CURIOSANDO NELL' ARTE CONTEMPORANEA - RAPPORTO IMMAGINE / TESTO Anno Accademico 2019/2020 8 Lezione - UNITRE Torino

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CURIOSANDO NELL' ARTE CONTEMPORANEA - RAPPORTO IMMAGINE / TESTO Anno Accademico 2019/2020 8 Lezione - UNITRE Torino
CURIOSANDO NELL' ARTE
  CONTEMPORANEA
        DOCENTE GIAN PIERO NUCCIO

   Anno Accademico 2019/2020
          8 ^ Lezione
 RAPPORTO IMMAGINE / TESTO
CURIOSANDO NELL' ARTE CONTEMPORANEA - RAPPORTO IMMAGINE / TESTO Anno Accademico 2019/2020 8 Lezione - UNITRE Torino
Recentemente i visual studies hanno spostato il loro campo di indagine su un argomento molto
interessante, sempre riguardante il rapporto significante-significato: quello cioè del rapporto fra scrittura e
immagine (quanto hanno in comune, quali le differenze e eventuali indagini su queste differenze, differenze
che non sono stabilite una volta per tutte, ma vengono continuamente ridefinite senza, tuttavia, mai
annullarsi).
Anche un testo scritto è un’immagine e può essere indagato sotto l’aspetto visuale, quale è il rapporto fra
parola e immagine non in generale, ma specificatamente in un libro, in che modo, al contrario le immagini
in un libro concorrono all’illustrazione di un testo ecc.
La cultura visuale non vede come problema la differenza fra testo letterario e immagine (dipinto, scultura
ecc.) poiché parole e immagini si ritrovano e si dissolvono entrambe nella rappresentazione. Immagine e
testo hanno in comune la dipendenza dal vedere, dal senso della vista.
In greco io so = io ho visto = oida
Aristotele: L’anima non pensa mai senza un’immagine (De Anima). Ma vale anche che si pensa in base
alle parole che si posseggono.
Platone: Il bello è superiore al bene e alla saggezza perché può essere colto con la vista.
Però tra parola e immagine esiste sempre una differenza semiotica, dove per semiotica si intende la
disciplina che studia i segni e come essi abbiano un senso. Considerato che un segno generalmente è
qualcosa che rinvia a qualcos’altro possiamo dire che la semiotica studia i significati.
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Renè Magritte intende sottolineare la differenza tra
l’oggetto reale e la sua rappresentazione, rinnegando la
pittura classica secondo cui vi era un legame
indissolubile fra immagine e realtà. Infatti Il tradimento
delle immagini non è di fatto quell’oggetto reale che
chiamiamo “pipa”, bensì una sua raffigurazione
pittorica. L’equivoco è dovuto alla convenzione che lega
a ogni oggetto un nome. In effetti, malgrado alla
domanda “che cos’è” si risponda “una pipa” l’oggetto
reale e la sua rappresentazione hanno proprietà e
funzioni differenti (nessuno potrebbe fumare la pipa del
quadro. Quindi non è una pipa.). Il concetto porta con
sé una riflessione molto profonda sulle semplificazioni
operate dalla comunicazione umana, in particolare
dimostrare in chiave pittorica la fallacia e gli equivoci
del linguaggio abitualmente usato per descrivere la
realtà.

Il mondo dell’image e la scrittura hanno statuti diversi.
Nella stessa picture (quadro) ci sono universi simbolici
diversi che però hanno strette relazioni fra essi.
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Joseph Kossuth Image, picture, descrizione che però
cambiano a seconda di dove siamo (Italia, Cina
ecc.).Quindi la definizione cambia, i caratteri cambiano,
le sedie cambiano e cambia anche l’image della foto e il
problema è la relazione.

      Barbara Kruger Concettuale di 2^generazione
della metà anni ’70. Inizia con grandi arazzi realizzati
con materiali diversi (piume, nastri, perline ecc), cuce,
compone oggetti e diventa sempre più astratta.
Sospende il lavoro artistico e quando riprende si dedica
a immagini di scarsa qualità con parole e fonts molto
freddi su fondo rosso spesso a dimensioni di cartellone
pubblicitario

     Chi pensa di essere? E’ tempo che le donne
smettano di essere educatamente arrabbiate.

      Non ci serve un altro eroe

    Super ricca. Ultra bellissima. Extra magra. Per
sempre giovane
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Gioco di contraddizioni fra elemento verbale ed elemento visivo. Femminista che propone un femminismo
dello sguardo (guardare ed essere visti). Ma chi sta parlando, l’artista o chi (l’image o la picture)? Anticonsumista.
 Si appropria di immagini delle riviste mainstream (corrente principale) per ribaltarne il senso inquadrandole in un
                                                  nuovo contesto.
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John Baldessari Ha creato migliaia di opere per
dimostrare il potere delle immagini in confronto con il
potere del linguaggio entro i confini dell’opera d’arte e,
a volte, la loro associazione. Baldessari usa immagini e
testo, o semplicemente testo, su tela. Soprattutto
dipinge iscrizioni da sole, senza immagine in opere che
trattano tutte di pittura. Il testo di Baldessari è, in
quanto quadro, una picture. Di quadro in quadro
compone un manuale di arte. Sono frasi ovvie,
antielitarie, ma la particolarità è che lo fa in un dipinto,
quindi produce sia images che pictures. Usa lettere di
pittori di insegne.

      In una serie di quadri propone una mano che
indica vari oggetti. La mano è dipinta da pittori
sconosciuti, ma abili a dipingere. B.aldessari interviene
come coreografo, regista dell’opera ponendo così il
problema dell’autorialità.
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Martha Rosler Il lavoro fotografico/testuale La
Bowery (in Down Town)in due sistemi descrittivi
inadeguati (’74-’75) è considerata un lavoro
fondamentale nella pratica fotografica concettuale e
postmoderna.

