Leggere dante oggi Interpretare, commentare, tradurre alle soglie del settecentesimo anniversario a cura di Éva Vígh

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ACCADEMIA D’UNGHERIA IN ROMA
ISTITUTO STORICO «FRAKNÓI»

leggere dante oggi
  Interpretare, commentare, tradurre alle soglie
         del settecentesimo anniversario

             Atti del Convegno Internazionale
                    24–26 Giugno 2010

             Accademia d’Ungheria in Roma

                      a cura di
                      Éva Vígh
Pubblicato con il sostegno della

Pubblicato da
Accademia d’Ungheria in Roma – Istituto Storico «Fraknói»

A cura di Éva Vígh

In copertina: miniatura tratta dalla riproduzione fotografica del Codex Itali-
cus I (Biblioteca Universitaria di Budapest) di Dante Alighieri, Commedia,
edita dall’Università di Szeged e dall’Università di Verona, Verona, 2006.

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                              (06) 93781065

                        isbn 978–88–548–3962–5

           I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
              di riproduzione e di adattamento anche parziale,
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                          I edizione: marzo 2011
Indice

5        Éva Vígh: Premessa

7        Giuseppe Frasso: Prolusione. Dante dall’Arno al Danubio

I. COMMENTO, INTERPRETAZIONE, LETTURA
                                                                                3
17       Franco Suitner: Dante narratore, a confronto con l’Europa
27       Zoltán Csehy: “Quid pater Appenninus hiat?” Contaminazione di
         di generi nella Bucolica di Dante
35       Luigi Tassoni: La narrazione del Convivio
47       József Pál: Grazia e missione nella Commedia e nel Faust
61       Maria Maślanka–Soro: Il disio dei filosofi antichi, la sapienza
         umana e il mistero della redenzione nel canto di Manfredi
73       Bortolo Martinelli: Dante. Dal ‘vetus Infernus’ al ‘novus Infernus’
85       Saverio Bellomo: Per un nuovo commento alla Commedia
97       János Kelemen: Sull’asimmetria tra le affermazioni filologiche e
         quelle ermeneutiche
103      Kornélia Horváth: Osservazioni a margine della poetica dantesca
         nella Vita Nuova
111      Antonio Lanza: Il Dante di Guglielmo Gorni
121      Giorgio Inglese: Esperienze di un commentatore’dell’Inferno dantesco
131      Béla Hoffmann: Complicanze semantiche nel canto dei simoniaci
141      Unn Falkeid: Da libido dominandi a libido servandi. Il Paradiso vi
         letto nella luce de La Monarchia
151      József Nagy: I criteri metodologici del commento per la nuova
         edizione ungherese della Monarchia
161      László Szörényi: Il salmo di Nembrotto — l’ungherese antico
         nell’Inferno di Dante?
173      Snježana Husić: Identità animali nella Commedia dantesca:
         tassonomia e interpretazione
185      Éva Vígh: Moralità zoomorfe nella Commedia

II. FORTUNA, RICEZIONE, TRADUZIONE

203      Rino Caputo: Critica dantesca nordamericana
205      Marina Marietti: Dante in Francia: da ieri a oggi
213      Monica Fekete: La presenza di Dante in Romania
indice

    221   José M. Micó: Verso una nuova traduzione spagnola della Divina
          Commedia
    229   Walter Geerts: La Commedia di Albert Verwey (1865–1936)
          e la maledizione di Babele: felix culpa
    237   Hans Werner Sokop: Le traduzioni tedesche della Divina
          Commedia
    247   Péter Sárközy: La traduzione ungherese della Divina Commedia
          di Mihály Babits (1908–1923)
    261   Norbert Mátyus: Errori e/o interpretazione nella traduzione
4         dantesca di Mihály Babits
    271   Ádám Nádasdy: Due brani dalla nuova traduzione ungherese
          della Divina Commedia
    289   Nguyen Van Hoan: Perché ho avuto il coraggio di tradurre
          la Commedia? Le mie difficoltà
    293   Ole Meyer: Dialogismo nella Com(m)edia originale e tradotta
    317   Juan Varela–Portas: L’allegoria analitica: metodologia della
          scuola dantesca di Madrid
    327   Ülar Ploom: Spazio poetico nell’Inferno: interpretazione
          e traduzione
    339   Judit Bárdos: Dante e il cinema
    349   Milly Curcio: Dante e gli inferni contemporanei
    359   Morana Čale: Traduzione, illustrazione, spettro:
          l’Inferno nei disegni di Ivan Meštrović
    383   Domenico Antonio Tripodi: Il colore della Divina Commedia

    389   János Kelemen: Conclusioni

    	Relatori del Convegno
Premessa                                                                                    5

I  l convegno internazionale Leggere Dante oggi: interpretare, commentare, tradurre
   alle soglie del settecentesimo anniversario, organizzato tra il 24–26 giugno 2010
presso l’Accademia d’Ungheria in Roma, come lascia arguire il titolo stesso, non
è stato organizzato con intenti celebrativi. Manca, infatti, quasi un decennio alle
obbligatorie celebrazioni: il nostro è nato dall’idea di un seminario proposto dal
presidente della Società Dantesca Ungherese, János Kelemen. Procedendo con
l’organizzazione del seminario, originariamente dedicato a questioni filosofiche della
lingua e dell’interpretazione, abbiamo gradualmente esteso l’orizzonte, coinvolgendo
sempre di più studiosi e anche traduttori di varie nazioni, i quali ovviamente non
solo traducono ma, e soprattutto, interpretano il testo letterario. Infine, grazie anche
al munifico sostegno della Fondazione Rubbettino e allo stesso Presidente, Dott.
Giacinto Marra, all’Alto Patrocinio morale del Ministero per gli Affari Esteri Italiano
e del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, nonché alla gentile collaborazione
di varie accademie straniere in Roma (Escuela Española de Historia y Arqueología
en Roma, Accademia Polacca delle Scienze, Accademia di Danimarca, Accademia
di Romania, Istituto di Norvegia in Roma) abbiamo potuto allargare i confini del
seminario per arrivare a un ricco e nutrito programma.
     Sono gli atti del convegno ora pubblicati a confermare il forte vincolo che legava
i trentacinque relatori da tutte le parti del mondo, acomunati dallo stesso entusiasmo
e fervore per il testo e per l’esegesi della Commedia, relatori pronti, per tre giorni, a
scambiare idee nel corso dei lavori durante le giornate, e la sera, nell’ambito di una
serata letteraria, disposti a “leggere Dante” nel senso vero e proprio della parola,
in una dozzina di lingue straniere. Il risultato era un convegno utile dulci: sono
convinta, infatti, che grazie alla sistematicità degli interventi e al piacevole clima
dello scambio di esperienze e di progetti, il convegno — elemento tutt’altro che
premessa

    marginale — contribuisce a creare nuove collaborazioni e incontri nell’ambito delle
    ricerche dantesche.
        Nel concludere, voglio rinnovare i sinceri ringraziamenti ai sostenitori e ai relatori
    per la collaborazione offerta anche nel corso della redazione degli atti, lavoro prezioso
    che ancora una volta conferma la validità dei profondi vincoli di sodalitas intellettuale.

