PRIMARIE USA: E SE CLINTON DIVENISSE L'AL GORE DEL 2008?
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PRIMARIE USA: E SE CLINTON DIVENISSE L’AL GORE DEL 2008? di Giancarlo Doria (Dottorando di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate, Università La Sapienza; documentarista presso la Camera dei Deputati) gd2225@columbia.edu 28 maggio 2008 1. La questione: perché Hillary Clinton è ancora in corsa? Perché Hillary Clinton è ancora in corsa? E a cosa mira veramente? È su queste do- mande che da ormai parecchi giorni si esercita gran parte della stampa americana. Al punto che la stessa senatrice si è sentita in bisogno di dare la propria versione della risposta: “Corro perché credo ancora di poter vincere on the merits. [… E] corro perché credo di essere la can- didata più forte per fronteggiare McCain”, ha infatti scritto – non senza un pizzico di ambigui- tà1 – in una lettera comparsa domenica sul newyorkese Daily News2. Ed è probabilmente ancora alla presenza sottotraccia di tali cruciali interrogativi che si deve la fiammata polemica seguita al riferimento fatto giovedì scorso da Clinton all’assassinio di Robert Kennedy, quando, in risposta ad un giornalista che le domandava per quale ragione così tante persone la invitino al ritiro, la candidata ha affermato: “Non so. […] Storicamente, non ha alcun senso: […]nel 1992, mio marito non si assicurò la nomination che quando vinse le primarie in California, a metà giugno, se ben ricordo; e tutti rammentiamo che Bob Kenne- 1 È infatti difficile dire se, con l’espressione on the merits, Clinton si riferisca ad una vittoria sulle questioni di merito (delle quali in effetti subito dopo parla: “I am running because I still believe I can win on the merits. Be- cause, with our economy in crisis, our nation at war, the stakes have never been higher - and the need for real leadership has never been greater - and I believe I can provide that leadership”) o se piuttosto – cosa più probabi- le – con tale espressione ella intenda in realtà derubricare come meramente procedurale la questione dell’attuale vantaggio goduto da Obama in termini di delegati, magari cercando di far passare invece come sostanziale il suo vero o presunto (v. sotto nel testo) vantaggio nel computo del voto popolare. 2 Il testo integrale dell’intervento è reperibile qui. federalismi.it n. 11/2008
dy fu assassinato a giugno in California… Davvero non lo capisco”. È di tutta evidenza che, in circostanze normali, il remark di Clinton sarebbe passato semplicemente come il tentativo, magari maldestro, di instillare negli elettori – attraverso il riferimento ad un evento saldamen- te ancorato nella loro memoria – l’idea che sarebbe perfettamente normale per i contendenti delle primarie di restare in gara fino all’estate3. Viceversa, letta alla luce di quei quesiti, la fra- se è diventata la confessione dell’inconfessabile: che cioè la senatrice sarebbe ancora nella gara, in ultima analisi, spinta dalla convinzione che qualcosa di simile a quel che accadde a Robert Kennedy nel ’68 potrebbe accadere nuovamente a Barack Obama nel 2008. Considerati dunque i fraintendimenti cui sembra condurre l’impostazione mentale fon- data su quei quesiti, piuttosto che allinearsi alla teoria di coloro che hanno tentato di fornirvi una risposta, questa breve analisi esplora un approccio parzialmente differente. Le domande cui si cerca di rispondere sono infatti non già perché Hillary Clinton sia ancora in corsa e a cosa ella miri veramente, ma piuttosto: se Clinton è davvero ancora in corsa per vincere, quale piano può aver adottato per cercare di farlo? E conseguentemente: tale piano è destinato a fal- lire? E, se sì, quali conseguenze ne deriveranno per la gara democratica 2008? Il successivo paragrafo 2 risponde alla prima questione delineando le tre mosse in cui può ritenersi articola- to l’unico piano che Hillary Clinton può aver elaborato, all’avvio di quest’ultima fase delle primarie, se davvero ella puntava ancora alla vittoria. Il paragrafo 3 risponde alla seconda questione, mostrando come, nella sua concreta applicazione, tale piano sia fin qui apparso es- sere parzialmente (nel senso di: non interamente ma solo parzialmente) fallimentare. Il para- grafo 4 illustra quale si può ritenere che sarà il grado di raggiungimento dei suddetti tre obiet- tivi alla conclusione della campagna delle primarie (3 giugno). Il paragrafo 5, infine, eviden- zia che, se alla luce di tutto ciò l’obiettivo della vittoria sta lentamente scivolando via dalle mani di Clinton, sempre più concreta si configura invece l’ipotesi che le primarie democrati- che 2008 si avviino verso un esito paradossale e per molti versi potenzialmente distruttivo per il Partito: cioè, la vittoria del candidato che, di fatto, sia risultato sconfitto nella gara del voto 3 Casomai, un osservatore neutro avrebbe forse potuto contestare la fondatezza – e più ancora la rilevanza – del- l’argomentazione: se infatti è vero che, nel 1992, Bill Clinton si mise definitivamente in tasca la nomination de- mocratica solo dopo aver sconfitto in California il principale sfidante, Jerry Brown, che proprio della California era stato Governatore, è altrettanto vero che egli era il chiaro front-runner sin dal Super Tuesday di marzo, e poi ancora con maggiore convinzione dopo le primarie di New York e Wisonsin del 7 aprile. Più corretto è invece il riferimento al 1968, quando in effetti ai primi di giugno era davvero ancora tutta aperta la sfida fra il senatore Robert Kennedy e il senatore Eugene McCarthy. Tale anno non costituisce però un termine di paragone particolarmente significativo, in quanto precedenti alla riforma McGovern-Fraser (1972), che diede al processo di selezione dei candidati presidenziali la forma che oggi conosciamo. Tale riforma, anzi, fu innesca- ta proprio dalle polemiche seguite all’incoronazione del vicepresidente Hubert Humphrey da parte dei delegati democratici alla Convenzione di Chicago: Humphey infatti non aveva vinto (né di fatto combattuto) neppure una primaria, ma aveva dalla sua il sostegno del Presidente Johnson e del partito, che gli aveva fruttato un ampio nu- mero di delegati negli Stati – ed erano ancora molti – che non prevedevano alcuna forma di consultazione popo- lare per la loro selezione. www.federalismi.it 2