       Le 45 stampe in B/N descrivono una famosa “skid
row” (quartiere malfamato) con fotografie e gruppi di
testi che si riferiscono a ubriachi e sottolineano la
limitazione intrinseca di entrambi i sistemi visivi e
linguistici per descrivere le esperienze umane e i
comportamenti sociali marginali. In certi punti manca
l’immagine. Queste sono tutte di piccole dimensioni e
non devono essere spettacolari. Le parole sono tutte di
oggetti che compaiono nelle foto o parole che si
sentono sul luogo.
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Walid Raad Se si trascurassero i luoghi ufficiali, rifiutando i canali dell’informazione ufficiale oppure ci fosse
un disinteresse per ciò che si trova negli archivi inaccessibili cosa rimane? Tutto quello che appare ovvio e banale,
 di serie B, ma che potenzialmente può abbattere il potere di archivi che si auto-dichiarano detentori della storia.
    Abbandonate le immagini-icona di grandi autori, l’interesse si è spostato da tutt’altra parte e questo grande
suggerimento proviene dal mondo dell’arte. Si tende a recuperare un certo tipo di materiale e presentarlo in luoghi
                                        che fino ad allora gli erano preclusi.

                                                                    Un modello esemplare di recupero della memoria
                                                             attraverso materiale non sempre ufficiale è
                                                             rappresentato da The Atlas Group Archive , la
                                                             fondazione no-profit che ha recuperato, anche
                                                             attraverso fittizi documenti storici, la storia recente del
                                                             Libano ricostruendo grazie all’immaginazione ciò che
                                                             realmente è accaduto in quel periodo. L’intento del
                                                             collettivo è quello di recuperare e salvaguardare la
                                                             storia locale contemporanea, soprattutto quella dagli
                                                             anni Settanta agli anni Novanta, intervallo in cui si è
                                                             consumata la guerra civile e in cui la distruzione ha
                                                             regnato sovrana. Il recupero del materiale per scopi
                                                             sociali e collettivi ha ottenuto l’appoggio del governo e
                                                             grazie a finanziamenti pubblici l’archivio ha acquisito
                                                             moltissimo materiale.

       Walid Raad, fondatore del progetto, sviluppato nel corso di quindici anni. I suoi lavori sono istallazioni,
performance, opere video, fotografie e testi letterari il cui impianto è sia documentaristico che artistico. Egli
racconta la storia del suo paese d’origine e le conseguenze delle guerre che l’hanno martoriato con una modalità
che non potrebbe mai essere propria di uno storico, attraverso una narrazione che utilizza sia testimonianze e
approcci più simili alla cronaca, sia resoconti fittizi il cui contenuto e la cui costruzione sono ugualmente
significativi all’interno di uno spazio dove si trasmettono dei pensieri che vanno al di là del tempo e lo spazio
rappresentati. Raad va alla ricerca del tempo perduto della sua nazione e grazie alla sua fantasia ha creato
mondi là dove non esistevano più, la messa in scena è diventata l’ossigeno per riaccendere le braci che
sembravano ormai spente .
Fanno parte dell’archivio i quaderni privati, le fotografie e i filmati di un fantomatico Dr. Fadl
Fakhouri, presentato come uno dei maggiori storici contemporanei libanesi. Il video Miraculous
Beginnings (2001) è la ripresa dei suoi vagabondaggi a Beirut, ogni volta che pensava che la guerra
civile fosse finita, il protagonista scattava una foto, dal momento che la guerra libanese è stata lunga e
caratterizzata da numerosi cessate il fuoco e riaccensioni delle battaglie tra eserciti e milizie, il film
testimonia la speranza duratura per la pace e la normalità nonché la volontà di catturare questi momenti
di speranza con la consapevolezza della loro natura transitoria. Il progetto, pervaso da un certo lirismo,
indaga le possibilità e i limiti di riscrivere quella storia con immagini innocenti di tutti i giorni che
documentano situazione fittizie, narrando quello che si può solo immaginare, che può essere detto, ciò
che può essere dato per scontato, ciò che può apparire come razionale, dicibile e pensabile riguardo
quella specifica guerra. Miraculous Beginnings ricostruisce dei piccoli eventi, cose che si fanno senza
riconoscerle come ‘significative’, ma che dicono chiaramente chi è l’individuo e la collettività.
La serie intitolata My Neck Is Thinner Than a Hair (2001), è composta da fotografie trovate da
Walid Raad nei centri di documentazione di Beirut, che illustrano i motori delle 3641 autobombe usate per
attentati terroristici nella città, tra il 1975 e il 1991. Il commento che accompagna le foto descrive quanto
lontano è volato il motore in seguito allo scoppio e la gara dei fotoreporter per essere i primi a trovare e
fotografare quei motori. La disposizione in una griglia claustrofobica accentua la ripetizione dei
bombardamenti e la banalità della violenza in tempi di guerra. In un altra opera-documento Raad mostra
delle foto di edifici, alberi e automobili di Beirut colpiti da proiettili, cerchiando ogni punto d’impatto con un
colore che indica la nazione da cui provengono le munizioni impiegate.
Persone come lui hanno saputo sovrastare la potenza di archivi fotografici considerati inavvicinabili o
inesistenti sfruttando in alcuni casi la natura illusoria della fotografia. L’artista, nonché direttore d’archivio
Walid Raad col suo progetto ha trasmesso attraverso il canale dell’arte il tempo della guerra civile, della
violenza e della paura senza mai renderlo esplicito appropriandosi di documenti poco compromettenti.
Ripescare materiale che non appare scomodo ai potenti si è rivelata una strategia vincente, addirittura ha
ottenuto l’appoggio del governo.
L’arte esplosiva di       Walid Raad
                                                 Da Il Manifesto
                                       Manuela De Leonardis NAPOLI
                                             Edizione del 24.10.2014

Intervista. Un incontro al Madre di Napoli con l'artista libanese, in Italia per la sua personale. «Alcuni
eventi di estrema violenza possono essere vissuti e non vissuti. Questa differenza riesce a spiegare l’effetto
di allontanamento che viene rilevata nei miei lavori»

