LE CARTE E LA STORIA 1/2019 - Archivio Istituzionale Open ...
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LE CARTE E LA STORIA RIVISTA DI STORIA DELLE ISTITUZIONI ANNO XXV 1/2019 Autore: Antonio Chiavistelli Pagine: 63-78 Editore: il Mulino ISSN: 1123-5624
Tra identità e mandato. Modelli di rappresentanza nel lungo Quarantotto italiano di Antonio Chiavistelli Between identity and mandate. Representation models in the long Italian 1848 The Italian 1848, with its revolutions and requests for representative constitutions, is a very sig- nificant observatory for the study of Italian political thought and institutional solutions tried out in the various states of the peninsula. The events of 1848 actually allow to verify if Italian subjects were fully aware of the modern and double link between representation and election or if they still preferred municipal and/or traditional constitutions. The article provides an interpretation about the unexpected choice of the liberal census model. Keywords: Representation; Elections; State; Constitution; 19th century. 1. Il lungo Quarantotto Chi intenda indagare sulla circolazione dei modelli 1 di rappresentanza all’interno degli Stati “regionali” della penisola italiana all’altezza del 1848 deve necessariamente con- frontarsi con il più ampio processo di riforma che dalla metà degli anni ’40 investì quegli Stati dove la ricerca di un nuovo assetto “costituzionale” mobilitò ampi segmenti della neonata sfera pubblica 2. Stati che nella primavera dell’anno dei portenti, adottarono tutti carte basate sul sistema “rappresentativo” e vararono leggi elettorali centrate sul voto individuale, diretto, a un grado 3. Proprio a seguito di questa “svolta costituzionale”, preme ricordare, quegli stessi ordinamenti accolsero parlamenti “moderni” sul modello offerto dal liberalismo classico e in voga nei paesi europei di consolidata tradizione costituzio- nale 4; parlamenti che riunivano, appunto, “rappresentanti” eletti secondo procedure del tutto inedite nella penisola e informate al principio individualistico e rivoluzionario “un voto per una testa”. Per analizzare l’evolversi di un “discorso” sulla rappresentanza all’interno della peni- sola, dunque, il dibattito pubblico avviato dalla metà degli anni Quaranta sulla riforma dello Stato e quello più ravvicinato sulle costituzioni – pur nella consapevolezza che il processo di costituzionalizzazione non inaugurò un parallelo processo di parlamentariz- zazione – risultano elementi di confronto ineludibili. È, infatti, proprio all’interno di questo dibattito che, diversi decenni dopo la cesura di fine Settecento 5, quando il concetto di rappresentanza, quasi come lo intendiamo oggi, fu “inventato”, si ebbe nuovamente occasione per discutere, un po’ a tutte le latitudini, dei criteri di selezione dei governanti e del nesso che avrebbe dovuto legarli ai sudditi. LE CARTE E LA STORIA, N. 1, 2019
64 ANTONIO CHIAVISTELLI È questo, un dibattito che conferma il carattere controverso del concetto stesso di rap- presentanza 6 e, di più, che consente di indagare la percezione contraddittoria che della rappresentanza ebbero i ceti dirigenti “regionali” chiamati, in quel torno di settimane tra l’inverno e la primavera 1848, a scrivere costituzioni e leggi elettorali in linea con le basi “rappresentative” di cui poco si era parlato pubblicamente nel decennio precedente e che invece nel corso degli ultimi mesi del 1847 erano poste al centro di ogni riflessione sulla riforma degli Stati restaurati. Per quanto riguarda il carattere controverso del concetto di rappresentanza e di governo rappresentativo 7 che trovò accoglienza nelle carte italiane del 1848 preme segnalare che si basa sulla coincidenza di due dispositivi 8 a loro volta delineatisi in epoche distanti dal secolo XIX; ossia della rappresentanza-identità, affermatosi dal XII secolo in avanti soprat- tutto per la selezione dei ceti dirigenti cittadini e dei governanti locali 9 e della rappresen- tanza-mandato, sperimentata intorno al XV secolo, per la selezione di rappresentanze cen- trali di tipo protoparlamentare 10 all’interno dei primi Stati, con il precipuo scopo di rappresentare al centro l’impegno dei soggetti sul territorio a sentirsi vincolati dalle scelte di quegli stessi rappresentanti di fronte al principe11 che, a sua volta, si trovava così age- volato nell’imposizione di scelte particolarmente “dolorose” per l’intera collettività 12. Una coincidenza, della rappresentanza-identità e della rappresentanza-mandato che, allora come oggi, fa del modello rappresentativo a base elettiva un sistema molto utiliz- zato – pur con tutte le sue metamorfosi – per la legittimazione dei governanti e, al con- tempo, per la personificazione della comunità 13 nazionale. Il Quarantotto italiano, dunque, con le sue “rivoluzioni”, con le rivendicazioni di riforme all’assetto degli enti locali 14 e, infine, con la richiesta di costituzioni “rappresentative” è un osservatorio utilissimo per lo studio dell’evoluzione del pensiero politico nostrano e delle conseguenti trasformazioni istituzionali sperimentate dai vari Stati della penisola. Osservate attraverso l’ottica della rappresentanza le vicende quarantottesche consentono di verificare se e in che misura, a quell’altezza, il nesso moderno e biunivoco tra rappresentanza ed ele- zioni 15, sancito nel corso delle rivoluzioni di fine Settecento 16, era da tutti acquisito; oppure se per la riforma dello Stato, che oramai pareva ineludibile, i sudditi italiani pensavano di poter continuare a guardare a soluzioni indigene basate sul recupero delle forme tradizionali di selezione dei dirigenti 17. La verifica, del resto, pare opportuna perché molte fonti relative al discorso pubblico di quella stagione paiono indicare una forte persistenza della concezione della rappresentan- za-incarnazione; si trattava di una concezione che vedeva il corpo di provenienza (come blocco indistinto) riflesso nei rappresentanti che, conseguentemente, si presumevano legit- timati sulla base di una logica corporativa. Era una logica per molti aspetti, simile a quella descritta dal principio teorico pars pro-toto 18, tipico delle assemblee comunali del Basso Medioevo, quando l’elezione, lungi dall’essere legittimante era in realtà un passaggio for- male con cui veniva scelto il corpo dei rappresentanti attingendo ad una ristretta cerchia di cittadini, già – a priori e sulla base di requisiti costituzionalmente prefissati – legittimati a governare proprio in virtù di requisiti distintivi predefiniti. La legittimazione dei rappre- sentanti, dunque, secondo questa concezione, interveniva ben prima delle elezioni, e cioè nel momento in cui nella comunità costoro erano percepiti come meliores e come tali rite- nuti in grado di governare per il bene della comunità tutta 19. L’elezione, pertanto – preme segnalarlo – era solo una procedura per stabilire, all’interno di quel gruppo dei migliori, la turnazione per l’accesso alle cariche di governo 20.