popolare. In altri termini, l’esito di tali primarie potrebbe rivelarsi essere una riedizione dello psicodramma collettivo che i democratici sperimentarono nel 2000, quando un Bush in van- taggio nel computo dei delegati vinse su di un Gore vittorioso nel voto popolare. 2. Un piano in tre mosse. In effetti, quando lo scorso 22 aprile le consultazioni in Pennsylvania davano il via a questa lunga coda delle primarie democratiche 2008, la strada per la nomination della senatri- ce di New York era già stretta, ma non era definitivamente chiusa. Stretta, perché – in parte per le proprie capacità, in parte per gli errori del fronte avversario, in parte per una serie di fortunate coincidenze – Obama godeva ormai già di un ampio margine in termini di delegati eletti (all’incirca 140), e da parecchie settimane appariva aver superato l’iniziale difficoltà a reperire superdelegati, rosicchiando lentamente il vantaggio che l’avversaria ancora deteneva su quel fronte. Non chiusa, però: al 22 aprile, infatti, Clinton sembrava davvero avere ancora qualche carta da giocare. In primo luogo, perché Obama si approcciava alla consultazione in Pennsyl- vania dopo aver trascorso quelle che venivano unanimemente considerate le settimane più nere per la sua candidatura. Non era infatti ancora sedato lo scandalo legato al rev. Jeremiah Wright (l’ex pastore della Chiesa del senatore i cui commenti anti-bianchi ed anti-americani, balzati agli onori della cronaca in marzo4, lo avevano spinto a pronunciare, il 18, l’ormai no- tissimo ed assai apprezzato discorso A More Perfect Union sulla questione razziale in Ameri- ca5); già si profilava all’orizzonte l’emersione di un nuovo scandalo Bill Ayers (con Ayers, che fu fra i fondatori del gruppo estremista sessantottino Weatherman Underground, attivo in particolare fra il 1969 e il 1973 e colpevole di vari attentati, Obama appare aver seduto insie- me nel board di un’associazione no-profit6; questi avrebbe però anche contribuito attivamente alla sua elezione alla camera alta dell’Illinois negli anni Novanta7); la stampa, poi, anche sulla scorta delle polemiche sollevate dal campo Clinton e riecheggiate attraverso la parodia del 4 Cfr. J. KANTOR, Obama Denounces Statements of His Pastor as ‘Inflammatory’, The New York Times, 15 mar- zo 2008. 5 La trascrizione del discorso può essere reperita qui; l’audio-video, invece, è reperibile su Youtube cliccando qui. 6 Cfr. L. ROHTER, M. LUO, ’60s Radicals Become Issue in Campaign of 2008, The New York Times, 17 aprile 2008. 7 Cfr. C. FUSCO, A. PALLASCH, Who is Bill Ayers?, Chicago Sunday Times, 18 aprile 2008. La polemica appare es- sersi sedate. Con ogni probabilità, però, ciò è dovuto al fatto che Clinton non aveva alcun interesse a cavalcarla, dal momento che essa rischiava di trascinare nel fango anche lei (il marito negli anni Novanta ha infatti un poco sorprendentemente concesso la grazia a due altri membri del medesimo gruppo del Weatherman Underground): è dunque più che probabile che se ne sentirà parecchio parlare nuovamente in autunno. www.federalismi.it 3
Saturday Night Live, aveva cominciato a mettere da parte l’originaria deferenza nei confronti del candidato, lasciandosi andare a critiche più esplicite e domande più aspre8. In secondo luogo, e soprattutto, la configurazione demografica degli Stati al voto in quest’ultima tappa della corsa delle primarie sembrava non presagire nulla di buono per il se- natore. Se infatti tale gara –come tutto lasciava credere – era destinata a continuare a struttu- rarsi secondo le medesime fratture che erano emerse sin da gennaio-febbraio come le vere de- terminanti del voto 2008 (quella razziale, con gli afro-americani per Obama e gli ispanici per Clinton; quella generazionale, con i giovani fino a 40-45 anni per Obama, e gli anziani oltre i 60 per Clinton; quella sociale, con i redditi oltre i $100.000 dollari annui e college graduates per Obama e i redditi fino a $50.000 e i non laureati per Clinton; quella territoriale, con la cit- tà per Obama e la campagna per Clinton; e quella sessuale, con gli uomini tendenzialmente più per Obama e le donne tendenzialmente più per Clinton)9, allora per Obama sembrava do- versi profilare una fila di importanti sconfitte. Dei 662 delegati10 al voto fra il 22 aprile e il 3 giugno, infatti, 392 venivano assegnati in quattro Stati decisamente pro-Clinton (Pennsylva- nia, economicamente in difficoltà e con ampie aree rurali, West Virginia, estremamente bian- ca, rurale e piuttosto povera, Kentucky, anch’esso bianco e piuttosto povero, e Puerto Rico, territorio pressoché interamente ispanico) e soli 198 in quattro Stati più classicamente oba- miani (North Carolina, per via dell’elettorato afro-americano, e Oregon, Montana e South Da- kota, più ricchi ed istruiti): nel mezzo, a mo’ di tie-breaker, stavano i 72 delegati dell’Indiana, economicamente piuttosto povero, ma confinante con l’Illinois, home State di Obama. Insom- ma, quello stesso calendario elettorale che aveva probabilmente contribuito non poco a mette- re in sella il senatore regalandogli in febbraio 10 consultazioni di fila a lui favorevoli11, ri- schiava di metterlo in crisi proprio ora che l’agognato traguardo sembrava così a portata di mano. 8 Si pensi in particolare al dibattito NBC del 16 (audio-video e transcript sono reperibili qui). Cfr. D. GOODWIN, Obama's honeymoon over, and it shows, Daily News, 17 aprile 2008. 9 Le fratture – che in qualche caso ammontano a veri e propri clevages – sono ordinate secondo quella che nel corso dei mesi è apparsa essere la loro importanza relativa (così, ad esempio: gli afroamericani tendono a per Obama indipendentemente dalla loro età o dal loro reddito; i giovani tendono a votare per Obama indipendente- mente dal reddito o dal genere; i più poveri tendono a votare per Clinton indipendentemente dal genere). Come ognuno vede, ancor più che piazzarsi nel gruppo demograficamente più ampio in ogni singola frattura, per un candidato è cruciale piazzarsi bene nelle fratture dotate della maggiore importanza relativa: qui, incidentalmente, la ragione per cui Obama ha finito per ottenere risultati migliori di Clinton nonostante il suo gruppo di riferimen- to più immediato, gli afro-americani, costituisca ovviamente una frazione dell’elettorato ben più piccola che non le donne (cioè il gruppo di riferimento più immediato di Clinton). 10 Non sono inclusi i 4 delegati del piccolo territorio di Guam, divisi a metà fra i due candidati dopo l’assoluto pareggio alla consultazione del 3 maggio. 11 Quando si parla delle 11 vittorie consecutive di Obama si aggiunge alla lista anche il suo successo nelle prima- rie dei cd. Democrats Abroad, il cui risultato era giunto in effetti il 25 febbraio, ma che si erano in realtà svolte il giorno del Super Tuesday. www.federalismi.it 4
