PENSIONI, RIDUZIONE DELLE TASSE E DEFICIT DI BILANCIO
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PENSIONI, RIDUZIONE DELLE TASSE E DEFICIT DI BILANCIO PIERO GIARDA * In questo mio intervento tratterò brevemente di alcuni aspetti critici dell’assetto di lungo periodo del sistema pensionistico italiano, con riferimento ad alcune particolari caratteristiche del metodo di calco- lo della pensione in base ai criteri propri del metodo contributivo che meritano di essere riviste e corrette. Dato il mio ruolo attuale di Sot- tosegretario di Stato, farò anche qualche osservazione sul modo in cui, al Ministero del Tesoro, si tende a guardare al problema della spesa pensionistica, in relazione soprattutto alle ipotesi, oggi di moda, che prevedono significative riduzioni della pressione tri- butaria. 1. Esordisco confermando che non ho divergenze di sostanza sulle proposizioni svolte dal professor Gronchi in merito a quanto sarebbe necessario fare per mettere ordine nell’assetto a regime del nostro sistema pensionistico. La Legge 335 del 1995 si basa su un’idea intelli- gente, quella di un sistema pensionistico a ripartizione basata sul metodo contributivo simulato, avente come obiettivo di garantire l’e- quilibrio strutturale tra il gettito dei contributi prelevati sui redditi da lavoro (dipendente o autonomo) e la spesa per le prestazioni pensio- nistiche. La legge di riforma è stata costruita, nella sua sostanza, in poco più di due mesi. La prima occasione che ebbi di occuparmene fu verso la metà del mese di marzo 1995, quando la maggioranza che sosteneva il governo presieduto da Lamberto Dini non aveva ancora deciso se la riforma dovesse muoversi lungo le linee disegnate dalla riforma del 1992 del governo Amato (modificando i parametri di cal- colo della pensione all’interno del metodo retributivo vigente e modi- ficando altresì i limiti di età per l’accesso alla pensione) oppure avventurarsi lungo il progetto del metodo contributivo. I sindacati confederali già avevano fatto la propria scelta per una riforma basata, nel lungo periodo, sul metodo contributivo. Verso l’inizio del mese di ————————————— ¹ Professore di Scienza delle Finanze nell’Università Cattolica di Milano. Al momento dell’intervento era Sottosegretario di Stato al Ministero del Tesoro. 88
LE PROSPETTIVE DEL SISTEMA PENSIONISTICO ITALIANO aprile 1995, il governo Dini concordò con i sindacati che le procedure di riforma avrebbero toccato, in successione temporale, tre questioni: la cosiddetta separazione tra previdenza e assistenza, la definizione di un ordinamento a regime basato sul metodo contributivo, il tratta- mento delle pensioni di anzianità e altre iniziative dirette a produrre quei risparmi che, nell’autunno del 1994, la legge finanziaria del governo Berlusconi 1 aveva progettato di realizzare correggendo le regole di computo delle pensioni di anzianità. L’accordo tra governo e sindacato venne stipulato verso la fine di maggio su un testo programmatico e dopo un percorso nel quale si dedicò molto tempo sia a questioni di scarso rilievo pratico – quali la separazione tra previdenza e assistenza – sia a questioni di elevato rilievo pratico – quali la definizione del regime transitorio sul tratta- mento delle pensioni di anzianità. Venne invece dedicato poco tempo, molto meno di quanto sarebbe stato necessario anche se si considera- no i tempi della preparazione del testo del disegno di legge e della discussione parlamentare, alla definizione dei parametri tecnici ed economici del nuovo sistema pensionistico a regime e a questioni che sembravano, in quei momenti, di contorno o periferiche. L’urgenza politica della chiusura, in quell’estate, della questione pensioni, fece premio sulla completezza della soluzione adottata. Negli anni successivi, l’assetto del sistema pensionistico per il bre- ve-medio periodo è stato modificato in meglio con numerosi interven- ti negli anni dal 1997 in avanti, diretti soprattutto ad eliminare le disparità di trattamento tra i diversi settori produttivi. L’assetto di lungo periodo del nostro ordinamento pensionistico non è stato prati- camente toccato negli ultimi sei anni. Una