LO SCONCERTO DEI POPOLI FEDELI AL VATICANO ED AL PARLAMENTO

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LO SCONCERTO DEI POPOLI FEDELI AL VATICANO ED AL PARLAMENTO

    Passato il santo, passata la festa; è un modo di dire molto diffuso in certe zone d’Italia, il suo senso allude
alla transitorietà dei momenti d’euforia collegati a ricorrenze particolari, com’è il giorno festivo dedicato a un
certo santo. E’ sempre malinconico il momento in cui si deve tornare alle incombenze quotidiane, dopo la
gioia dei momenti festivi, in cui sembra che il mondo diventi diverso da quello di sempre, grigio, feroce,
pieno d’ingiustizie. La festa del santo, il carnevale, le elezioni politiche, sono i momenti socialmente
riconosciuti in cui l’uomo comune può vivere un tempo diverso da quello ordinario, in cui può illudersi di
essere re per un giorno e di partecipare a un grande evento accomunante, popolare, in cui svaniscono le
divisioni sociali presenti nel mondo reale. Si tratta di compensazioni mentali a una vita di subordinazione
dentro un meccanismo sociale oppressivo, una semplice fuga ritualizzata, consentita e approvata dal sistema,
come una valvola di sfogo psichico, al pari della violenza negli stadi. Il popolo degli elettori ed il popolo dei
fedeli papalini si trova sconcertato di fronte al doppio vuoto di potere (senza Papa e senza Governo
parlamentare).
    Le elezioni politiche del 24 e 25 febbraio sono appena terminate, un nugolo di commentatori politici
produce migliaia d’inutili righe d’analisi politiche sul grande evento democratico. Nuovi equilibri politici,
rischi d’ingovernabilità, il ruolo del capo dello Stato, le preoccupazioni dell’Europa; sarebbe superfluo
continuare. Una sequenza di parole senza senso è riprodotta attraverso i mass-media, sono pronunciate con
foga dai politici, enunciate soffertamene da alte figure istituzionali: la governabilità, il rispetto delle scelte
elettorali del popolo sovrano, il tavolo delle trattative, le scelte responsabili per l’interesse del paese. Termini
vuoti di significato, pronunciati da attori sociali logori e stanchi, in verità dei semplici funzionari al servizio
del sistema di dominio del capitale. Essi devono svolgere il ruolo che gli assegna il sistema, e quindi,
ingannando i poveri sciocchi che sono andati a votare per loro, facendogli credere che il loro voto avesse
importanza, continueranno a fare i terminali politici nazionali degli input del capitale monopolistico globale.
    Nel 1948, commentavamo le elezioni dell’epoca ricordando “Non le conte schedaiole determinano le
situazioni, ma i fattori economici che si concretano in posizioni di forza, in controlli inesorabili sulla
produzione e il consumo, in polizie organizzate e stipendiate, in flotte incrocianti nel mare di lor signori”. Il
significato è chiaro; sono i processi racchiusi nel conflitto sociale, e gli equilibri di potere fra le classi che
determinano i cambiamenti della storia. La cabina elettorale è invece la tomba in cui il proletario seppellisce
la speranza di modificare realmente le sue condizioni d’esistenza, legittimando, con la farsa schedaiola, uno
Stato democratico/parlamentare che, al pari di uno Stato dittatoriale, ha in ultima istanza la funzione di
garantire la vita mostruosa del capitale. Ancora 1948 scrivevamo: “Eletto chicchessia al governo della
repubblica, non avrebbe altra scelta che rinunziare, o offrirsi in servigio all'ingranamento di forze
capitalistiche mondiali che maneggia lo Stato vassallo italiano”.
    Gli eletti dal popolo sovrano non hanno scelta, o accettano di far continuare a funzionare la macchina del
capitale, oppure devono rinunziare e dimettersi. Non ci sono alternative, il capitale non ammette servitori
infedeli, le forze capitalistiche mondiali che maneggiano lo Stato vassallo italiano sono controllori occhiuti e
zelanti, e i loro investimenti vanno tutelati. Nel mondo contemporaneo, va ripetuto, le scelte decisive
sfuggono alla discussione e al controllo delle assemblee legislative, dei partiti e di tutte le altre forme
organizzate di rappresentanza popolare. Oggi, anche di fronte ad una crisi politica emergente dagli stessi
risultati elettorali diventa sempre più difficile mantenere la mascheratura democratico/parlamentare, che
infatti tende a dissolversi. Quello che emerge è la concretezza di un apparato statale e di un “partito
d’ordine”1 che si deve incaricare di mantenere la continuità del dominio di classe e degli interessi generali
del capitale.