TRA IDENTITÀ E MANDATO. MODELLI DI RAPPRESENTANZA NEL LUNGO QUARANTOTTO ITALIANO 65 2. Dentro il “discorso” Entrando all’interno della sfera pubblica della penisola in quei mesi tra il 1847 e il 1848 appare piuttosto evidente come l’ideario dei gruppi dirigenti “regionali” impegnati in un complicato processo di ammodernamento istituzionale contemplasse sia soluzioni di tipo rappresentativo ed elettivo individualistiche sia anche soluzioni volte a dare voce alle piccole patrie locali attraverso forme “rappresentative”, non necessariamente elet- tive 21 e di ispirazione variamente cetuale e/o corporativo 22. Il dibattito sulla riforma delle istituzioni statali, sulle costituzioni e sulle leggi elettorali, infatti, mostra come la scelta del modello liberal-censitario rappresentativo, a base elet- tiva, individuale e a un grado, comune a tutte le carte della penisola, si fece strada solo tra la fine del 1847 e l’inizio del 1848, dopo che per moltissimi mesi il dibattito interno ai vari Stati si era, invece, svolto alla ricerca della migliore forma per una “costituzione tradizionale”, storica, locale cioè basata su istituzioni rappresentative di tipo cetuale e/o corporativo. Identità locale e appartenenza nazionale 23, rappresentanza corporativa e rappresentan- za-mandato, Vertretung e Repräesentation 24, ancora alle prime settimane del 1848, appa- rivano valori, concetti e formule quasi perfettamente alternativi e sovrapponibili non solo per i circoli di corte impegnati a contenere le effervescenze della sfera pubblica mobilitata ma – sorprendentemente - anche per buona parte di coloro che, sul versante opposto, all’interno della sfera pubblica, e a prescindere dalla loro impostazione “ideologica” 25, dagli anni Quaranta in avanti, si erano imposti come autentici opinion leader. Il trapasso alla nuova forma di Stato, giunto nei primi mesi del 1848 con la concessione di costituzioni rappresentative, lungi dal pacificare gli animi, aprì ovunque una nuova stagione di discussione 26 in cui, anche e soprattutto per dare concreta attuazione alle isti- tuzioni parlamentari – tra le più importanti del moderno sistema costituzional-rappre- sentativo ottocentesco –, l’alternativa tra la scelta di modelli “stranieri” o modelli indigeni si incentrò proprio sul tema della rappresentanza (mandato oppure identità, individuali- stico o corporativo), più o meno consapevolmente, intesa come dispositivo per costruire quella rappresentanza centrale che oramai un po’ tutti – governanti e governati, liberali e democratici – vedevano al vertice delle istituzioni riformate. E, allora, una ricognizione all’interno del “discorso” di quei mesi ci pare possa rivelarsi di una qualche utilità per ricostruire l’immaginario “istituzionale” del pubblico allora mobilitato. 3. La voce dei corpi nella nazione plurale: la rappresentanza-identità Un primo modello che incontriamo nel discorso pubblico della penisola è quello che possiamo definire della rappresentanza-identità o, nella sua versione più diffusa, cetual- municipale, cioè fondato sulla costruzione di rappresentanze locali che dalla base muni- cipale, attraverso un sistema a più gradi, approdava a una rappresentanza centrale di scala “regionale” 27 o, (dall’autunno 1847) in una variante municipal nazionale per realizzare una sorta di Parlamento confederale 28, incarnazione delle comunità regionali 29. L’idea di una rappresentanza corporativa-municipale all’altezza degli anni Quaranta del secolo XIX non era certo nuova; alcuni decenni prima, infatti, era stata teorizzata e discussa, tra gli altri, da Vincenzo Cuoco 30 dopo la presa di coscienza dell’impossibilità di realizzare, nella penisola, una rappresentanza a base individuale sul modello rivoluzio-
66 ANTONIO CHIAVISTELLI nario francese come, invece, preteso dai generali francesi inviati in Italia dal direttorio 31. Cuoco, infatti, già testimone diretto del fallimento della Repubblica partenopea era con- sapevole dell’estraneità di quel modello individuale elettivo rispetto alla realtà italiana; “le idee della rivoluzione di Napoli – scriveva – avrebbero potuto essere popolari ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della nazione. Tratte da una costituzione straniera erano [cosa] lontanissima da’ sensi” 32. Meglio, invece, egli sosteneva, “rinnovare al popolo le antiche sue leggi” 33 fondando l’intero sistema costituzionale sul “sistema municipale [che] ci procura infiniti vantaggi [e] ci salva anche nel tempo stesso da mali infiniti” 34. Il messaggio di Cuoco è chiaro e, in termini di rappresentanza, puntava diritto all’istituzio- nalizzazione di quell’ordine naturale e plurimo della società italiana di metà Ottocento 35 di cui molti, insieme al filosofo napoletano, erano consapevoli e, anzi, apprezzavano. In sostanza, questa proposta prevedeva la creazione di una gerarchia crescente di rap- presentanze di corpi intermedi, dalla base municipale fino a quella centrale composta “di rappresentanti il numero de’ quali proporzionato alla nostra popolazione” 36. L’appeal del modello municipale basato sul recupero delle tradizioni locali, all’altezza del 1848 fu davvero sorprendente. “Volendo creare una legge che componga in modo veramente acconcio e durevole la forma governativa di uno Stato – affermava un foglio del moderatismo genovese – la prima cosa si è di fondarla sopra basi schiettamente nazio- nali, [tradizionali e municipali] e non […] imitare le costituzioni straniere” 37. Analogamente alcuni liberali bolognesi “confess[avano] che [per] la ricostituzione dei Governi italiani [avevano] […] un ideale di Costituzione diverso da quella Francese” 38 e anche dal Mezzogiorno forte era il richiamo per una costituzione municipale: “lasciate le […] elezioni a’ liberi municipi [...] eccovi lo stato più bello e maestoso, eccovi lo stato italiano; al quale gli altri stati costituzionali [avrebbero dovuto] uniformarsi” 39. Insomma, gli Stati italiani andavano riformati secondo “una foggia tutta nostra” 40 e costruendo “una centralità rappresentativa politica appoggiandola sovra le rappresentanze comunali e pro- vinciali, [e sul] municipio liberamente [...] cristianamente costituito […] che da diecinove secoli è fonte di vita e redenzione pel genere umano” 41. Lo schema municipale 42, così recuperato nel lungo Quarantotto, in una sorta di conti- nuità con la “gloriosa tradizione comunale italica” veniva declinato secondo il consolidato paradigma della