                                                                                  Éva Vígh
                                                                       direttore scientifico
                                                           Accademia d’Ungheria in Roma
                                                                  Istituto Storico Fraknói
6
Giuseppe Frasso                                                                                 7

Prolusione. Dante dall’Arno al Danubio

L     a giustificazione della mia presenza qui, a aprire questo Convegno, promosso
      dall’Accademia di Ungheria, dalla Fondazione Rubbettino e dalla Società Dante-
sca Ungherese, che vede riuniti tanti illustri studiosi di Dante, credo possa stare tutta
nel titolo di questo breve esordio: «Dante dall’Arno al Danubio». Credo che la giusti-
ficazione possa stare in tale titolo semplicemente perché — concedetemi l’incipit un
filo scanzonato — lungo le rive dei due fiumi ho spesso passeggiato, solo o con amici,
riflettendo tra me e me e, più, parlando con altri, di letteratura, del comune lavoro; non
so come, ma quasi sempre o il mio pensiero o il nostro discorrere finivano su Dante;
Dante, in un modo o nell’altro, a Firenze o a Budapest, è sempre entrato — poco im-
portano ora i miei pensieri — nelle nostre conversazioni, vuoi perché avevamo letto
e riletto versi o passi di Dante che avevano acceso curiosità e domande che in altri
momenti non erano nate, vuoi perché avevamo studiato, consentendo o dissentendo,
quanto era stato di recente scritto da altri su Dante e sull’opera sua, vuoi infine perché
su Dante e sull’opera sua stavamo noi stessi scrivendo. In modo inevitabile — fortu-
natamente inevitabile, direi — anche per chi, come me, non è dantista di professione,
ma, per professione, si interessa di filologia della letteratura italiana e di storia della
letteratura italiana, senza Dante è difficile guardare alla maggior parte del proprio
lavoro e, ancora di più, alla storia e alla storia letteraria d’Italia, quell’Italia che, con
le parole di Alessandro Manzoni, è, e spero continui a essere, «Una d’arme, di lingua,
d’altare, | Di memorie, di sangue e di cor».
     Insomma quasi la conseguenza di una contingenza turistica quella che ti porta
qui, potrebbe dire un non propriamente benevolo ascoltatore. E sia pure: contingenza
turistica, ma di quelle che, nel caso di Dante, ti possono salvare la vita, magari anche
l’anima.
     In verità, devo la mia partecipazione all’amicizia del prof. Kelemen János, che
ho avuto modo di conoscere, una decina di anno or sono, grazie a un amico comune
prematuramente scomparso il cui nome, sono certo, suona familiare in questi luoghi,
giuseppe frasso

    Hajnóczi Gábor;1 e anche la devo ai miei rapporti più che decennali con l’Università
    Pázmány di Piliscsaba, dove ho tenuto corsi di storia della letteratura italiana antica
    e di filologia italiana, compresi ovviamente corsi su Dante; e pure la devo ai rapporti
    che, in tempi più recenti, ho stretto con colleghi di ELTE (ma non posso dimenticare
    un mirabile incontro, peraltro di argomento dantesco, avuto per l’invito dei cari Hof-
    fman Béla e Antonio Sciacovelli, a Szombately). Infine penso abbia avuto qualche
    peso sul fatto che mi trovi qui un accadimento di tipo istituzionale, e cioè che presieda
    la Società dei filologi della letteratura italiana, Società che annovera valorosi dantisti.
         Ma, potrebbe continuare il già menzionato non benevolo ascoltatore, si sarebbe
    potuto trovare di meglio per inaugurare questo convegno: certamente sì, rispondo io.
8   Però, spesso, il meglio è nemico del bene. Comunque sia, veniamo al punto.
         Borsos Miklós ha immaginato (e poi disegnato) se stesso in conversazione con
    Dante sul Lungarno a Firenze;2 a me, arrivato a Firenze in una delle rare giornate
    serene che la appena passata primavera, piena di nubi, ci ha concesso, è accaduto in-
    vece, mentre camminavo, in un avanzato pomeriggio, proprio sui Lungarno Acciaioli
    e Corsini, riflettendo intorno a alcune conferenze che avevo ascoltato poco tempo
    prima in Ungheria, di imbattermi non in Dante, ma, cosa altrettanto sorprendente, in
    uno dei suoi massimi cultori, nel fondatore, in verità, della moderna filologia dante-
    sca in Italia, in Michele Barbi. Mi si è materializzato di fronte, all’improvviso, più o
    meno all’altezza del ponte di Santa Trínita; l’ho riconosciuto per quel suo pizzetto e
    per lo sguardo acuto e severo con cui compare in qualche fotografia. Nulla dico dello
    sconcerto provato, e del timore, nel trovarmi di fronte al padre dei moderni studi filo-
    logici che l’anagrafe ci dice defunto nel 1941.3 Eppure il suo sguardo, che mi fissava
    interessato, mi spinse, nonostante tutto, a parlargli; immaginai che, forse più che tante
    vicende italiane che avrebbero potuto avere per lui sapore di forte agrume, l’avreb-
    bero potuto interessare gli studi che venivano fatti fuori del «bel paese | ch’Appennin
    parte, e’l mar circonda et l’Alpe» (RVF CXLVI, 14); e, fresco com’ero di un sog-
    giorno ungherese, mi misi a informarlo su come e quanto, in questi tempi, si studiava
    Dante sulle rive del Danubio, sbadatamente dimenticando che forse ogni cosa gli era
    già nota. Così gli menzionai il volume di Szabó Tibor, che in italiano suona Eternità
    iniziata. Dante nell’Ungheria del Novecento, uscito nel 2003, volume che fornisce,
    filtrandolo attraverso un esame critico, un repertorio amplissimo delle pubblicazioni
    dantesche dai primi anni del ‘900 ai primi del 2000 e che si pone in ideale continua-
    zione con quello di Kaposi József, La fortuna di Dante in Ungheria, uscito nel 1911 e
    con l’altro, sempre di Kaposi del 1921, oltreché con gli studi di Várady.4

      1 Su di lui e sulle sue pubblicazioni scientifiche: In memoriam. Hajnóczi Gábor, (a cura di Armando
        Nuzzo A. – Judit W. Somogyi), Piliscsaba, Pázmány Péter Katolikus Egyetem, Bölcsészettudományi
        Kar, pp. 13–21.
      2 Szabó Tibor, Megkezdett Öröklét. Dante a XX. századi Magyarországon, Budapest, Balassi Kiadó,
        2003, p. 254.
      3 È sufficiente rimandare a Ireneo Sanesi – Vittorio Santoli – Pier Giorgio Ricci, Michele Barbi, in
        Letteratura italiana. I critici, (a cura di Gianni Grana), III, Milano, Marzorati, 1969, pp.1655–90 (in
        part., per notizie biografiche e per una bibliografia selettiva, pp. 1685–1690).
      4 Szabó Tibor, Megkezdett Öröklét, cit. Kaposi József, Dante Magyarországon, Budapest, Révai–Salo-
        mon, 1911; Id., Bibliografia dantesca ungherese, in «Corvina», 1, (1921), pp. 59–84; Imre Várady, La
        letteratura italiana e la sua influenza in Ungheria, 2vv., Roma, Istituto per l’Europa orientale, 1934.
prolusione. dante dall’arno al danubio

