"SCANDALO" DATAGATE : L'INTELLIGENCE E L'ETICA CHE NON C'E'
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www.invisible-dog.com invisibledog@email.com "SCANDALO" DATAGATE : L'INTELLIGENCE E L'ETICA CHE NON C'E' Nel mondo dell'Intelligence non esistono limiti o etica che possa condizionarne l'operato. Appare quindi alquanto superfluo porre una discriminante tra cio' che e' considerato giusto o corretto e cio' che invece non lo e'. I Servizi di Informazione operano nell'interesse della tutela della sicurezza nazionale di un Paese. A fronte di questo obiettivo, e' lecito tutto ed il suo contrario. Non esistono regole, non esistono limiti. Al riguardo basterebbe ricordare il caso della spia Jonathan Jay Pollard, scoperto nel 1985 mentre trafugava i segreti americani per conto di Israele. La cooperazione su cui si basano le relazioni bilaterali o multilaterali fra Servizi sono sempre il frutto, magari pro-tempore, di interessi nazionali convergenti. Matrimoni di interesse, ma mai d'amore. Cio' non toglie che alcuni Servizi siano piu' legati e quindi piu' cooperativi tra loro rispetto ad altre organizzazioni similari. Ma, a fattor comune, anche quando prevale la cooperazione, questa avviene quasi sempre in un contesto di diffidenza. Perche' esiste l'informazione ed esiste anche la disinformazione. Perche' a volte quelli che un Paese etichetta come terroristi sono, per altre nazioni, dei patrioti, l'eliminazione di un personaggio puo' diventare un assassinio o legittima difesa, il tradimento dell'uno puo' diventare patriottismo per altri. Questo e' un mondo grigio, dove non e' importante quello che e' giusto o sbagliato, ma quello che fa comodo. Nel mondo delle spie ci sono pero' due settori considerati a piu' alto livello di segretezza e quindi difficilmente oggetto di condivisione con altri: i sistemi di crittazione e decrittazione e l'attivita' di intercettazione. La crittazione di un messaggio, notizia o informazione che sia, impedisce ad altri di conoscerne il contenuto. Nessun Servizio dice mai ad altri Servizi cosa o come fa in uno specifico settore. Ne andrebbe della propria sicurezza, verrebbero scoperte fonti e contatti, divulgate valutazioni o intenzioni, circostanze operative, dispositivi e quant'altro di delicato caratterizza l'attivita' di un Servizio. Piu' sofisticato e' il sistema di crittazione, piu' la comunicazione e' protetta, piu' difficile e' decrittarla. E abbinata all'attivita' difensiva della protezione delle comunicazioni, c'e' sempre un'attivita' offensiva che e' quella di riuscire a decrittare quello che gli altri inviano. Chi ci riesce non lo dice mai agli altri. Silenziosamente intercetta i messaggi, li decritta e viene cosi' a conoscenza di cose che altri Paesi vorrebbero nascondere. Un po' come il motto dell'AISE: "Arcana Intellego". Una realta' che molti non conoscono e' che tutte le emissioni elettroniche e radio che si muovono nell'aria sono sistematicamente intercettate. O, almeno, sono potenziale oggetto
di intercettazione. Questi sono quei settori tecnicamente identificati come "SIGINT" (Signal Intelligence) ed "ELINT" (Electronic Intelligence). Comparti sviluppati da tutti i Servizi di Informazione. Per quanto riguarda il contesto italiano, l'attivita' di crittazione (leggasi anche fornitura dei sistemi e modalita' cifranti a tutti gli apparati dello Stato) e decrittazione sono di competenza dell'A.I.S.E.. La legge 124 del 2007 assegna sempre all'AISE le competenze SIGINT (ovviamente in proiezione estera e non sul territorio nazionale). Ma veniamo all'oggetto del contendere: un tecnico che lavorava per la National Security Agency americana, Edward Snowden, ha recentemente divulgato la notizia che l'organismo per cui operava intercetta tutto, cittadini americani e stranieri, amici e nemici, alleati e non, sedi diplomatiche e membri di organizzazioni