                                                     Ha il ritmo di una pièce teatrale, l’andamento da studio
                                                     del fattore umano, ma soprattutto è un grande
                                                     contenitore di storie possibili o improbabili, impreviste,
                                                     assurde e terribilmente reali.Preface/Prefazione (fino al
                                                     19 gennaio 2015) è la prima mostra in un’istituzione
                                                     pubblica italiana dedicata a Walid Raad (Chbanieh 1967,
                                                     vive e lavora tra Beirut e New York), artista noto a livello
                                                     internazionale, a cui nel 2015 verrà dedicata
                                                     un’importante monografica al MoMa di New York.
                                                     Ospitata su due piani del Madre – Museo d’Arte
                                                     Contemporanea Donnaregina e realizzata in
                                                     collaborazione con il Carré d’Art-Musée d’art
                                                     contemporain di Nîmes, l’esposizione è frutto di un anno
                                                     di lavoro (ma molti di più di conoscenza) da parte dei
                                                     curatori Alessandro Rabottini e Andrea Viliani.
                                                     In questo percorso accidentale è facile inciampare ad
                                                     occhi aperti, come dichiara il titolo stesso della sezione a
                                                     piano terra Scratching on Things I Could Disavow
                                                     (ovvero appunti su cose che potrei ritrattare).
Raad investiga le dinamiche legate all’affermazione dell’arte moderna e contemporanea nel contesto arabo:
dove c’era sabbia e petrolio s’investe oggi in arte e cultura, come vediamo a Abu Dhabi con il Louvre, il
Guggenheim e il Ferrari World.
La natura ambigua, il terreno sfuggente su cui ci si muove in questo lavoro che parte dalla museologia è
dichiarato dalla presenza di «appunti» (il muro fluttuante che non poggia sul suolo), gli oggetti definiti
dall’intersezione delle loro ombre più che dalla loro materialità di reperti, le apparenti didascalie che non
spiegano ma teorizzano. Una declinazione della «grammatica espositiva museale» (teche, cornici, pannelli) –
come afferma Rabottini – in cui la vocazione all’affabulazione si esprime «sottopelle», «arriva per via
telepatica», s’insinua nello spettatore con tutto il suo carattere di «schizofrenia voluta».
L’approccio è apparentemente molto più «ordinato» nell’altra sezione espositiva, dedicata al complesso
progetto The Atlas Group (1989-2004) che ci proietta nella dimensione politica, sociale, psicologica ed
estetica delle guerre civili in Libano. Stavolta il percorso segue la regola fondamentale dell’archivio, la
«ratio»: ordine, classificazione, metodologia. Gli scenari di guerra, sempre drammaticamente di grande
attualità, vengono inquadrati in questa visione schematica in cui, ancora una volta, è assicurato il
cortocircuito visivo e mentale. Questa grande mappatura stimola riflessioni cruciali, come quello sulla
distruzione che non è solo materiale, ma coinvolge beni immateriali come la memoria. Il trauma della guerra,
infatti, innesca meccanismi di autodifesa – quindi di rimozione – che portano ad una riscrittura della storia
stessa, che deve fare i conti con l’affidabilità della memoria all’interno di questo processo.
Nel porsi domande sulla percezione del trauma e del post-trauma è chiamata in causa soprattutto la
fotografia come mezzo di trascrizione visiva del documento: realtà, verosimiglianza, illusione o finzione? C’è
tutto questo nel lavoro fotografico dell’artista libanese. L’errore voluto, la sfocatura, il graffio, la
manipolazione, l’utilizzo di immagini altrui entrano nella storia, la descrivono e la sovvertono, anche quando
c’è un accenno alla leggerezza – sia pur cromatica – come nella serie Color code.
In questo lavoro, la guerra è analizzata attraverso le immagini in bianco e nero di architetture e paesaggi di
Beirut, accompagnate da schizzi e appunti. L’autore (attribuendo la paternità delle immagini a un
personaggio di nome Asma Taffan) ricorre metaforicamente al linguaggio della distruzione utilizzando dei
pallini colorati molto seducenti.
Sapere, però, che questi coincidono con i fori di proiettili e altri esplosivi non è affatto rasserenante, tanto
più quando ci si rende conto che ogni colore è associato al paese di produzione delle armi: Belgio, Cina,
Egitto, Finlandia, Grecia, Iraq, Israele, Italia, Libia, Nato, Romania, Arabia Saudita, Svizzera, Usa, Regno
Unito e Venezuela. Anche la tecnica è depistante: sembra un collage, ma l’immagine bidimensionale è il
risultato di una stratificazione di passaggi. Un’altra metafora in questa griglia fatta di buchi ed errori che è
un invito alla presa di coscienza.