    Passai, subito dopo, a raccontargli come in Ungheria fosse nata una Società Dante-
sca Ungherese e come tale società si fosse dotata di una pubblicazione propria, «Dante
füzetek», cioè «Quaderni danteschi» (d’ora innanzi semplicemente «Quaderni»); la
cosa mi parve interessarlo molto e così pensai di illustrare l’attività della Società, la
sua rivista, i suoi progetti. Nel 2004 era sorta a Budapest, auspice un filosofo forte-
mente interessato a Dante (e forse inizialmente mosso da riflessioni sulla problemati-
ca dantesca del linguaggio), Kelemen János, appunto la Società Dantesca Ungherese;
vicepresidente veniva nominato Takács József e segretario Mátyus Norbert; la pre-
sidenza onoraria era assegnata a Sallay Géza, benemerito studioso e traduttore della
Monarchia, appassionato cultore della figura dell’Ulisse dantesco, mentre Kelemen
diventava presidente effettivo. La Società di proponeva di stimolare e incrementare                     9
lo studio di Dante mediante incontri regolari durante i quali si presentavano e discu-
tevano saggi danteschi. Ma lo scopo più ambizioso era quello di apprestare, per il
2021, una edizione completa di Dante, tradotta e commentata (qualcosa di simile,
non di identico ovviamente, a quanto — è cosa notissima — il grande maestro aveva
organizzato nel 1921 e che si appresta a fare una nota casa editrice italiana).5 Proprio
per ciò la Società Dantesca Ungherese si era dotata di una pubblicazione periodica,
appunto i «Quaderni», una pubblicazione che, oltre a informare regolarmente, grazie
alla penna di Takács, sulle attività del sodalizio, accoglieva articoli in ungherese, in
italiano e anche in inglese (e quasi sempre presentava, alla fine, essenziali, ma utili,
riassunti in italiano per i contributi in ungherese);6 i «Quaderni» aspiravano ad avere
una funzione catalizzatrice, anche se volutamente non egemone, per le indagini dan-
tesche in Ungheria; studiandoli era così possibile non solo avere, assai aggiornata,
la situazione degli studi su Dante in quel paese (feci memoria dello scritto di Kaposi
Márton La dantistica ungherese nel secondo millennio, apparse sui «Quaderni», 2,
2007, pp. 107–31 dove sono ricordati, per esempio, recenti volumi danteschi di Ke-
lemen, Madarász, Pál, l’edizione fototipica del Dante della Biblioteca Universitaria
di Budapest, la rivista «Verbum», per il suo numero dantesco, e tanto altro ancora),
ma anche leggere i contributi di studiosi affermati quali, per citarne solo alcuni, Vígh
Éva, Luigi Tassoni, Antonio Sciacovelli, lo stesso Kelemen; di studiosi giovani, ma
assai valorosi, come Mátyus Norbert, Michele Sità, Nagy József, Tóth Tihamér o,
addirittura, di studiosi giovanissimi che muovono i primi timidi passi nella ricerca.
Soprattutto però, precisai, i «Quaderni» mi sembravano essere un laboratorio in vista
della grande impresa del 2021; indicativi, al riguardo, gli dissi, mi apparivano i con-
tributi di Hoffman Béla su Inf. V (in «Quaderni», 2, 2007, pp.75–106), Inf. XVIII (in
«Quaderni», 3, 2008, pp. 17–44 ), Inf. XXVII (in «Quaderni», 5, 2009, pp. 107–54),
di Hoffman e Kelemen su Inf. XXVI (in «Quaderni», 4, 2008, 2, pp. 13–80), e quelli
del gruppo di lavoro sulla Monarchia, coordinato da Nagy József (in «Quaderni», 3,
2008, 2 pp. 141–48). Forse, proseguii, avanzando una osservazione, i «Quaderni»
sarebbero potuti diventare, almeno negli anni che precedono il centenario, sempre
di più il luogo dove avrebbero dovuto prendere forma, con crescente chiarezza e de-
terminazione, le linee guida del grande progetto, dove si sarebbero potute saggiare

  5 Basti rinviare a : Nuova edizione commentata delle Opere di Dante. Il progetto editoriale…, Roma,
    Salerno ed., 2009, pp. 7–26 (pp. 7–13 a cura di Enrico Malato).
  6 Sono, fino a ora, usciti sei numeri della rivista.
giuseppe frasso

     introduzioni, traduzioni e commenti, non solo alla Commedia, ma anche alle altre
     opere di Dante, in un dialogo a più voci, ma serrato e, soprattutto, concreto, fatto di
     casi concreti e di concrete soluzioni, tra tutti i partecipanti alla magnanima impresa,
     tra tutti coloro che a quella impresa guardavano con attenzione e interesse.
          Ebbi la sensazione che quel distinto signore fosse davvero interessato; così, rin-
     cuorato, anticipai la domanda (era inevitabile) che mi pareva di vedergli balenare negli
     occhi (e che, a dire il vero, si era affacciata anche alla mia mente): «E i testi? Quali sa-
     ranno i testi su cui fondare le traduzioni?». Dissi dunque che, già nel 1962, si era avuta
     una edizione di tutto Dante in ungherese e che un grande studioso magiaro, Kardos
     Tibor, anima dell’impresa, aveva pubblicato, proprio sugli «Studi danteschi» (rivista
10   che, come ci ha insegnato Giuliano Tanturli, fu, dal ’23, sostanziosamente finanziata
     dalla Società dantesca italiana, ma che solo dal 1957 divenne «rivista sociale» cioè
     della Società dantesca italiana, mentre prima di quella data – si deve notare l’interru-
     zione che va dal ’41, data della morte di Barbi, al ’49 – era stata, in realtà, la pubbli-
     cazione periodica autonoma di un agguerrito dantista dal carattere non mite, proprio
     Michele Barbi)7 un ampio articolo inteso a illustrare l’impresa;8 Kardos, dopo aver in-
     formato il lettore, con cenni essenziali, ma lucidi, sulla fortuna di Dante in Ungheria,
     aveva chiarito che per la Commedia ci si era affidati alla classica traduzione di Babits,
     un capolavoro anche della letteratura ungherese; di contro il commento di Babits,
     invecchiato, era stato in gran parte sostituito da un nuovo testo apprestato, con l’aiuto
     della esegesi allora più diffusa in Italia (Scartazzini–Vandelli, Rossi, Pietrobono, S.A.
     Barbi, Momigliano e Sapegno) dallo stesso Kardos; Kardos aveva anche commentato
     La Vita nuova (tradotta da Jékely), le Egloghe (tradotte da Szedö), le Rime (tradotte
     da una gruppo di poeti: Csorba, Jékely, Károly, Rónai, Végh, Weöres), guardando,
     per il commento di queste ultime, a quello di Contini; il Convivio era stato tradotto e
     commentato da Szabó e Csorba; la Monarchia, come già detto, tradotta e commentata
     da Sallay; Mezey aveva tradotto il De vulgari (commentato da un linguista del calibro
     di Gáldi), e inoltre le Epistole e la Questio, corredandole pure di commento.9 Aggiunsi
     che l’edizione del ’62 e le traduzioni allora apprestate avrebbero potuto costituire il
     punto di partenza, anche se, precisai, disponendo, ora, di nuove edizioni, di sicuro i
     colleghi ungheresi avrebbero ragionato su quelle, quelle avrebbero preso a riferimen-
     to, assumendosi l’onere, quando il caso, di una nuova traduzione. Mi resi conto che
     il terreno si faceva per me, che esponevo forse con troppa foga le mie riflessioni, un
     po’ scivoloso; immaginai che il suo pensiero stesse andando, in primo luogo, alla sua
     fondamentale edizione della Vita nuova (la seconda, quella del ’32) che poteva forse
     trasformarsi in Vita nova (fin qui senza gravi problemi, anzi), dopo l’edizione Gorni
     del 1996, edizione che, peraltro, ha suscitato qualche dibattito, anche acceso, e dopo
     quella di Carrai, segnata da una rivalutazione, non solo dell’aspetto formale, del Chig.