constatazione questa assai sorprendente visto l’attivismo legislativo che caratterizza il nostro Paese. Nel caso di specie, questa decisione – di non intervenire sull’as- setto di lungo periodo del nostro sistema pensionistico – non è stata molto felice perché esso contiene, per il lungo periodo, aspetti che invece necessitano di essere corretti. Un primo aspetto, su cui interviene il professor Gronchi, riguar- da la relazione tra il grado di indicizzazione delle pensioni che saranno liquidate con il metodo contributivo e il rapporto tra la pensione iniziale e l’ultimo stipendio. Con la Legge n. 335/1995 ven- ne deciso che il principio della indicizzazione alla sola dinamica dei prezzi – una conquista importante della riforma Amato del 1992 che ha avuto effetti non di poco conto nel rallentare il tasso di cre- scita della spesa pubblica complessiva nei dieci anni successivi – non avrebbe potuto essere messo in discussione per due ragioni che, allo- ra, vennero ritenute importanti: che il sindacato non avrebbe accet- tato un rapporto tra prima pensione e ultimo stipendio troppo più basso di quello assicurato dalla legislazione vigente; che la indiciz- zazione delle pensioni al salario nominale per il sistema a regime avrebbe potuto trascinare una riconsiderazione del principio della 89
STUDI E NOTE DI ECONOMIA - QUADERNI/6 indicizzazione ai soli prezzi per tutte le pensioni in essere. Quale che sia la valutazione di questi aspetti, resta il fatto che forti sono le ragioni del professor Gronchi su questo tema, sotto il profilo della sistematicità e forse anche dal punto di vista della accettabilità da parte del pubblico (in una società ordinata e consapevole, con il sistema pensionistico a regime nell’intorno dell’anno 2040) delle ragioni dell’equilibrio economico-finanziario di un sistema basato sul metodo contributivo. Altri istituti dell’ordinamento vigente sul metodo contributivo, forse meno controversi da un punto di vista concettuale rispetto alle appropriate regole di indicizzazione, meritano di essere rivisti perché non trattati corettamente nella Legge 335 del 1995. Ecco alcuni temi: (i) i coefficienti di trasformazione del montante contributivo in ren- dita pensionistica: le tavole di sopravvivenza utilizzate erano già vecchie al momento di approvazione della legge; (ii) il trattamento delle invalidità, delle pensioni di reversibilità e del- la pensione minima non è, nella legge, curato con la precisione che meriterebbe; in particolare la questione della pensione mini- ma se debba essere trattata all’interno del sistema previdenziale ovvero rinviata al comparto dell’assistenza; (iii) il tasso di crescita del PIL monetario come tasso di capitalizza- zione per il computo del montante contributivo è stato preferito al tasso di crescita della base imponibile – una scelta fatta per ragioni sindacali o macroeconomiche ma che ha finito per rimuovere gli incentivi alla emersione della base imponibile e che in presenza di trasformazioni interne al mercato del lavoro non garantisce più l’equilibrio strutturale del sistema pensioni- stico; (iv) negli anni iniziali di vigenza del metodo contributivo, l’utilizzo della media decennale della crescita del PIL monetario ha ripor- tato sulle prime pensioni che saranno liquidate in base al metodo contributivo, gli effetti di una dinamica dei prezzi proveniente da tempi caratterizzati da elevata inflazione. Tutti questi temi, ed altri ancora, vennero portati sull’agenda della preparazione della legge nel 1995 ma le soluzioni risentirono della ristrettezza dei tempi: la legislazione vigente incorpora quindi appros- simazioni che dovrebbero essere corrette al più presto. Dispiace un po’ che l’agenda degli aspetti tecnici del sistema con- tributivo non abbia voluto essere fatta propria dal Parlamento quan- do nel 1997 vennero affrontate le due questioni della armonizzazione dei regimi pubblico-privato e della accelerazione del trattamento a regime delle pensioni di anzianità. Le organizzazioni sindacali non erano pronte per rimettere in discussione temi che erano stati chiusi con l’approvazione della legge di riforma e il Parlamento, pur solleci- tato a considerarle, non ritenne di dovere o potere assumersi la responsabilità di affrontare tali questioni in modo autonomo. Ho già 90