«Scratching on Things I Could Disavow» è il suo progetto più recente. Qual è la chiave che
ha usato per parlare di arte contemporanea nel mondo arabo?
Ci sono molte «chiavi» per entrare in questo progetto, ne elenco un paio. C’è l’accelerazione nella
costruzione di nuove infrastrutture per le arti visive nel mondo arabo, in particolare nel golfo
arabico/persico, tra gli altri Emirati Arabi, Qatar, Arabia Saudita. Queste infrastrutture includono non solo
musei, gallerie, università, ma anche fondazioni, storie, collezioni, premi, residenze, riviste, assicurazioni,
gestori, restauratori, corniciai, guardie, e così via.
Per la seconda chiave, cito lo scrittore e artista Jalal Toufic che ha postulato il concetto in The Withdrawal
of Tradition Past a Surpassing Disaster (Forthcoming Books, 2009, ndr.). Con questo concetto, ha
sostenuto che «certi disastri vanno oltre», oltrepassano i limiti, influenzano la tradizione in modo più
insidioso. Tali catastrofi colpiscono le opere d’arte non materialmente, ma immaterialmente. In altre
parole, in un «surpassing disaster», le opere d’arte o le istituzioni non sono azzerate, ma vengono trattate
da alcuni artisti, scrittori e altri come se fossero state demolite. Ciò crea una situazione insolita e strana, in
cui gli artisti si ritrovano a dover far «risorgere» la tradizione che non è devastata fisicamente, ma che a
loro sembra tale. Le opere che ho prodotto con il mio progetto sono affini a questo concetto di Jalal.
Il Libano, che ha lasciato nel 1983 per il trasferimento negli Stati Uniti dove ha studiato
fotografia e arti visive al Rochester Institute of Technology e alla University of Rochester,
è al centro di tutto il suo lavoro. L’approccio concettuale sembra tenere sotto controllo
l’aspetto emotivo. Una distanza che permette di riflettere con maggior libertà sulle
dinamiche della storia e delle guerre nel suo paese?
Sono d’accordo sul modo in cui ha formulato la domanda riferendosi ai lavori di The Atlas Group (1989-
2004), quando dice che «sembrano tenere sotto controllo» gli aspetti emotivi del mio legame con il Libano.
L’uso della parola «sembra» è abbastanza appropriato in questo contesto: le opere «danno l’impressione» e
sono «incapaci di» tenere in scacco gli aspetti emotivi. Questo «fallimento» è evidente anche a me: molte
opere documentano attività che si ripetono, esaustive e apparentemente senza fine (alcuni personaggi
immaginati in questo progetto vogliono contare ogni autobomba, o documentare ogni tramonto). Inoltre,
molte delle storie che combinano immagini evidenziano immediatamente gli aspetti emozionali all’interno
della narrativa stessa. Tuttavia, non sono convinto che la distanza in questione sia la mia distanza dal Libano
– vivendo negli Stati Uniti – né la mia nel tempo: vale a dire trent’anni dopo. La distanza può appartenere
all’evento stesso. Alcuni eventi di estrema violenza possono essere vissuti e non vissuti.
Questa differenza riesce a spiegare l’effetto di «allontanamento» che viene rilevata nei miei lavori.

Fotografia, video, scrittura, collage, installazione e performance. In particolare la
fotografia viene investita di responsabilità nella complessa operazione di documentazione
e riscrittura della storia. Nel 1978 lei era un bambino quando, dopo un pesante
combattimento, ha accompagnato suo padre a fotografare in giro per Beirut. È stato allora
che ha capito potenzialità e limiti di questo mezzo?
Nel 1978, all’età di 11 anni, stavo «agendo» come un fotoreporter, sperando di «avvicinarmi» agli «eventi».
Non sono sicuro di quello che, poi, ho capito da quell’«avvicinamento». Alla fine, ho famigliarizzato con le
«complicate mediazioni con cui i fatti acquistano la loro immediatezza» e con i vari parametri formali,
tecnici, storici, sociali e concettuali che creano la fotografia: ho cominciato a prendere seriamente nozioni
come «l’avvicinarsi» e «l’evento», sono stato in grado di sperimentare le possibilità e i limiti della fotografia
come tecnica, forme, storia e discorso.
In The Atlas Group (1989-2004), la fotografia è un elemento tra gli altri. Creo una narrazione che coinvolge
altri dispositivi di visualizzazione come pareti bianche, testo in vinile, cornice, etc., ma fondamentalmente
rimango connesso agli strumenti fotografici: tecnici, formali, storici e concettuali. Ad esempio, quando uso
la logica del «troppo presto» o «troppo tardi» in opere come il Fakhouri Notebook Volume 72 sto anche
facendo appello al tempo fotografico e alla tendenza a «stilizzare la vita in silenzio», come manifesto nella
fotografia.
Nel suo lavoro nulla appare affidato al caso. Segue una determinata metodologia nel
passaggio dall’idea alla realizzazione dell’opera?
Non sono sicuro di come rispondere a questa domanda, perché non mi è chiaro a quale concetto di «caso» si
stia riferendo. Nel senso comune – un verificarsi di eventi in assenza di un disegno voluto – certamente non
mi appartiene. Anche se molto è lasciato al caso nel mio lavoro, almeno durante la sua realizzazione.
La maggior parte dei documenti che finiscono nelle mie mani arrivano per pura fatalità; non stavo certo
cercando fotografie di autobombe o di corse di cavalli. Raramente procedo da una situazione o da un oggetto
ben definito. Ma questi incontri fortuiti fanno scattare un ulteriore lavoro di ricerca e di studio, che tende
anche a portare altre sorprese, incidenti e incontri. Nel progetto Scratching potrei pure dire che, in effetti,
«niente / nessuna cosa è lasciata al caso»
Martha Rosler
                              Da https://iperarte.net/ledonnedellarte/martha-rosler/

  Martha Rosler è un’artista nata nel 1943 a New York. Utilizza diversi media come la fotografia, la scultura, i video e le
                                                     installazioni.
   L’artista è particolarmente interssata alla televisione, che identifica con lo strumento per eccellenza per la
                               propaganda di stereotipi del femminile e miti quotidiani.
                                                             Martha Rosler utilizza il collage per manipolare le
                                                             immagini dei media che esprimono il mito americano
                                                             di benessere e felicità, giustapponendole ad altre
                                                             immagini crude che esibiscono la
                                                             guerra, il sangue e donne ritratte come oggetti sessuali
                                                             . Tra questi c’è “Beauty knows no pain or body
                                                             beautiful” (1966-72) in cui l’artista manipola immagini
                                                             prelevate da riviste popolari americane mettendo in
                                                             evidenza la discriminazione sessuale della donna
                                                             nella cultura moderna.
                                                             Tra i suoi lavori più noti c’è il video
                                                             “Semiotic of the kitchen”, del 1975.