    Il grande capitale monopolistico transnazionale delega poche funzioni agli stati nazionali; si tratta di
semplici compiti di coordinamento finanziario e monetario delle varie economie nazionali, per meglio
favorire lo sfruttamento della forza lavoro e la circolazione del capitale. Il potere legislativo è spostato verso
l’esecutivo, e da questo a organismi burocratici che si estendono dall’apparato amministrativo dello Stato
all’impresa statale, fino ai più grandi gruppi privati e alle maggiori organizzazioni sindacali. In apparenza i
governi e i parlamenti sono obbligati a prendere decisioni di tipo tecnico imposte dal debito nazionale e dalla

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    Il riferimento è al testo di Marx “Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte”

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crisi, invece, sotto le apparenze di decisioni tecniche, si celano gli interessi della classe dominante borghese,
scelte finalizzate a incrementare lo sfruttamento dei lavoratori, per rilanciare il ciclo d’accumulazione del
capitale.
    La figura del cittadino elettore presenta delle bizzarre particolarità, già evidenziate nell’analisi del lontano
1948, “Il meccanismo elettorale è oggi caduto nel campo inesorabile del conformismo e della soggezione
delle masse alle influenze dei centri ad altissimo potenziale, così come i granelli di limatura di ferro si
adagiano docili secondo le linee di forza del campo magnetico. L'elettore non è legato ad una confessione
ideologica né ad una organizzazione di partito, ma alla suggestione del potere, e nella cabina non risolve
certo i grandi problemi della storia e della scienza sociale, ma novantanove volte su cento il solo che è alla
sua portata: chi vincerà? Così come fa il giocatore alla Sisal; e, di più, imbrocca meglio chi non ha nessuna
competenza sulla materia del gioco e mentisce alle sue stesse intime simpatie”.
    Oggi spopola la categoria degli esperti di politica da bar sport, pronti a dissertare di elezioni e vittorie
elettorali come fa il giocatore del lotto e dei vari giochi affini, una vana ricerca del chi vincerà, in cui perde
solo chi non ha capito l’impossibilità che “comunque per via democratica possano le classi sfruttate arrivare
al potere”. A cosa si riduce la farsa elettorale, allora, se non nella promessa del potere, di lembi di potere, per
i solerti candidati parlamentari al lavoro di funzionari del capitale? Oggi come nel 1948 restano valide le
stesse considerazioni sul ruolo farsesco e mistificatorio delle elezioni, un’organizzazione marxista propone
altre mete “Con uno schieramento delle forze della classe operaia al di fuori della tattica del fronte unico e
popolare, che rifuggisse da rivendicazioni antitetiche al programma proletario e da promesse di vittorie
legali, che avesse saputo disprezzare la illusoria conquista rappresentata dal riottenimento della facoltà
democratica, ben altra posizione di resistenza avrebbero ora dinanzi a sé i piani di assoggettamento del
capitalismo di oltreoceano…”. Sembra di essere ai giorni nostri, costretti a rendere conto ai diktat
dell’Europa, dell’America e dei centri monopolistici dominanti.
