studio. Nella stessa Napoli il bambino ritorna due volte: la prima dopo quei pochi mesi di calore e benessere, la seconda nel 1994 da adulto, musicista affermato. Poi c’è la madre, Antonietta, una donna sola e forte ma duramente provata dal lutto e dalla povertà. Una donna che, a
dispetto delle male lingue, decide di far partire suo figlio su quel treno organizzato dai comunisti, un treno che non lo deporterà in Russia ma al Nord, dove forse ci sarà un futuro che lei non può garantirgli. Antonietta un figlio lo ha già perso, l’altro non sa se e quando lo rivedrà. Nel treno con Amerigo partono anche Tommasino e Mariuccia, in tre si fanno coraggio l’uno con l’altro. Bellissimo il punto in cui il treno esce da una galleria e, con il naso incollato al vetro del finestrino, vedono per la prima volta nella loro vita, la neve. “ A’ ricotta, a’ ricotta…” grida Mariuccia. Una volta arrivati però, i tre bambini vengono separati, si rincontreranno? Veramente una bella penna quella di Viola Ardone, una penna che parla di mamme e di bambini coraggiosi, di miseria e sofferenza senza però risultare minimamente stucchevole. Mia mamma va avanti e io appresso. Per dentro ai vicoli dei Quartieri spagnoli mia mamma cammina veloce: ogni passo suo, due miei. Guardo le scarpe della gente. SINOSSI E’ il 1946 quando Amerigo lascia il suo rione a Napoli e sale su un treno.assiema a migliaia di altri bambini meridionali attraverserà l’intera penisola e trascorrerà alcuni mesi in una famiglia del Nord; un’iniziativa del Partito comunista per strappare i piccoli alla miseria dopo l’ultimo conflitto. Con lu stupore dei suoi sette anni e il piglio furbo di un bambino dei vicoli, Amerigo ci mostra un’Italia che si rialza dalla guerra come se la vedessimo per la prima volta. E ci affida la storia commovente di una separazione. Quel dolore originario cui non ci si può sottrarre, perché non c’è altro modo per crescere.
Quando la casa diventa una tana Il lungo confinamento in casa a causa del Covid-19, che ha portato vittime, e disagi a livello sanitario e politico- sociale a tutti noi, ha comportato anche un drastico cambiamento nel nostro stile di vita. In questi giorni, lontano da familiari, amici e colleghi, abbiamo ricominciato ad uscire, con sollievo per molti, ma non per tutti. In effetti dopo il lockdown, l’isolamento e il distanziamento sociale, molte persone si ritrovano a fare i conti con un disagio forse anche più dannoso del virus stesso: la paura di uscire di casa e di tornare alle attività quotidiane di prima. Preferiscono rimanere in casa piuttosto che ritornare piano piano a una vita sociale quasi normale, alle azioni di tutti i giorni. Sono in preda del nervosismo, frustrazione, ansia e paura soprattutto coloro che vivono situazioni di fragilità emotiva, o che hanno timore di contrarre il virus. Tutto ciò rientra nella cosiddetta “Sindrome della capanna” o del ‘prigioniero’, o cabin fever in inglese, che può comparire nelle persone che dopo un periodo di clausura, per esempio dopo una malattia o, come nel nostro caso, dovuta alle misure restrittive imposte a causa della pandemia. Si riferisce a una condizione di smarrimento, una voglia di seguitare a rimanere al sicuro in casa; una dimensione emotiva già descritta all’inizio del XX secolo, spesso camuffata e descritta come poca voglia di uscire di casa a cui si debbono associare le attuali limitazioni comportamentali imposte dalle Autorità come l’uso delle mascherine e il mantenimento delle distanze di scurezza. Non è una malattia, ma una serie di aspetti comportamentali e psicologici legati a specifiche condizioni.