internazionali. E lo fa in modo sistematico e massivo, come le sue capacita' tecniche e umane gli permettono. Da li' lo scandalo. I Paesi oggetto delle attenzioni americane si ribellano. Si chiedono spiegazioni. Ci si accorge improvvisamente che le ambasciate di molti Paesi sul territorio americano, Italia compresa, sono state oggetto di spionaggio. Altrettanto e' avvenuto per alcune rappresentanze e delegazioni all'ONU. Viene poi fuori che anche le strutture dell'Unione Europea erano sotto stretto monitoraggio. La diatriba ha preso subito risvolti politici. Alcuni Paesi hanno manifestato sdegno, come se fossero stati traditi o feriti nell'orgolio di chi si riteneva un alleato affidabile. Ma, occorre dirlo, in tutto questo ci sono ampie dosi di ipocrisia. In qualunque parte del mondo le ambasciate dei Paesi stranieri sono oggetto di interesse informativo. Le loro sedi vengono vigiliate, il loro traffico di comunicazioni sistematicamente intercettato e, laddove possibile, all'interno di queste strutture si cercano e si pagano informatori. Quindi, in ultima analisi, si sta parlando di una prassi operativa largamente utilizzata nel campo del controspionaggio. Si puo' eventualmente obiettare sul fatto che l'attivita' di intercettazione e monitoraggio americana sia stata cosi' fortemente dedicata anche a Paesi politicamente considerati amici. Quindi - anche se su questo Snowden non si e' ancora sbilanciato - si puo' immaginare quale tipo di attivita' sia oggi in atto verso i Paesi ostili. E' su quest'ultimo argomento che il tecnico americano probabilmente si giochera' il proprio futuro acquisendo le benemerenze in primis dell'S.v.r., "Služba vnešnej razvedki" , il Servizio di intelligence internazionale russo erede del KGB. La National Security Agency, dall'11 Settembre 2001 in poi, ha beneficiato di una enorme crescita, in termini di finanziamenti (circa 5 miliardi di dollari di incrementi annuali), di personale (si stima che oggi lavorino per l'Agenzia dai 50 ai 60.000 tecnici, a cui vanno aggiunti i contractors di societa' esterne come Snowden) e di importanza nella Intelligence Community americana (dove oggi svolge un ruolo primario). La NSA si interessa di crittazione, decrittazione, SIGINT ed ELINT che, come abbiamo detto, sono gli aspetti piu' delicati di un'attivita' informativa. E se prima aveva un'unica sede centrale a Fort Meade
nel Maryland, la NSA ha adesso altre sedi operative a San Antonio (Texas), Denver (Colorado), Salt Lake City (Utah), Kunia (Hawaii) e Fort Gordon (Georgia). Ma il cosiddetto scandalo "Datagate" e' legato anche al fatto che la N.S.A., insieme ad altre Agenzie di altri Paesi, e' parte centrale di un sistema di intercettazioni (satellitari, radar, radio, telefoniche, internet etc.) a livello mondiale dove niente passa inosservato. La componente nota come "Echelon" e' in grado di intercettare comunicazioni radio, elettroniche, ma anche telefoniche. La struttura principale e' ad Harrogate, nello Yorkshire nel Regno Unito. Vi sono poi dei centri di ascolto a Sugar Grove (Virginia) e Yakima (Washington). A queste strutture principali si aggiungono altri centri di ascolto in tutto il mondo dedicati a monitoraggi regionali, come molto probabilmente anche l'erigendo centro radar di Sigonella alle dipendenze formali della Marina Militare statunitense e che proietta i suoi interessi verso il Medio Oriente. Al citato programma "Echelon" hanno aderito a suo tempo, accanto alla N.S.A., anche altri Paesi e relative Agenzie: il "Governement Communications Headquarters" inglese, il "Government Communications Security Bureau" neozelandese, il "Defence Signal Directorate" australiano ed il "Communications Security Establishment" canadese. Tutti questi Paesi, non casualmente anglofoni e fortemente radicati nel piu' stretto circolo delle alleanze americane, sono quindi comprimari ed