    Un’ultima riflessione, la farsa elettorale è terminata, gli attori sociali (eletti ed elettori) ritornano alle
faccende normali, alla vita di sempre, alla “soddisfacente laboriosità” del lavoro nelle officine, nei campi e
negli uffici. Un lavoro quotidiano in cui gli elettori proletari continueranno a essere dominati e distrutti dal
capitale, e gli eletti in parlamento, voteranno le leggi per garantire democraticamente al capitale di continuare
a dominare e distruggere i proletari che li hanno mandati a governare. Proponiamo un passo tratto dalle opere
di Marx, “…il capitale, nel suo smisurato e cieco impulso, nella sua voracità da lupo mannaro di plus-
lavoro, scavalca non soltanto i limiti massimi morali della giornata lavorativa, ma anche quelli puramente
fisici. Usurpa il tempo necessario per la crescita, lo sviluppo e la sana conservazione del corpo. Ruba il
tempo che è indispensabile per consumare aria libera e luce solare. Lesina sul tempo dei pasti e lo
incorpora, dove è possibile, nel processo produttivo stesso, cosicché al lavoratore viene dato il cibo come a
un puro e semplice mezzo di produzione, come si dà carbone alla caldaia a vapore, come si dà sego e olio
alle macchine”. 2
    Il proletario elettore ha espresso liberamente il suo voto, mandando in parlamento i suoi rappresentanti, e
ora la rappresentazione farsesca purtroppo è finita; in quella recita sfavillante ci si poteva illudere di contare
qualcosa, di essere un cittadino con uguali diritti. Il risveglio è molto amaro, quando significa ritrovarsi nella
condizione di una merce umana al servizio del profitto del capitale, riprendiamo la lettura del testo di Marx
“Come capitalista, egli è soltanto capitale personificato. La sua anima è l’anima del capitale. Ora il capitale
ha un unico istinto vitale, l’istinto cioè di valorizzarsi, di creare plusvalore, di assorbire con la sua parte
costante, che sono i mezzi di produzione, la massa di plus-lavoro più grande possibile…Quindi il capitale
non ha riguardi per la salute e la durata della vita dell’operaio, quando non sia costretto a tali riguardi
dalla società. Al lamento per il deperimento fisico e mentale, per la morte prematura, per la tortura del
sopralavoro, il capitale risponde: dovrebbe tale tormento tormentar noi, dal momento che aumenta il nostro
piacere (il profitto)? Ma, considerando il fenomeno nel suo complesso, tutto ciò non dipende neppure dalla
buona o cattiva volontà del capitalista singolo. La libera concorrenza fa valere le leggi immanenti della
produzione capitalistica come legge coercitiva esterna nei confronti del capitalista singolo”.3

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       Il Capitale, libro primo, sezione III, capitolo 8.
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       Il Capitale, libro primo, sezione III, capitolo 8.

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Qualcuno potrebbe obiettare che tali analisi sono vecchie di oltre un secolo e mezzo, e quindi ormai
superate; ma forse due semplici esempi potrebbero smontare la tesi sull’inattualità delle citazioni tratte dal
Capitale di Marx: Ilva di Taranto, Thissen Group e recente sentenza giudiziaria connessa. Che cosa dire,
sappiamo bene che una pervicace illusione può spingere a negare anche i fatti più evidenti, rendendo
opinabile ogni scoperta di concatenazioni di causa/effetto negli eventi contingenti, per cui, alla fine, i morti
sul lavoro e il mortifero inquinamento ambientale, possono essere letti come tragiche fatalità, oppure come
costi inevitabili del progresso. Tuttavia, la rimozione della realtà torna utile solo ai padroni del vapore, le
vittime del sistema dominante dovrebbero avere, forse, altre priorità. Il testo che ci accingiamo a ripresentare
risale al 1948, in esso è contenuta un’analisi di quel periodo storico e delle sue figure politiche di riferimento:
oggigiorno gli attori sociali contemporanei portano altri nomi e cognomi, e tuttavia non è cambiata la scena
su cui recitano la loro parte, sostanzialmente invariata rispetto al 1948, ma anche rispetto al periodo in cui
Marx scriveva le sue analisi. Il lettore attento ritroverà in quelle analisi la conferma elementare del vecchio
detto: sono cambiati i suonatori, ma la musica è rimasta la stessa.

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                                         DOPO LA GARIBALDATA
     Nuovi avvenimenti finiscono di spegnere gli echi della grande battaglia elettorale italiana di aprile, e
dimostrano che la forza economica del dollaro può parimenti attuare le sue conquiste con e senza le bombe di
aereo di Grecia, con e senza le schede d'Italia. Passata la pietosa scalmana, è più facile far capire quanto già
allora era di solare chiarezza, che da quello spareggio numerico nulla poteva derivare e che dopo il 18
famoso tutto sarebbe continuato ad andare come prima in Italia. Eppure, in quei giorni vari milioni di poveri
succubi credettero di avere in mano nella scheda dai tanti simboli la chiave per fare la storia.