       7 Giuliano Tanturli, «Studi danteschi», in Dante nelle scuole. Atti del Convegno di Siena (8–10 marzo
         2007) (a cura di Natascia Tonelli e Alessio Milani), Firenze, Cesati, 2009, pp. 109–27.
       8 Tibor Kardos, L’edizione di tutto Dante in Ungherese e i suoi precedenti, in «Studi danteschi», 39
         (1962), pp. 85–105.
       9 Dante Alighieri, Összes művei, (a cura di Kardos Tibor), Budapest, Helikon, 1962. (Helikon
         klasszikusok)
prolusione. dante dall’arno al danubio

L VIII 305;10 immaginai che si stesse interrogando sulla Monarchia, edita da Ricci
(edizione ripensata, in tempi più recenti, da Prue Schaw);11 immaginai che si stesse
chiedendo quale testo sarebbe stato scelto per l’Epistola XIII, dopo l’edizione Cecchi-
ni, sensibilmente diverso da quella che compare, per esempio, nei volumi Ricciardi (e
qui la scelta di un testo o dell’altro, avrebbe voluto dire anche una diversa presa di po-
sizione sull’autenticità parziale o totale dell’epistola);12 immaginai che si stesse anche
chiedendo cosa sarebbe accaduto delle Rime, se non altro per il nuovo assetto — una
diversa successione dei componimenti, giusta la tradizione manoscritta, successione
che si apre con Così nel mio parlar vogli’esser aspro — dato loro da De Robertis nella
sua edizione;13 immaginai che si facesse qualche domanda, forse meno ansiosa, sul
Convivio, dopo l’edizione Ageno che, pur passibile di ritocchi, resta un monumento di                             11
filologia;14 e forse si interrogasse pure su quale posizione gli editori magiari avrebbero
tenuto nei confronti del Fiore e del Detto d’Amore (opere non accolte, per vari motivi
sui quali si potrebbe discutere, da Kardos nell’edizione del ‘62), dopo che quel dia-
volo di Contini ci aveva messo le mani, inventando la mirabile formula «attribuibile»
da leggersi con il valore di «tribuendus».15 E, infine, immaginai che si facesse qualche
domanda sulla posizione che i colleghi ungheresi avrebbero preso — se ovviamente
avessero ritenuto opportuno prendere una posizione al riguardo — nei confronti dei
testi e, soprattutto dei commenti, e, quando il caso, delle traduzioni in italiano, del così
detto «Dante minore», ormai in dirittura d’arrivo nella collana dei Meridiani, pubbli-
cata da Mondadori; per esempio sul De vulgari, il cui testo risulta modificato, rispetto
a quello Mengaldo, circa in una ventina di punti, come mi ha comunicato gentilmente
il curatore, Mirko Tavoni.
    Ma il suo sguardo, fattosi interrogativo, mi aiutò a capire che forse il problema che
sentiva più urgere era quello della Commedia; a quale edizione si sarebbero rifatti?
A quella di Petrocchi, secondo l’antica vulgata?16 o a quella di Antonio Lanza, che

 10 Id., Vita Nuova (per cura di Michele Barbi), Firenze, Bemporad, 1932; Id., Vita Nova, (a cura di
    Guglielmo Gorni), Torino, Einaudi, 1996 (Nuova raccolta di classici italiani commentati, 15); Paolo
    Trovato, Per il testo della “Vita Nuova” e altra filologia dantesca, Roma, Salerno ed., 2000; Id.,
    Vita Nova, (a cura di Stefano Carrai), Milano RCS Libri, 2009 (BUR Classici).
 11 Id., Monarchia, (a cura di Pier Giorgio Ricci), Milano, Mondadori, 1965 (Edizione nazionale a c.
    della Società dantesca italiana, V);
 12 Dante Alighieri, Epistola a Cangrande, (a cura di Enzo Cecchini), Firenze, Giunti, 1995 (Biblioteca
    del medioevo latino); Id., Epistole, (a cura di Arsenio Frugoni e Giorgio Brugnoli), in Id., Opere
    minori, II, (a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, Bruno Nardi et alii), Milano–Napoli, Ricciardi, 1979,
    pp. 512–21 e 598–643.
 13 Id., Rime, a cura di D. De Robertis, 3vv., Firenze, Le Lettere, 2002 (Le opere di Dante Alighieri, Edizione
    nazionale a cura della Società dantesca italiana, II) e Id., Rime, edizione commentata (a cura di Domenico
    De Robertis), Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2005. Da ultimo: Id., Rime giovanili e della Vita Nuova, a
    cura di Teodolinda Barolini, note di M. Gragnolati, Milano RCS Libri, 2009 (BUR Classici).
 14 Id., Convivio, (a cura di Franca Brambilla Ageno), 2vv., Firenze, Le Lettere, 1995 (Le opere di
    Dante Alighieri, Edizione nazionale a cura della Società dantesca italiana, III).
 15 Il Fiore e il Detto d’Amore attribuibili a Dante Alighieri, (a cura di Gianfranco Contini), Milano,
    Mondadori, 1984 (Le opere di Dante Alighieri, Edizione nazionale a cura della Società dantesca
    italiana, VIII). Sarà da notare che il nome di Dante, è impresso sul dorso del volume tra parentesi.
 16 Id., La Commedia secondo l’antica vulgata, 4vv., (a cura di Giorgio Petrocchi), Firenze, Le Lettere,
    1994, seconda ristampa riveduta (Le opere di Dante Alighieri, Edizione nazionale a c. della Società
    dantesca italiana, VII).
giuseppe frasso