ovviamente beneficiari di quanto viene captato nel mondo delle intercettazioni. Per onore di giustizia quindi si potrebbe quindi obiettare che quanto fatto dalla NSA contro ONU e sedi diplomatiche, Unione Europea e Banca centrale Europea, metta sul banco degli imputati non soltanto gli americani, ma anche gli altri comprimari del progetto Echelon. Ed e' un dato incontrovertibile che in questa levata di scudi contro le ossessive curiosita' di intelligence di Washington i sopramenzionati Paesi (vedasi soprattutto l'Inghilterra) sono oggi particolarmente silenti. Il problema piu' grave e' che questa condivisione di dati di intelligence sensibili, derivanti da intercettazioni piu' o meno giustificate (il termine "lecite" non risulta appropriato), nel tempo si e' tramutato in una corsia preferenziale di cooperazione fra intelligence. Una specie di club ristretto al quale altri Servizi, altrettanto qualificati, non hanno accesso. L'effetto piu' devastante di questo "conventio ad excludendum" e' stato durante la guerra in Iraq. Dal 2003 in poi esistevano infatti due accessi ai dati informativi di intelligence su due terminali distinti: uno per i Paesi Echelon ed un altro per tutto il resto dei reparti che combattevano a fianco degli americani. Come se la guerra ed i rischi ad essa correlati permettesse questa distinzione nella condivisione di notizie. E molte volte e' anche emerso che notizie di interesse primario per la sicurezza del contingente di un Paese non siano pervenute agli aventi causa, ovvero siano pervenute con ritardo perche' circolanti in questo circuito riservato. Paesi come l'Italia o la Francia non si sono lamentati di questo sistema discriminante in un contesto di guerra, di questa vergogna comportamentale, e cosi' facendo hanno peggiorato le condizioni di sicurezza dei propri soldati in quel Paese. Per accentuare
quanto fosse essenziale il flusso di notizie su questo canale basti pensare che in Iraq la copertura telefonica delle comunicazioni del Paese avvenivano allora attraverso un sistema di connettivita' americano. In pratica, quindi, tutto quello che veniva detto era automaticamente intercettato, ascoltato e tramutato in informazioni operative. Come si puo' immaginare c'e' una forte differenza tra un accesso sistematico a notizie di interesse attuato in un contesto di guerra politica, commerciale o finanziaria (condivise poi in modo selettivo) e quello che invece dovrebbe avvenire automaticamente tra cosiddetti amici in un contesto di guerra guerreggiata. Quello che e' venuto alla luce con la fuga e le rivelazioni di Snowden e' solo la punta dell'iceberg di un sistema di intelligence intrusivo sulla rete internet - il cosiddetto PRISM - che sicuramente oggi e' ancora piu' diffuso di quello che si pensi. Presto ci si accorgera' che tutti i piu' grandi motori di ricerca forniscono con continuita', soprattutto agli U.S.A., dati sugli utenti del mondo, permettendo di spiare su contatti, email, telefonate e qualsivoglia tipo di comunicazione di ogni persona, sia essa americana o cinese o europea. Ogni Paese lo fa nel proprio ambito. Lo fa l'Italia con un decreto governativo approvato dal governo Monti. Lo fa la Francia al suo interno. Alcuni accordi mettono in cooperazione gli Stati Uniti con singoli Enti Nazionali. L'unica variante e' che gli americani lo fanno anche in casa altrui. Nessuno pone oggi l'attenzione sul fatto che a Fort Meade, dove ha la sede principale la National Security Agency del Gen. Keith B. Alexander, si sta adesso creando una task force dove opereranno altri 10-15.000 uomini con una grossa disponibilita' finanziaria. Si parla di cyber war che in questo caso significa non solo disturbare i sistemi altrui, ma soprattutto conoscere quello che circola nei sistemi informatici altrui. Gli obiettivi: tutti. Senza distinzione di amici o nemici. Ne riparleremo presto.