Beninteso: non è che ciò equivalga a dire che Clinton fosse nuovamente la favorita. Per quanto infatti gli importanti successi in Ohio e Texas 12 con cui la senatrice aveva chiuso le late primaries di febbraio-marzo le avessero garantito un po’ di respiro, ai primi di aprile la sua candidatura era apparsa per vari giorni pericolosamente in bilico, fra le difficoltà econo- miche sempre maggiori, l’allontanamento del chief strategist Mark Penn per via dell’affaire Colombia, lo scandalo sull’errore sullo sniper fire in Bosnia. È in questo quadro che, si direbbe, Clinton ideava il suo piano per la vittoria. Alla base stava l’assunto, ormai largamente condiviso, secondo il quale, considerata la situazione della ripartizione dei delegati (ai primi di aprile, Obama guidava la gara dei pledged delegates 1416,5 a 1244,5, con un vantaggio di +172, e la gara complessiva 1625,5 a 1487,5, con un vantaggio di +138), nessuno dei due candidati avrebbe potuto assicurarsi definitivamente la nomination grazie ai soli delegati elettivi: per entrambi sarebbe dunque stato necessario gua- dagnarsi una fetta consistente dei circa trecento superdelegati ancora in bilico. Di qui, le tre mosse che il campo Clinton riteneva probabilmente di dover realizzare per convincere quei trecento: 1. anzitutto, si trattava di ridurre il gap in termini di delegati rispetto all’avversario, in modo da giungere alla sera del 3 giugno con un pareggio o quasi-pareggio su tale fron- te. Ciò richiedeva due distinte strategie (anche alternative): 1A. in primo luogo, occor- reva portare a casa, nelle nove contese di aprile-giugno, un numero di delegati mag- giore o significativamente maggiore di quello di Obama: per far ciò, era necessario as- sicurarsi almeno qualche significativa vittoria (con un margine di oltre il 10%), in modo che la differenza in voti si trasformasse in una percettibile differenza in seggi; 1B. in secondo luogo, e soprattutto, occorreva convincere il DNC a risolvere final- mente l’annosa questione di Michigan e Florida. In particolare, obiettivo primario del- la senatrice avrebbe dovuto essere quello di far sì che i delegati dei due Stati, esclusi dalla Convenzione di Denver per aver anticipato irregolarmente le proprie consultazio- ni, fossero invece riammessi e ripartiti secondo i risultati di tali consultazioni (entram- be vinte da Clinton: in Michigan, fra l’altro, anche perché il nome di Obama non com- pariva sulla scheda). In second’ordine, e con qualche speranza in più, ella avrebbe po- tuto pensare ad una soluzione di compromesso, magari sulla falsariga di quella adotta- ta dal Repubblican National Committee, il quale, anziché azzerare i delegati dei due Stati, si è limitato a dimezzarli. A seconda della soluzione adottata, Clinton avrebbe 12 Per il vero seguiti da una, comunque prevedibile, sconfitta in Mississippi. www.federalismi.it 5
potuto così portato a casa un vantaggio netto fra i 30 (più probabile) e i 60 (meno pro- babile) delegati13, che l’avrebbe riportata vicina, se non davanti, all’avversario; 2. in secondo luogo, si trattava di raggranellare, consultazione dopo consultazione, un numero di consensi sufficiente per poter giungere, la sera del 3 giugno, a dichiarare la propria vittoria nel voto popolare: solo un simile argomento avrebbe infatti potuto convincere i superdelegati incerti a schierarsi con il candidato indietro nel computo dei delegati elettivi. Come vari commentatori osservavano, era questo un obiettivo niente affatto fuori dalla portata della senatrice, considerata in vantaggio in almeno tre o quattro dei più popolosi fra i nove Stati al voto. Pure, esso sarebbe dipeso in misura determinante da quale dei molti possibili computi del voto popolare il campo Clinton sarebbe riuscito a propagandare come quello più corretto: in particolare, si sarebbero dovuti computare o no i voti espressi in Florida e Michigan? Sotto questo profilo, come si vede, questo secondo profilo si legava al precedente; 3. vi era infine un terzo obiettivo, che potremmo definire la condizione zero del piano: e cioè che gran parte dei trecento superdelegati ancora incerti si mantenesse tale fino al- meno alla conclusione delle primarie. Al contrario che gli altri due obiettivi, questo terzo includeva cioè l’aspetto dinamico della gara: in altri termini, sembra di potersi dire che, per poter vincere, Clinton doveva non solo giungere al 3 giugno nella miglio- re situazione possibile in termini di delegati (pareggio o quasi-pareggio) e di voto po- polare (vittoria-ampia vittoria): doveva soprattutto giungervi attraverso un percorso che apparisse sin dall’inizio valido, se non addirittura vincente. Altrimenti, il flusso dei superdelegati avrebbe cominciato a muovere verso Obama auto-alimentandosi come una valanga, con la conseguenza di rendere inutile qualunque risultato Clinton fosse riuscita ad ottenere al termine delle contese. 3. Il piano alla prova dei voti. Quando, la sera del 22 aprile, cominciavano a giungere i risultati della Pennsylvania, il primo tassello del piano Clinton appariva esser stato inserito. Pur essendo riuscita a portare a 13 In assenza di penalizzazione, la Florida avrebbe 185 delegati e 25 superdelegati, mentre il Michigan ne avreb- be 128 e 28. Ove tutti i delegati fossero ammessi alla Convenzione, Clinton ne otterrebbe circa 115 nella prima e circa 70 nel secondo. Maggiori sarebbero invece i problemi per Obama: se infatti questi otterrebbe senz’altro cir- ca 70 delegati in Florida, per quel che riguarda il Michigan andrebbe stabilito quali voti attribuirgli, considerato che il suo nome non era presente sul ballot. Con ogni probabilità, comunque, egli si opporrebbe strenuamente ad ogni compromesso che gliene garantisca meno di 55-60. Dunque, in questo quadro, Clinton si assicurerebbe pro- babilmente un vantaggio netto di 185-125=60 delegati. Nel ben più probabile quadro di un dimezzamento della delegazione, ovviamente, il vantaggio netto per Clinton sarebbe di soli 30 delegati. www.federalismi.it 6