 Nell’opera si osserva l’artista seduta un tavolo mentre è intenta a spiegare l’utilizzo di diversi utensili allineati
di fronte a lei. Ripercorrendo didatticamente il vocabolario degli oggetti da cucina, Martha simula il loro
utilizzo in modo sempre più violento a mano a mano che prosegue la performace.
Quest’opera rappresenta un atto di ribellione nei confronti della visione comune della cucina come luogo
caldo e accogliente destinato al lavoro della donna. Così, utilizzando un lessico e dei gesti colmi di rabbia e
frustrazione, Rosler attacca i pregiudizi legati al mondo femminile.
L’opera “The Bowery in two inadequate descriptive systems ” (1974-1975) è considerata invece un lavoro
fondamentale nella storia della fotografia concettuale e postmoderna.
Si tratta di 45 stampe composte da testi e immagini che testimoniano il degrado sociale di Manhattan. In questo
lavoro l’artista giustappone immagini di bottiglie di liquore vuote a segni linguistici (elenchi di sinonimi del termine
“alcolismo”): fotografie e parole che rappresentano l’assenza come richiamo emotivo di una presenza inquetante.
                                La domanda quindi non è “è arte?”, ma “arte di chi?”.
                                   La domanda non è “è arte”, ma “arte per chi?”.
                                         La domanda è “che cosa è arte?”.
John Baldessari ci ha insegnato cos’è l’arte contemporanea
   È morto a 88 anni l'artista californiano e professore amatissimo, che con le sue opere fatte di gesti,
                      immagini e parole ha cambiato la storia dell'arte concettuale.
                                         di Clara Mazzoleni 7 Gennaio 2020

                    John Baldessari, Kissing Series: Simone Palm Trees, 1975

Nel 2009, in occasione della Biennale di Venezia dal titolo Fare Mondi, a cura di Daniel Birnbaum,
John Baldessari ricoprì la facciata del Padiglione centrale con la gigantesca immagine di un
paesaggio paradisiaco: l’oceano, il cielo azzurro e due palme. L’opera “Ocean and Sky (with Two
Palm Trees)” funzionava come un fondale, un invito a fotografarsi davanti allo sfondo per trarre in
inganno chi avrebbe visto le immagini, dando l’idea non di una visita alla Biennale di Venezia ma di
un viaggio in un luogo completamente diverso, un mondo altro. Baldessari è morto il 5 gennaio
2020 a 88 anni: ha fatto in tempo a ricevere il Leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia
(proprio quell’anno, il 2009), a vedersi celebrato dalla Tate Modern di Londra con una grande
retrospettiva, Pure Beauty (passata per il Los Angeles County Museum of Art, il MoMA e approdata
al Macba di Barcellona nel 2011) e a farsi mettere al collo una bella medaglia, la National Medal of
Arts, da Barack Obama, nel 2015.
Nato a National City (tra San Diego e Tijuana) nel 1931, da una coppia di immigrati – lui italiano, lei
olandese – Baldessari ha lavorato decenni come professore al California Institute of Arts (dal 1970 al
1988) e all’Università della California di Los Angeles (dal 1996 al 2005), formando generazioni di
artisti e ricoprendo un ruolo fondamentale per la vitalità della scena artistica californiana, utilizzando il
tema dell’insegnamento dell’arte e delle aspettative nei confronti degli artisti come motore e
ispirazione per le sue opere più satiriche (come “Tips For Artists Who Want To Sell“, 1966-1968 o “
Teaching a Plant the Alphabet” del 1972). Un’arte concettuale che si prende gioco di se stessa, rivelando
come le preoccupazioni artistiche, spogliate dal contesto, appaiano ridicole e assurde. È soprattutto tra gli
anni ‘60 e ‘70 che Baldessari ha lasciato il segno nella storia dell’arte occidentale, suggerendo una
direzione poi intrapresa con grande naturalezza da un’infinità di epigoni. Con il suo atteggiamento divertito,
spiritoso, ha trasformato una pratica impersonale e speculativa come quella dell’arte concettuale in un
rinfrescante gioco per la mente, realizzando opere che sono in grado di emozionare e incantare lo
spettatore, di farlo scoppiare a ridere o mettere in crisi i suoi pregiudizi e punti di vista consolidati. Il tutto
senza rinunciare all’azzurro, alle palme e ai paesaggi californiani, molto spesso catturati nelle sue opere.
Tutto iniziò con un funerale, “The Cremation Project”: nel 1970, a San Diego, bruciò tutte le opere
create tra gli anni ’50 e ’60 e usò una parte delle ceneri come ingrediente speciale per cucinare dei
biscotti che espose al Museum of Modern Art di New York, nell’importante mostra collettiva sull’arte
concettuale Information. Come racconta il
https://www.nytimes.com/2020/01/05/arts/john-baldessari-dead.htmls, Baldessari ricordava quell’azione con
un po’ di imbarazzo, «un gesto molto simbolico, un po’ come annunciare a tutti che ti sei messo a dieta
sperando che così riuscirai veramente a farlo». La dichiarazione d’intenti è una delle sue cifre, insieme ai
suggerimenti e alle istruzioni: un’altra delle sue opere più famose è del 1971 e consiste nell’indicazione
data ad alcuni studenti, attraverso un video e un esempio su carta, di scrivere ossessivamente sui muri, a
mo’ di punizione (impossibile non pensare a Bart Simpson – a proposito: l’artista è comparso anche in una
puntata dei Simpson, intervistato da una giovane Marge), “I will not make any more boring art”.
Non c’è niente di noioso, in effetti, nell’arte di Baldessari, che ha mescolato i colori della pop art e l’ironia dadaista
con le speculazioni filosofiche di Joseph Kosuth, raccogliendo con entusiasmo l’eredità di Duchamp – il ready-made,
l’oggetto da fare proprio, rifiutando il concetto di manualità (l’artista che deve produrre da sé le sue opere, con le sue
mani) e rivendicando lo smisurato potere della mente, dell’idea – e anticipando le pratiche dell’appropriazionismo
degli anni ’80, che non si limita più a trasformare cose di uso comune in opere d’arte, ma arriva a rubare le opere di
altri artisti, ridefinendole come proprie.
                                                                È quello che fece nel 2010 nella mostra
                                                                Giacometti Variations per la Fondazione Prada, facendo
                                                                arrabbiare la Fondazione Giacometti, che lo portò in
                                                                tribunale perché aveva osato riprodurre 15 enormi figure
                                                                nello stile dello scultore svizzero e, soprattutto, le aveva
                                                                utilizzate come modelle o manichini, mettendogli addosso
                                                                trench e parrucche, come in una tragicomica sfilata immobile.