L'ENIGMA AMERICANO PER LA SIRIA Sulla Siria il Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, aveva fissato una cosiddetta "red line", una linea rossa che non poteva essere superata e che era costituita dall'eventuale utilizzo di agenti chimici da parte del regime siriano nel combattere la ribellione. Dopo vari distinguo, presunte verifiche, pressioni internazionali e conferme da fonti giornalistiche, questa "red line" sembra essere stata oltrepassata. La diretta conseguenza di questa circostanza postulava che gli Stati Uniti sarebbero intervenuti contro Damasco. Ma dalle prime mosse dell'Amministrazione Obama appare invece emergere un atteggiamento alquanto circospetto su quello che gli Usa intendono fare o dare per aiutare le forze ribelli a vincere contro i lealisti di Bashar al Assad. Esclusa, per questioni tecniche, l'applicazione di una no-fly zone sulla parte settentrionale della Siria, rimangono sul piano operativo solo due altre opzioni: la fornitura di armi ai ribelli e/o il sostegno diretto tramite all'apporto di truppe straniere al fianco della ribellione. L'imposizione di una no-fly zone implicherebbe la previa distruzione del sistema di difesa aerea siriano affinche' non costituisca un pericolo per i voli delle forze coinvolte nel provvedimento. Questo determinerebbe quindi un iniziale bombardamento delle postazioni radar e missilistiche asservite alla specifica difesa, nonche' un danneggiamento del sistema di comando e controllo avversario. Il sostegno diretto ai ribelli ed un loro affiancamento sul terreno, per ovvi motivi pratici, richiederebbe anch'esso il coinvolgimento diretto americano presentando aspetti di pericolosita' molto ampi. Un intervento armato postula inoltre la discesa in campo anche di altri Paesi (e sul mercato non ce ne sono). Quindi , obtorto collo, alla fine e' rimasta sul terreno una sola opzione : dare armi ai ribelli. La ritrosia americana ad un coinvolgimento diretto contro il regime di Bashar Assad non e' stata determinata dall'opposizione russa ad ogni intervento militare esterno nelle vicende siriane, ma da considerazioni di politica estera americana. Un intervento militare avrebbe smentito le linee di politica estera del Presidente Obama, dedicate ad un'uscita militare da teatri operativi come l'Iraq e l'Afghanistan dove le difficolta' ed i costi sono stati superiori ai guadagni. Nel contempo, un'azione armata avrebbe potuto determinare un risultato finale - come avvenuto poi in Libia - contrario agli interessi americani. La ritrosia si e' quindi trasformata in prudenza e la prudenza in misure pratiche risibili. In primo luogo sono emerse grosse difficolta' nel fornire armi ai ribelli perche' non tutti i gruppi che combattono Bashar al Assad sono "affidabili" e quindi idonei ad esser sostenuti dagli americani. Ci sono, infatti, gruppi come il Jabath al Nusra vicini ad Al Qaeda, ci sono fazioni integraliste a diverso livello di pericolosita' sociale ed quindi e' necessario capire, da parte di Washington, a chi conviene dare le armi e a chi no. Il problema di per se' non e' semplice perche' la variegata articolazione delle forze ribelli rende difficile ogni scelta. Inoltre, non e' neanche assicurato che le armi date ad un gruppo "affidabile" non vadano poi nelle disponibilita' di un gruppo "non affidabile". Nell'immaginario americano e' ancora presente quanto successo in Afghanistan, quando gli Stinger consegnati ai Mujahedin per combattere contro i sovietici sono poi finiti nelle mani delle frange terroristiche.
Il secondo problema e' relativo al tipo di armi da dare ai ribelli: diamo ai ribelli armi efficienti, soprattutto sistemi anti-aerei, come il teatro operativo e le esigenze dei ribelli impongono o ci si dobbiamo limitare a forniture di facciata, passando quindi da un supporto pratico ed operativo a un gesto soprattutto politico? E' evidente che se gli americani non sono sicuri di quale fine faranno le armi, si indirizzeranno verso forniture operativamente minimali. In un contesto come il Medio Oriente gia' pieno di armi, alimentare ulteriormente il mercato appare alquanto problematico. A tutto questo si aggiunge un altro problema da risolvere: sia il regime alawita che i ribelli utilizzano soprattutto armamenti provenienti dall'ex patto di Varsavia (oggi Paesi dell'est) e Russia (ieri Unione Sovietica). Quindi, anche per rendere piu' pratiche