casa un vantaggio netto di soli 12 delegati, Clinton si assicurava infatti due risultati importan- ti: da un lato, il margine di oltre +210.000 voti rispetto all’avversario la riportava a questi vi- cino (se non avanti, a seconda del conteggio adoperato) nella gara per il voto popolare; dal- l’altro lato, e parallelamente, la netta sconfitta del senatore nell’elettorato bianco blue-collar le permetteva di ridar voce allo storico argomento della presunta inelectability di quest’ulti- mo, che sempre più veniva tratteggiato come un novello Dukakis14. Nelle due settimane successive alla Pennsylvania, in effetti, un interrogativo sordo co- minciava a serpeggiare fra politici e commentatori delle vicende statunitensi: non era forse che la dichiarazione di morte presunta di Clinton era stata fatta troppo frettolosamente 15? Appariva infatti tutt’altro che ragionevole dare per sconfitta una contendente che, a fronte di media ormai largamente ostili e di quelle stesse dichiarazioni di morte, riusciva comunque a mettere a segno un risultato del genere, tanto più in uno degli Stati storicamente di maggior ri- lievo ai fini della corsa per la Casa Bianca. Cos’era dunque in grado di dare Clinton agli elet- tori, che la stampa non sapeva cogliere, tanto che essi, anziché allinearsi saltando sul carro del vincitore, andavano in soccorso del candidato sconfitto? Forse davvero Obama – come face- vano peraltro pensare i suoi recenti, inappropriatissimi commenti sull’“inacidirsi” degli eletto- ri dell’America rurale – era solo un elitista Ivy League del tutto staccato dal ventre degli Stati Uniti: forse davvero scegliere lui significava rinunciare di fatto per intero a quel mondo che in certo senso rappresenta la parte “repubblicana” dell’elettorato democratico e senza il quale certo il partito non avrebbe avuto alcuna speranza di reinsediarsi a Washington. Il problema si ripercuoteva sui sondaggi effettuati a livello nazionale sul gradimento dei due candidati: Obama infatti – che, dopo esser salito in testa alla graduatoria a metà feb- braio ed esservi rimasto stabilmente Pennsylvania da allora (salvo un piccolo riavvicina- mento di Clinton nei pressi di Texas e Ohio e nell’immediato aftermath del- Fonte: Real Clear Politics lo scoppio del caso Wright), era giun- to alla vigilia della Pennsylvania ad un record di 50,1 punti contro i 39,7 di Clinton – comin- 14 Cfr. S. ESTRICH, Could Obama Be Another Dukakis?, Real Clear Politics, 12 maggio 2008. 15 Cfr., ad esempio, E. DIONNE, Obama vs. Clinton 2.0, Washington Post, 6 maggio 2008, che parla di una vera e propria new Clinton. www.federalismi.it 7
ciava ora un rapido declino che lo portava nel giro di due settimane al 45,0%, collocandosi per la prima volta nuovamente alla pari con la senatrice (44,9%). La reazione del campo di Obama non si faceva però attendere. Anzitutto, esso registra- va un’improvvisa impennata nel numero degli appoggi da parte dei superdelegati: anche se, con ogni probabilità, si trattava di appoggi già comunicati in precedenza, ma tenuti in serbo come strumento per mettere subito a tacere la crescente narrative di una candidatura ormai entrata nella parte discendente della parabola. Soprattutto, poi, il candidato approfittava di un improvviso – quanto, paradossalmente, fortunato16 – ritorno di fiamma del caso Wright17 per tagliare definitivamente i ponti con l’ex pastore (con ciò in parte smentendo una delle più fa- mose affermazioni contenute nel I risultati dell’Indiana (6 maggio) discorso del 18 marzo: “I can no Voti Percentuale Delegati more disown him than I can diso- Hillary CLINTON 644.594 50,6% 38 wn the black community. I can Barack OBAMA 630.399 49,4% 34 no more disown him than I can Fonte: CNN – 100% delle sezioni scrutinate. my white grandmother – a wo- I risultati della North Carolina (6 maggio) man who…”) e tentare di riquali- Voti Percentuale Delegati ficarsi così, come era stato all’i- Hillary CLINTON 652.824 42,1% 48 nizio della battaglia, come il can- Barack OBAMA 875.683 56,4% 67 didato post-partisan e post-racial Fonte: CNN – 100% delle sezioni scrutinate. piuttosto che non come quello li- beral afro-americano18: “I’m outraged by the comments that were made and saddened over the spectacle that we saw yesterday. […] I find these comments appalling. It contradicts eve- rything that I’m about and who I am”, spiegava il senatore nel corso di una conferenza stam- pa19. La consultazione successiva, quella in North Carolina e Indiana del 6 giugno, capovol- geva però nuovamente il quadro. Clinton, che aveva dato per persa la North Carolina per via della grande presenza dell’elettorato nero e aveva dunque puntato sull’Indiana come vero tie- breaker della corsa, scopriva che il rimbalzo non c’era stato: a fronte infatti del risultato trion- fale di Obama nel primo Stato (+14,3%), segno evidente che la rottura con Wright non gli 16 Cfr. D. MORRIS, Obama's Opportunity, RealClearPolitics, 30 aprile 2008. 17 Il 28 aprile il pastore, parlando in occasione di un meeting della National Association for the Advancement of Colored People (NAACP), aveva rispolverato l’armamentario di commenti anti-americani e anti-bianchi che tan- te controverse aveva sollevato in marzo. La trascrizione dell’intervento è reperibile qui. 18 Sul tema, cfr. ED., Rev. Wright's Return, Wall Street Journal, 29 aprile. 19 Cfr. J. ZELENY, A. NAGOURNEY, An Angry Obama Renounces Ties to His Ex-Pastor, The New York Times, 30 aprile 2008. Il testo integrale della conferenza-stampa è reperibile qui. www.federalismi.it 8
aveva alienato i consensi del mondo afro-americano, la senatrice era costret- ta a fermarsi nel secondo ad un misero +1,2%. Certo, non si trattava propria- mente di una disfatta – lo sarebbe stata, Indiana & probabilmente, se Obama fosse riuscito North Carolina a strappare anche l’Indiana – ma era comunque un risultato inferiore alle at- tese. Fonte: Real Clear Politics E poco importava la constata- zione che, in ultima istanza, il senatore aveva nuovamente vinto essenzialmente grazie al voto dei giovani universitari (di qui, il successo nella contea di South Bend, sede della Notre Dame University) e dei non pochissimi afro-americani residenti nei sobborghi di Indianapolis, men- tre anche quella piccola incursione nelle basi tradizionali di Clinton che emergeva dai sondag- gi appariva con ogni probabilità dovuta all’influenza del vicino Illinois20. Quel che contava era invece, essenzialmente, che la vittoria spingeva fuori dai media la narrative della lenta ri- monta di Clinton21, rendendo per quest’ultima sempre più difficile mantenere la presa sui su- perdelegati ancora in bilico: e proprio a suggellare questo punto ecco arrivare puntuale la teo- ria di nuovi appoggi al senatore, che nella sola settimana 7-14 maggio si aggiungeva 32 nuovi superdelegati, portandosi per la prima volta in testa sull’avversaria anche su questo fronte. Per la stessa ragione, poi, Obama si lanciava in una serie di rallies nei vari Stati cruciali in no- vembre. Il messaggio del senatore – cui Bush e McCain offrivano un aiuto forse non del tutto inconsapevole ingaggiandolo in un aspro confronto in fatto di politica estera – era chiaro: la campagna delle primarie era finita; il piano di Clinton era fallito. Ma davvero era così? In effetti, se analizziamo l’impatto dei risultati di Indiana e Nor- th Carolina rispetto ai singoli obiettivi che la campagna si era riproposta alla vigilia della Pennsylvania, il quadro appare più complesso di quel che potrebbe apparire a prima vista. 