     guarda con particolare, ma non esclusiva, attenzione al Trivulziano 1080?17 o a quella
     di Federico Sanguineti che, dopo decisa eliminatio codicum descriptorum, assegna
     valore fondamentale al ms. Urb. lat. 366, «genuino rappresentante, da solo, di uno
     dei due rami della tradizione» (β) [pag. LXV]? 18 O a quella di Trovato che, almeno
     per l’Inferno si dice debba comparire, corredata di un nuovo commento, tra due o tre
     anni? O, ancora, per esempio, all’edizione Petrocchi, rivista, come già è avvenuto per
     l’Inferno, da Inglese?19 E come si sarebbero comportati con l’antica esegesi, ora at-
     tingibile, almeno in parte, in nuove edizioni?20 Cercai di spiegare che forse gli editori
     ungheresi, con realismo, avrebbero accettato il testo Petrocchi (una sorta di vulgata
     moderna, eventualmente con i ritocchi di Inglese), ma che l’impegno maggiore era
12   dedicato alla traduzione (nobilmente di servizio) e al commento, pensato soprattutto,
     ma non solo, per un lettore ungherese (alle edizioni, proseguii, era giusto, e un po’
     inevitabile, che ci pensassero gli studiosi italiani o gli studiosi stranieri che condivide-
     vano le metodologie filologiche italiane o che, se non le condividevano, avevano però
     modo e tempo e strumenti per rifare il percorso battuto dalla filologia italiana e, se il
     caso, superarlo). Un commento pensato per un pubblico ungherese; meglio, precisai,
     in parte pensato per un pubblico ungherese, per la parte cioè che attiene ai dati storici,
     eruditi, inevitabilmente più remoti per un lettore non italiano. Per altra parte, che non
     sarebbe di certo mancata, cioè quella introduttiva a ogni canto, probabilmente un’a-
     nalisi delle strategie narratologiche di Dante, degli aspetti formali, della intertestualità
     dell’opera, quella pensata come terreno dove si sarebbero provate, con mente accorta
     e con spirito non manicheo, metodologie critiche più recenti, il commento avrebbe
     potuto essere utile anche per lettori non magiari, qualora avessero potuto attingere a
     quella lingua. Immaginai che forse il grande studioso, nella sua ansia di non lasciarsi
     sfuggire nulla che avesse attinenza con Dante, pensasse che sarebbe forse valsa la
     pena di tradurre queste parti magari nel solito inglese passe–partout, se non in ita-
     liano: come altrimenti aprire il dibattito, come giovarsi del contributo dei colleghi
     ungheresi per l’intelligenza sempre più profonda del poema, e come — perché no? —
     instaurare con loro un franco confronto, magari anche dissentendo? Lo sviluppo della
     ricerca passa, inevitabilmente, attraverso il dibattito.
         In ogno modo, vidi un accenno di sorriso sulle sue labbra; la mia memoria andò
     alla sue pagine raccolte da Mario Casella nel memorabile contributo Problemi fonda-
     mentali per un nuovo commento della Divina commedia, alle pagine — così imma-
     ginai — alle quali anch’egli forse pensava in quel momento, dove, citando le parole
     con le quali aveva aperto, nel 1903, l’indice decennale del Bullettino della Società
     dantesca italiana, aveva scritto: «Del resto, io stesso, … mi auguravo che accanto
     “ai commenti che, con più o meno larga documentazione, e con più o meno ampie
     discussioni tendono a chiarire quello che e della lingua e della storia e della scienza

      17 Dante Alighieri, La Commedìa, Testo critico secondo i più antichi testi fiorentini. Nuova edizione,
         (a cura di Antonio Lanza), Anzio, De Rubeis, 19962 (Medioevo e Rinascimento/5).
      18 Dantis Alagherii Comedia, edizione critica, (per cura di Federico Sanguineti), Firenze, Edizioni del
         Galluzzo, 2001 (Archivio Romanzo, 2).
      19 Id., Commedia. Inferno. Revisione del testo e commento di Giorgio Inglese, Roma, Carocci, 2007.
      20 Il Centro Pio Rajna per Dante, in Nuova edizione commentata delle Opere di Dante…, Roma, Salerno
         ed., 2009, pp. 31–40, in part. pp. 37–39.
prolusione. dante dall’arno al danubio

il tempo ha reso oscuro”, prendessero posto “altri commenti che, accogliendo da quei
primi i risultati sicuri o probabili, ne facciano fondamento ad analisi fini e suggestive,
le quali valgano a metterci in comunicazione diretta con lo spirito di Dante, sino a far-
ci sentire quel ch’egli sentiva nell’atto della creazione artistica”».21 Apertura grande
di quel maestro ai problemi che allora urgevano, apertura che, penso, sarebbe stata
identica nei confronti dei problemi, in buona parte diversi però, che oggi urgono negli
studi danteschi e dei quali credo potremo discutere in questi giorni di lavoro. Non era,
quella di Barbi, una cieca difesa a oltranza della filologia, difesa intenta a escludere
dal dibattito ogni esercizio critico che non fosse storico o testuale; la partita non si
giocava — per Barbi — in una sterile opposizione tra filologia e critica; gli importava
invece allora, come importa oggi a tutti coloro che guardano, «con occhio chiaro e               13
con affetto puro» a Dante e all’opera sua, che non prendessero campo, e passassero
in giudicato — cito — « le storture evidenti, le questioni mal poste, ogni trattazione
superficiale e mal ragionata, tutto quello che confonde e ingombra».22 Mi pareva, pro-
seguii, che, alla luce di quanto avevo avuto modo di leggere, per esempio proprio in
qualcuno dei «Quaderni», e di ascoltare dalla voce di molti colleghi, i dantisti magiari,
al momento, non sembravano correre quei rischi.
     Il sole stava declinando sui Lungarno; l’omino anziano, con la barbetta a punta
e gli occhi acuti e severi, per me ectoplasma materializzato di Michele Barbi, stava
sempre lì, ma qualcosa nello sguardo era cambiato. Mi guardava appunto con uno
sguardo attraversato da un po’ di stupore; pensai che tale stupore fosse indotto dalla
soddisfazione di sentir narrare di questo progetto. Ma allo stupore vidi aggiungersi
una certa preoccupazione che era tutta, così mi parve, tutta dedicata a me; mi chiese
se ero tranquillo, se tutto andava bene.
     Cominciava a far fresco e l’arietta, un po’ frizzante, giovò a riportarmi con i
piedi per terra. Ecco cosa era accaduto: preso dalla magia del luogo, e da furori
non molto eroici, avevo arringato, per una ventina di minuti, così come ho fatto ora
con i pazienti astanti, un tranquillo pensionato che, dalla sua, aveva solo la colpa di
somigliare a un grande studioso scomparso; mi ripresi, mi scusai, e con un po’ di
imbarazzo, mi allontanai celermente. Immaginai, in seguito, che il malcapitato, non
avendo nulla da fare, si fosse, di buon grado, rassegnato a ascoltare con pazienza un
innocuo appassionato di Dante — me, appunto —, che, in forza della legge Basa-
glia, stava dove non doveva stare.
     È troppo facile capire che nulla di tutto quanto ho raccontato è veramente acca-
duto; se fosse accaduto non mi troverei qui. O forse mi troverei qui proprio perché a
volte non pare difficile (lo si capisce bene frequentando il mondo dell’Università, oggi
forse più che mai) fare propria la risposta che il mio indimenticabile e indimenticato
maestro, Giuseppe Billanovich, era solito darsi (e dare a noi, suoi allievi) alla doman-
da, retorica ovviamente, che egli medesimo, in qualche occasione, poneva: chi è più
matto di un professore di humanae litterae? Va da sé: due professori. Ma, in verità e a
prescindere dall’aneddoto faceto, mi sembra che mediamente sia una sana follia quella
dei letterati, anche quando, forse soprattutto quando, si impegnano in opere di enorme

 21 Michele Barbi, Problemi fondamentali per un nuovo commento della Divina Commedia, Firenze,
    Sansoni, 1956, pp. 3–4.
 22 Ivi, p. 5.
giuseppe frasso

     lena, che resteranno però a lungo nel tempo, proprio come una traduzione completa,
     accompagnata da commento, di Dante; una sana follia, la follia di chi, nonostante tut-
     to, osa sperare contra spem, di chi crede che la letteratura sia, come ha scritto Babits
     nella sua Storia della letteratura europea, «l’alta coscienza dell’umanità»,23 di chi
     crede che la letteratura possa aiutare a capire l’uomo e il suo destino, nello spazio e nel
     tempo, ma anche al di là dello spazio e del tempo, di chi crede che la letteratura possa
     sì far discutere, anche animosamente discutere, ma non debba dividere, che possa
     invece far scorrere insieme le acque dell’Arno e del Tevere, del Danubio, della Senna,
     del Reno, insomma le acque di ogni fiume. La parola di Dante, ascoltata e meditata,
     può portare davvero a tutto ciò: anche per questo Dante è Dante.
14

      23 Mihály Babits, Storia della letteratura europea. Presentazione di Péter Sárközy, Prefazione di
         Matteo Masini, Roma, Carocci, 2004 (La ricerca letteraria. Studi/1), p. 115.
I. Commento, interpretazione
                     lettura
Franco Suitner                                                                                                  17

Dante narratore, a confronto con l’Europa

     Nell’intervento si mette a confronto la Divina Commedia, considerata nel suo
     aspetto di opera anche narrativa, con la tradizione epica e romanzesca eu-
     ropea in lingua volgare precedente, e si svolgono alcune riflessioni su come
     alcuni modi specifici del Dante narratore possano essere interpretati e meglio
     compresi alla luce dell’evoluzione storica di quella tradizione.