le linee di approvvigionamento logistico (ed anche perche' le armi dei lealisti possono essere catturate e poi utilizzate dalla controparte) e' bene che ai ribelli si continuino a dare forniture provenienti da quella parte di mondo. Questo implica che gli Stati Uniti si dovranno approvvigionare sul libero mercato entrando quindi in collisione, non solo politica ma anche pratica, con la Russia. Infine, nel risiko delle scelte americane si e' adesso frapposto un ultimo ostacolo: la Turchia. Ankara si rifiuta di consentire il transito di armi verso i ribelli. E' una scelta di Recep Tayyip Erdogan che il premier turco ha comunicato telefonicamente a Barack Obama il 19 giugno 2013. Perche' questo repentino cambio di posizione da parte della Turchia dopo aver dato a lungo ospitalita' all'opposizione siriana ed ai relativi comandi militari? I motivi sono di vario ordine e sono tra loro correlati. In primis, la Turchia e' diventata anch'essa obiettivo di attentati che denotano l'esportazione dell'instabilita' siriana sul proprio territorio (basti pensare all'attentato dell'11 maggio 2013 a Reyhanli con 53 morti). Il transito di armi verso i ribelli e la circolazione di gruppi armati da e verso la Siria non sono certo elementi che possono migliorare la sicurezza del Paese. Al quadro di instabilita' regionale si sono aggiunti e saldati anche questioni interne legate all'arroganza politica di Erdogan e del suo partito islamico. La diatriba tra il premier turco e il mondo occidentale e' stata innescata dalla critiche sull'operato del governo turco nei confronti delle proteste popolari, cosi' come e' stata messa sotto accusa la polizia ed i suoi modi brutali di repressione. Tutto questo non e' stato gradito ed ha creato una divergenza di posizioni, interessi e affinita' tra le autorita' turche e quella parte di mondo che sostiene la ribellione siriana. Recep Erdogan si e' sentito tradito e abbandonato ed ha, ancora una volta, re-indirizzato la propria politica estera in chiave neo-ottomana: maggiore distanza dal mondo europeo e dalle sue ossessive richieste di tutela dei diritti umani, maggiore attenzione alle problematiche arabe e regionali, perseguimento di una politica piu' equidistante dalla NATO. Anche perche' il casus belli della protesta popolare e' nato dalla volonta' dell'AKP di introdurre misure sociali condizionate dai precetti islamici in una societa' sostanzialmente laica e occidentalizzata. L'allontanamento dall'Occidente marca quindi ancora piu' questa diversita' dai connotati religiosi. Il premier turco e' anche preoccupato dalle vicende interne della Siria. La riconquista da parte dei lealisti della citta' di Qusayr certifica che il regime di Bashar al Assad e' ben
lontano dal collasso militare. La nemesi della ribellione siriana non ha ancora un finale ineludibile. Con l'apertura a Ginevra dei tentativi di mediazione e dei negoziati e' quindi oggi piu' saggio e prudente per la Turchia di mantenere un profilo piu' equidistante sulle questioni siriane. Del resto Erdogan non e' nuovo ad atteggiamenti preclusivi verso gli Stati Uniti. Anche nel 2003 aveva rifiutato agli americani l'apertura di un fronte armato nel nord dell'Iraq. Quali che siano le motivazioni politiche o pratiche dell'atteggiamento turco, rimane il fatto che oggi Washington ha un ulteriore problema da affrontare: quello di come fare arrivare le armi ai ribelli. Esclusi il Libano e l'Iraq per motivi di ordine pratico, escluso Israele per motivi di ordine politico, l'unica opzione per fare arrivare armi ai siriani e' quella giordana. Ed e' infatti li' che si stanno concentrando gli sforzi americani. Tuttavia, l'afflusso di armi dal sud della Siria penalizza il rifornimento al fronte nord della ribellione che, dopo la caduta di Qusayr, si e' visto precludere le forniture dei sunniti libanesi. In un prossimo futuro in cui si prefigura un combattimento per la supremazia in Aleppo e dintorni (dove sono gia' confluiti nell'area reparti Hezbollah, milizie sciite irachene e Basiji iraniani), l'afflusso di armi dal sud diventa problematico per i rifornimenti dei ribelli. La Giordania pone pero' diversi problemi logistici. Ha un solo attracco mercantile ad Aqaba (a fronte dei vari porti turchi). Non ha sul proprio territorio basi aeree o infrastrutture logistiche NATO (come invece avviene in Turchia). Quindi, sul piano pratico, e' meno funzionale