20 È stato giustamente sottolineato che, in certo senso, il nord dell’Indiana era una sorta di ulteriore home State per Obama, dal momento che la popolazione che vi risiede, all’incirca il 25% del totale dello Stato, è coperta dalle televisioni di Chicago, con la conseguenza che essa era da tempo familiare col nome del senatore 21 Così, se ancora il 6 mattina i quotidiani presentavano titoli come Old Obama, New Clinton is a Fair Fight (E. Dionne, Washington Post), For Two Primaries, Several Scenarios (A. Nagourney, The New York Times), o ad- dirittura Hillary's Full of It, but Looks Better Than Ever (Boston Herald), il tono appariva ora decisamente muta- to, con titoli come The Nominees Emerge, Hobbled (D. Brooks, The New York Times), An End in Sight, at Last (G. Baker, Times), Obama Proved He Can Take a Punch (J. Alter, Newsweek), o un più moderato Obama's Vic- tory and Vulnerabilities (Wall Street Journal). www.federalismi.it 9
1. Quanto all’obiettivo di ridurre il gap in termini di delegati, certamente la senatrice non usciva dal 6 maggio rafforzata, vedendo quel gap allargarsi di ulteriori 11 punti. Pure, si trattava di una sconfitta tutto sommato secondaria, e certamente attesa: che Obama fosse destinato a stravincere in North Carolina era infatti chiaro sin da febbraio. 2. Discorso non troppo dissimile si poteva fare sul fronte del voto popolare. Certamente, il margine di 210.000 voti ripreso da Obama lo riportava saldamente in testa in tutti i possibili computi del voto popolare, ivi compresi quelli più favorevoli a Clinton; ma, anche in questo caso, si trattava di una vittoria recuperabile e soprattutto attesa: le spe- ranze della senatrice in fatto di voto popolare si appuntavano infatti piuttosto su Penn- sylvania, Kentucky, West Virginia e soprattutto Puerto Rico, che non su Indiana o North Carolina. 3. Del tutto differente, invece, la situazione rispetto al terzo obiettivo, quello che abbia- mo chiamato la condizione zero del piano, e cioè il mantenimento di un vasto gruppo di superdelegati ancora in bilico. Sotto questo fronte, infatti, si può dire che, in una sorta di self-fulfilling prophecy, i risultati di Indiana e North Carolina stavano facendo deragliare il piano Clinton nella misura in cui essi erano interpretati nel senso che lo stavano facendo deragliare. Il semplice fatto che tale piano fosse ormai dato per falli- mentare (o fallito), infatti, faceva sì di per sé che si intensificasse il flusso di superde- legati indirizzati verso il campo Obama, il che a sua volta rendeva il piano sempre più improbabile, e dunque rafforzava ancora tale flusso. In altre parole, il piano non era in serio pericolo di essere ucciso: però, stava lentamente morendo per consunzione inter- na, poiché presto avrebbe perso la propria intera materia prima. I risultati delle successive consultazioni in West Virginia del 13 maggio e in Oregon e Kentucky del 20 riprendevano con una precisione sorprendente le medesime tendenze così de- scritte. Dalla West Virginia, per cominciare, ove Clinton metteva a segno una vittoria attesa ma di proporzioni eclatanti (41 punti percentuali di scarto), il campo della senatrice usciva con un guadagno netto di +13 I risultati della West Virginia (13 maggio) delegati e soprattutto +150.000 Voti Percentuale Delegati voti, che avvicinavano nuova- Hillary CLINTON 239.062 67% 20 mente tanto il primo quanto il se- Barack OBAMA 91.652 26% 8 condo obiettivo del piano. Anco- John EDWARDS [1] 26.076 7% - ra una volta, però, era il terzo Fonte: The New York Times – 100% delle sezioni scrutinate. Nota: [1] Per ragioni procedurali legati alla legge elettorale dello Stato, sul obiettivo che lentamente si allon- ballot della West Virginia compariva ancora il nome del candidato John Ed- wards, la cui campagna è “sospesa” (cioè, ufficialmente, non “conclusa”) sin tanava: con un timing crudele ma dallo scorso 30 gennaio. www.federalismi.it 10
azzeccato, infatti, la sera successiva al trionfo clintoniano, in un affollatissimo rally in Michi- gan (!) Obama riceveva l’accorato endorsement di John Edwards22 (e, qualche giorno più tar- di, della maggioranza dei delegati da questi portati alla Convenzione), e si riprendeva così le luci della ribalta e lo sguardo vigile dei superdelegati. Se però l’endorsement di Edwards, ambitissimo da entrambi i candidati per tutto il corso della campagna, era stato finalizzato a far finalmente sfondare Obama nel ceto medio bianco, come comunemente si riteneva, i risultati di Oregon e Kentucky del 20 maggio prova- vano che qualcosa nel calcolo era sbagliato. Se infatti il senatore riusciva a portare a casa un I risultati del Kentucky (20 maggio) vantaggio netto di +10 delegati e +110.000 voti nell’urbano, liberal Voti Percentuale Delegati e ricco Oregon, la sua avversaria Hillary CLINTON 459.124 65% 37 lo doppiava nel più rurale e povero Barack OBAMA 209.778 30% 14 Kentucky (+23 delegati e Uncommitted 18.059 3% - Fonte: CNN – 100% delle sezioni scrutinate. +250.000 voti), portando così il bi- I risultati dell’Oregon (20 maggio) lancio complessivo della giornata Voti Percentuale Delegati decisamente in proprio favore Hillary CLINTON 252.270 41% 21 (+13 delegati e + 140.000). Barack OBAMA 360.728 59% 31 Ancora una volta, il piano Fonte: CNN – 100% delle sezioni scrutinate. stava funzionando. Ancora una volta, però, con un’ulteriore abile mossa d’immagine, Obama riusciva a sminuire la vittoria dell’avversaria operando secondo una strategia triplice. Anzitutto, organizzando una sorta di festival della memoria a Des Moines (Iowa) per ricordare il suo primo grande successo ad ini- zio anno, il senatore richiamava l’attenzione della stampa su un risultato importante, ma tutto sommato di scarso rilievo pratico: e cioè il fatto che, con gli ulteriori delegati conquistati nelle due consultazioni, egli si era aggiudicato definitivamente la maggioranza dei delegati eletti complessivamente assegnati nel corso della gara23. Parallelamente, proseguiva nel tentativo di convogliare l’immagine di una competizione ormai conclusa concentrando tutti i propri attac- chi contro il prossimo avversario McCain e lasciandosi invece andare in commenti positivi sull’attuale avversaria Clinton. Infine, poteva annunciare un’ulteriore decina di appoggi da parte dei superdelegati ancora in bilico. 22 Cfr. P. SLEVIN, Edwards Throws Support to Obama, Washington Post, 15 maggio 2008. Il video dell’endorse- ment di Edwards è reperibile qui. 23 Cfr. A. NAGOURNEY, J. ZELENY, Obama Says Nomination ‘Within Reach’, The New York Times, 21 maggio 2008. www.federalismi.it 11