rappresentanza-incarnazione (i rappresentanti rappresentano in blocco tutto il corpo da cui provengono), nel cui quadro, secondo alcuni dei suoi sostenitori, si poteva fare a meno della selezione elettorale, fonte di possibili turbolenze e fazioni 43. Rappresentanti e rappresentati – secondo questo modello – erano indissolubilmente legati e legittimati dall’appartenenza alla stessa comunità territoriale di cui si volevano portare gli interessi all’attenzione del sovrano. Sovrano che, secondo una visione dualistica, era ancora percepito come ineludibile elemento costitutivo della “nazione” regionale 44. Su una concezione dualistica, del resto, paiono muoversi anche numerose altre pro- poste di questo periodo, ad esempio quelle avanzate da coloro che come Cesare Balbo e alcuni settori delle élite degli Stati restaurati, facevano del sistema inglese, percepito nella sua declinazione tradizionale di King in parliament, il modello di riferimento 45. La rappresentanza proposta dagli animatori di questo segmento della sfera pubblica, pur nella scelta di un sistema a base elettiva individuale 46, attraverso il filtro censitario avrebbe dovuto riprodurre l’assetto tradizionale e cetuale così da creare – scrive proprio Balbo – quel governo misto del “re [dei] grandi e [del] popolo” 47 che era considerato il
TRA IDENTITÀ E MANDATO. MODELLI DI RAPPRESENTANZA NEL LUNGO QUARANTOTTO ITALIANO 67 solo in grado di rappresentare, rispettandone il carattere composito, la comunità nazio- nale; una comunità che, è quasi superfluo notare, era percepita plurale e stratificata. La cifra specifica di questa proposta sta nell’utilizzo del censo, non inteso come indice di capacità, bensì come criterio per delimitare i confini cetuali dei soggetti chiamati a par- tecipare alla scelta dei rappresentanti 48. Ugualmente dualistiche e corporative erano anche le proposte che puntavano a rap- presentare nella loro gerarchia sociale i principali “interessi economici”; in questa dire- zione andava la rappresentanza immaginata dall’abate Antonio Rosmini il cui progetto costituzionale 49 ebbe una certa diffusione in quegli anni e che prevedeva la formazione di due camere elettive espressione del diverso “grado” di proprietà dei sudditi sì da rap- presentare al centro gli interessi, rispettivamente, “dei proprietari maggiori e dei proprie- tari minori” 50. Sulla stessa lunghezza d’onda erano allineate anche le proposte di una parte del mon- tante moderatismo padano che con Filippo Linati aspirava a costruire “un sistema politico che dall’individuo, traverso al comune e alla provincia, sal[iva] infino allo Stato” 51 dove per rappresentare la complessità economica del “civile consorzio” nazionale erano previste rappresentanze corporative e intermedie del tutto simili a quei “corpi d’arti e mestieri [...] delle repubbliche del Medio Evo” 52 tese a riprodurre “le due classi [dei proprietari e dei lavoratori] in due comizii separati” 53 insieme ai quali, a conferma della natura corporativa e duale, “tramezzar dovrebbe il potere regio [...] per mantenere un armonico accordo” 54. 4. La rappresentanza-mandato per la nazione dei democratici: il suffragio universale Insomma, a distanza di oltre un quarantennio dalla stagione rivoluzionaria 55 che aveva portato all’attenzione di tutti la necessità di superare le antiche forme corporate, il dibat- tito del lungo Quarantotto italiano pareva ancora poco attento al modello di una rappre- sentanza a base individuale ed elettiva che dalla rivoluzione, era scaturito. Tra coloro che, invece, senz’altro apprezzavano quel sistema sono da individuare gli animatori dell’effervescente movimento democratico attivo già, almeno, dagli anni Trenta, e ispirato dal pensiero politico di Giuseppe Mazzini. Proprio riflettendo sulla portata sociale e politica della Rivoluzione francese, “il più grande avvenimento de’ tempi moderni” 56, Mazzini in quel torno di anni, rimproverava “sine ira et studio” 57 il poeta inglese 58 Thomas Carlyle che l’aveva invece raccontata riducendola a mera sequenza di fatti individuali. E proprio ragionando sulle diverse con- cezioni di rappresentanza, in quello stesso periodo bene illustrava le peculiarità del pen- siero democratico. Nelle vivaci pagine della sua recensione 59 all’opuscolo di Guizot Pensieri sulla democrazia egli infatti accusava l’autore di voler costruire una “aristocrazia delle classi medie” 60. A quel sistema egli contrapponeva “la credenza democratica” 61 basata sull’“universalità della nazione [...] sola capace di giudicare se ciò che si è fatto sia per suo bene” 62 e per la quale “l’unico mezzo possibile di pronunciare il suo giudizio, è il suffragio nazionale o universale” 63. Il pur variegato universo democratico che allora ruotava attorno a Mazzini, dunque, puntava a superare la rappresentanza dualistica e corporativa in nome di una “legge mora- le divina, di sovranità nazionale, sola e progressiva” 64. Già nel 1835, del resto, Mazzini si era già dichiarato a favore “del suffragio universale, uniforme, libero” 65, quale sistema per “la nazione di costituire i propri rappresentanti, delegandoli coll’elezione” 66 così
68 ANTONIO CHIAVISTELLI come nel 1848, guardando al coevo modello francese, un foglio progressista fiorentino auspicava di poter presto “sollevare la bandiera repubblicana [...] e del suffragio univer- sale e diretto” 67. Siamo, con questo modello, su un piano completamente diverso rispetto a quello cetual-municipale visto in precedenza. Anche a livello di parole-chiave, per i democratici, la comunità nazionale assume, in termini costituzionali, un assetto monista con al centro una rappresentanza di deputati investiti del mandato rappresentativo a base elettiva che attingeva anche al dibattito costituzionale francese che proprio in quegli anni, sulle forme della rappresentanza aveva acquisito maggiore densità concettuale 68. Al di qua delle Alpi, invece, le posizioni tra i diversi schieramenti non erano sempre nette e, ad esempio, l’esame di alcuni progetti provenienti dagli ambienti dell’esultato, che giunse a far circolare un Progetto di costituzione per l’Italia 69 (1835), rivela come anche tra i democratici l’idea della rappresentanza-mandato a base individuale e diretta fosse talvolta ibridata con forme di rappresentanza-identità espressa da elezioni a più gradi 70, fino a una rappresentanza centrale concepita come istituzione unanimistica ed espressione della volontà popolare, “unica fonte legittima d’ogni pubblica potestà” 71. Proprio in senso “conservatore”, qualche decennio dopo, nel biennio turbinoso, alcuni ambienti del moderatismo cattolico, interrogandosi su quale modello avrebbe meglio rap- presentato la “volontà nazionale” affermavano “doversi adottare il sistema del suffragio universale [...] non tumultuoso, fanatico o demagogico, ma spontaneo e conscenzioso e per quanto si possa, illuminato e [...] [dunque] indiretto” 72. D’altronde, giova notare che la costituzione della Repubblica romana, per quanto espressione epifanica della stagione quarantottesca, fu stesa da un’assemblea costituente eletta a suffragio universale diretto 73 e che in quella stessa costituzione la cittadinanza politica e individuale, depurata dei requisiti capacitari o censitari, fu di fatto riconosciuta a tutti gli individui componenti la comunità nazionale della penisola 74. 