Per la Società italiana di psichiatria (Sip) sono oltre un milione gli italiani che rischiano di svilupparla, in questa fase di post quarantena. “Possiamo dire che la sindrome della capanna e la movida senza prevenzioni sono due aspetti reattivi a condizioni ambientali, relazionali, sociali o di rischio pandemico, esattamente opposti” afferma Massimo Di Gannantonio, presidente Sip. “Se la movida è rimozione e negazione del rischio pandemico, la sindrome della capanna è una fobizzazione, una costruzione reattiva di tipo fobico, a dei rischi che in maniera sproporzionata vengono vissuti come enormi, pericolosi, incontrollabili” (fonte Dire). Si ha paura a riprendere gli impegni fuori casa e si desidera rimanere ancora un po’ nella sicurezza delle mura domestiche, lontano dal virus che non è affatto sparito. Per superare il fenomeno, come dicono gli esperti, si deve prendere tempo, andare avanti a piccoli passi tra cui, organizzare una routine giornaliera come la gestione della casa e il tempo libero, accogliere le nostre emozioni, stabilire obiettivi per fronteggiare l’insorgere di preoccupazioni eccessive cercando di trasformare in positivo questa esperienza, a partire dal ridimensionamento dell’utilizzo del superfluo, e se necessario rivolgersi ai professionisti del settore. Riprenderà meglio chi saprà accogliere la novità, al di là del fattore anagrafico. L’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali (Irpss) del Consiglio nazionale delle ricerche ha condotto un’indagine sull’impatto psicosociale dell’epidemia di Covid-19 in Italia. Dal 9 marzo sono state intervistate 140 mila persone che hanno evidenziato come le preoccupazioni economiche vengono dopo quelle sanitarie. “Quattro persone su dieci di quelle interpellate prevedevano di andare incontro a gravi perdite economiche, più di una su dieci riferiva di aver perso il lavoro o di aver chiuso la propria attività, e due su dieci di essere andate in cassa integrazione”, spiega Antonio Tintori, sociologo e coordinatore della ricerca. Dai risultati emerge che i sentimenti più diffusi durante l’isolamento sono
stati tristezza, paura, ansia e rabbia, ma anche che la popolazione ha mostrato buona capacità di reagire all’interruzione delle relazioni sociali. Anche per l’Organizzazione mondiale di sanità la salute mentale, e non solo quella fisica, è a rischio a causa della pandemia così come evidenziato un rapporto Onu sul tema. “L’isolamento, la paura, l’incertezza, le turbolenze economiche causano, o potrebbero causare, sofferenze psicologiche” sostiene Devora Kestel, direttrice del dipartimento di salute mentale dell’Oms. ”La salute mentale e il benessere di intere società sono state gravemente colpite da questa crisi e sono una priorità”. Compagnia dei Lepini: nuove frontiere per il turismo Riceviamo e pubblichiamo , comunicato stampa 3 giugno 2020 de COMPAGNIA DEI LEPINI Nuove frontiere per il turismo: la Compagnia dei Lepini è pronta a sperimentare soluzioni Tra i vari cambiamenti che il tanto atteso ritorno alla normalità porterà con sé, trova sicuramente un posto anche il comparto turistico, un settore che si appresta ad affrontare
una fase nella quale anche il modo di presentarsi e di “offrirsi” saranno condizionati da nuove regole. Pronta ad affrontarle si è detta la Compagnia dei Lepini, che ha analizzato con attenzione le previsioni dell’Osservatorio Innovazione Digitale nel Turismo della School of Managment del Politecnico di Milano, presentate nel corso di un seminario promosso da Lazio Innova e tenuto a Latina da Spazio Attivo, dal quale è emerso che la maggior parte (83%) degli italiani intende fare vacanza restando sul suolo nazionale, mentre oltre il 40% ha dichiarato che sceglierà la propria destinazione di viaggio in funzione delle rassicurazioni offerte sulla sicurezza dei luoghi in relazione all’emergenza sanitaria. L’esigenza di staccare la spina dal lavoro ed andare in vacanza, quindi, sembrerebbe orientare verso un turismo domestico e di prossimità: “In questa difficile situazione – ha sostenuto Quirino Briganti, presidente della Compagnia dei Lepini – paradossalmente un territorio come il nostro, situato in prossimità con la grande area metropolitana di Roma, con una popolazione