Insomma, per l’ennesima volta, il piano sembrava funzionare nei suoi primi due obiet- tivi: ma l’abilità di Obama, o forse l’oggettiva difficoltà delle circostanze, rendevano il terzo e più importante obiettivo sempre più irraggiungibile. 4. Uno sguardo sul futuro. Avendo così schematicamente esaminato elaborazione originaria ed andamento con- creto dell’unico piano che Clinton può aver immaginato di poter seguire, alla vigilia di questa coda delle primarie Usa, per giungere alla vittoria, la domanda che ci ponevamo in partenza – e cioè a cosa miri oggi la candidata, e perché sia ancora in gara – si trasforma nella seguente: che ne è oggi del piano Clinton? È infatti solo rispondendo a questa domanda che possiamo stabilire se davvero Clinton non è più nella gara per vincere, ma con chissà quale retropensie- ro; e ancora, è solo rispondendo a questa domanda che possiamo verificare se e quanto la fi- nestra per Clinton sia ancora aperta. Per stabilire dunque che cosa oggi sia del piano Clinton, occorre ancora una volta di- stinguere anzitutto i differenti obiettivi di cui quel piano si componeva, ed esaminare i loro ri- spettivi livelli di raggiungimento. 1. Per cominciare con il primo obiettivo, la riduzione del gap in termini di delegati, oc- corre valutare distintamente i due profili di cui esso si compone: 1A. Quanto all’obiettivo 1A – la conquista di un numero di delegati maggiore rispetto a quello di Obama nelle nove consultazioni di aprile-giugno – Clinton appare ad oggi aver ottenuto qualche risultato, anche se certo non si tratta di risultati risolutivi. Dei 480 delegati in gioco nelle contese dal 22 aprile al 20 maggio, infatti, la senatrice è riuscita ad assicurarsene 251, contro i 229 dell’avversario. Dal momento poi che, nelle prossime tre gare, ad essi se ne dovrebbero aggiungere ulteriori 45-50 (contro i 35-40 di Obama), ne deriva che, nel complesso, Clinton concluderà probabilmente quest’ulti- mo scorcio delle primarie con un guadagno netto di 30-35 delegati su un bottino totale di 480: certo, nulla di determinante, ma neppure la disfatta che ci si sarebbe aspettata qualche settimana fa. www.federalismi.it 12
Andamento della corsa per delegati e superdelegati dal 1° aprile ad oggi 7 maggio: 21 maggio: 28 maggio: 1° aprile 24 aprile: 14 maggio: dopo Indiana dopo Kentucky e dopo la Pennsyl- dopo la e North Caroli- Oregon vania West Virginia na CLINTONHillary OBAMABarack Delegati 1416,5 1494,5 1593,5 1600,5 1646,5 [1] 1646,5 Superdelegati 209 231 252 284 317 329 Totale 1625,5 1725,5 1845,5 1884,5 1963,5 1975,5 Delegati 1244,5 1336,5 1424,5 1444,5 1499,5 1499,5 Superdelegati 243 255 266 273 277 281 Totale 1487,5 1591,5 1690,5 1717,5 1776,5 1780,5 +138 +155 +195 +134 +167 +187 Vantaggio di Obama (+172del; (+169del; -14- (+147del;+48 (+158del; -24sup) (+156del;+11sup) (+147del;+40sup) -34sup) sup) sup) 86 Delegati da assegnare nelle prossime contese (55 PR + 15 SD + 16 MT) Superdelegati ancora incerti 208 Soglia necessaria per la nomination 2026 [2] [3] Fonte: Elaborazione a partire da dati CNN e The New York Times. Note: [1] I 12 delegati eletti per John Edwards (tre in Iowa, tre in New Hampshire e sei in South Carolina) che negli ultimi giorni hanno dichiarato il proprio appoggio per Obama sono computati fra i superdelegati anziché fra i delegati. I restanti 7 delegati di Edwards sono invece stati aggiunti al pool dei superdelegati incerti. Cfr. Two more Edwards delegates switch to Obama, CNN.- com, 23 maggio 2008. [2] Il numero, che fino al 13 maggio era pari a 2025, è oggi aumentato per via di una serie di elezioni suppletive alla Camera dei Rappresentanti vinte dai democratici. [3] Da metà maggio, il campo di Clinton ha cominciato a propagandare un nuovo magic number per la conquista della nomina- tion: 2209. Si tratta del numero di delegati che sarebbero necessari se il DNC decidesse di ammettere alla Convenzione tutti i delegati di Florida e Michigan. 1B. In ogni caso, comunque, era l’altro il profilo dell’obiettivo di gran lunga più im- portante: è infatti solo riuscendo ad ottenere il ritiro della penalizzazione nei confronti di Michigan e Florida, e conseguentemente l’ammissione dei loro delegati alla Con- venzione, che Clinton può sperare di diminuire in misura sensibile il gap rispetto al- l’avversario. Su questo complesso fronte24, la partita è ancora tutta da giocare: nono- stante infatti la questione sia stata già dibattuta varie volte – più di recente in marzo, quando si chiudeva la finestra temporale per l’eventuale indizione di una seconda con- sultazione riparatoria nei due Stati – sarà la riunione del Rules and Bylaws Committee del Democratic National Committee che si terrà il prossimo 31 maggio a dire l’ulti- 24 Per una rapida ricapitolazione della complessa questione, sia consentito di rinviare ad un precedente articolo in materia (Primarie 2008: Riflessioni a caldo nell’attesa del Super Tuesday, Federalismi.it n. 03/08, reperibile qui). www.federalismi.it 13
ma25 parola. Sul tavolo del Comitato stanno infatti almeno tre possibili soluzioni: i. in primo luogo, la conferma della penalizzazione e dunque l’esclusione integrale dei de- legati di Michigan e Florida dalla Convenzione: per tale soluzione preme, sia pur non esplicitamente, il fronte Obama, stretto fra l’esigenza di non inimicarsi due Stati cru- ciali per le presidenziali di novembre e, naturalmente, il desiderio di non fare alcun re- galo all’avversaria (un regalo che peraltro sarebbe doppio, poiché l’ammissione dei delegati dei due Stati significherebbe anche legittimare i computi del voto popolare che li includono: computi che danno tutti Clinton come vincitrice); ii. in secondo luo- go, l’ammissione in toto delle due delegazioni26, come proposto dai rispettivi partiti e dal fronte Clinton; iii. in terzo luogo, una soluzione intermedia quale potrebbe essere l’ammissione di metà delegati, sulla falsariga della penalizzazione inflitta ai due Stati sul fronte repubblicano dall’RNC. Peraltro, in entrambi questi ultimi due casi la que- stione cruciale sarà quella relativa a come attribuire i delegati del Michigan ad Obama, il cui nome non compariva sulla scheda elettorale (sotto questo profilo, è comunque probabile che si propenderà per considerare come voti per il senatore tutti quelli espressi per l’opzione uncommitted – cioè, letteralmente, delegati non affiliati – che era invece presente sulla scheda e per la quale