5. La rappresentanza-mandato dei più capaci: il suffragio censitario individuale In ultimo, anche dal punto di vista cronologico prese forma la proposta di una rappre- sentanza liberal-censitaria a base elettiva, individuale e diretta ispirata ai principi del liberalismo europeo rivisti dai doctrinaires francesi dal 1817 in avanti. Allora infatti, al di là delle Alpi, fu definito il carattere elettivo, censitario e diretto della rappresentanza della charte 75 del 1814 e discutendo della legge elettorale, i liberali transalpini nella loro pluralità di posizioni ideologiche e politiche 76, impressero una forte connotazione teorica al dibattito sulla selezione dei deputati. Per costoro – e per molti di coloro che negli anni a seguire si sarebbero trovati a discutere del tema – scegliere tra suffragio indiretto e diretto o intervenire sulla latitudine della cittadinanza politica, non era più una semplice questione di numero e di tecniche per circoscrivere il momento della deliberazione a una cerchia di rappresentanti più o meno ampia (o ristretta), bensì decidere sull’essenza stessa della rappresentanza nel quadro di uno Stato che si voleva comunque moderno e “pro- gressivo”. E fu proprio a quell’altezza che i doctrinaires “importarono” sul continente 77 il principio di legittimazione basato sulla logica “pochi ma buoni”; cioè pochi elettori ma capaci di scegliere razionalmente rappresentanti capaci di agire per il bene della comunità. Anche Constant, che è noto, si accostava a questo dibattito da altre posizioni osservava: “il vaut donc beaucoup mieux accorder à cent mille hommes une participation
TRA IDENTITÀ E MANDATO. MODELLI DI RAPPRESENTANZA NEL LUNGO QUARANTOTTO ITALIANO 69 directe, active, réelle, à la nomination des mandataires d’un peuple, que de faire de cette participation un monopole pour seize ou vingt mille sous prétexte de conserver à [quelques] millions, une participation indirecte, inactive, chimérique, et qui se borne tou- jours à une vaine cérémonie” 78 fino a concludere significativamente che “l’élection direc- te constitue seule le vrai système représentatif” 79. Per una parte dei ceti dirigenti della penisola che nel 1848 furono chiamati dai rispettivi sovrani a ridefinire le forme dello Stato e a porvi al centro una qualche istituzione rap- presentativa, il dibattito transalpino di alcuni decenni addietro era ancora attuale, come attuale, e attuabile, appariva ai loro occhi il modello di rappresentanza allora uscito vin- citore dal confronto interno al liberalismo francese 80. La rappresentanza che emerge dalla proposta avanzata dal gruppo dei liberali italiani che nel Quarantotto si ispiravano ai liberali francesi della Restaurazione e tra i quali, è noto, su tutti spiccava il conte Cavour 81 è antitetica a quelle municipali e variamente corporate ma si distingue, del pari, da quella immaginata dai democratici. Come già per i “francesi”, per i liberali nostrani non si trattava semplicemente di scegliere se sdoppiare il momento della legittimazione e il momento della deliberazione o di aumentare o ridur- re la latitudine della comunità a cui riconoscere il diritto di deliberare su scelte per la comunità, quanto piuttosto, e soprattutto, di definire i termini del rapporto tra il rappre- sentante e il rappresentato, un rapporto che, come già i francesi, Cavour e i suoi sodali della penisola 82 volevano diretto, perché solo così, direttamente e senza graduazioni intermedie, l’elezione era in grado di selezionare rappresentanti tra i più capaci del paese ad agire per il bene comune; e, del resto, anche per i segmenti più avanzati era chiaro che “nel governo rappresentativo [...] il potere, cioè l’amministrazione, non attira a sé che gli elementi più eletti dalla nazione” 83. Già alcuni anni prima, Guizot stesso aveva puntualizzato: “le but de l’élection est èvidemment d’envoyer au centre de l’État les homme les plus capables et les plus accrédités du pays” 84 precisando che “toute élection indirecte, tout nouvel intermédiaire placé entre le Parlement et l’électeur, eût paru et eût été en effective atténuation du droit, un affaiblissement de l’importance et de l’in- tervention politique des électeurs” 85. Per Cavour e i liberali del Quarantotto il rapporto che si pensava esistere tra individuo, nazione e Stato, tra elettore ed eletto doveva essere diretto e doveva passare attraverso una elezione 86 da parte dei più capaci per selezionare i più capaci, laddove il criterio quasi esclusivo per misurare la capacità doveva essere, il censo. Al centro del sistema era posto il singolo individuo che già aveva conquistato la libertà di parola nella sfera pubblica e che per il diritto elettorale così riconosciuto abbandonava lo status di suddito per acquisire quello ben più gratificante di cittadino. Per contestualizzare la circolazione di questo modello liberal-censitario è utile notare che tale proposta si affermò all’interno del dibattito pubblico, apparentemente quasi a sor- presa, solo dagli inizi del 1848, quando da molti mesi, lo si è visto, il discorso sulla rap- presentanza sembrava aver imboccato la via del costituzionalismo “indigeno”, municipale e variamente declinato in funzione del recupero delle diverse rappresentanze locali 87. Il principio “rivoluzionario” di “un cittadino un voto” che la rappresentanza liberal- censitaria conteneva arrivò per ultimo sulla scena ma fu poi quello concretamente appli- cato dalle varie costituzioni per essere, dalla primavera del 1848, anche sottoposto alla prova con le elezioni in tutti gli Stati della penisola 88.