                                                               Ma la mostra sostenuta da Miuccia Prada è soltanto uno
                                                               dei tanti esempi dei suoi scherzi, esperimenti di
                                                               appropriazione, operazioni di montaggio, censura parziale
                                                               e reinterpretazione che fanno di lui un precursore della
                                                               cultura in cui oggi siamo immersi, quella delle immagini
                                                               che acquistano ulteriore senso in base alle caption (su
                                                               Instagram) o che ci fanno ridere perché qualcuno ci ha
                                                               scritto sopra qualcosa di intelligente e ridicolo o ha
                                                               modificato in qualche modo un punto di vista dato per
                                                               scontato (i meme). «Spesso penso a me stesso come a uno
                                                               scrittore frustrato», aveva detto a Calvin Tomkins del New
                                                               Yorker nel 2010 «penso che una parola e un’immagine
                                                               abbiano lo stesso peso, e gran parte del mio lavoro deriva da
                                                               questo tipo di pensiero». In effetti nella maggior parte delle
                                                               sue opere il testo – titoli, riflessioni, dichiarazioni d’intenti,
                                                               indicazioni allo spettatore, finte istruzioni – ha un ruolo
    Self-Portrait (with Brain Cloud), 2010, Marian             fondamentale.
 Goodman Gallery, NY / Paris (fotografia di Franziska
                        Wagner)
Meno conosciuta della famosa serie dei “dots”, in cui
Baldessari utilizza piccole sfere di carta per
eliminare dettagli di fotografie preesistenti – spesso
le teste – costringendo lo spettatore a concentrarsi
su altri particolari e riconsiderare il punctum
dell’immagine, è la bellissima serie degli anni ’90
ispirata a Goya, in cui l’artista fa il verso alle strane
didascalie di “Los desastres de la guerra”, 82 incisioni
realizzate da Francisco Goya tra il 1810 al 1820 nel
tentativo di descrivere l’orrore della violenza (e
l’inadeguatezza del linguaggio) e le accosta a immagini
comuni – un paio di forbici, un vaso di fiori, un libro, una
bocca – generando un effetto inquietante e poetico,
costringendo lo spettatore a permanere in un luogo
mentale indecifrabile, sospeso. «Mi ricorderanno come
quello che metteva i pallini sulle facce», dice nel
meraviglioso video di soli 5 minuti narrato da Tom
Waits. Lo ricorderemo per moltissime altre cose.
Barbara Kruger: arte e riflessione
Barbara Kruger, classe 1945, è un'artista del New Jersey trapiantata a New York. Le sue opere hanno
ispirato le donne del movimento femminista degli anni Settanta e stimolano una riflessione critica sulla
                       quotidianità di ciascuno di Caterina Fassina - 16.12.2018
Ci sono situazioni nella vita quotidiana di un cittadino moderno che si danno per scontate. Barbara Kruger è una
graphic designer e un’artista di arte contemporanea che lavora su argomenti della vita quotidiana che hanno un enorme
impatto psicologico su ciascuno: dal consumismo alla definizione della bellezza da copertina. Con il suo lavoro, la
Kruger riporta la capacità critica e l’attenzione di ognuno su questi temi che sono vicini al vissuto di chiunque.

La Kruger inizia il suo percorso artistico lavorando per Condé Nast nella New York degli anni Settanta.
Originariamente ha una formazione da designer che poi conserverà dedicandosi a tempo pieno all’arte. Negli anni
Ottanta si accorge di avere qualcosa da dire dopo alcuni anni passati nel settore della moda, ma è anche ben
consapevole di non possedere alcun linguaggio artistico noto. Tuttavia, accetta la sfida di poter diventare un’artista
portando una concezione nuova del modo di fare arte. Inizia a chiedersi addirittura se si possa essere considerati artisti
usando la “colla e un pennarello indelebile”.
La sua opera d’esordio che riscontra maggior successo è Your body is a battleground, realizzata per il movimento
femminista che stava prendendo piede proprio durante quegli anni. Con questa realizzazione, l’artista intendeva
mobilitare ancora di più le donne americane per liberarle da tabù sessuali e fomentare le grandi lotte di cui ancora oggi
si sente l’eco. La Kruger era coinvolta in questa causa tanto da affiggere la sua opera alle due di notte per tutta New
York.
La Kruger si focalizza quindi su temi che sono accessibili a chiunque e li esprime con un linguaggio artistico molto
personale e fortemente caratteristico. Il suo modus operandi ha alcune costanti che le permettono di venire
riconosciuta senza alcuna spiegazione. Per questo motivo, l’artista preferisce non essere immortalata con i suoi lavori,
preferendo che siano loro a parlare per lei. Si tratta di una scelta interessante, che prescinde dalla ricerca di fama e di
gloria per fare spazio all’arte nel suo senso più puro: descrivere e interpretare il mondo. La Kruger realizza le sue
opere a partire da fotografie estrapolate da riviste o pubblicità degli anni Cinquanta e successivamente acromatizzate.
Una volta realizzato ciò che costituirà il background dell’opera, compone frasi provocatorie che incentrano
l’attenzione su un particolare dell’esistenza frenetica del mondo moderno che si dà per scontato. Solitamente le parole
riportate sulle fotografie vengono incorniciate da un box di colore rosso in modo che l’osservatore possa focalizzarsi
ancora di più sul significato dell’opera. La Kruger, infatti, decide di rivolgersi direttamente allo spettatore senza alcuna
intermediazione. In una severa collisione tra contenuto e forma, il contatto visivo è fondamentale perché le aree di
significato non vengano fraintese e il lavoro rimanga quindi coerente.
Gli anni Ottanta nel mondo dell’arte sono denominati come the age of appropriation, l’età dell’appropriazione: significa che
gli artisti iniziano a guardare alla storia dell’arte rapportandosi ad essa attivamente, quindi riappropriandosi di opere antiche
per reinterpretarle in chiave moderna. Il grande anticipatore di questo movimento fu certamente Duchamp con la sua
rivisitazione della Gioconda di Leonardo: “L.H.O.O.Q”. La Kruger lavora in questa direzione, ma con i mezzi dei giorni
nostri: la fotografia e l’alta moda. Smonta gli stereotipi che rinchiudono ognuno in categorie predefinite come un corpo
magro, un lavoratore instancabile e dedito alla carriera o “consumato per essere”, per riuscire a rendere ciascuno consapevole
e quindi libero.
                                                                  La Kruger proviene da anni che vedono altissima la tensione
                                                                  sociale e generazionale, a partire proprio dal 1968 quando
                                                                  questi temi erano particolarmente sentiti e alimentati dal
                                                                  pensiero del filosofo Marcuse.La Kruger descrive una cultura
                                                                  che lei stessa definisce “piacevole ma brutale“, che instilla in
                                                                  ognuno la ricerca di un ideale di bellezza irraggiungibile e il
                                                                  culto per il successo a discapito anche di se stessi.
                                                                  D’altronde, anche il sociologo Bauman sosteneva che le
                                                                  palestre fossero diventate le “cattedrali moderne”, luoghi
                                                                  dove il culto del proprio corpo veniva giustificato e trovava
                                                                  compagni di viaggio. il nostro compito oggi dovrebbe essere
                                                                  chiedersi che origine hanno le convinzioni che orientano le
                                                                  nostre giornate, arrivando persino a modificare il nostro
                                                                  pensiero e il nostro rapporto con il tempo.
                                                                  In questo caso, l’artista riesce a muovere una critica sociale
                                                                  senza cadere nel tranello di renderla astratta e quindi inutile
                                                                  all’uomo contemporaneo che osserva la sua opera. Il suo
                                                                  lavoro parla a chiunque, senza discriminazioni e
                                                                  dimenticandosi del politically correct. La Kruger non ha
                                                                  paura di far sentire la propria voce dissonante rispetto al
                                                                  pensiero collettivo, assumendo quasi un approccio
                                                                  gramsciano alla cultura: la conoscenza serve all’uomo per
                                                                  rompere le catene che lo rendono cieco e incapace di
                                                                  muoversi per liberarsi come un moderno Perseo che si
                                                                  vendica della pena inflittagli da Zeus.
Joseph Kosuth – Quattro risposte a quattro domande
           Da http://www.agalmarivista.org/articoli-uscite/joseph-kosuth-quattro-risposte-a-quattro-domande/