     Alta tra le tante reciproche rampogne dei contendenti fu quella che rinfacciava al Fronte la sua malafede
nel paludarsi del segno garibaldino, e gridò all'offesa recata al nome dell'Eroe nazionale da quello che la
propaganda antifrontista dipingeva come pericolosi rivoluzionari pronti a far saltare le strutture della società,
della patria e dello Stato.
     Se scandalo vi fu, non era quello di aver disonorato Garibaldi facendone il segnacolo di forze
antinazionali, ma quello invece di aver preteso di rappresentare sotto quel simbolo le forze, le tradizioni e gli
ideali della classe operaia rivoluzionaria, e l'offesa era recata non al ricordo del Generale, idolo a giusta
ragione delle generazioni borghesi ottocentesche, bensì alle migliori e più degne tradizioni del movimento
proletario italiano, che le inesauribili risorse del super-opportunismo nostrano non perverranno a obliterare e
cancellare dalla storia.
     Nel 1905, ricorrendo il centenario della nascita di Giuseppe Garibaldi, l'Italia ufficiale organizzò
festeggiamenti e commemorazioni. La tendenza a gettarsi in questo movimento per dargli «un carattere di
sinistra» era tanto banale quanto ovvia. Garibaldi era stato sempre presentato letterariamente non solo come
avversario della monarchia e del Vaticano, ma come campione dell'indistinto democratismo internazionale
avanzato; ed era citato come autore della frase divenuta ritornello dell'Inno dei Lavoratori: «Il socialismo è il
sole dell'avvenire». La borghesia di destra onorava in lui il generale vittorioso e il fondatore dell'unità
nazionale in alleanza ai Savoia; poteva sembrare un vero trionfo avanti lettera della tattica «bolscevico-
leninista» (presentata oggi come l'ultimo trovato «900» dell'abilità rivoluzionaria) quello di gettarsi dentro,
costellare i cortei di bandiere rosse e sopraffare le note ufficiali della marcia reale con le grida di: Viva
Garibaldi! Abbasso il Papa e il Re!
     Il movimento operaio italiano di allora era aderente ad uno scarso tessuto sociale industriale, era di
recente tradizione marxista, sia teorica che organizzativa, in quanto i suoi primi decenni si erano ispirati
prevalentemente ad indirizzi di facile sovversivismo romantico e all'epoca della Prima Internazionale vi
dominavano i bakuniniani, mentre solo nel 1892 i socialisti marxisti si erano separati dagli anarchici come
partito. D'altra parte soggiaceva largamente alle influenze dell'azione affiancata con i partiti borghesi di
sinistra, radicali e repubblicani, ribadita nei moti del '98 e nelle battaglie elettorali dell'epoca.

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Eppure quel movimento che poteva dirsi primordiale ebbe, quasi mezzo secolo addietro, tanta maturità e
sensibilità di classe da disertare le manifestazioni garibaldine borghesi e tricolori.
     Pochi anni dopo, nel 1911, l'Italia solennizzò un'altra ricorrenza, il cinquantenario della sua unità, attuata
nel 1861 dopo le conquiste della seconda guerra contro l'Austria e della spedizione dei Mille. Appunto perché
la classe dominante era coerente nel festeggiare coi simboli e le parole d'ordine patriottiche la vittoria storica
conseguita a carico dei vecchi regimi austriacanti assolutisti e papisti, il proletariato, che pure dal 1821, anzi
dal 1799, al 1861 aveva dato la sua collaborazione e il suo sangue alle vittorie borghesi, mostrò di possedere
nel suo inquadramento sindacale e politico una sufficiente coscienza di classe, boicottò le dimostrazioni
statali e regie, si schierò contro di esse e contrappose vigorosamente ai simboli e alle parole del
democratismo patriottico le sue posizioni socialiste ed internazionaliste.
