Note Neoliberismo, educazione e scuola. Divagazioni su saggi recenti1

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RICERCHE PEDAGOGICHE
Anno LV, n. 218, gennaio-marzo 2021, pp. 117-126
ISSN 1971-5706 (print) – ISSN 2611-2213 (online)

                                                                           Note
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                                Neoliberismo, educazione e scuola.
                                      Divagazioni su saggi recenti1

                                                            Luciana Bellatalla

1. Per cominciare

    I saggi che mi hanno suggerito queste “divagazioni” sono tra loro
molto diversi.
    Il saggio di Chiara Valerio ha un andamento narrativo di tipo lette-
rario con uno stile espressivo nervoso e spesso ellittico, non sempre
gradevole; rifugge, per scelta esplicitamente dichiarata fin dalle pagi-
ne iniziali, da citazioni precise e da richiami bibliografici, affidandosi
più ai ricordi personali e costruendo una sorta di autobiografia intellet-
tuale. Il lavoro di Banti guarda al mondo di oggi con un approccio a
metà tra il giornalistico ed il sociologico. E, infine, il terzo è una sorta
di “manifesto per un nuovo impegno politico”.
    Nonostante queste differenze, che emergono fin dalle prime pagine,
i lavori sono uniti da un ideale filo rosso perché, al fondo, sia pure per
strade diverse, pongono il lettore dinanzi a domande similari, cui ten-
tano di dare una risposta: quale spazio, quale ruolo e quale significato
ha assunto nelle presenti condizioni sociali, culturali, comunicative e
politiche l’autonomia del pensiero? E di conseguenza, quale spazio,
quale ruolo e quale significato può essere attribuito alla democrazia?
Si può pensare un futuro diverso da quello che le parole d’ordine del
presente lasciano prevedere o addirittura presentano senza possibili al-
ternative?
    La Valerio dà una risposta generale, da una prospettiva teorica;
Banti imbocca la strada dell’analisi della formazione dell’immaginario

   1
     Cfr. Chiara Valerio, La matematica è politica, Torino, Einaudi, 2020; Alberto
Mario Banti, La democrazia dei followers. Neoliberismo e cultura di massa, Roma-
Bari, Laterza, 2020 e Fabrizio Barca, Enrico Giovannini, Quel mondo diverso da
immaginare, per cui battersi, che si può realizzare, a cura di Gloria Riva, Roma-
Bari, Laterza, 2020.
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collettivo e, infine, Barca e Giovannini cercano di disegnare un capita-
lismo dal volto umano, illuminato, in cui tutte le valutazioni non siano
risolte in termini di PIL, di investimenti e di rapporto costi-benefici fi-
nanziari.

2. Più nel dettaglio

    Le domande vengono poste, in tutti e tre i casi, sulla base della
consapevolezza che in condizioni come quelle odierne – generali, dif-
fuse ed aggravate dalla pandemia in atto –, autonomia, libertà, demo-
crazia (e quanto ad esse è connesso in termini di cambiamento, di
creatività, di capacità inquisitiva e di valori umani) sono ormai svuota-
te del loro complesso, articolato e ricco spettro semantico ed hanno
assunto, nell’uso corrente, che pure ne viene ancora e quotidianamente
fatto, un valore meramente rituale e un orizzonte di senso sempre più
sterilmente formale2. Né più né meno, come lamentavo qualche tempo
fa, sempre dalle pagine di questa rivista, è accaduto con la parola “tol-
leranza”3, che è sulla bocca di tutti mentre, con sempre maggiore fre-
quenza – sovranismo e populismo ne sono viva testimonianza – la no-
stra cultura prende la strada dell’intolleranza e dello stigma.
    Per un verso, soprattutto con Valerio e Banti, si insiste sui concetti
di autonomia del giudizio e di libertà, perché ci si muove a livello di
dimensione culturale. Non a caso, autonomia del giudizio e libertà so-
no le due colonne portanti di una democrazia intesa non come eserci-
zio formale di alcuni diritti – primo fra tutti quello di scelta dei rap-
presentanti attraverso il voto –, ma, come peraltro avvertiva già nel
1916 Dewey, come uno stile di vita. Se così è e deve essere, la demo-
crazia si configura come un habitus mentale ed intellettuale, pronto a
trasferirsi in abitudini di vita personale ed intersoggettiva, prima anco-
ra che come una particolare modalità di organizzazione e gestione del-
la cosa pubblica.