Joseph Kosuth è riconosciuto come l’esponente di punta dell’arte concettuale, una corrente delle avanguardie
degli anni Sessanta che ha avuto molta fortuna anche come punto di riferimento per le ricerche artistiche degli
ultimi due decenni. Lo scopo dell’arte concettuale, per come la intende Kosuth, è quello di trasformare la ricerca
artistica in una ricerca sul significato stesso dell’arte, abbandonando così il terreno della semplice innovazione
stilistica. In questo senso il concettuale sfuggirebbe anche alla nozione moderna di “avanguardia”, venendo a
gettare le basi per un lavoro di indagine svincolato dalla dinamica del succedersi degli “ismi”. Nato a Toledo (USA)
nel 1945, inizia a concepire le sue prime e fondamentali opere concettuali verso la metà degli anni Sessanta –
opere come One and Three Chairs sono del 1965 – anche se il successo dell’arte concettuale giunge verso la
fine degli anni Sessanta. L’arte di Kosuth si è sempre attenuta a un atteggiamento lucidamente analitico che è
sempre rimasto in dialogo con il terreno della riflessione filosofica, a partire dai riferimenti a Wittgenstein fino a
quelli al post-strutturalismo francese. Tra gli scritti teorici di maggior rilievo di Kosuth ricordiamo Art after
Philosophy del 1969 (trad. it. 1987, L’arte dopo la filosofia).
Sig. Kosuth, lei è stato considerato come uno dei fondatori della cosiddetta “arte pubblica” poiché
          collocava già dagli anni Settanta delle frasi artistiche (o meglio delle frasi-opere) fuori dalle
      gallerie attraverso manifesti, inserzioni sui giornali e così via. Adesso molti artisti svolgono le loro
        operazioni artistiche in spazi pubblici e questo fenomeno è molto diffuso. Lei pensa che si tratti
       semplicemente di una moda oppure pensa che ci sia (in queste operazioni dei giovani artisti) un
                      background teorico che è in continuità con la sua esperienza artistica?
Donald Judd una volta mi raccontò una storia di come lui arrivò alla forma “a scatola” come soluzione ai
problemi che stava tentando di risolvere nei suoi dipinti. Il parallelepipedo era la soluzione formale a problemi
che erano basilari ed interni al suo lavoro, e invero, era parte della sua evoluzione personale come artista.
Probabilmente Judd, Robert Morris e Tony Smith erano arrivati del tutto indipendentemente a questa forma in
un modo valido all’incirca nello stesso periodo. Ma quando il curatore della mostra Strutture Primarieal
Jewish Museum di New York l’invitò a partecipare, Judd fu piuttosto scioccato nell’apprendere che il curatore
aveva messo insieme un’esposizione intera di dodici o quindici artisti, in cui la maggior parte di loro
proponevano parallelepipedi. Risultò che molti artisti avevano adottato la forma “a scatola” come necessario
lasciapassare per partecipare all’ultima onda della nuova arte: il minimalismo. Quindi, mi è venuta in mente
questa storia quando ho letto la sua domanda. La Seconda investigazione (1968/69) era parzialmente la
mia stessa risposta critica al primo dei miei lavori che utilizzava fotografie sia nelle Protoinvestigazioni del
1965, con lavori come Una e tre sedie, sia nella Prima Investigazione, cominciata nel 1966, entrambe
realizzate mediante l’uso della fotografia (ingrandimenti negativi di testi come definizioni del dizionario e voci
etimologiche) che era, come forma di presentazione, intesa ad essere fatta e rifatta come uno strumento per
sradicare l’aura e il carattere reliquiario della pittura, cosicché altre questioni avrebbero potuto essere poste
sulla natura dell’arte e del linguaggio. Di conseguenza, la fotografia eventualmente emerse all’interno di ciò
che più tardi fu percepito come una specie di pratica “d’avanguardia” e mi condusse ad abbandonarne l’uso
nel 1968 per diversi anni a seguire, a cominciare La Seconda Investigazione e a dedicarmi con essa all’uso
di mezzi di comunicazione pubblici ed anonimi.
D’altronde era esistita una sorta di “belle arti della fotografia” in parallelo per qualche tempo con la pratica
della pittura e aveva tutti i problemi della pittura. Era perciò sia vetero-conservatrice (con l’appellativo
popolare di “il realismo”) sia neo-conservatrice (definito in base al medium, legata perciò al meglio e al
peggio del modernismo).
L’arrivo dell’“arte concettuale”, così come la necessità dei land-artisti di avere qualcosa da esporre in
galleria, fece sì che la fotografia fosse considerata sempre più parte di una pratica di avanguardia in un
modo che non si vedeva più dai tempi di Man Ray e di altri dadaisti dei primi del secolo. Quindi, mentre
questo era un periodo in cui gli altri poi stavano cominciando ad usare la fotografia nel loro lavoro, io giunsi