non solo per la consegna di rifornimenti diretti in Siria, ma anche per l'afflusso di armi dall'estero. Re Abdallah guida una nazione da sempre gravitante nella sfera occidentale. Il suo Paese - privo di risorse significative - vive sistematicamente di aiuti internazionali e quindi l'asservimento agli interessi strategici americani e' un fatto scontato e gradito (perche' foriero di maggiori prebende future). Non e' un caso infatti che in Giordania fossero gia' presenti campi di addestramento di ribelli siriani con istruttori americani. Gli Stati Uniti, probabilmente per dare almeno un segnale piu' simbolico che pratico di risolutezza, hanno fatto confluire altri 700 militari in Giordania che si sono aggiunti ai 300 che dallo scorso anno soggiornano nel regno hashemita. Lo hanno fatto a cavallo delle esercitazioni congiunte che annualmente si tengono con Amman e che sono state poi interrotte proprio per la gravita' del momento. Insieme al contingente terrestre, sono adesso dislocate in Giordania 2 batterie di missili Patriots (anti-missile) con relativi equipaggi e supporti logistici ed una ventina di aeri caccia F-16, anch'essi venuti per le esercitazioni congiunte e non piu' fatti rientrare. Nel loro insieme le iniziative militari americane hanno un valore piu' difensivo che offensivo e, se volessiamo valutare meglio il loro impatto, indicano che gli Stati Uniti non sono intenzionati ad intervenire direttamente sul territorio siriano. Piu' che una minaccia per il regime alawita, costituiscono per Damasco una conferma del poter operare risolutamente contro i ribelli, magari dosando con prudenza l'utilizzo degli aggressivi chimici, e niente piu'. Nel mezzo della diatriba sul se intervenire o no in Siria c'e' anche il problema dei missili S- 300 che la Russia intenderebbe consegnare alle autorita' di Damasco. In una dichiarazione pubblica il 20 giugno 2013, il Ministro degli esteri russo Sergey Lavrov
avrebbe confermato l'intenzione di dare seguito alla fornitura. Anche questo e' un segnale da parte di Mosca che non intende lasciare agli americani mano libera sulla scacchiera mediorientale. Direttamente o indirettamente, la questione siriana e' diventata adesso un gioco ad alto contenuto strategico. Una guerra di nervi - tratteggiata da minacce alternate a profferte di mediazione o dialogo - nel tentativo di egemonizzare l'area mediorientale che rimane strategicamente importante finche' le sue risorse petrolifere saranno essenziali. E se nel campo delle minacce vengono a mancare i fondamentali che le rendano credibili, allora si lascia spazio a negoziati nell'apparente obiettivo di trovare una soluzione mediata alla crisi. Il "Ginevra 1" nasceva nel giugno 2012 quando un gruppo di sostegno alla Siria (composto da membri del Consiglio di Sicurezza dell'ONU e da rappresentanti regionali) formulava l'ipotesi di creare un Governo di transizione nel Paese. Adesso siamo al "Ginevra 2" (una conferenza di cui non e' stata stabilita ancora una data di inizio) e ai colloqui informali durante il summit del G-8 in Irlanda del Nord nel giugno 2013. Ma piu' prende spazio un iter negoziale, anche se probabilmente inconcludente e retorico, piu' si allontana l'ipotesi che nelle vicende siriane gli Stati Uniti o altri attori internazionali possano sentire la necessita' di un coinvolgimento diretto. Ed allora ecco che nel dibattito interno americano sul a chi dare quali armi e come farle arrivare ai ribelli si utilizzano formule semantiche asservite ad un approccio diplomatico empirico e vago che salvi le apparenze mascherando la riluttanza di Barack Obama ad intervenire in Siria. Oggi i termini del negoziato sono gli stessi di ieri: l'impegno di porre fine alla guerra civile, l'obiettivo di creare un governo di transizione, l'impegno a fornire 1,5 miliardi di dollari in aiuti umanitari, l'obbligo dei partecipanti ai negoziati di rispettare gli accordi raggiunti, la volonta' di cacciare dal Paese terroristi ed estremisti, una forte condanna all'utilizzo di armi chimiche. Nel mentre Bashar al Assad rimane al potere, le efferatezze della guerra continuano, i "terroristi" e gli "estremisti" (non meglio identificati da che parte della barricata si trovino) continuano a spadroneggiare nel Paese, le armi chimiche - quelle che tutti negano di aver utilizzato - molto presto faranno probabilmente la loro ricomparsa sul terreno.