I  n questo intervento desidero affrontare il grande tema di come si collochi la
   Divina Commedia (Comedìa) nell’universo delle opere narrative del medio evo.
Ovviamente ciò comporta l’accettazione preliminare dell’idea che la Commedia sia
anche un’opera narrativa. Si può osservare come questa sia per tanti aspetti una scelta
di campo preliminare, in quanto è noto che alcuni non accettano una prospettiva di
questo genere. Non posso che scusarmi per l’estrema sintesi del discorso. Chiedo
all’ascoltatore (e al lettore) di avere un po’ di pazienza perché quanto desidero os-
servare su Dante emergerà dal confronto fra alcune caratteristiche della sua opera e
l’arco evolutivo delle forme narrative medievali, epica e romanzo. Quella che intendo
modestamente proporre è una riflessione sulla posizione occupata da Dante nel conte-
sto europeo alla luce di questo specifico problema. Posso solo accennare qualche idea,
evocare qualche testo, non posso ovviamente dispiegare i rimandi e le citazioni che
sarebbero necessarie per sviluppare il tema.1
    Tutta la Commedia, particolarmente nelle sue parti proemiali, è posta da Dante
sotto la tutela di Virgilio. Esiste tutta una tradizione di studi che approfondisce questo
legame, e la bibliografia relativa al tema è immensa. Si sa che Virgilio è molto citato
nell’opera, e che lo è soprattutto nei primi canti. Nessuno però, che io sappia, ha mai
sostenuto che egli sia il modello più seguito per quanto riguarda la tecnica narrativa.

    1 Propongo qui, in forma rielaborata, con molti tagli e aggiunte e varie modifiche, alcune pagine che
      proprio in questi giorni, contemporaneamente allo svolgimento del Convegno, escono nel mio volume
      I poeti del medio evo: Italia ed Europa (secoli XII–XIV), Roma, Carocci, 2010. Per le citazioni da
      opere straniere si indica la traduzione utilizzata. Quando manca l’indicazione si intende che la tradu-
      zione è dell’autore di questo articolo.
franco suitner

     In apparenza il suo nome parrebbe mettere in primo piano il grande genere narrati-
     vo epico, ma Dante sembra in realtà pensare a qualcosa d’altro. Se consideriamo la
     tradizione medievale volgare delle forme narrative l’atteggiamento tipico del poeta
     epico appare diverso e ormai lontano nel tempo, pur essendo secondo me alle radici
     dell’evoluzione che porta a un’opera come la Commedia. L’ipotesi è che Dante risen-
     ta maggiormente di influssi diversi e a lui più vicini, in particolare di quelli che pro-
     vengono dal mondo del romanzo, genere più prossimo a lui, più popolare, in volgare
     come la sua opera. È però una storia lunga, che conviene almeno evocare, tenendo
     sempre a mente il confronto col nostro punto di arrivo, che è appunto Dante.
          Si potrebbe per certi aspetti sostenere che il poeta dell’epica si trovi pressoché agli
18   antipodi di quello della Divina Commedia. Si sa che è un autore che tende a sparire.
     Non è che per questo non esista, ovviamente, o che sia meno concreto di quello della
     poesia lirica. Tende però a nascondersi. La sua aspirazione non sembrerebbe infatti
     quella di parlare in proprio, quanto quella di farsi portatore di un lungo racconto, che
     gli è stato affidato e di cui egli si presenta come l’ultimo testimone, consapevole di
     avere una responsabilità particolare. Ciò deriva dalla circostanza che usualmente egli
     non è l’inventore della materia narrativa che canta, di quello che noi potremmo chia-
     mare il “rozzo contenuto”. Questa materia gli viene di solito dalla tradizione, lunga o
     più breve che sia. Si può trattare di fatti storici, avvenuti relativamente da poco, come
     accade nel Cid iberico, di fatti storici misti a leggende ormai lontane, come nelle
     chansons francesi, di fatti di epoche diverse mescolati a miti e nuclei narrativi antichi
     come nel Nibelungenlied. In ogni caso, l’autore si presenta come il latore di una storia
     che non ha inventato lui, e rispetto alla quale tende ad assumere un atteggiamento
     modesto, ammirato, come di chi sia il primo a contemplare dall’esterno una costru-
     zione stupefacente, che in proprio mai avrebbe potuto edificare. L’atteggiamento è
     totalmente diverso da quello orgoglioso che il trovatore lirico assume nei confronti
     della sua creazione.
          Per non perderci nell’oceano della tradizione epica, possiamo prendere ad esempio
     gli incipit di alcuni fra i più famosi poemi del medio evo occidentale, e vedere come già
     ci dicano molto relativamente a questo problema. L’autore del Nibelungenlied inizia il
     suo racconto evocando come fonti le alte maere, le antiche leggende alle quali, anche
     se non esclusivamente, dice di avere attinto le sue narrazioni. Scrive intorno al 1200,
     ma la sua materia è in gran parte molto più antica, e anche il riferimento alle tradizioni
     precedenti rispecchia una vecchia consuetudine. L’introduzione è brevissima, in quanto
     il racconto ha inizio subito dopo. L’autore vuole immergere il lettore, anzi il suo ascol-
     tatore, in un clima che evochi immediatamente l’importanza di quanto sta per narrare.
     Questa è data dall’antichità delle storie, dal loro carattere «stupendo» (wunder) e gran-
     dioso. Vi si narra di «guerrieri famosi», di «audaci guerrieri», di «imprese immense». La
     protagonista è la più bella e cortese donna del mondo, i re fratelli che ne hanno cura sono
     «nobili e possenti», «nati d’altissima stirpe» e via discorrendo. La loro corte è splendi-
     da, servita dai superbi cavalieri di laggiù, fedeli fino alla morte. Le vicende che egli si
     appresta a narrare non sono comuni, come comuni non sono i personaggi cui accadono.
     Sono imprese «immense» (grôzer arebeit), sia liete che funeste:

        Nelle antiche leggende son narrate cose stupende
        di guerrieri famosi, imprese immense,
dante narratore, a confronto con l’europa

   di feste e di letizia, di lacrime e di pianto,
   di lotte d’audaci guerrieri; di ciò udrete narrar meraviglie.2