     Nel 1912 l'Italia giolittiana fece le sue prove nel campo dell'imperialismo con quella guerra di Libia che
rappresentò un momento di peso non secondario nel divenire del moderno capitalismo europeo.
     La borghesia, in una nuova sbornia tricolore, inneggiò ai marinai e ai soldati partenti con la canzone
«Torna torna Garibaldi», ma ancora una volta gli operai ed i socialisti furono fieramente dall'altra parte
contro le consegne e le influenze borghesi, contro Garibaldi.
     Nel 1914-15, nell'altra più grande battaglia di classe contro l'interventismo che affasciava tutte le
sfumature borghesi dai nazionalisti ai repubblicani quando fu mobilitata in pieno tutta la tradizione e la
retorica garibaldesca per l'irredentismo patriottico, per la guerra antiteutonica e democratica, quando gli stessi
garibaldetti della terza generazione risalirono sul palcoscenico della grande commedia con le camicie rosse e
le insegne delle legioni delle Ardenne, anche e soprattutto allora la classe lavoratrice italiana rifiutò quelle
suggestioni del nemico interno e rimase solidamente sul terreno socialista.
     In tutti questi storici episodi vi furono confusionari arrivisti e rinnegati che passarono dalla parte opposta
e cercarono di intorbidare le acque con la propaganda ruffiana di un connubio tra le finalità operaie socialiste
e le direttive del sinistrismo borghese massoneggiante, ma il grosso del movimento non si lasciò ingannare e i
socialgaribaldanti furono messi fuori a pedate.
     D'altra parte queste posizioni di elementare chiarezza non erano proprie dell'ala estremista del partito, ma
erano base comune ai socialisti tutti, anche a quelli di tendenze via via più moderate alla Serrati, alla Lazzari,
alla Treves, alla Turati, alla Modigliani.
     Mentre il proletariato italiano, attraverso la opposizione alla guerra 1914-18 e le grandi battaglie di classe
del dopoguerra, si portava sulle direttive più solidamente rivoluzionarie della Internazionale di Mosca, il suo
avversario di classe svolse con assoluta continuità la sua contro-azione che culminò nel fascismo,
generandola dal troncone dell'interventismo e del maggio radioso, in cui non a caso il segnale della guerra
D'Annunzio l'aveva lanciato dal garibaldino scoglio di Quarto, e le forze antisocialiste si ordinarono nei fasci
patriottici, di azione garibaldina e di combattimento dei Mussolini e dei Nenni.
     Se dunque i socialcomunisti nostrani di oggi sono partiti in battaglia avendo sulla bandiera la faccia di
Garibaldi, valgano i simboli quel che valgano, ciò conferma che essi continuano la linea storica dei disertori
della classe operaia e che, degni successori dei rifiuti che il movimento socialista seppe liquidare con
vergogna nel '12, nel '14, nel '15, nel '21, sempre più vanno volgendo le terga al marxismo rivoluzionario e
alla lotta di classe.
     Se è vero che il vecchio di Caprera, forte nell'azione ma assai poco ferrato nella dottrina politica, tanto da
meritare malgrado la simpatia dichiarata ai comunardi i non pochi e piuttosto atroci strali di Carlo Marx,
riprodotti a buon proposito dalla stampa antifrontista, fu tuttavia da tanto da antivedere nel socialismo la
forza viva dell'avvenire, questi marxisti nostrani sono scesi all'opposto tanto in basso da non sapere più che
cosa raccattare dal passato per farne la loro consegna. Nei loro giornali, insieme alla riesumazione di tutta
una ridicola paccottiglia quarantottesca e patriottarda, molto più risibile ancora di quella dei fasti romani del
littorio, si sono viste stampate a carattere cubitali frasi come queste: lottiamo per gli ideali dei nostri padri.
I quali nostri padri, logicamente, appunto perché liberali garibaldini mazziniani e sinistri alla carducciana
maniera, andavano su tutte le furie quando sentivano le enunciazioni marxiste e classiste della generazione
oggi anziana dei seguaci del socialismo.