   2
      Un esempio, tra i tanti possibili: Barca e Giovannini lamentano il fatto che il
termine “capitale” sia usato esclusivamente per riferirsi agli aspetti ed ai fattori eco-
nomici, laddove il capitale si articola almeno in quattro distinti ambiti, tutti impor-
tanti e tra loro interagenti e da tenersi in considerazione su piede di parità: capitale
naturale, capitale economico, capitale umano e capitale sociale. Tutti servono “per
generare beni e servizi, ed è il sistematico e persistente depauperamento di queste
diverse forme di capitale a determinare l’insostenibilità dell’intero sistema economi-
co attuale” (Quel mondo diverso, cit., p. 77).
    3
      Cfr. L. Bellatalla, Sulla tolleranza “attiva”, ovvero elogio dell’intolleranza, in
"Ricerche Pedagogiche", LIV, 215, 2020, pp. 35-46.
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                          Divagazioni su saggi recenti

    L’autonomia implica, grazie al suo significato etimologico, capaci-
tà di giudicare il mondo e di organizzarlo senza bisogno di costrizioni
o regole estranee ai princìpi stessi che regolano il giudizio e senza im-
posizioni per chi tale giudizio esercita. Ma implica anche, proprio per
questo, da un lato, un senso di responsabilità molto alto, sia sul ver-
sante morale sia sul versante civile e politico, nella misura in cui
l’autonomia riconosce che i soggetti non sono monadi, ma microcosmi
intessuti di relazioni ed interazioni. Dall’altro lato, essa implica am-
piezza di conoscenze, ricchezza di prospettive interpretative, gusto per
il possibile ed il probabile e non soddisfazione per il certo e l’indi-
scutibile: orizzonti aperti sono la condizione insopprimibile per for-
mulare giudizi e, con essi, anche ed al tempo stesso, progetti per un
futuro che non sia né una ripetizione del presente né la restaurazione
del passato, ma l’esito di un incontro dialettico tra aspetti ed elementi
temporali e valoriali diversi.
    E, ovviamente, alla base di tutto questo non può stare che una for-
ma mentis aperta e libera da condizionamenti di sorta alla ricerca della
verità – in quanto controllo e giustificazione logica – relativamente ai
contesti analizzati, ma insofferente a pressioni derivanti da presunte
Verità (metafisiche o ideologiche): su questo punto insiste la Valerio
che, forte della sua formazione matematica e della sua esperienza di
docente di questa disciplina, difende una prospettiva probabilistica ed
un atteggiamento problematico sullo sfondo di un’abitudine all’astra-
zione, alla disponibilità all’errore ed all’incertezza, ossia a quegli ele-
menti che le permettono di concludere che la matematica è intrinse-
camente politica, in quanto è un processo, sottoposto a regole rigoro-
se, ma sempre aperto e capace di costruire possibilità e problemi per la
cui soluzione occorrono non solo creatività, capacità di vedere quanto
è oltre l’apparenza ed il dato, ma anche disponibilità al confronto con
le ragioni dell’altro. E, per di più, richiede a chi segue questo percorso
di assumere in prima persona la responsabilità delle sue scelte.
    A tutto questo, il mondo di oggi oppone una cultura dell’intratte-
nimento, che evita al soggetto di riflettere e di interpretare quanto leg-
ge o gli viene comunicato4 e lo assoggetta a luoghi comuni, ai giudizi
altrui ed a scorciatoie interpretative, in cui una politica spesso becera e