GLI “STAN COUNTRIES” ED IL RIFORNIMENTO DI RISORSE ENERGETICHE Sono definiti “Stan Countries” (“stan” è un suffisso, in lingua persiana, che sta per ”luogo dei… o degli..”; è preceduto dall’indicazione di una razza o di un’etnia: ad esempio, Tagikistan è “il luogo dei Tagiki”) i seguenti Paesi che negli anni 1924-1925 si costituirono come “Repubbliche Socialiste Sovietiche” (R.S.S.) e che, nell’ambito dell’Unione Sovietica (nata il 31 dicembre 1922), ne seguirono le vicende storiche per 69 anni (fino al 25 dicembre 1991, la data appunto della “implosione” dell’Unione Sovietica): - Kazakistan (capitale Astana), 16 milioni di abitanti; - Turkmenistan (capitale Asgabat), 5 milioni; - Uzbekistan (capitale Tashkent), 27 milioni; - Kirghizistan (capitale Bishkek), 5,5 milioni; - Tagikistan (capitale Dushanbe), 7,5 milioni. Gli “Stan Countries”, con il Caucaso, costituiscono per la Russia due importanti aree strategiche dell’Asia Centrale. L’Unione Sovietica, prima dell’implosione (ovvero durante la “Guerra Fredda”) era costituita da 15 Repubbliche: le quattro Repubbliche “fondatrici”: le R.S.F.S. di Russia, Ucraina, Bielorussia e Transcaucasia (quest’ultima nel 1936 si sciolse, originando le tre R.S.S. di Georgia, Azerbaigian e Armenia); le cinque “Stan Countries”; la Moldova; le tre Repubbliche Baltiche (Estonia, Lettonia, Lituania). Da considerare, in questo contesto, anche i “Paesi satelliti” dell’Europa orientale, agganciati all’Unione Sovietica con il Patto di Varsavia (14 maggio 1955). Dopo il periodo della “Guerra Fredda” e della “Perestroika” (ristrutturazione) di Mikhail Gorbaciov (Gorbaciov si dimise nel dicembre 1991) e dopo il decennio di leadership di Boris Eltsin, il potere in Russia è passato a Vladimir Putin che, a partire dal 2000 (ma già, in precedenza), ha cercato attraverso “legittime” elezioni di recuperare la dignità della Federazione Russa in un contesto politico caratterizzato da contrasti interni e internazionali. Per quanto d’interesse per il tema in esame, si fa riferimento soprattutto alle due aree strategiche dell’Asia Centrale (già menzionate) del Caucaso e degli “Stan Countries”. In particolare: a. il Caucaso del dopo-Unione Sovietica risultò diviso dalla displuviale della catena montuosa omonima in Caucaso settentrionale, appartenente alla Russia, e Caucaso meridionale degli Stati indipendenti di Georgia, Armenia e Azerbaigian. Da tener presente che, oltre ai problemi di appartenenza etnica (vedasi, ad esempio, quello degli “osseti” divisi tra Russia e Georgia) sussistono interessi economici da parte
della Russia (le risorse energetiche ed il relativo centro di smistamento delle stesse di Baku, capitale dell’Azerbaigian, verso l’Europa) tanto da privilegiare, in un certo senso, l’Azerbaigian a maggioranza musulmana rispetto all’Armenia, quand’anche quest’ultima sia, come Mosca, a maggioranza cristiano-ortodossa. Non trascurabile altresì il conflitto ormai storico del Nagorno-Karabakh, una regione a prevalenza armena chiusa (in quanto “enclave”) in territorio azero. b. gli “Stan Countries” sono stati “corteggiati” – e lo sono tuttora – dalla Russia per le loro risorse energetiche e questo anche attraverso alleanze di cooperazione militare e di sicurezza. Ma questi Paesi preferiscono una “gestione in proprio” delle loro risorse. Per introdurre il problema delle risorse energetiche russe, un breve cenno sulle forniture (gas e petrolio) all’Italia e a quella che spesso viene definita la “guerra del gas”, sulla base dei dati al momento disponibili: - produzione annua : 13 miliardi di mc; - fabbisogno annuo : 81 miliardi di mc. L’Italia, in sintesi, importa 68 miliardi di mc di gas dai seguenti Paesi (dati del 2011): - Russia (gasdotto