     Al fine di fare gioco politico, d'acchiappar voti, di disturbare l'avversario e che so altro, a che
ricorreranno ancora i nostri «progressivi» in questo accelerato indietreggiamento attraverso la storia? Su

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quale consegna si farà una nuova campagna? Avendo sottratto Garibaldi ai borghesi, il prossimo capolavoro
strategico sarà forse di portar via a De Gasperi Tommaso d'Aquino o Ignazio di Loyola?
     La chiave della fiera contesa era evidente. Mentre i socialfrontisti si sforzavano di guadagnare voti negli
strati dei ceti medi continuando nella loro opera annosa di immergere il socialismo operaio in laghi di
scolorina, e si presentavano come nazionali patriottici legalitari pacifisti credenti e conformisti in tutti i sensi,
gli avversari, non meno ciarlatani e falsi, rendevano loro il segnalato servigio di restituire ad essi con
tonnellate di carta e miliardi di kilocicli - tutte le plastiche sono possibili al dollaro - la remota verginità di
rivoluzionari.
     I frontisti avevano tutto l'interesse ad accreditare tra le masse proletarie la frottola che la loro vittoria
avrebbe significato l'inizio della rivoluzione antiborghese in Italia, e sfruttavano a questo scopo, oltre la
diffusione di interne «capillari» menzogne, il pubblico clamore avversario, mentre dal canto loro cercavano,
con le contrapposte - e queste veritiere - affermazioni di aver tutto barattato del programma bolscevico e
dittatoriale, di aggiungere ai voti operai quelli di un largo strato di incerti e di anfibi, e ne assumevano nelle
loro liste alcuni ineffabili rappresentanti «indipendenti», reclutando i tipi più dimessi e spregevoli del pur
orripilante campo del personale politico italiano (e sarà interessante seguire in quale spazzaturaio finiranno
costoro). I socialcomunisti hanno gridato alla sopraffazione, perché la campagna della paura che tingeva di
rosso vivo il loro rosa ultrasudicio avrebbe portato loro via i milioni di voti necessari a vincere, spaventando
masse di elettori troppo timorati di Dio, dell'ordine e della proprietà. Ma le elezioni della paura hanno
invece aiutato proprio i «popolari» a barare, perché hanno mascherato agli occhi degli elettori proletari la
loro diserzione dalle tradizioni della lotta socialista e operaia in Italia, ed hanno fatto sì che i lavoratori, oltre
a credere ancora una volta disgraziatamente all'inganno della conquista democratica e schedaiola del potere,
abbiano ritenuto in larghe masse di agire contro la borghesia votando il fronte, visto che borghesi e preti tanto
gridavano ai pericoli di esso, alla certezza, se avesse vinto, della repubblica italiana dei Soviet!
     Questa sciocca denunzia del mezzo della paura, che è per sé stessa una abiura del testo fondamentale del
comunismo: «le classi dominanti ben possono tremare dinanzi ad una rivoluzione comunista» corona il
dispregio e di più l'ignoranza della storia della lotta di classe in Italia. Lo stesso «migliore», che passa per
polemista temuto nel pollaio italiota dei politici, lamentò in uno o più dei suoi discorsi che la borghesia
italiana avesse sempre usato questo mezzo di descrivere come spaventoso il movimento proletario, e citò le
elezioni amministrative del 1914 a Milano, in cui la lista capeggiata da socialisti moderatissimi alla Caldara o
Filippetti era presentata come Barbarossa alle porte di Milano. Ma la citazione era data al rovescio. Fu
l'«Avanti!» a salutare la vittoria in quella campagna, condotta sulla linea di una intransigenza antiborghese di
principio, coll'articolo: «Barbarossa padrone di Milano». Mussolini, per immaginifico a vuoto che sia stato in
molte fasi, potrebbe insegnare a questi signori che, volendo dare all'azione operaia un mito, si cerca non un
mito nazionale, ma uno antinazionale. Del resto molti di questi marxisti da Canzone di Legnano erano
interventisti prima che lo divenisse il futuro duce.
     Se d'altra parte essi avessero vinto, né Barbarossa né baffogrigio sarebbero calati in Italia. Non le conte
schedaiole determinano le situazioni, ma i fattori economici che si concretano in posizioni di forza, in
controlli inesorabili sulla produzione e il consumo, in polizie organizzate e stipendiate, in flotte incrocianti
nel mare di lor signori.