LE PROSPETTIVE DEL SISTEMA PENSIONISTICO ITALIANO espresso in altra sede2 l’opinione che sulle questioni che hanno a che fare direttamente con gli equilibri di lungo periodo del sistema pen- sionistico il legislatore nazionale dovrebbe sentirsi legittimato ad effettuare quegli interventi correttivi che sono necessari per garantire l’equilibrio strutturale del sistema pensionistico, anche in assenza di un accordo esplicito delle organizzazioni sindacali. Le intese sono uti- li e necessarie quando le modifiche proposte o ipotizzate incidono sulle aspettative che riguardano il trattamento pensionistico dei lavo- ratori che sono vicini all’età della pensione. Per le questioni di lungo periodo mi sembra che l’iniziativa e la responsabilità primaria spetti- no al legislatore. I ritardi negli interventi sugli assetti di lungo periodo hanno come conseguenza che, quando le correzioni saranno fatte, esse determine- ranno per singole classi di lavoratori regole molto complesse di deter- minazione della pensione, rendendo poco trasparente l’intero mecca- nismo. 2. Vengo ora alla seconda parte del mio intervento. La politica eco- nomica e la politica di bilancio hanno, in generale, orizzonti più brevi di quelli propri del lungo periodo di un sistema previdenziale. Quali gli scenari rilevanti per la politica di bilancio per i prossimi anni asso- ciati alla spesa per pensioni? Dal punto di vista del Ministero del Tesoro, la spesa per pensioni è la categoria di spesa più importante nella spesa pubblica al netto degli interessi, assorbendone circa un terzo. Ricordo che le spese per il personale pubblico assorbono circa il 25 per cento, la spesa sanitaria un po’ meno del 15 per cento e la spesa per investimenti il 7-8 per cento. Sono poi da ricordare i continui richiami a livello internazionale che invitano l’Italia a ridurre la pressione fiscale, con riduzione delle aliquote dei contributi sociali e dei principali tributi erariali, implici- tamente indicando che ciò dovrebbe essere finanziato con la riduzio- ne della spesa per pensioni. Alla politica di riduzione della pressione fiscale viene attribuita la capacità di fare aumentare il tasso di crescita dell’economia italiana, in particolare di fare aumentare il tasso di crescita della produzione domestica. È difficile dire quanto vera sia questa proposizione. Le imprese italiane hanno trovato un terreno fertile per i loro profitti dislocando attività economiche in terre straniere, in Slovenia in con- dominio coi tedeschi, in Romania trasformata in un area industriale per gli operatori italiani e in Bulgaria. Il reddito degli italiani potreb- be quindi, in prospettiva, svilupparsi meglio della produzione dome- stica. Lo sviluppo della produzione domestica rimane tuttavia un ————————————— ² Vedi P. Giarda, La revisione del sistema pensionistico nel 1997: come avrebbe potuto essere, in Economia Politica, anno XV, n. 2, agosto 1998, pagg. 267-294. 91
STUDI E NOTE DI ECONOMIA - QUADERNI/6 obiettivo prioritario per la nostra politica e molti studiosi, insieme con gran parte dei rappresentanti politici, sono convinti che questo risultato può essere ottenuto con rapidità e con certezza attraverso una riduzione delle aliquote d’imposta. Per ridurre le tasse bisogna governare la spesa. Non necessaria- mente ridurla in termini monetari ma fare sì che non cresca troppo, operare cioè in modo che essa cresca meno rapidamente della crescita del prodotto nazionale, un obiettivo questo adottato – sia pure con diverso successo – da tutti i governi che si sono succeduti alla guida della Repubblica almeno negli ultimi 15 anni. Le strategie di governo della spesa possono essere anche molto diverse. Negli ultimi dieci anni si è attuata una politica di riduzione dei tassi di crescita della spesa in termini reali. La spesa pubblica in termini monetari è, in media, cresciuta meno del PIL monetario. In termini reali, è cresciuta ad un tasso inferiore al tasso di crescita medio del PIL. Non essendo questo cresciuto, negli ultimi dieci anni, in modo