70 ANTONIO CHIAVISTELLI Da questo punto di vista occorre segnalare che la legge elettorale piemontese 89 varata il 17 marzo 1848 da una commissione presieduta da Balbo 90 con la partecipazione di Cavour fu l’unica ad applicare in maniera “integrale” il principio liberale, equiparando elettorato attivo a quello passivo, facendo di tutti gli elettori dei potenziali eletti e dunque, davvero affidando alla “ragione” degli elettori la selezione di chi ritenessero più capace 91 a rappresentare il bene comune; circa il superamento della visione municipale e corporata, del resto, già lo Statuto affermava che “i deputati rappresentano la nazione in generale, e non le provincie in cui furono eletti” e che “nessun mandato imperativo può loro darsi dagli elettori” (art. 41). Al contrario, su questo aspetto, le altre leggi elettorali “regionali” erano meno esplicite e, anzi, in molti casi il principio liberale venne attenuato con disposizioni che circoscri- vevano la latitudine degli eleggibili. L’indicazione del profilo giuridico del deputato e dei requisiti richiesti per essere eletto in Parlamento risulta un aspetto di primaria importanza e la cui osservazione può fornire ulteriori spunti di riflessione sulla cultura politica dei vari gruppi dirigenti degli Stati della penisola e sulla loro diversa concezione del governo rappresentativo. Questo ragio- namento, del resto, non vale per il Piemonte dove l’adozione del modello liberale francese a favore di una sostanziale identità tra elettore ed eleggibile, risulta evidente 92; piuttosto vale per quelle realtà statuali in cui come a Napoli 93 e in Toscana furono poste delle ulte- riori limitazioni al diritto di elettorato passivo tale che l’eleggibile doveva avere, in ter- mini di requisiti giuridici, un qualche carattere distintivo rispetto all’elettore. Si tratta di limitazioni che, infatti, possono testimoniare la presenza, seppur in forma latente, di una visione ancora corporativo-identitaria che faceva del deputato una sorta di mandatario del corpo di provenienza. In tal senso, ad esempio, la legge elettorale toscana, che vin- colava il diritto ad essere eletto al possesso di beni nel distretto elettorale 94; qui, anche le stesse pratiche elettorali, dalle campagne di propaganda alla formazione dei comitati elettorali fino alle stesse operazioni di voto – collettivo, per chiamata e all’interno di Chiese – rinviano ad una visione territoriale-identitaria della rappresentanza 95. E, in que- sto senso, davvero molto distanti appaiono le riflessioni sulla rappresentanza che già nel 1774 Edmund Burke aveva offerto agli elettori di Bristol 96. La concezione, nel discorso del Quarantotto italiano, del rapporto tra dimensione locale e dimensione nazionale, tra rappresentanza locale e rappresentanza nazionale, appare in molti protagonisti spesso contraddittoria, lo abbiamo visto, e dunque grande interesse, ai fini del nostro discorso, assume l’iniziativa che proprio all’inizio della “stagione costi- tuzionale” Cavour avviò contro la rappresentanza-corporativa e a favore del modello liberal censitario. Già il 12 febbraio 1848, infatti, inaugurando sul “Il Risorgimento” una serie di articoli dedicati proprio alla rappresentanza egli esortava “l’Italia centrale [Toscana] ad abban- donare la funesta idea d’innalzare sull’ordinamento dei Consigli comunali una consulta deliberativa” 97; precisando che tutte le “società moderne, in cui domina l’elemento cri- stiano, sono rette da principi quasi identici, onde puossi argomentare che gli ordinamenti politici che furono provati buoni in un paese, come la Francia ed il Belgio, possono venir adottati senza grave inconveniente in altri, che non sono ad essi inferiori dal lato dell’in- civilimento, come crediamo nol sieno i popoli italiani” 98. Il conte piemontese continuava poi evidenziando i rischi che avrebbe comportato una scelta di tipo municipale: “se i deputati debbono essere eletti dai Consigli comunali,
TRA IDENTITÀ E MANDATO. MODELLI DI RAPPRESENTANZA NEL LUNGO QUARANTOTTO ITALIANO 71 questi si preoccuperanno più che di qualunque altra cosa delle elezioni politiche, e quindi di mantenere i deputati nella dipendenza loro” 99, venendo così “a stabilire il mandato imperativo, condannato […] da tutti i pubblicisti illuminati” 100. Insomma, dal febbraio 1848, secondo Cavour e i suoi “amici” liberali, la rappresentanza centrale non avrebbe dovuto essere più il percolato di assemblee variamente rappresen- tative dei diversi livelli territoriali e/o cetuali bensì il prodotto di elezioni regolari e indi- viduali, che acquisivano valenza fondativa 101 dell’intero (nuovo) sistema costituzionale. A dispetto della grande diffusione del modello municipale, dalla fine di gennaio 1848, ovunque si affermò il modello a base individuale e censitario che, attraverso il prosieguo della storia costituzionale piemontese, sarebbe rimasto quasi immutato per molti decenni fin oltre la cesura del nuovo secolo 102. Quel modello apparve piuttosto gradito anche agli stessi governanti che dall’inverno del 1848 in avanti, come già accennato, lo adottarono in rapida successione. Naturalmente le varie corti della penisola, lungi dall’apprezzarne la caratura liberale e rappresentativa, furono soprattutto interessate dalla facile “manovrabilità” – a favore delle istituzioni monarchiche contro quelle elettive - che quel modello, attraverso la visione media- ta dalla pratica francese degli anni Quaranta che ne avevano, pareva loro garantire 103. 6. Conclusioni A fronte del “successo” del modello liberale-censitario e del repentino revirement a suo favore da parte di tutti i protagonisti della scena pubblica, dai governanti ai governati, forte risulta la curiosità di chi, come noi, oggi, seguendo quel dibattito, caratterizzato da un percorso “parallelo” del modello corporativo e del modello liberale, viene indotto a ritenere quel “successo” quasi inatteso e per certi aspetti occasionale. Perché insomma, viene da chiedersi, in Piemonte, in Toscana, nello Stato della Chiesa agli inizi del 1848 si poté passare così facilmente dal primo al secondo modello di rap- presentanza, dal modello municipale al modello liberale-censitario, senza troppi strappi né teorici, né politici dopo che per molti mesi tutti avevano discusso e progettato carte fondate su soluzioni indigene? Una risposta univoca, ci pare che non esista; di certo però fino da subito anche gli stessi protagonisti coevi si preoccuparono di spiegare l’adesione al modello liberal-censitario come derivata dalla “contingenza” politica, come un pro- dotto della fattualità immediata di quei giorni e dovuta all’ “effetto domino” provocato, su scala nazionale, dalla inattesa concessione, nel gennaio 1848, a Napoli di una costi- tuzione esemplata proprio sul modello francese. Molte sono, infatti, le voci coeve che raccontano quella svolta come inevitabile proprio a causa della scelta di Ferdinando II. “La Lega italiana” di Genova osservava che anche “ove il sentire italiano [era] più antico [...] [e dove] si voleva far argine a tanta invasione straniera. [...] il torrente [trascinò] tutti e i giornali [...] [cominciarono presto] a chiedere essi medesimi una costituzione sull’andare francese” 104; e pure a Roma si stigmatizzava quella “fatale” concatenazione fattuale: “iniziate le Riforme in Roma, tutta Italia domandò Riforme: poi, proclamata la Costituzione a Napoli, tutt’Italia domandò Costituzione” 105. D’altronde, lo abbiamo visto, per molto tempo tutti si erano concentrati, anziché sul modello liberale, sulla ricerca di una riforma delle istituzioni municipali e sulla costru- zione di una qualche forma di rappresentanza centrale 106 basata su tali istituzioni.