    4
      “Il lettore, come chi studia matematica e in generale chi studia, è capace di sta-
re da solo. Chi sta solo è politicamente complesso perché non deve essere intrattenu-
to. Chi sta solo si intrattiene da solo, con i propri modi e i propri tempi, sfugge alla
dittatura. La dittatura dell’intrattenimento è un’altra forma di negazione del tempo
come prigionia, tortura, persecuzione” (La matematica è politica, cit., pp. 84-85).
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emotivamente guidata si inserisce. Su questo punto le pagine della Va-
lerio si incontrano con quelle di Banti e disegnano, pur in maniera di-
versa, quel quadro di degenerazione culturale, che è ormai dinanzi a
noi tutti: qualcuno vi si è adagiato e segue il mainstream; altri si sono
rassegnati; altri ancora ne sono disgustati e preoccupati.
   Né Valerio né Banti offrono al lettore considerazioni inedite. Chi si
occupa di educazione, in particolare, da decenni registra il processo di
decadimento del linguaggio, dei modelli comportamentali a cui le gio-
vani generazioni sono esposte, la negligenza del procedimento logico
del ragionamento e la progressiva riduzione delle ragioni dell’intel-
ligenza alle pulsioni dell’emotività senza controllo.
   Il merito di entrambi i lavori sta nel fatto che offrono al lettore que-
ste osservazioni, per molti versi diffuse, con una sorta di efficace sin-
tesi, che tenta – e talora specie con Banti ci riesce – di andare oltre le
geremiadi altrettanto diffuse per annodare le manifestazioni più ecla-
tanti di questa degenerazione a scelte politiche, economiche e sociali.
Ne deriva una forte discrasia: mentre le parole d’ordine del neoliberi-
smo hanno trovato un quasi unanime accordo, almeno in occidente,
nella convinzione che non ci siano alternative al mondo economico
che esse disegnano, le loro implicazioni culturali non paiono sempre
del tutto apprezzate. Specie se e quando si rivolge attenzione alle gio-
vani generazioni.
   Di fatto, però non di discrasia si tratta, ma di continuità tra una
forma di gestione politica che richiede tale degenerazione, perché su
di essa trova occasione di crescita e di consenso, e una forma di vita
che alimenta differenze e divaricazioni sociali ed economiche, che ne-
cessariamente determinano degenerazione culturale e discriminazione
di accesso alla formazione. Alla formazione, che un tempo passava
per la scuola, le agenzie culturali extrascolastiche ed il dibattito politi-
co, si è sostituita la formazione dello “spettatore”, bulimico di intrat-
tenimento e social: per un verso, il conformismo diventa l’esito neces-
sario di questo processo e, per l’altro, la democrazia perde i suoi con-
notati per assumere quelli di un rito vuoto, perché nessun cittadino è
più davvero tale, ma il frutto di un’abile manipolazione, che predispo-
ne a obbedienza e sudditanza5.

    5
      “Tradotto: poche megacorporation controllano e lanciano produzioni che strut-
turano l’immaginario di miliardi di persone” (La democrazia del followers. Neolibe-
rismo e cultura di massa, cit., p. 57). E ancora: “Nel quadro attuale, …, occorre os-
servare che le proposte narrative chiedono agli spettatori e alle spettatrici di sotto-
scrivere un patto narrativo altamente regressivo, nel senso di altamente infantilizzan-
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                          Divagazioni su saggi recenti

    A questa pars destruens del mondo attuale Barca e Giovannini, due
economisti, con un passato di ministri ed ora impegnati in centri e
fondazioni legate a studi ed interventi di ecosostenibilità, oppongono
una pars construens. Essa, sebbene tocchi soprattutto questioni legate
agli aspetti economici, finisce per riguardare, ora esplicitamente ora
implicitamente, anche fattori determinanti dell’attuale contingenza:
dal conformismo alla convinzione dell’insuperabilità di certe costru-
zioni socio-economiche, dalla degenerazione dei comportamenti so-
cio-politico-culturali all’insorgere di emergenze sociali e sanitarie fino
all’incapacità di sognare un futuro altro dal presente e dal passato da
parte di soggetti, in cui la cittadinanza si è svuotata di significato e la
capacità di scelta è ridotta.
    La ricetta proposta, come ho detto prima, è quella di un capitalismo
dal volto umano, capace di tenere conto dello sviluppo economico, ma
anche dei bisogni degli uomini e delle donne, dell’ambiente e della
cultura, il cui scopo ultimo non sia l’accrescimento del PIL, ma il mi-
glioramento delle condizioni della vita concreta, con un intensificarsi
delle abitudini di dialogo e di cura ed una attenzione mirata sulla for-
mazione e sulla crescita dei soggetti e sulle capacità propositive delle
giovani generazioni6.
    Ciò che davvero è in gioco, per Barca e Giovannini, come per Va-
lerio e Banti, è la scommessa sul futuro, che si potrà vincere solo rav-
vivando la creatività e la capacità di confronto e di collaborazione di
uomini e donne, oggi ridotti al rango ora di meri consumatori ora di
passivi spettatori ora di semplici ingranaggi di un sistema economico,