di più di 4 milioni e, comunque, insistente in un bacino regionale con una popolazione di poco meno di 6 milioni di abitanti, si ritrova in uno spazio di mercato di prim’ordine che, forse per la prima volta, ha un fortissimo interesse diretto e immediato a scegliere al suo interno la località per la vacanza 2020”. Con questi interessanti presupposti la stessa Compagnia dei Lepini, nelle prossime settimane, lancerà una campagna di comunicazione web e social finalizzata a far conoscere al più ampio pubblico, regionale e nazionale, le straordinarie bellezze naturalistiche, storiche, artistiche e produttive. La campagna sarà caratterizzata dal pay-off “Monti Lepini, naturalmente storici” e si avvarrà di una ricca distribuzione di contenuti multimediali attraverso gli strumenti social e web: “L’enorme lavoro realizzato dalla Compagnia dei Lepini fino ad oggi mette il territorio dei Monti Lepini in una condizione di straordinario vantaggio competitivo rispetto a tutti gli altri territori della Regione Lazio che concorreranno per acquisire mercato turistico. Noi disponiamo, da subito, di efficienti
strumenti di informazione sia cartacei come la Guida Turistica dei Monti Lepini, L’Arte dei Lepini, L’Atlante della Flora dei Lepini, sia digitali come il portale web della Compagnia dei Lepini e l’App I Lepini che contiene tutte le informazioni sulla ricettività, la ristorazione e tutti i servizi turistici dei Comuni. C’è solo bisogno di diffondere questi strumenti e di offrirli all’uso dei visitatori”, ha concluso il presidente della Compagnia dei Lepini. Febbre di Jonathan Bazzi Esordio letterario candidato al Premio Strega 2020 Non sempre è facile mettersi nei panni di un altro ma la scrittura dinamica di Jonathan Bazzi riesce a catturarti e farti sentire sulla pelle l’ansia di un bambino e di un uomo nel sentirsi diverso e inadatto. La storia è strutturata in capitoli che alternano l’infanzia del protagonista e il suo presente in una storia autobiografica che ha coinvolto lettori e critica di Febbre tanto da essere uno della magica dozzina candidata per il Premio Strega 2020. Se in un primo momento il reale protagonista sembra essere la sconvolgente scoperta di essere sieropositivo, in effetti ciò che colpisce è quella sottile e costante patina di sentirsi sempre diverso da qualcosa, dai propri sogni, dalle prospettive future, dalle aspettative. Diverso e confuso in un mondo che sembra correre e
affaccendarsi senza mai osservare davvero l’anima di Jonathan. Fin dalla prima infanzia, il protagonista non si sente mai adeguato. La separazione dei genitori, il continuo cambio di scuola, la sua balbuzie, questa Milano vicina ma in effetti lontanissima. Sono cresciuto a Rossano, cap 20089, un paese piccolo ma neanche poi tanto, all’estrema periferia sud di Milano, costruito in mezzo alla campagna che costeggia il Naviglio, in direzione Pavia. Tutta la crudeltà di una vita vissuta ai margini, non solo rispetto alla sua omosessualità, ma rispetto all’ambiente che lo circonda e che appare muto e lontano davanti alla sua esigenza di essere compreso e protetto. Un ragazzo che cresce da solo, con un padre che si dimentica di andarlo a prendere, una madre impegnata nel lavoro e che preferisce non frequentare più la scuola pur di non leggere ad alta voce ma è lo stesso ragazzo che riesce, poi, a terminare gli studi con voti eccellenti proprio perché durante quel primo isolamento entra in contatto con la parte più intima di sé stesso e sarà proprio quella sua forza interiore ad aiutarlo a seguire, senza indugio, la sua strada. Una forza d’animo capace di sostenerlo nel decidere di dichiarare apertamente di essere malato di HIV e che proprio nell’accettazione della sua malattia e dell’uomo che è diventato che si arriva a definire Rossano il veleno e l’antidoto chiudendo in qualche modo un cerchio. Bazzi ha una scrittura sintetica, asciutta e diretta, quasi fossero delle pennellate di pensiero. I suoi pensieri arrivano in modo potente e senza tanti fronzoli. Gli aggettivi sono precisi, sintetici perfetti e la lettura coinvolge al punto di sentire a pelle i brividi della febbre. Con Febbre Jonathan Bazzi è al suo primo romanzo ed è tra i 12 finalisti per il Premio Strega 2020.