72 ANTONIO CHIAVISTELLI Da tale evidenza ci pare possano discendere due considerazioni: la prima riguarda il nesso strettissimo tra riforma municipale e svolta costituzionale 107; la seconda, attiene alla natura di tale svolta che, alla luce del nesso sopra evidenziato, appare molto più com- prensibile. In altri termini, cioè, pare plausibile sostenere che agli occhi dei liberali dei vari Stati della penisola impegnati per mesi nella elaborazione di una riforma al sistema municipale e giunti, pur con risultati diversi, a Roma, Firenze e Torino 108 a costruire una istituzione centrale variamente collegata alle rappresentanze municipali, la scelta, ancor- ché forzata dalla concessione di Napoli, di trasformare tale istituzione in un Parlamento elettivo su base individuale e diretto potesse apparire quasi fisiologica se non scontata. Da questo punto di vista, circa la “contiguità” dei due modelli molto interessanti le con- siderazioni di Cavour che già nel dicembre 1847 giudicava la riforma che rendeva elettivi i consigli municipali e provinciali una “gran istituzione, base fondamentale del nuovo sistema politico” 109; sempre Cavour, poche settimane dopo, a ridosso del proclama costi- tuzionale di Carlo Alberto così evidenziava il nesso tra rappresentanza municipale e rap- presentanza politica: “la nostra legge municipale ha saviamente stabilito dovere le con- dizioni elettorali essere più o meno strette in ragione dell’importanza dei municipi da amministrare. Così che mentre nelle terre minori chiama ad elettori il cinque per cento dei censitari, restringe questa proporzione all’uno per cento nelle città più cospicue. [...] questo divario nelle condizioni elettorali, fondato e giusto se ristretto alle elezioni muni- cipali, sarebbe illogico ed ingiusto se applicato alle elezioni politiche” 110 per concludere, in senso evidentemente liberale (e dottrinario), che così facendo “i diritti politici non sareb- bero compatibili in ragione della supposta capacità, ma bensì a condizione uguale [e casua- le] [...] del luogo più o meno popolato in cui i diritti politici ve[rrebero] esercitati” 111. Illuminanti della consapevolezza dei dispositivi di legittimazione politica derivati dalla elezione diretta e della stretta connessione tra la riforma municipale (già a base elettiva) e una riforma costituzionale basata sul modello rappresentativo liberal-censi- tario nazionale appaiono poi le riflessioni del moderato Giovanni Giovanetti che paven- tando proprio la costruzione di una rappresentanza politica centrale basata sulla piramide di rappresentanze intermedie elettive previste dalla “sua” legge comunale osservava: “eleggersi dai consigli divisionali [rappresentanza intermedia] i consiglieri di Stato [isti- tuzione centrale] sarebbe troppo. L’avrei altamente sconsigliato” 112 perché avrebbe signi- ficato “mettere rispetto alla corona un Corpo elettivo preponderante, appoggiato alle Divisioni eleggenti” con l’effetto pratico e immediato di concedere “di netto la Costituzione di Spagna del 1812” concludendo significativamente: “dal consultare al comandare è breve il passo quando si ha dietro di sé la Nazione” 113. Come dire che, dav- vero, anche per i coevi, seppur timorosi di forme straniere, dal punto di vista delle tec- niche costituzionali la distanza da compiere per aggiungere una rappresentanza centrale elettiva a base individuale e diretta al di sopra delle già accettate rappresentanze locali elettive direttamente, era minima. Certo, si trattava di un passaggio che lungi dall’essere solo una questione di ingegneria costituzionale aveva profonde implicazioni culturali. Proprio dalla cultura ancora in parte legata all’idea della costituzione tradizionale nasceva e riaffiorava, anche nelle pratiche elettorali, l’ambivalenza nella percezione della rappresentanza centrale se, cioè, dovesse essere intesa come personificazione di un corpo nazionale qualificato, ben al di là della semplice sommatoria degli individui che l’avevano eletta o se come “semplice” incar-
TRA IDENTITÀ E MANDATO. MODELLI DI RAPPRESENTANZA NEL LUNGO QUARANTOTTO ITALIANO 73 nazione di tanti corpi intermedi. Si tratta però di un’ambivalenza che a partire da quella stagione avrebbe continuato a lungo a caratterizzare il liberalismo italiano e che in quel tornante quarantottesco era solo alle prime manifestazioni. Al termine di questo percorso che formalmente nel Quarantotto si concluse con l’ap- prodo al modello liberale europeo, rimane, del pari, forte il dubbio circa le reali poten- zialità del modello municipale corporativo di rappresentare, nell’Italia del dopo-rivolu- zione, quella nazione di lettori che si era oramai affacciata sulla scena pubblica. L’accantonamento formale di ogni statuto concesso e l’assenza di una prassi elettorale di lungo periodo impedisce, però, una compiuta comparazione delle diverse esperienze “regionali” 114. Già alla metà del 1848 – come è noto – i vari governi costituzionali, con la sola eccezione del Piemonte, furono travolti da una ondata “controrivoluzionaria”. Negli Stati dell’Italia centrale e meridionale, del resto, proprio dalla difficoltà a per- cepirsi come ceti dirigenti moderni e costituzionali derivò la crisi dell’intero movimento moderato, scavalcato dal democratismo che sul finire “dell’anno mirabile” ebbe anche una chance di governo nella Repubblica romana di Giuseppe Mazzini, in quella toscana di Giuseppe Montanelli e a Venezia 115. Proprio all’interno di queste esperienze repubblicane, durate lo spazio di pochi mesi trovò concreta applicazione il principio della rappresentanza-mandato basata sul suffragio universale diretto 116. Sia la costituente toscana sia quella romana videro infatti eletti soggetti dell’intera penisola e a Roma, dove l’esperienza repubblicana ebbe più certa applicazione, tali prin- cipi trovarono anche il suggello costituzionale nella carta repubblicana del luglio 1849 che all’articolo 1 riconosceva la cittadinanza a tutti gli italiani che avessero soggiornato per soli sei mesi nello Stato romano. Esperienze quasi simboliche ma che, sebbene spazzate via da una seconda restaura- zione, lasciarono una traccia indelebile nell’immaginario di tutti sudditi della penisola, traccia che sarebbe tornata utile qualche anno dopo, quando, nell’Italia del suffragio ristretto, prese forma il dibattito sulle nuove formule di rappresentanza e sul suffragio universale 117. NOTE 1. Il ricorso alla categoria del “modello” per la lettura del dibattito politico-istituzionale nell’Ottocento è stato recentemente proposto da F. Rugge, I “modelli costituzionali”, in Culture costituzionali a confronto. Europa e Stati Uniti dall’età delle rivoluzioni all’età contemporanea, a cura di F. Mazzanti Pepe, Genova, Name, 2005, pp. 55-60. 2. Cfr. A. Chiavistelli, Dallo stato alla nazione. Costituzione e sfera pubblica in Toscana dal 1814 al 1849, Roma, Carocci, 2006. 3. Cfr. P.L. Ballini, Élites, popolo, assemblee: le leggi elettorali del 1848-’49 negli Stati preunitari, in 1848-1849. Costituenti e costituzioni. Daniele Manin e la repubblica di Venezia, a cura di Id., Venezia, Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, 2002, pp. 107-224. 4. Per un quadro generale cfr. L’istituzione parlamentare nel XIX secolo. Una prospettiva comparata, a cura di A.G. Manca e W. Brauneder, Bologna-Berlin, Il Mulino-Duncker & Humblot, 2000; F. Bonini, Dai Parlamenti italiani del 1848 al Parlamento del 1861, in Culture parlamentari a confronto: modelli della rappresentanza politica e identità nazionali, a cura di A. Romano, Bologna, Clueb, 2016, pp. 11-17. 5. Cfr. F. Di Donato, Constitutionnalisme et idéologie de robe: L’évolution de la théorie juridico-politique de Murard et Le Paige à Chanlaire et Mably, in “Annales. Histoire, Sciences Sociales”, LII, 1997, pp. 821-852; E. Rotelli, Forme di governo delle democrazie nascenti, 1689-1799, Bologna, Il Mulino, 2005; ed anche A. Trampus, Storia del costituzionalismo italiano nell’età dei Lumi, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 231-262. 6. Stimolante il dibattito avviato da J. Mansbridge, Rethinking Representation, in “The American Political Science Review”, 97, 2003, n. 4, pp. 515-528 in parallelo ad A. Rehfeld, The Concepts of Representation, in “The American Political Science Review”, 105, 2011, n. 3, pp. 631-641.