te. … Si tratta … di accedere a un immaginario veramente totalitario, che chiede di
sospendere permanentemente e automaticamente l’incredulità; cioè che chiede di so-
spendere in permanenza l’esercizio di ogni spirito critico” (Ibidem, pp. 75-76).
    6
      Di particolare interesse, tra le varie proposte avanzate, quella di Barca, peraltro
mutuata dall’economista inglese, di scuola neo-keynesiana, Anthony Atkinson, è
l’idea di una “eredità universale” di 15.000 euro da destinare, incondizionatamente
ed indipendentemente dallo stato socio-economico della famiglia di origine, a tutti i
giovani al compimento della maggiore età, perché possano scegliere liberamente il
loro percorso di formazione dopo la scuola superiore, anche se dai 14 anni di età in
poi l’orientamento è considerato una misura necessaria per accompagnare questa
“eredità”. Poiché la proposta richiede un impegno finanziario notevole da parte dello
Stato, Barca propone di reperire i fondi ad hoc attraverso una rimodulazione delle
tasse di successione, che, oggi, sono, in proporzione, assai gravose per le piccole
eredità ed insignificanti per le eredità assai cospicue (cfr. Quel mondo diverso da
immaginare, per cui battersi, che si può realizzare, cit., pp. 118-119).
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il cui vero scopo è quello di auto-riprodursi a beneficio di una cerchia
sempre più ristretta di persone.

3. Un mondo rovesciato: la scuola complice e vittima ad un tempo

   In queste analisi molto documentate – specie come ho detto nel te-
sto di Banti e in quello di Barca e Giovannini, che attingono a piene
mani ad una ricca letteratura secondaria in particolare statunitense –
ciò che colpisce è il fatto che la scuola, presente e futura, non è mai
tematizzata. Essa è, sì, evocata, per lo più in maniera generale e quasi
sempre implicita o, come nel caso della Valerio, a livello di ricordo
autobiografico. Eppure, la scuola occupa un posto centrale nella con-
siderazione dei comportamenti, delle abitudini e delle emergenze de-
scritte.
   Infatti, non si può non notare che i fattori e le conseguenze socio-
culturali, legati all’affermazione del neoliberismo e contestati in questi
saggi, hanno messo in crisi definitivamente e ben più efficacemente
della contestazione giovanile del Sessantotto, un modello di scuola
centrato sulla trasmissione di un canone culturale, a trazione umanisti-
ca, forse rigido, ma anche rigoroso ed intessuto di attenzione all’uso
del linguaggio e della logica: dal 4 maggio 1979, data di insediamento
di Margaret Thatcher a Downing Street7, il neoliberismo ha gradual-
mente sostituito agli adolescenti hippy o conquistati dai sogni di una
visione del mondo new-age di solo un decennio prima, protesi a cerca-
re contenuti più soddisfacenti sul piano dell’auto-realizzazione e
amanti di poesia, filosofia e psicologia, adolescenti rampanti, che ac-
cettano e propagano il mito del successo economico e della carriera, i
cosiddetti yuppies8.
   Per una società che si avvia a pensarsi come il luogo in cui si con-
trappongono i vincenti, il cui valore si misura sul conto in banca e
sull’apparenza della ricchezza e non sui valori culturali e civili espres-