     Eletto chicchessia al governo della repubblica, non avrebbe altra scelta che rinunziare, o offrirsi in
servigio all'ingranamento di forze capitalistiche mondiali che maneggia lo Stato vassallo italiano. Quanto al
fare del «sabotaggio», è altra illusione su quello che è il compito dei portabandiera parlamentari. Sono le
sfere dell'affarismo borghese e delle alte magistrature militari e civili che possono a loro mercé sabotare i
politicanti portafogliati, e non viceversa.
     Il meccanismo elettorale è oggi caduto nel campo inesorabile del conformismo e della soggezione delle
masse alle influenze dei centri ad altissimo potenziale, così come i granelli di limatura di ferro si adagiano
docili secondo le linee di forza del campo magnetico. L'elettore non è legato ad una confessione ideologica
né ad una organizzazione di partito, ma alla suggestione del potere, e nella cabina non risolve certo i grandi
problemi della storia e della scienza sociale, ma novantanove volte su cento il solo che è alla sua portata: chi
vincerà? Così come fa il giocatore alla Sisal; e, di più, imbrocca meglio chi non ha nessuna competenza sulla
materia del gioco e mentisce alle sue stesse intime simpatie.

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Questo arduo problema di indovinare chi è il più forte lo affronta il candidato rispetto al governo, il
governante rispetto al campo internazionale. Lo affronta l'elettore rispetto al candidato che vota; cerca, non
reca, un appoggio personale nella difficile lotta di ogni giorno.
     Se si fosse saputo il 17 aprile che vinceva De Gasperi, invece del 50 per cento gli davano il 90 per cento
dei suffragi. A questo ci arrivava la dialettica dei frontisti, ed ogni argomento serio era superato e prostituito
dinanzi a quello massimo: Vinceremo! (E potremo pagare, coi soldi di Pantalone, galoppini, cagnotti e
graziosi sodali «indipendenti»). Mussolini non diceva altro, De Gasperi lo diceva e lo sta facendo senza
ritegno.
     Tutta la politica e la tattica degli avversari dei democristiani sono state disfattiste. La lunga pratica
dell'opportunismo dei capi delle organizzazioni dette di massa ha condotto ad una situazione in cui non è più
inseribile una avanzata progressiva, nella lotta sul terreno delle elezioni, di un partito che abbia un
programma ed un atteggiamento di opposizione di principio e che proclami agli elettori il rifiuto della
illusione che comunque per via democratica possano le classi sfruttate arrivare al potere.
     Oggi l'elezionismo è pensabile solo in funzione della promessa del potere, di lembi di potere.
     Questo è il risultato della malfamata tattica delle alleanze, dei blocchi, dei fronti unici. Esso è dimostrato
nel disfattismo non solo di ogni preparazione rivoluzionaria e di ogni forza classista, ma degli stessi scopi
contingenti che i frontisti italiani si pongono, chiamateli pure come volete, stalinisti moscoviti antiamericani
o altro.
     Questo metodo disgraziato ha portato più facilmente avanti De Gasperi e il suo partito, come avrebbe
portato quel qualunque attruppamento cui al capitale mondiale piacesse confidare il controllo in Italia. è
stupido piangerci.
     Si iniziò coll'indegno baratto di tutta la posizione classista della lotta proletaria nella consegna del «viva
la libertà» e della unità antifascista. Si passò per le tappe dei Comitati di Liberazione, dell'Esarchia, del
governo Tripartito, sempre lasciando credere ai lavoratori che, prese ipoteche su fette della cittadella del
potere, piano piano la borghesia capitalistica sarebbe stata spinta fuori dagli altri settori. Il processo invece
procedeva inesorabile in senso inverso.
     Rotto il tripartito e ridotto il fronte alla unità di azione tra i due partiti opportunisti, eredi abusivi dei
nomi di comunista e socialista, lo sfaldamento non fece che continuare. La parte di questo fronte informe che
poggia su ceti medi e su influenze borghesi, mano mano che decifra che la forza e il successo sono dalla parte
americana, si cala a gruppi successivi fuori bordo. Ne abbiamo viste nel passato di queste diserzioni in serie...