74 ANTONIO CHIAVISTELLI 7. Sulla “resistenza” del sistema rappresentativo cfr. B. Manin, Principi di governo rappresentativo, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 256-260. 8. Cfr. P. Pombeni, La rappresentanza politica, in Storia dello Stato italiano dall’unità a oggi, a cura di R. Romanelli, Roma, Donzelli, 1995, pp. 73-124, in part. pp. 73-80. 9. Cfr. H. Hofmann, Rappresentanza-rappresentazione. Parola e concetto dall’antichità all’Ottocento, Milano, Giuffré, 2007; ed anche Id., Le concept de representation: un probleme allemand?, in “Raisons politiques”, L, 2013, n. 2, pp. 79-96: 87. 10. Cfr. Le istituzioni parlamentari nell’Ancien régime, a cura di G. D’Agostino, Napoli, Guida, 1980; originale sul caso siciliano D. Novarese, La tradizione “inventata”, la costruzione dell’ideologia parlamentare in Sicilia fra XVI e XIX secolo, Milano, Giuffrè, 2011. 11. Cfr. A. Marongiu, Il Parlamento in Italia nel Medio Evo e nell’Età Moderna, Milano, Giuffrè, 1962, pp. 59- 101; Pré-parlements, parlements, Etats, assemblées d’etats, in “Revue historique de droit français et étranger”, 57, 1979, pp. 631-644. 12. Cfr. G. Duso, La rappresentanza politica genesi e crisi del concetto, Milano, Franco Angeli, 2003, pp. 59-62: 61; ed anche H. Hofmann, Le concept de representation cit., p. 87. 13. Ibidem. 14. Cfr. P. Aimo, Dal “Regolamento dei pubblici” alla legge Rattazzi. Il potere locale nel Regno di Sardegna (1775-1859), in Il rapporto centro-periferia negli Stati preunitari e nell’Italia unificata, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, 2000, pp. 65-94; Id., Il suffragio amministrativo: il “1848” in Piemonte e in Francia, in “Storia, Amministrazione, Costituzione”, annale ISAP, VII, 1999, pp. 47-60. 15. Proprio durante il tornante rivoluzionario francese tale nesso fu definitivamente acquisito dalla moderna scienza politica e le elezioni si imposero come l’unico sistema valido per legittimare il corpo rappresentativo. Cfr. P. Pasquino, Sieyès, Constant e il “governo dei moderni”, in “Filosofia politica”, I, 1987, pp. 77-98; e anche G. Duso, Constitution et représentation: le problème de l’unité politique, in 1789 et l’invention de la constitution, sous la direction de M. Tropeur et L. Jaume, Paris, Bruylant, 1994, pp. 263-274. Da allora in avanti fino a oggi ogni potere pubblico deve essere in qualche modo rappresentativo e, al contempo, nessun potere può dirsi rappresentativo se non è espresso attraverso elezioni. Efficace F. Tuccari, Elezioni e sistemi elettorali, in Dizionario storico dell’Italia unita, a cura di B. Bongiovanni, N. Tranfaglia, Roma-Bari, Laterza, 20072, pp. 283-297. 16. Cfr. A. Trampus, Storia del costituzionalismo italiano nell’età dei Lumi cit. 17. Cfr. R. Romanelli, Nazione e costituzione nell’opinione liberale avanti il ’48, in Id., Importare la democrazia. Sulla costituzione liberale italiana, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009, pp. 115-148. 18. Cfr. H. Hofmann, Le concept de representation cit., pp. 87, 95. 19. Cfr. H. Yong-Lee, Political Representation in the Later Middle Ages. Marsilius in Context, New York, Peter Lang, 2008, pp. 117-122; e anche J. Boutier e Y. Sintomer, La République de Florence (12e-16e siècle). Enjeux his- torique et politiques, in “Revue Francaise de science politique”, 2014, pp. 1055-1081, in part. p. 1056. 20. Cfr. L. Tanzini, A consiglio. La vita politica nell’Italia dei comuni, Roma-Bari, Laterza, 2014, pp. 72-80. 21. Cfr. P. Aimo, Elezione, nomina, cooptazione e sorteggio: modalità di composizione dei consigli comunali in Italia dalla Rivoluzione alla Restaurazione, in Autonomia, forme di governo e democrazia nell’età moderna e con- temporanea. Scritti in onore di Ettore Rotelli, a cura di P. Aimo, E. Colombo e F. Rugge, Pavia, Pavia University Press, 2014, pp. 1-10. 22. Cfr. per tutti M. Meriggi, Gli Stati italiani prima dell’unità. Una storia istituzionale, Bologna, Il Mulino, 20112. 23. Cfr. R. Romanelli, Importare la democrazia. Sulla costituzione liberale italiana cit., pp. 29-40; cfr. anche A. Chiavistelli, Tra identità locale e appartenenza nazionale. Costituzioni e parlamenti nell’Italia del 1848, in Assemblee rap- presentative, autonomie territoriali, culture politiche, a cura di A. Nieddu e F. Soddu, Sassari, Edes, 2011, pp. 491-502. 24. Queste le categorie euristiche usate anche da Hofmann in relazione alle specificità del campo semantico della parola rappresentanza; cfr. H. Hofmann, Le concept de representation cit., pp. 83-89. 25. Cfr. A. Chiavistelli, Moderati/Democratici, in Atlante culturale del Risorgimento. Lessico del linguaggio poli- tico dal Settecento all’Unità, a cura di A.M. Banti, A. Chiavistelli, M. Meriggi e L. Mannori, Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 115-133. 26. Cfr. A. Chiavistelli, Rappresentanza, in Atlante culturale del Risorgimento. Lessico del linguaggio politico dal Settecento all’Unità cit., pp. 343-358; utile A. Spinosa, “Civili in diversissimo modo”. Modello napoleonico e tradizioni giuridiche nazionali nell’Italia dell’Ottocento, Milano, Giuffrè, 2017. 27. Sulla specificità del modello cfr. A. Chiavistelli, Dallo Stato alla nazione cit., pp. 186-188. 28. Efficace L. Mannori, Modelli di federalismo e suggestioni americane nel costituzionalismo risorgimentale, in Culture costituzionali a confronto cit., pp. 337-378. 29. L’immagine seppur su scala confederale richiamava per certi aspetti la turgottiana grande muncipalité; cfr. L. Mannori e B. Sordi, Storia del diritto amministrativo, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 191-198; e S. Mannoni, Une et indivisible. Storia dell’accentramento amministrativo in Francia, La formazione del sistema (1661-1815), Milano, Giuffrè, 1994, vol. I, pp. 202-204; sull’emersione di comunità immaginate dalla dimensione “regionale” o comunque