   7
      Banti indica questa data come l’atto di nascita di quel processo politico, eco-
nomico e culturale, in cui tutti e quattro gli autori di questi saggi vedono la causa
della corruzione attuale della democrazia.
    8
      Il termine, nato negli USA dell’edonismo reaganiano, rimanda, come ben si sa,
all’idea del professionista di successo, giovane, a suo agio nella realtà urbana e lega-
to a uno stile di vita lussuoso, fatuo, non sempre elegante ma sempre di ostentazione
di ricchezza e di sfrenato consumo di oggetti alla moda. Insomma, questi giovani
vincenti sono i precursori, per un verso, di quei followers, protagonisti del saggio di
Banti, e, per l’altro, di quegli influencers che oggi orientano scelte, gusti ed opinioni.
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si, e i perdenti, destinati a restare ai margini della ricchezza, del suc-
cesso e del potere, contentandosi di imitare gli altri, grazie a viaggi
low cost o oggetti di lusso falsificati, la scuola non è e non può più es-
sere un valore aggiunto, come era considerata dai giovani del dopo-
guerra, specie se nati in famiglie poco abbienti ed alla ricerca di un
ascensore sociale. Per lo più è un intralcio. Ciò che serve può, tutt’al
più, essere il diploma, formalmente richiesto per entrare nelle aziende
che, peraltro, cominciano a sostenere che il sapere scolastico è inutile
nel mondo del lavoro, perché l’esperienza sul campo è la vera scuola,
mentre le conoscenze del passato sono del tutto superflue. Per non
parlare, poi, della cultura umanistica, ormai superata.
    Prima la scuola superiore e poi l’università, con il processo Bolo-
gna, hanno ceduto, complice una politica conquistata dalle illusioni di
un nuovo ordine economico, a questo miraggio della preparazione
professionale, della competenza e della competizione: il risultato, do-
po anni di questa cura, è sotto gli occhi di tutti e non richiede alcun
commento.
    Di qui le ripetute richieste di incentivare l’istruzione professionale,
accolte anche da un pragmatico centro-sinistra e rimaste sulla carta
con Fioroni, ma attuate dal centro-destra di Moratti e Gelmini per ri-
tornare in auge, sia pure con qualche elemento moderato da interesse
per i saperi gratuiti, nel recente manifesto per la scuola di Patrizio
Bianchi9.
    Il filo conduttore di questo orientamento della politica scolastica va
rinvenuto nell’idea che la scuola vada posta al servizio dell’economia
e debba preparare il futuro produttivo del Paese, assecondandone le ri-
chieste.
    Così da “opificio di cultura” e “laboratorio del sapere”, la scuola è
stata declassata a luogo di formazione di operatori produttivi ed eco-
nomici, ruolo che dovrebbe essere svolto da percorsi particolari e pre-
disposti con attenzione, anche in interazione con il mondo del lavoro e
della produzione, dopo il percorso scolastico obbligatorio per tutti.
Questo permetterebbe di lasciare alla scuola il compito di formare, at-

   9
      Cfr. P. Bianchi, Nello specchio della scuola, Bologna, il Mulino, 2020. Ma si
veda anche la proposta di un sistema duale di formazione, ormai accettato dal Mini-
stero del Lavoro e delle Politiche Sociali, che a ben vedere sembra una replica delle
regole circa l’educazione professionale nell’Italia post-unitaria, ininterrottamente da
Casati fino a Gentile (che fece del doppio canale la struttura portante della scuola
italiana), quando questo tipo di formazione fu soggetta ad un continuo “rimpallo” tra
il ministero della P.I. e il Ministero dell’industria, agricoltura e commercio.
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traverso i contenuti storicamente e culturalmente più adeguati, gli in-
dividui all’esercizio del pensiero ed all’abito critico, all’uso corretto e
variato delle lingue materna e straniere e della logica, ossia a tutti quei
requisiti che “abilitano” alla civile convivenza, alle scelte consapevoli,
alla responsabilità per sé e per gli altri, al piacere della conversazione
e del dialogo.
    La scuola, in questo modo, è stata travolta dal vento impetuoso
dell’attuale orientamento socioeconomico: ne è stata di necessità la
prima vittima per i tagli ai contenuti ed al monte ore, per la riduzione
degli insegnanti ridotti a servi degli interessi e dei voleri delle fami-
glie, per la trasformazione degli istituti in piccole aziende al servizio
del profitto.
    Da vittima, si è trasformata, del tutto inintenzionalmente, in com-
plice di un disegno politico e culturale perverso, perché volto a tra-
sformare i cittadini in followers, a ridimensionare i processi formativi
perché sono di ostacolo a progetti politici di fatto restauratori, a dere-
sponsabilizzare la maggioranza confinando il Potere (non a caso con
l’iniziale maiuscola) nelle mani di pochi e, infine, ad alimentare falsi
miti, come quello del merito e della competenza.
    Il ruolo subalterno degli insegnanti e l’enfatizzazione di ricette di-
dattiche come panacea di tutti mali della scuola, da adottare non diver-
samente da una terapia, ossia secondo dosi precise, in forme ed in
tempi altrettanto precisi, dimostrano come la scuola sia diventata una
sorta di rappresentazione che segue un copione prestabilito e con parti
da recitare ben fissate: nessuna deroga deve essere concessa. I dirigen-
ti sono lì proprio per garantire che nessuno reciti a soggetto.
    In questo modo le giovani generazioni a cui dovremmo e dovremo
affidarci per progettare il futuro ne escono spaesate, poco istruite, con
un italiano basico, un inglese approssimativo e tanta fiducia solo nelle
discipline tecniche10.
    Durante le giornate dedicate a riflettere sulla DaD, come riporta su
questo stesso numero nella sua nota Angelo Luppi, è echeggiato il gri-