Il partito socialista che sembrava saldamente agganciato all'organismo filorusso cominciò collo scindersi una
prima volta. Fu vano gridare che si trattava di pochi capi, perché un paio di milioni di quei voti che facevano
venire l'acquolina in bocca ai maneggioni, e purtroppo a tanti e tanti ingenui, se ne andò con loro. Oggi si
annunzia un nuovo sfaldamento, e sul piano nazionale come su quello internazionale gli sfaldamenti seguono
inevitabili all'impiego vellutato di quei mezzi di feroce beneficenza che sono il piano Marshall, l'ERP e così
via: piegate le schiene e avrete qualcosa nello stomaco. Lo stomaco della grande massa lavoratrice ed
elettrice resterà allo stesso punto, ma non sarà così dei «quadri» passati a tempo dall'altra parte. Sembra che
anche le grinte più feroci con questo sistema si vadano spianando. E chi sa che non si finisca col vedere a
questi passi Barbarossa in persona!
     In questo quadro di disfatta, che non è in fondo che la disfatta dei traditori del proletariato, l'aspetto più
ripugnante è il ripiego su posizioni e dichiarazioni di sinistra e l'invocazione al marxismo, che si sentono
oltre frontiera e dentro frontiera e nel bailamme dello sbandarsi del partito socialista. Semiammutolito Nenni,
i tipi come Basso sono caratteristici esempi di questi marxisti a ritorni mestruali.
     Il nome di Marx e di Lenin e le loro tesi possenti, sulle labbra di quelli che ne hanno fatto inaudito
scempio, sono avviliti alla stessa funzione di imbonitura di tutte le altre mistiche ingannatrici. Il marxismo e
il leninismo non hanno codici o vangeli, la loro affermazione risiede nella continua, ininterrotta conferma del
metodo nel piano della interpretazione e in quello dell'azione. Invocati al momento dello sbaraglio nello stile
da sacrestani dell'ipse dixit, si abbassano allo stesso compito truffaldino che hanno i nomi dei santi sulle
bocche dei preti o quelli degli eroi nazionali sulle bocche dei patriottardi.
     Con uno schieramento delle forze della classe operaia al di fuori della tattica del fronte unico e popolare,
che rifuggisse da rivendicazioni antitetiche al programma proletario e da promesse di vittorie legali, che
avesse saputo disprezzare la illusoria conquista rappresentata dal riottenimento della facoltà democratica, ben

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altra posizione di resistenza avrebbero ora dinanzi a sé i piani di assoggettamento del capitalismo di
oltreoceano e le cricche di venduti arruolate dalla fosca libidine di amministrare i soccorsi.
     Invece l'imperialismo capitalistico, le classi privilegiate, gli stati maggiori dell'affarismo, la Chiesa, l'alta
burocrazia hanno campo libero in Italia.
     Poco li disturba il chiasso che riesce ancora a fare una opposizione battuta che non ha avuto una parola
contro il rastrellamento delle armi conservate dagli operai, che affigge manifesti con «Viva la Polizia!», che
sa solo invocare il rispetto della costituzione, che pone come obiettivo agli scioperi ammaestrati
rivendicazioni così audaci come la concessione di qualche posto nel gabinetto agli onorevoli del fronte
popolare, e, se offerto, avrebbe la suprema viltà di accettarlo rimettendo la sordina a Marx non solo, ma
anche all'ombra pallida che si va farisaicamente rievocando di Giordano Bruno.
     La democrazia sorta dall'abbattimento del fascismo impegnò a quell'obiettivo le forze operaie
promettendo che, vinta la reazione, avrebbe avanzato a ritmo progressivo. Ma noi le contestiamo di essere un
progresso rispetto al fascismo, e anche se incedesse travolgente, neghiamo che con essa avanzerebbe la causa
della rivoluzione proletaria e del comunismo. Comunque essa tradisce la sua stessa promessa: ognuno può
senza ardui sforzi teoretici constatare il senso trionfalmente progressivo della situazione in Italia; bilancio di
cinquant'anni di peste bloccarda: la chierica avanza, il fronte rincula.

                                                               PROMETEO N. 10 del giugno 1948

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