taluni dei surrogates del candidato nello Stato avevano invitato a votare). Quale sarà la decisione del Comitato è difficile dire: esso è diviso pressoché equamen- te fra sostenitori di Clinton e sostenitori di Obama, ed è facile credere che il voto fina- le rispecchierà perfettamente queste linee. Se dunque l’esito più probabile è che i veti reciproci finiscano per far prevalere lo status quo, una soluzione che naturalmente il senatore dell’Illinois apprezzerebbe molto, purché gli riesca di non far ricadere su sé la colpa, si direbbe che, se proprio invece si dovesse decidere di prendere una decisione, il compromesso potrebbe essere trovato sulla scelta di far sedere a Denver metà dei de- legati di entrambi gli Stati ed assegnare ad Obama tutti i voti uncommitted. Se così fosse, Clinton si potrebbe trovare il 1° giugno ad aver ridotto la distanza dall’avversa- rio di un margine di circa 30 delegati. Combinando i due dati, dunque, emerge che, la sera del 3 giugno, Hillary Clinton po- trebbe trovarsi al più ad aver rosicchiato dal margine attuale di Obama un totale di 60- 25 Rectius, la “penultima”: nominalmente, infatti, la decisione finale spetterà alla Convenzione. Pure, è evidente che, una volta aperta la riunione, il candidato che avrà la maggioranza dei delegati non avrà alcun interesse a mutare i rapporti di forza esistenti. 26 In Florida, in particolare, ciò significherebbe il riconoscimento della giustezza delle argomentazioni del partito locale, che ha lamentato come esso sia stato punito per una decisione, quella di anticipare le consultazioni a gen- naio, presa in realtà dai Repubblicani, oggi in maggioranza nel Parlamento statale. www.federalismi.it 14
70 delegati, portandolo così intorno ai 130. Certamente non si tratterebbe a quel punto di un margine enorme, ma altrettanto certamente sarebbe più che sufficiente per per- mettere al senatore di dichiarare definitivamente la propria vittoria. 2. Se dunque le prospettive per un successo di Clinton sotto il profilo della gara per i de- legati sono ormai quasi inesistenti, ben più rosee sono invece quelle sotto il profilo – tutt’affatto differente – della gara per il voto popolare. Senza infatti entrare nuovamen- te nell’annosa questione dei molti possibili modi di conteggiare il voto popolare nella contesa democratica 2008 – che è questione ormai largamente nota e sulla quale ci si è già soffermati in precedenti occasioni27 – è sufficiente dire che, considerato lo stato della corsa e le buone prospettive di cui la candidata gode nella più importante delle prossime tre contese, quella di Puerto Rico, è più che probabile che Clinton potrà giungere alla sera del 3 giugno avendo ottime ragioni per dichiarare la propria vittoria su questo fronte. Non solo infatti Clinton appare destinata a concludere la gara trovandosi in vantaggio in tutti i computi che includono per intero sia la Florida che il Michigan – computi che però, in considerazione delle peculiarità che hanno caratterizzato le consultazioni nei due Stati, e soprattutto in quest’ultimo, vengono usualmente rigettati come unfair nei confronti di Obama: soprattutto, vi sono buone possibilità che ella riesca a finire in te- sta anche in conteggi generalmente ritenuti ben più equi, e che dunque avrebbero ben maggiori chance di essere accolti dagli altri esponenti del Partito e, soprattutto, dai media. In particolare, ove nelle prossime due giornate elettorali Clinton si assicurasse un margine positivo di circa 250 mila voti (com’è probabile che accada), ella si collo- cherebbe in testa: a. in tutti i conteggi che includano la Florida ma non il Michigan, o b. in taluni dei conteggi che includano entrambi gli Stati dimezzandone però i voti28 (un conteggio un poco artificioso, ma che potrebbe ottenere qualche credibilità ove la riunione del Rules and Bylaws Committee del 31 decidesse di ammettere metà delle delegazioni dei due Stati). Ove poi il margine risultasse ancora maggiore – sui 400.000 voti – Clinton potrebbe addirittura cantare vittoria senza dover neppure chiamare in causa le due consultazioni irregolari (cfr. sotto la tabella “I diversi scenari nella gara per il voto popolare”). Cruciale, in questo senso, è dunque l’esito della consultazione di Puerto Rico il prossi- mo 1° giugno. È infatti essenzialmente dal margine che la favorita Clinton riuscirà a 27 Per una succinta analisi della questione, si rinvia comunque all’Appendice. 28 Per il Michigan, attribuendo ad Obama i voti per uncommitted. www.federalismi.it 15
garantirsi nell’isola caibica (un +15% sarebbe abbastanza positivo; un +25% sarebbe eccezionale), nonché dalla quantità di persone che si recheranno al voto (un turn-out di 1.000.000 potrebbe essere considerato un risultato soddisfacente, ma vi è chi parla di un’eccezionale cifra di 2.000.000), che dipenderà l’esito finale della gara per il voto popolare. E il campo Obama lo sa bene: non è infatti un caso che il senatore, che nella corsa delle primarie ha mostrato una significativa debolezza proprio in quel segmento ispanico di cui è composto quasi per intero l’elettorato dell’isola, sia corso ai ripari or- ganizzando un giro di comizi a San Juan e lasciandosi andare anche ad una caminata (la parata tradizionalmente condotta dai candidati portoricani) al suono di “Obama, un amigo presidente”29. Ironico che tanta importanza finisca per essere detenuta da un ter- ritorio che il prossimo novembre non sarà neppure chiamato ad eleggere il Presidente. 3. Quanto infine al terzo degli obiettivi di Clinton – quello cioè di convincere i superde- legati a restare non-affiliati, in modo da poterli poi conquistare ai primi di giugno con l’argomento della vittoria nel voto popolare – si tratta in questo caso di una sfida che quasi certamente risulterà esser stata fallita. Già oggi, infatti, degli oltre 300 superde- legati in bilico appena un mese fa, solo 200 sono ancora indecisi: gli altri si sono schierati, andando per oltre il 70% ad ingrossare le fila del campo obamiano. Ad essi, occorre poi aggiungere con ogni probabilità un ulteriore, ampio gruppo (20, 30, maga- ri con qualche nome eccellente) di superdelegati del cui appoggio Obama già ha rice- vuto comunicazione ma che – in linea con quanto ha fatto finora – egli si riserva di far annunciare nel momento a lui più opportuno: in questo caso, probabilmente, il prossi- mo 2 giugno, dopo la prevedibile sconfitta a Puerto Rico, ma in tempo, forse, per in- fluenzare le successive, ultime consultazioni di Montana e South Dakota. Una nota: perché dunque l’obiettivo viene giudicato solo quasi certamente e non cer- tamente fallito? Essenzialmente, perché – come Clinton ha tenuto in varie occasioni a ribadire – i superdelegati non sono affatto vincolati al rispetto delle dichiarazioni fatte: e dunque, così come è accaduto nelle ultime settimane che qualcuno passasse dal suo campo a quello dell’avversario, ella può forse sperare nel fenomeno opposto nel caso di una situazione sorprendentemente negativa per Obama. Probabile? No. Possibile? Certamente. 29 Cfr. A. MACGILLIS , Obama takes San Juan, The Washington Post, 24 maggio 2008. www.federalismi.it 16