   10
       Il manifesto-proposta preparato dai giovani per il governo, certamente da non
sottovalutare come invece il governo giallo-rosso ha fatto, tuttavia è infarcito di
quello che Banti chiama, in accordo con il Mark Fisher di Realismo capitalista, lo
spirito della dea TINA (There Is No Alternative): vi si propongono per il futuro digi-
talizzazione, start up, spirito imprenditoriale, ingegneria, senza trascurare lo smart
working, che, a dirlo in tutta franchezza, al di fuori del momento emergenziale, so-
miglia molto da vicino al famigerato cottimo del passato, esito moderno delle cor-
vées antiche.
125 – Neoliberismo, educazione e scuola.
                       Divagazioni su saggi recenti

do “meno Tacito e più Pascal!”: chissà quanti, in quella platea di ap-
passionati docenti digitali avranno ricordato che il nome del linguag-
gio digitale da loro evocato proviene da un matematico e filosofo del
Seicento, che si occupò, nella sua breve vita, di questioni non solo
scientifiche, ma anche metafisiche e teologiche. L’opposizione, infatti,
non sta tra discipline umanistiche e scientifiche, ma tra quanto apre gli
orizzonti della mente e quanto, pur dando molte informazioni, non
spinge chi apprende ad andare oltre: la vera differenza, dunque, la fa
l’insegnante nella misura in cui sa spronare i suoi alunni a ragionare
sui contenuti della sua disciplina, qualunque essa sia, a interpretarli ed
a metterli in relazione con altre forme di sapere per trasformarli in
strumenti utili non a superare una prova, ma a leggere il mondo fuori
della scuola. Per essere soggetti responsabili, ma anche liberi ed auto-
nomi.

4. Concludendo

     A questo punto, sostenere che autonomia, libertà, democrazia e
scuola costituiscono una sorta di nodo inestricabile appare addirittura
un truismo: solo grazie alla scuola, quale luogo per eccellenza
dell’educazione, si può sperare di imparare a pensare con metodico
esercizio e consapevole prudenza; solo questo metodo del pensiero è
garanzia di un giudizio circospetto e, quindi, autonomo; solo un giudi-
zio autonomo è un antidoto alle tentazioni illiberali o addirittura liber-
ticide e solo avendo strumenti adeguati ed efficaci per resistere alle
scorciatoie semplificatrici del pensiero unico e delle certezze illusorie
si può sperare in una vita davvero democratica. Ossia in una esistenza
personale e civile, nella quale la diversità sia una risorsa e non un mo-
tivo di esclusione, lo spirito critico un “condimento” apprezzato del
dibattito e della crescita collettivi e, infine, la ricerca della conoscenza
– dalle aule scolastiche ai laboratori, dall’università alla vita quotidia-
na – sia considerata una benedizione e non un inutile impiccio per chi,
al servizio di interessi di parte di pur disparata natura ed a vari livelli,
vuole prendere decisioni ed orientare il futuro (se non addirittura il de-
stino) degli altri.
    Alla luce di queste considerazioni, mi permetto di aggiungere alle
proposte costruttive di Barca e Giovannini un altro punto, non meno
interessante di quelli che essi elencano per una riforma del lavoro, del-
la condizione giovanile e della salvaguardia ambientale: vale a dire
una seria riforma della scuola, capace di conferire a questa istituzione
126 – Luciana Bellatalla

la dignità e la mission che le competono. A ben guardare, infatti, que-
sta riforma è la base su cui è poi possibile edificare ogni altro cam-
biamento in grado di restituire il mondo sociale ai soggetti che lo abi-
tano.
   Questa riforma non riguarda contenuti o strumenti di istruzione,
che vanno scelti e commisurati con i tempi in cui si vive, ma una tra-
sformazione del modello di scuola, non più ispirato da economia per
lo sviluppo sociale, ma dal congegno concettuale dell’educazione: si
deve costruire una scuola attenta al ruolo, alla centralità ed alla forma-
zione iniziale ed in servizio dell’insegnante, allo spirito sperimentale
del processo conoscitivo, all’esercizio metodico dell’intelligenza, allo
spirito dialogico e della complessità, attraverso il confronto e la com-
parazione di modelli culturali diversi nel tempo e nei contesti sociali.
Ausili didattici e contenuti si possono cambiare a seconda di contin-
genze ed opportunità, ma il principio ispiratore della scuola non è con-
trattabile.
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