    Se il poeta dicesse “io” e mettesse se stesso in primo piano, le vicende sovrumane
che si accinge a narrare, presentandosi come il loro ultimo relatore, sarebbero irri-
mediabilmente sminuite. È un problema di prospettiva. Questo modo di introdurre
la materia narrativa non è un’invenzione dell’autore dei Nibelunghi, che anzi scrive
piuttosto tardi e non fa in questo che seguire degli antichi cliché del genere. Per ren-
dercene conto, restando in area germanica, possiamo pensare all’incipit di un’altra
opera molto famosa, l’Annolied, che è precedente di almeno un secolo. Qui l’autore
spersonalizza la sua voce usando a più riprese il pronome plurale (wir), e per il resto                        19
usa gli stessi toni che ritroveremo all’inizio del grande poema nibelungico. Le alte
maere corrispondono qui alle alte dinge, e analogo è il riferimento ai capisaldi della
materia trattata. Solo la considerazione gnomica finale attribuisce all’incipit un carat-
tere per certi versi più intimo e modesto:

   Spesso sentimmo cantare
   di fatti antichi:
   come audaci eroi combatterono,
   come espugnarono robuste città,
   come legami fra persone si divisero,
   come potenti re vennero meno.
   Ora è tempo per noi di pensare
   a come noi stessi finiremo.3

    L’autore preferisce nascondersi e far parlare direttamente la materia narrativa. In
generale, nell’epica volgare propriamente detta, gli elementi introduttivi sono ridotti
ai minimi termini. L’azione inizia subito, appena dopo la presentazione di alcuni fra
i principali personaggi. Salvo eccezioni questa è una caratteristica comune all’epica
medievale, malgrado le differenze non da poco che potrebbero essere sottolineate fra
una tradizione nazionale e un’altra.
    L’inizio della Chanson de Roland è ancora più brusco. Anche qui è escluso ogni
riferimento autoriale (come a tutti è noto, un nome, quello di Turoldus, appare alla
fine del poema, ma si discuterà all’infinito di quale sia la sua funzione, e comunque
pochi pensano che si tratti dell’autore). L’azione ha subito inizio, e anche qui la gran-
dezza della materia è evocata, seppure concisamente, per cenni. Ci si riferisce infatti
alla grandezza di Carlo, alla sua lunga guerra di Spagna. Anche qui la grandezza degli
eventi è accennata attraverso il riferimento alla forza sovrumana del destino, che tutto

  2 «Uns ist in alten mæren wunders vil geseit / von helden lobebæren, von grôzer arebeit, / von fröuden,
    hôchgezîten, von weinen und von klagen, / von küener recken strîten muget ir nu wunder hœren
    sagen» . (Das Nibelungenlied, nach der Ausg. von Karl Bartsch, hrsg. von Helmut de Boor, Wies-
    baden, Brockhaus, 1979, trad. it. I Nibelunghi, a cura di Laura Mancinelli, Torino, Einaudi, 1995).
  3 «Wir horten ie dikke singen / von alten dingen, / wi snelle helide vuhten, / wi si veste burge braechen,
    / wi sich liebin winischefte schieden, / wi riche kunige al zegiengen. / nu ist zit, daz wir dencken, /
    wi wir selve sulin enden» (Das Annolied, in Frühe deutsche Literatur und lateinische Literatur in
    Deutschland 800–1150, hrsg. von Walter Haug, Benedikt K. Vollmann, Frankfurt a. M., Deutscher
    Klassiker, 1991).
franco suitner

     sovrasta (re Marsilio «non potrà evitare che sventura lo colga»). Questo elemento
     sembra in qualche modo caratteristico dell’epica, e lo avevamo trovato già nell’attac-
     co dei Nibelunghi. La tragicità degli eventi futuri è già scritta, e sovrasta i personaggi.
     Anche questo elemento, indirettamente, sembra sminuire in qualche modo il ruolo
     dell’autore. Tutto è già predisposto, in quanto accade, la storia è mossa da forze più
     grandi di quelle dell’uomo singolo, e non sembra esservi spazio per le forze della
     fantasia e dell’invenzione, che a poco servirebbero di fronte alla grandezza dei fatti
     raccontati. Questi sono già noti, a chi li narra ma anche in buona parte a chi li ascolta.
     Il narratore, all’inizio, deve essenzialmente evocarli. Una sorta di breve riassunto,
     di accenno agli eventi più notevoli di cui si parlerà, si trova spesso nel prologo delle
20   chansons, ma si tratta però sempre di cenni, che lasciano subito luogo all’inizio dell’a-
     zione. L’attacco della Chanson de Guillaume, ritenuta una fra le più antiche dell’epica
     francese, può sotto questo aspetto essere considerato tipico.
         L’insistenza sulla straordinarietà degli eventi e dei personaggi che ci si accinge a
     raccontare fa talmente parte della tradizione epica che si ritrova poi frequentemente
     anche in altro tipo di narrazioni, per esempio in quella sorta di parodia dell’epica e
     del romanzo cortese che è costituita dall’epopea degli animali parlanti di derivazione
     francese. Reinhart Fuchs, versione tedesca della storia di Renart, ha per esempio un
     attacco che può ricordare quello dei Nibelunghi.4
         La medesima cosa, per quel che possiamo capire, accadeva probabilmente
     nell’epica spagnola, anche se disponiamo di poche testimonianze antiche. Purtroppo,
     la pagina iniziale del Cantar de mio Cid è andata perduta, ma per come possiamo
     ricostruirla attraverso alcune prose correlate tutto fa pensare che il racconto degli
     eventi cominciasse subito, con la narrazione delle circostanze che preludono all’esilio
     cui l’eroe è condannato dal re. Secondo gli studiosi, l’ipotesi più probabile è proprio
     che il poema cominciasse “in medias res”, a trama già avanzata, aprendosi con l’or-
     dine dell’esilio e allusioni ai fatti antecedenti, sfruttando la circostanza che l’uditorio
     era già a conoscenza di alcuni elementi essenziali che riguardavano il Cid.5 Quel che
     insomma accadeva anche agli ascoltatori del Roland a proposito di Carlo Magno e
     dei suoi paladini. È possibile, e anzi è probabile, che la pagina iniziale dell’opera
     prevedesse alcune brevi considerazioni introduttive, ma dobbiamo immaginarle un
     po’ secondo le modalità di quelle del Roland, ridotte al minimo. Allo stato attuale il
     poema inizia splendidamente, con movenza cinematografica, con un primissimo pia-
     no del protagonista piangente che contempla le sue cose abbandonate e si commuove
     su se stesso, rivolgendo il suo lamento a Dio in forma diretta. La grandezza dell’eroe e
     quella della materia che il narratore si accinge a raccontare erano con ogni probabilità
     dichiarate al solito modo nei versi iniziali. Un indizio di ciò mi pare si possa vedere
     non solo nell’enfasi che accompagna fin dall’inizio il nome del personaggio, ma dal
     fatto che la sua grandezza è dichiarata ancora da una sorta di coro tragico che gli fa
     da contorno, quello degli abitanti di Burgos che assistono all’entrata in città di lui e
     del gruppo dei suoi fedelissimi. Il parallelo col Roland appare perfetto. La situazio-