particolarmente ele- vato, anche il tasso medio di crescita della spesa pubblica è stato, per gli standard storici del nostro Paese, relativamente basso, compreso tra l’1,0 e l’1,5 per cento all’anno. Una performance che si confronta con i tassi medi di crescita dell’8,0 per cento di crescita reale negli anni Cinquanta e Sessanta. Un cambiamento epocale, forse poco conosciuto e anche poco accettato, ma non per questo meno reale. In questo contesto, le opportunità per la riduzione delle aliquote dei tributi erariali o dei contributi sociali, sono legate agli obiettivi – fissati dal patto di stabilità e crescita adottato dal nostro Paese – di riduzione del deficit di bilancio. I governi che si sono succeduti nel nostro Paese negli ultimi dieci anni hanno seguito una politica di con- tenimento della crescita della spesa, senza grandi riforme che mutas- sero le ragioni di scambio tra consumi pubblici e consumi privati e senza modificare in misura apprezzabile l’entità della ridistribuzione gestita dalla mano pubblica. Questa alternativa non è entrata, finora, nell’agenda della politica economica italiana. Se, come ho detto, per ridurre le tasse bisogna governare la spesa, ci si deve chiedere se la spesa per pensioni debba essere, data la sua dimensione, il primo punto di attacco di una azione di governo ragio- nata. In verità i grandi comparti di spesa su cui concentrare l’atten- zione sono più di uno. Non si può quindi parlare delle prospettive del sistema pensionistico senza guardare agli altri principali settori del- l’intervento pubblico che sono, oltre alle pensioni, la sanità, la scuola, la difesa, la giustizia, la sicurezza, ecc. Tuttavia, essendo la spesa per pensioni la categoria di spesa di maggiore rilievo, se si guarda agli obiettivi di politica economica da realizzare – riduzione delle tasse e dei contributi sociali per produrre un aumento della crescita econo- mica – è naturale considerarla come primo possibile candidato per interventi di politica di bilancio diretti a conseguire effetti nel breve- medio periodo. 92
LE PROSPETTIVE DEL SISTEMA PENSIONISTICO ITALIANO Il secondo candidato per interventi diretti a liberare risorse per impieghi alternativi di importo rilevante è costituito dalle spese per i dipendenti pubblici. Sono tre milioni ottocentomila dipendenti pub- blici che costano circa 230.000 miliardi. Il terzo candidato sono le spese per acquisto di beni e servizi la cui componente più dinamica si concentra nelle spese per la sanità. Ricordo che nel 2000 l’obiettivo di ridurre il deficit all’1,3 per cento del PIL non è stato centrato (ci si è dovuti accontentare dell’1,5 per cento) perché la spesa sanitaria è stata superiore di 5.000 miliardi rispetto alle previsioni. L’invecchiamento della popolazione sembra essere un elemento di grande peso nel fare lievitare la spesa sanitaria. Il quarto candidato sono le spese per investimenti. Sono le stesse forze di governo ad ammettere che il nostro Paese ha sofferto in que- sti dieci anni perché è stato necessario decelerare e anche ridurre la spesa per le infrastrutture. Una notazione su questo punto. Quanta parte della riduzione della spesa è dovuta a esplicite decisioni politi- che e quanta parte a comportamenti amministrativi che hanno tra- mutato in residui passivi i fondi stanziati con le varie leggi finan- ziarie? Le prospettive di breve periodo del sistema previdenziale vanno quindi viste nella logica di un sistema di finanza pubblica che tende a vincolare la crescita della spesa a tassi di poco superiori al tasso di inflazione: con un’inflazione del 2 per cento si afferma che la spesa pubblica dovrebbe crescere globalmente non più del 3 per cento all’anno. Con un PIL monetario che crescesse del 5 per cento all’anno (3 per cento di crescita reale + 2 per cento di inflazione) ci sarebbero spazi modesti e graduali di riduzione della pressione tributaria e anche di riduzione del deficit di bilancio verso il pareggio. Attualmente le prestazioni pensionistiche sono indicizzate parzial- mente ai prezzi; la spesa cresce perché cresce il numero dei pensionati in essere e perché le nuove pensioni sono di importo maggiore delle