5. Conclusioni: e se Clinton divenisse l’Al Gore del 2008? Che cosa dunque emerge dall’analisi del livello di raggiungimento di ciascuno dei tre obiettivi dei quali si compone il piano che – nella nostra ipotesi – Clinton ha seguito in que- st’ultimo spicchio delle primarie 2008? Essenzialmente, le conclusioni sono due: e sono tanto più interessanti in quanto, sorprendentemente, vanno in direzioni radicalmente divergenti. La prima conclusione è infatti che, in virtù dell’attuale allocazione dei delegati, fonda- mentalmente, e a meno di inaspettate sorprese30, Clinton non ha più alcuna chance di essere la candidata democratica per la Casa Bianca (nel 2008!). Per quanto infatti la senatrice possa es- sere ancora in grado di raggranellare nella prossima settimana un totale di (al più) sessanta- settanta delegati, comunque la matematica resta impietosa: la sera del 3 giugno, quasi certa- mente Obama sfonderà finalmente la mitica soglia dei 2026 delegati, e se anche tale soglia sarà stata alzata per effetto della decisione del Rules and Bylaws Committee, il nuovo target – che si attesterebbe probabilmente intorno ai 2117 (in caso di ammissione di metà delegati di Michigan e Florida; 2209 in caso di ammissione integrale) – dovrebbe comunque essere alla sua portata grazie al prevedibile, forte afflusso di nuovi superdelegati. La seconda conclusione è che, però, a meno di altrettanto inaspettate sorprese, Obama ha invece piuttosto poche chance di risultare vincitore nella gara per il voto popolare. Salvo infatti che l’elettorato ispanico di Puerto Rico non mostri di presentare preferenze radicalmen- te differenti da quelle dell’elettorato ispanico nel resto della Nazione (il che non è del tutto da escludersi: come ogni cleavage, anche quello razziale ha scarsa influenza quando accade che, all’interno della comunità di riferimento, l’intera popolazione si trova da un solo lato), è pro- babile che Clinton esca dalla sera del 1° giugno con le carte in regola per cantare vittoria se- condo almeno taluni dei conteggi considerati più equi del voto popolare (ad es.: quelli com- prensivi della Florida ma non del Michigan, o di metà Florida e metà Michigan). Anzi, come si è detto, l’effetto combinato di un margine pro-Clinton assai alto (sul 25% di scarto) e di un turn-out eccezionale (2.000.000 di votanti) potrebbe addirittura spingere la candidata a vince- re secondo tutti o quasi tutti i conteggi. In una parola, insomma, vi sono buone probabilità che i Democratici 2008 si ritrovino a sorpresa in casa il dramma politico e financo ideologico-teorico che essi vissero nel 2000, quando il loro candidato Al Gore – vincitore del voto popolare per oltre 500.000 voti – finì 30 Per essere espliciti, si dovrebbe trattare della circostanza combinata che 1. il Rules and Bylaws Committee del 31 maggio scelga a sorpresa di ammettere tutti i delegati di Florida e Michigan senza prevedere alcuna compen- sazione per Obama neppure in quest’ultimo Stato, E 2. la vittoria nel voto popolare di Clinton sia così ampia, ov- vero nel campo Obama scoppi uno scandalo così rilevante, che i superdelegati già suoi decidono di cambiare af- filiazione. www.federalismi.it 17
per soccombere per appena un pugno di schede contestate contro un Bush vincitore solo nel collegio dei grandi elettori. Come in quella occasione, spetterà al Gore di turno decidere se portare o no la questione su per tutte le vie percorribili: in quel caso, la Corte Suprema; in questo, la Convenzione di Denver. La sola differenza: che, a percorrere quelle vie, il Gore di allora non aveva nulla da perdere; per il Gore di oggi, invece, vi è da perdere la chance di ri- cominciare a salire la china per collocarsi stabilmente nel gotha del partito, così da far un giorno fruttare l’immagine di una vittoria ingiustamente strappata. E v’è da scommettere che il Gore di turno saprà fare bene i suoi calcoli, quale che sia (o quando che sia) il suo vero obiettivo. www.federalismi.it 18
I diversi scenari nella gara per il voto popolare Conteggi per cui Clinton vincerebbe se nelle prossi- Vantaggio di Obama me gare recuperasse… Dopo In- Questione Questione Questione Dopo la Dopo la Dopo diana e 100.000 250.000 400.000 primarie Stato di stime per IA, Pennsyl- West Virgi- Kentucky North Voti Voti Voti irregolari Washington NE, MA (e WA) vania nia e Oregon Carolina Sì MichiganSì Florida (uncommitted a Obama)Sì MichiganSì Florida (niente voti a Obama)Sì MichiganSì Florida Uso del voto No uso stime -169.789 39.168 -108.242 -249.158 x x x alla primaria Sì uso stime -59.567 149.390 1.980 -138.936 x x x No uso stime -119.151 89.806 -57.604 -198.520 x x x favorevoli a Clinton Conteggi più Uso della sti- ma del caucus Sì uso stime -8.929 200.028 52.618 -88.298 x x x Uso del voto No uso stime 68.379 277.336 129.926 -10.990 x x x alla primaria Sì uso stime 178.601 387.558 240.148 99.232 x x x No uso stime 119.017 327.974 180.564 39.648 x x x Uso della sti- ma del caucus Sì uso stime 229.239 438.196 290.786 149.870 x x x Uso del voto No uso stime 158.520 367.477 220.067 79.151 x x x alla primaria Sì uso stime 268.742 477.699 330.289 189.373 x x No uso stime 209.158 418.115 270.705 129.789 x x Considerati equi Uso della sti- Conteggi ma del caucus Sì uso stime 319.380 528.337 380.927 240.011 x x (uncommitted a Obama)½ Michigan½ Florida Uso del voto No uso stime 260.836 469.793 322.383 181.467 x x alla primaria Sì uso stime 371.058 580.015 432.605 291.689 x No uso stime 311.474 520.431 373.021 232.105 x x favorevoli a Obama Conteggi più Uso della sti- ma del caucus Sì uso stime 421.696 630.653 483.243 342.327 x www.federalismi.it 19
No MichiganNo Florida Uso del voto No uso stime 453.292 662.249 514.839 373.923 x alla primaria Sì uso stime 563.514 772.471 625.061 484.145 No uso stime 503.930 712.887 565.477 424.561 Uso della sti- ma del caucus Sì uso stime 614.152 823.109 675.699 534.783 Fonte: Elaborazione a partire da J. Cost, Predict the Predict the Race for Yourself, RealClearPolitics, 27 marzo 2008. www.federalismi.it 20
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