TransAustriaGas-TAG): 24 mld; - Olanda/Norvegia (gasdotto Transitgas): 16 mld; - Algeria (gasdotto Transmed): 20 mld; - Libia (gasdotto “Green Stream”): 8 mld. Si ritiene d’interesse aggiungere che l’Italia ha recentemente sottoscritto un accordo con l’Azerbaigian che prevede la fornitura di gas dal giacimento azero “Shah Deniz II” di 10 mld di mc gas l’anno attraverso il gasdotto Trans Adriatic Pipeline (TAP), fornitura estendibile a 20 mld di mc. Il gasdotto TAP, attraverso la Grecia, l’Albania e il Mare Adriatico, raggiunge le coste del Salento: l’Italia diventa così la porta d’ingresso del gas caucasico in Europa. I rifornimenti di gas ai Paesi europei peraltro “preoccupano” a vario titolo: - eccessiva dipendenza dei Paesi europei dalla Russia, secondo gli Stati Uniti; - controversia, in questo settore, Russia/Ucraina (quest’ultima è proprietaria delle “tubazioni” che insistono sul proprio territorio; ha ceduto peraltro in affitto alla Russia basi militari tra le quali la ben nota Sebastopoli, in cambio di facilitazioni sulla bolletta del gas che la Russia fornisce all’Ucraina). La Russia, da parte sua, tende a ridurre l’importo della facilitazione portando il prezzo del gas (per l’Ucraina) verso quello di mercato; sta tentando inoltre il completamento e la messa in esercizio di due gasdotti per l’aggiramento dell’Ucraina – “North Stream” e “South
Stream”. In merito è anche da considerare un terzo gasdotto, attraverso la penisola anatolica, voluto dagli Stati Uniti in contrapposizione al “monopolio” russo nella regione – il famoso “Nabucco – ma sussistono difficoltà nel reperimento di giacimenti per l’alimentazione, in relazione alla forte concorrenza della Cina, “assetata” di risorse energetiche; - i giacimenti dell’Oceano Artico (sussistono al riguardo contrasti sull’appartenenza delle risorse in questione tra i Paesi che si affacciano sul Circolo Polare); - ingerenze varie nel controllo di altri giacimenti, specie di quelli di più recente “scoperta” (concorrenza Francia/Italia per i giacimenti libici; contrasti Israele/Turchia per i due giacimenti del Mediterraneo orientale “Afrodite” e “Leviatano”; accordi sotto-banco ecc…). Sulla base dei contrasti evidenziati, la Russia cerca “spazio” anche nei giacimenti dell’Asia Centrale e non “disdegna” accordi con i Paesi “Stan”, specie quelli più fortunati in fatto di risorse energetiche (petrolio, gas e quant’altro), come evidenziato nel prospetto a seguito: “STAN GAS PETROLIO URANIO ENERGIA COUNTRIES” ELETTRICA mc 1000 t t kwh Kazakistan 20,2 mld 76069,8 17803 68494 (16 mln) (te)* Turkmenistan 59,5 mld 8887,2 / 14720 (5 mln) (i)** Uzbekistan 62,9 mld 1853,4 2400 38183 (27 mln) (te) Kirghizistan 12,5 mln 49,9 / 10633 (5,5 mln) (i) Tagikistan 40 mln / / 15971 (7,5 mln) (i) * te = impianti termici ** i = impianti idroelettrici
Dal prospetto di cui sopra risulta quanto segue: - la produzione annua di gas dei primi tre Paesi “stan” è indicata in miliardi di metri cubi (mc): possibilità pertanto di esportazione; per i rimanenti due Paesi, la produzione è in milioni, insufficiente anche per il solo fabbisogno “domestico”; - per la produzione di petrolio, analoga situazione; - per la produzione di energia elettrica, per contro, è significativa quella di tre Paesi (Turkmenistan, Kirghizistan e Tagikistan) che si avvalgono di centrali idroelettriche, in quanto a corto di risorse energetiche sono agevolati dalla posizione geografica (in vicinanza delle grandi catene montuose e dei ghiacciai). Gli altri due Paesi fanno ricorso alle risorse energetiche (gas e greggio di cui dispongono a sufficienza) utilizzando centrali termiche per la produzione di energia elettrica.
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