TRA IDENTITÀ E MANDATO. MODELLI DI RAPPRESENTANZA NEL LUNGO QUARANTOTTO ITALIANO 75 sovracittadina all’interno della penisola, tra gli altri si veda M. Meriggi, Gli Stati italiani prima dell’unità. Una storia istituzionale cit., p. 17 e anche S. Patriarca, Italiani/Italiane, in Atlante culturale del Risorgimento. Lessico del lin- guaggio politico dal Settecento all’Unità cit., pp. 199-213, 199. 30. Cfr. V. Cuoco, Frammenti di lettere a Vincenzo Russo, in Id., Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, a cura di N. Cortese, Firenze, Vallecchi Editore, 1926, pp. 364-382. 31. Cfr. L. Guerci, Il triennio 1796-99 e la “Repubblica itala”, in Nazioni, nazionalità, Stati nazionali nell’Ottocento europeo, a cura di U. Levra, Roma, Carocci, 2004, pp. 59-103. 32. V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, in Id, Saggi storici sugli avvenimenti della fine del secolo XVIII, Modena, Tipografia Vincenti, 1801, p. 97. 33. Ibidem. 34. Ibidem. 35. Per tutti L. Mannori, La crisi dell’ordine plurale. Nazione e costituzione in Italia tra Sette e Ottocento, in Ordo iuris. Storia e forme dell’esperienza giuridica, Milano, Giuffrè, 2003, pp. 137-180; e anche Id., Costituzione, in Atlante culturale del Risorgimento. Lessico del linguaggio politico dal Settecento all’Unità cit., pp. 253-269. 36. V. Cuoco, Frammenti di lettere a Vincenzo Russo cit., p. XIV. 37. “La Lega italiana”, 13, 9 febbraio 1848. 38. “Il Felsineo”, 24, 23 febbraio 1848. 39. “Il Lucifero”, 4, 15 febbraio 1848. 40. “Il Felsineo”, 21, 16 febbraio 1848. 41. “Il Felsineo”, 24, 23 febbraio 1848. 42. Cfr. M. Meriggi, Centralismo e federalismo in Italia. Le aspettative preunitarie, in Centralismo e federalismo tra Otto e Novecento. Italia e Germania a confronto, a cura di O. Janz, P. Schiera e H. Siegrist, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 49-63. 43. Cfr. G. Poggi, Discorso della necessità di applicarsi allo studio del diritto municipale (1833), in Consultazioni, decisioni e opuscoli inediti di G. Poggi, a cura di E. Poggi, Firenze, tip. Bonducciana, 1844, p. 401. 44. Lo dice bene Filippo Linati: “il sovrano col senno pubblico unifica i membri sociali”: F. Linati, Nuova teoria del sistema rappresentativo, Torino, Pomba e C., 1848, p. 25; sulla dimensione regionale ancora S. Patriarca, Italiani/Italiane cit., p. 17. 45. Cfr. E. Biagini, democrazia e rappresentanza in Inghilterra nella seconda metà dell’ottocento: “community politics” e le sue forme nel dibattito liberale popolare, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, Classe di Lettere e Filosofia, Serie III, 19, 1989, n. 4, pp. 1525-1539. Efficace E. Mongiano, Cesare d’Azeglio a Prospero Balbo. La “suggestione” del modello costituzionale inglese nelle riflessioni di un conservatore piemontese, in Il modello costituzionale inglese e la sua recezione nell’area mediterranea tra la fine del 700 alla prima metà dell’800, a cura di A. Romano, Milano, Giuffrè, 1998, pp. 993-1016. 46. Cfr. tra gli altri B. Accarino, Rappresentanza cit., pp. 87-90. 47. C. Balbo, Della monarchia rappresentativa in Italia (1848), Firenze, Le Monnier, 1857, p. 54. 48. Cfr. M. Meriggi, Liberalismo o libertà dei ceti? Costituzionalismo lombardo agli albori della Restaurazione, in “Studi Storici”, XXII, 1981, n. 2, pp. 315-343. 49. Cfr. A. Rosmini, La costituzione secondo la giustizia sociale con un’appendice sull’unità d’Italia, Milano, Tipografia di G. Redaelli, 1848. 50. Ivi, p. 45. 51. F. Linati, Nuova teoria del sistema rappresentativo cit., p. 12. 52. Ivi, pp. 55-56. 53. Ibidem. 54. Ivi, p. 62. 55. Cfr. P. Pasquino, Sieyès et l’invention de la Constitution en France, Paris, O. Jacob, 1998; M. Goldoni, La dottrina costituzionale di Sieyès, Firenze, Firenze University Press, 2009. 56. G. Mazzini, Storia della Rivoluzione francese di Tommaso Carlyle (1839), in Id, Scritti letterari di un italiano vivente, T. III, Lugano, Tipografia della Svizzera italiana, 1847, p. 170. 57. Ivi, pp. 137-170. 58. Sulla coeva cultura inglese cfr. A Lyttelton, Il mondo britannico e la percezione dell’Italia. Tra passato e pre- sente, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, Classe di Lettere e Filosofia, Serie 5, 2, 2010, n. 2, pp. 403-430; e anche J. Innes, M. Philp e R. Saunders, The Rise of Democratic Discourse in the Reform Era. Britain in the 1830s and 40s, in Re-imagining Democracy in the Age of Revolutions. America, France, Britain, Ireland 1750- 1850, edited by J. Innes e M. Philp, Oxford, Oxford university press, 2013, pp. 114-128. 59. G. Mazzini, Guizot. Pensieri sulla democrazia (1838), in Id, Scritti letterari di un italiano vivente cit., t. III, pp. 251-274.
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