       4 Di questo interessante testo esiste anche una recente edizione italiana: Heinrich der Glîchesære, La
         volpe Reinhart, a cura di Carla Del Zotto, Roma, Carocci, 2007.
       5 Cfr. Cantar de mio Cid, ed. de Alberto Montaner, estudio preliminar de Francisco Rico, Barcelona,
         Crítica, 1993, pp. 377–378.
dante narratore, a confronto con l’europa

ne, anche per l’epica spagnola, sarà cambiata successivamente. Maggiori riferimenti
all’autore, in sede iniziale, si riscontrano per esempio nel Poema de Fernán González,
che è però un testo più tardo, almeno nella redazione giunta a noi, chiaramente rispon-
dente a modelli più culti.
    Il mimetizzarsi e quasi il nascondersi dell’autore nell’epica può essere compreso
appieno solamente confrontando questi testi con altri appartenenti a generi diversi ma
contigui. Non mi riferisco ovviamente a quelli lirici, coi quali l’esito del confronto
è scontato, quanto a quelli narrativi più tardi. Penso al romanzo cortese di materia
bretone. È noto che in quasi tutti i romanzi in versi di Chrétien de Troyes, la cui
composizione risale agli anni fra i ’60 e ’80 del XII secolo, l’autore si affaccia prepo-
tentemente in scena proprio nel prologo. Egli mescola riferimenti a se stesso e alle sue                         21
capacità e attitudini con accenni e anticipazioni tematiche circa la materia che tratterà
nell’opera. Nel prologo di Cligès l’autore arriva a offrire una sorta di suo curriculum
professionale, elencando le opere che ha prodotto in precedenza:

   Colui che compose la storia d’Erec e d’Enide,
   e i comandamenti d’Ovidio
   e l’Arte d’amare tradusse in francese,
   e creò la storia della spalla mangiata,
   e scrisse del re Marco e di Isotta la bionda,
   e della metamorfosi dell’upupa e della rondine
   e dell’usignolo,
   inizia un nuovo racconto,
   …
   Ma, prima che di lui vi dica,
   ascolterete la vita di suo padre.6

    In altri prologhi Chrétien si nomina e comunica alcuni elementi assai importanti
per la comprensione del suo modo di intendere l’ideologia e l’arte del racconto. Anche
lui non pretende in generale di “inventare” la sua materia, e nei prologhi la fa risalire
sempre a qualcun altro, alla tradizione o addirittura ai suoi protettori e ispiratori. La
vera novità è che attribuisce un valore essenziale, decisivo, alla sua mediazione d’au-
tore. L’enfasi non è più posta sulla grandezza degli avvenimenti e dei personaggi, o
almeno non soltanto su ciò, ma sul modo in cui riesce a trasmettere una storia che pure
dice di aver derivato da altri. La sua opera non è generalmente qualificata come bella o
come piacevole, come capitava al narratore delle chansons de geste, ma è lodata come
una ricreazione unica, d’autore, che solo lui in un certo modo ha potuto produrre e che
proprio a causa dell’eccellenza della fattura potrà durare nel tempo. Tipico in questo
senso è anche il prologo di Érec — anche se bisogna dire che quasi ogni prologo di
Chrétien andrebbe bene per esemplificare il discorso — nel quale l’autore rivendi-
ca proprio la sua perizia di autore. Il concetto è molto simile a quelli che troviamo

  6 «Cil qui fist d’Érec et d’Énide, / Et les comandemanz d’Ovide / Et l’Art d’amors en romanz mist, /
    Et le Mors de l’espaule fist, / Del roi Marc et d’Isalt la Blonde, / Et de la hupe et de l’aronde / Et del
    rossignol la muance, / Un novel conte rancomance / D’un vaslet qui en Grece fu / Del linage le roi
    Artu. / Mes ainz que de lui rien vos die / Orroiz de son pere la vie, / Dom il fu, et de quel linage»
    (Chrétien de Troyes, Œuvres complètes, éd. dirigée par Daniel Poirion, Paris, Gallimard, 1994).
franco suitner

     espressi da Marie de France in alcuni prologhi dei suoi lais. I prologhi di Chrétien,
     e quelli di Maria di Francia, sono probabilmente gli esempi migliori che si possano
     scegliere per comprendere l’attitudine che ha il poeta cortese di fronte alla sua materia
     narrativa, e il ruolo che desidera vedersi riconosciuto dal pubblico. Questo non fa col
     tempo che aumentare, anche se emergono via via problemi diversi, che si manifestano
     particolarmente quando questa stessa materia si riverbera nelle aree letterarie vicine.
         Un autore straniero che riprenda la materia di Chrétien può ad esempio mani-
     festare il suo imbarazzo, almeno nei casi in cui si tratti di un autore con una no-
     tevole personalità. Prendiamo come esempio Wolfram von Eschenbach, il poeta di
     Parzival. Egli scrive più o meno nello stesso periodo, o poco dopo, rispetto all’autore
22   dei Nibelunghi, all’inizio del XIII secolo, ma la sua fonte principale non sono le alte
     maere, quanto un autore specifico e assai recente, appunto Chrétien. Ciò lo mette in
     un certo disagio. Non si può certo sostenere che egli sia un semplice rimaneggiatore,
     circostanza contraddetta anche a prima vista dal fatto che il suo poema moltiplica per
     tre le dimensioni del Conte del Graal dell’autore francese. La storia che racconta è
     tuttavia a quella palesemente ancorata. Wolfram prende ripetutamente le distanze da
     Chrétien, anche in polemica con gli autori tedeschi “cortesi” della sua epoca, e fini-
     sce per inventarsi una fonte verosimilmente fittizia, un certo Kiot provenzale, nome
     che sta probabilmente per un ‘Guiot’. Ciò gli serve a giustificare le deviazioni e le
     innumerevoli aggiunte rispetto alla sua fonte, rispettando tuttavia la convenzione che
     voleva che una storia medievale non fosse inventata dal nulla, ma derivasse da un
     racconto o da una fonte autorevole. Tende a sottolineare di non essere un chierico
     e non vuole che la sua narrazione sia considerata un libro e si ispiri a modelli dotti,
     come quelli seguiti dai suoi competitori. Si appella alla realtà, e soprattutto alla sua
     personale, individuale capacità di giudizio.
         Wolfram mostra di possedere una cultura e un’erudizione molto ampie, ma quel-
     lo che colpisce è soprattutto il tentativo di affermare il proprio diritto di autore a
     comunicare una visione personale delle cose, non filtrata letterariamente. In tre versi
     che mi sembrano molto importanti difende il proprio diritto a vedere e giudicare
     indipendentemente cose e persone, e dice che baserà su ciò il patto di fiducia con il
     suo lettore (114–115):

        Chi rispetta il mio diritto
        sia a vedere che a sentire,
        non sarà da me ingannato.7

         Il disagio e le contraddizioni che emergono da questa complessa disposizione fi-
     niscono col rivelarsi nei continui, direi quasi ossessivi interventi dell’autore in prima
     persona nel corso della narrazione, interventi che si situano ormai quasi all’opposto
     di quelli, inesistenti o parchissimi, del tradizionale compilatore di canzoni di gesta.
     Wolfram, inquieto e ansioso di manifestarsi al lettore, è onnipresente nel suo testo.
     Non si limita ad alludere a se stesso come autore, si interrompe di continuo con com-

       7 «swelhiu mîn reht wil schouwen, / beidiu sehen und hœren, / dien sol ich niht betœren» (Wolfram
         von Eschenbach, Parzival, hrsg. von K. Lachmann, Berlin–New York, de Gruyter, 2003 (trad. di C.
         Gamba in W. von E., Parzival, Torino, Einaudi, 1993).
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