Febbre di Jonathan Bazzi Il Colibri di Veronesi La nuova stagione di Ballestra L’apprendista di Gian Mario Villalta Ragazzo italiano di Gian Arturo Ferrari Città sommersa di Marta Barone Giovanissimi di Alessio Forgione La misura del tempo di Gianrico Carofiglio Almarina di Valeria Parrella Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli Breve storia del mio silenzio di Giuseppe Lupo Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio SINOSSI Jonathan ha 31 anni nel 2016, un giorno qualsiasi di gennaio gli viene la febbre e non va più via, una febbretta, costante, spossante, che lo ghiaccia quando esce, lo fa sudare di notte quasi nelle vene avesse acqua invece che sangue. Aspetta un mese, due, cerca di capire, fa analisi, ha pronta grazie alla rete un’infinità di autodiagnosi, pensa di avere una malattia incurabile, mortale, pensa di essere all’ultimo stadio. La sua paranoia continua fino al giorno in cui non arriva il test all’HIV e la realtà si rivela: Jonathan è sieropositivo, non sta morendo, quasi è sollevato. A partire dal d-day che ha
cambiato la sua vita con una diagnosi definitiva, l’autore ci accompagna indietro nel tempo, all’origine della sua storia, nella periferia in cui è cresciuto, Rozzano – o Rozzangeles –, il Bronx del Sud (di Milano), la terra di origine dei rapper, di Fedez e di Mahmood, il paese dei tossici, degli operai, delle famiglie venute dal Sud per lavori da poveri, dei tamarri, dei delinquenti, della gente seguita dagli assistenti sociali, dove le case sono alveari e gli affitti sono bassi, dove si parla un pidgin di milanese, siciliano e napoletano. Dai cui confini nessuno esce mai, nessuno studia, al massimo si fanno figli, si spaccia, si fa qualche furto e nel peggiore dei casi si muore. Figlio di genitori ragazzini che presto si separano, allevato da due coppie di nonni, cerca la sua personale via di salvezza e di riscatto, dalla periferia, dalla balbuzie, da tutte le cose sbagliate che incarna (colto, emotivo, omosessuale, ironico) e che lo rendono diverso. Un libro spiazzante, sincero e brutale, che costringerà le nostre emozioni a un coming out nei confronti della storia eccezionale di un ragazzo come tanti. Un esordio letterario atteso e potente. La resilienza ai tempi della pandemia Se ne è parlato tanto negli ultimi tempi, ma ancor di più in questo periodo di emergenza sanitaria da Covid-19. Siamo stati chiusi in casa per oltre due mesi, con la paura di ammalarci, di avere familiari colpiti dal virus e di perdere il lavoro (purtroppo in tanti lo hanno perso). Nelle giornate difficili che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo, ci ha salvato e ci salva facendoci volgere lo sguardo al futuro, ad una possibile
ricostruzione della nostra vita. Si tratta della resilienza, dal latino ‘resilire’ che significa rimbalzare, risalire, vale a dire quella capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici e reagire alle sfide della vita. Chi è resiliente non si fa piegare dagli ostacoli della vita, fronteggia le avversità, va avanti nel proprio obiettivo, guardando al futuro senza lasciarsi sopraffare. Non è una semplice resistenza, ma un processo dinamico che porta a una trasformazione personale. Si reagisce a traumi, delusioni e frustrazioni. Ci si piega al dolore, ma non ci si spezza. Nel linguaggio marinaro ‘resalgo’ indica il risalire nella barca dopo un urto o una forte onda che ci ha fatto finire in acqua. Inizialmente il termine è stato utilizzato dalla fisica dei materiali per indicare la capacità di un corpo a riprendere la propria forma iniziale dopo una deformazione causata da un impatto. Poi è stato usato in altri ambiti come ingegneria, informatica, biologia e psicologia, dove indica la capacità di tirarsi fuori dalle esperienze difficili, che non avremmo mai voluto vivere, ma che ci sono capitate come una malattia, la perdita di un lavoro o la conclusione di un rapporto sentimentale. Per R.L. Collins (2009) la resilienza è la “capacità di adattarsi o riprendersi dopo delle avversità e sfide e connota la forza interiore, la competenza, l’ottimismo e la flessibilità”. Elementi genetici e innati predispongono la persona alla resilienza. E’ una qualità che tutti noi abbiamo ereditato dalla nostra evoluzione di primati. Se però non la coltiviamo e non la valorizziamo, rimane solo ‘in nuce’ dentro di noi, non si sviluppa; coltivandola, saremo sempre in grado, in caso di difficoltà, di superare al meglio la situazione e rafforzarci per vivere anziché sopravvivere. La resilienza può essere riparazione ma anche cambiamento, opportunità come la tecnica del “Kintsugi”, l’arte del restauro praticata in Giappone per riparare un vaso rotto. Non vengono nascosti i danni, ma si rimettono i cocci con una resina speciale mista a oro che rende visibili le crepe che vengono valorizzate nell’idea di rendere il vaso più bello di
come era origine. Alcune piccole abitudini si possono sviluppare per potenziare la resilienza personale e ripartire come farsi guidare dallo stupore; meravigliarsi delle cose; sviluppare la creatività per esprimere se stessi; curare i rapporti interpersonali; magari solo con una chiacchierata telefonica; imparare cose nuove; praticare la flessibilità; prendersi la responsabilità di azioni ed emozioni; allenare il senso dell’umorismo, ottimo per alimentare l’ottimismo. Senza dubbio la resilienza è un’ottima strategia per superare paura, ansia e tristezza di questi ultimi mesi e ritornare in forma a livello fisico e psicologico.
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