pensioni che cessano. Tendenzialmente, quindi, la spesa per pensioni cresce qualche punto percentuale più dell’inflazione e, in condizioni di sviluppo normale dell’economia, un po’ meno del PIL. La spesa sanitaria aumenta a tassi che sono superiori ai tassi di crescita del PIL monetario, soprattutto per effetto dell’aumento della domanda di prestazioni di assistenza ospedaliera e di assistenza farmaceutica (quest’ultima non ha nulla a che vedere con l’abolizione dei tickets, ma è l’effetto della aggressività commerciale dell’industria farmaceu- tica non più contenuta dai tetti sulla spesa farmaceutica aboliti nel 1998). La spesa per il personale tendenzialmente cresce, se vengono rispettate le indicazioni della legge finanziaria sulle nuove assunzioni, un po’ meno del PIL. In altre parole, lo scenario prospettico sulla finanza pubblica è tale che, senza azioni esplicite di contenimento, è impossibile avere entrambi i risultati: quello della riduzione del deficit di bilancio e 93
STUDI E NOTE DI ECONOMIA - QUADERNI/6 quello della riduzione della pressione fiscale. Per averli entrambi e soprattutto per avere riduzioni della pressione fiscale alle quali sia possibile associare effetti di sviluppo della produzione nazionale, occorrono interventi significativi di riduzione della spesa pubblica. La riduzione significativa della pressione fiscale non è obbligatoria; non è nemmeno vero che in Italia si pagano molte più tasse di quante se ne pagano in altri paesi europei. Se però la si vuole ottenere bisogna fare interventi significativi sulla spesa pubblica. Possibili certamente, non facili da individuare, forse anche non facili da attuare. In materia di sgravi d’imposta, bisogna poi dire che i governi di centro-sinistra hanno fatto il massimo possibile. Hanno forse fatto anche qualcosa di più del lecito per andare incontro ai suggerimenti dei profeti e alle lusinghe degli imbonitori che hanno sostenuto la riduzione delle tasse in questi ultimi anni. La spesa per pensioni è certamente un candidato per interventi che producano risparmi di spesa anche nel medio periodo. Le riforme del 1995 e del 1997, pur avendo prodotto importanti risultati, non sono sufficienti a questi fini. Né vale dire che la spesa pensionistica cresce, come è vero, meno del PIL o in misura pari al PIL. Se si vogliono ridurre le imposte o anche aumentare la spesa sanitaria o gli stipendi dei dipendenti pubblici o la spesa per investimenti pubblici, non si può non guardare alle prestazioni pensionistiche. Se si guarda solo al sistema pensionistico si può forse essere soddisfatti degli interventi fatti; se si guarda al complesso del sistema di finanza pubblica e ci si pongono obiettivi di politica economica più ampi, allora l’ordina- mento pensionistico che determina la parte più sostanziosa della spe- sa pubblica non può essere escluso da valutazioni di opportunità di interventi correttivi. Quali, se ne esistono, non è mio compito indicare in questa sede. In conclusione un breve commento. La politica di governo della spesa pubblica ha di fronte due grandi opzioni. La prima, quella seguita negli ultimi quindici anni, di azioni di riordino, razionalizza- zione e gestione dell’esistente dirette alla riduzione degli sprechi, alla eliminazione degli angoli meno significativi dell’intervento pubblico, alla ricerca di obiettivi di livellamento delle prestazioni nei diversi punti del territorio. Gli spazi di governo esistono anche se diventano progressivamente più costosi politicamente da perseguire. La secon- da, quella che a volte appare nei programmi del centro-destra, che si basa su significative correzioni del peso relativo dell’intervento pub- blico, con riforme soprattutto nei canali di finanziamento (privati e non più pubblici) di importanti settori quali la sanità o la stessa pre- videnza. Quali che siano le scelte future su questi temi mi sembra di poter escludere che le tre proposizioni: «ridurre il deficit fino al pareggio di bilancio», «ridurre la pressione fiscale o contributiva», «non toccare in modo significativo l’ordinamento pensionistico» pos- sono coesistere. 94
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