invece alla conclusione che la fotografia stava cominciando a condividere molte delle limitazioni della pittura:
definita formalmente e tecnicamente – sia nella percezione dei limiti che dell’innovazione – e basata su un a-
priori che stabilisce il suo significato come arte attraverso l’autorità di tale forma. Mi sembrò che tutte le
attività di arte definite tramite i media stavano cominciando a condividere questa caratteristica, e noi
sappiamo che questo è un importante aspetto del modernismo. La natura dell’arte, per me era divenuta
l’interrogazione sulla natura dell’arte e, così facendo, un riflettere sul contesto del farsi del significato. Tale
visione della produzione di significato nella cultura ha implicazioni politiche e sociali. Ancora forme di autorità
chiaramente ostacolano questo processo di interrogazione. E, attenendosi a come Clement Greenberg
definì a suo tempo il modernismo, la visione istituzionale dell’arte del modernista era che essa fosse
compresa nell’obiettivo kantiano di trovare i limiti del mezzo. Per me, la questione era comunque più vasta e
cioè: come l’arte produce significato, prima rispetto a se stessa e poi come “se stessa” nel mondo? Per
scoprire questo io sentii che dovevo chiedere: come fa l’arte a generare il significato di arte fuori da questo
contesto formalmente legittimante? Era come “un’opera nel mondo” da cui noi non solo possiamo capire
come l’arte produce il suo proprio significato, ma anche come la cultura stessa è prodotta.
Per me il ricorso ai media pubblici come strumento di presentazione era ovvio e necessario per diverse
ragioni. Esso scindeva l’evento dell’opera dal tipo di forma fisica dell’arte che invece gli veniva associato
con lo stile alto del modernismo. Siccome non ci si aspettava di trovare “l’arte” in uno spazio riservato alla
pubblicità (come negli spazi per le affissioni o annunci di giornale) questa non era definita come arte a
priori, come accadeva invece con la pittura, la scultura o la fotografia, che quindi bloccano il processo di
interrogazione. Senza dubbio con opere di questo tipo un approccio da formalista sarebbe assurdo.
Dunque è importante sottolineare che in questo modo non si poteva fare appello a delle forme ereditate
per la sua legittimazione come arte. Nonostante questo, era ancora arte. Ciò che questo allora poteva dirci
era che c’è qualcosa di più nell’attività artistica oltre alla manipolazione di forme e colori. Ciò mi consentiva
di distinguere l’attività artistica dalla concezione convenzionale di ciò che potrebbe essere considerato
arte. In questo modo l’opera consentiva di porre questioni dall’interno della pratica stessa, cosa che una
forma più tradizionale di arte non permetteva. Questo rappresentava anche un importante contributo
politico a questo processo. Io facevo parte di una generazione che, nel 1968, aveva importanti questioni da
porre alle forme di autorità istituzionalizzate di ogni tipo. La pittura appariva insulare ed elitaria. Usare gli
organi della cultura di massa senza blandire le masse (come fanno Walt Disney o le pubblicità dei prodotti)
aveva un senso particolare per me, e sarebbe difficile per me disgiungerlo dal particolare interesse che
nutrivo per l’attivismo politico in quel periodo, sebbene molti abbiano tentato di fare così da allora sia a
destra che nell’autoproclamata sinistra.
Quindi, l’uso dei media pubblici nella Seconda Investigazione fu la mia risposta a questa situazione.
Mentre sentivo che opere come Una e tre sedie avevano iniziato questo processo di messa in questione,
ero preoccupato che esso non fosse sempre più limitato da una nuova interpretazione che veniva data alle
opere che si servivano della fotografia.
L’opera La Seconda Investigazione usava come sua “forma di presentazione” anonimi annunci nei media
pubblici come riviste, giornali, cartelloni pubblicitari, volantini e anche spot televisivi. Come pure viene
sostenuto nella sua domanda quest’opera è ritenuta uno dei primi usi noti del contesto per la produzione di
opere d’arte, e, certamente, io credo che dovrebbe essere vista come qualcosa di specifico e
completamente diverso dall’arte pubblicitaria che è seguita nella decade successiva e che continua
tutt’oggi, dove questa strategia di presentazione è spesso usata come fine a se stessa, molto più in accordo
con i principi del modernismo. Il contenuto degli annunci che ho utilizzato nel 1968 era basato su una
“tassonomia del mondo” sviluppata da Roget come Sinossi delle categorieper usarla nel suo Thesaurus.
Ogni annuncio era costituito da una voce tratta da questa sinossi, che in effetti immette nel mondo dei
frammenti della sua stessa descrizione (a proposito, ciò riflette tre delle mie influenze di quel periodo:
Wittgenstein, Benjamin e Borges). Ciò che ne scaturì, naturalmente, fu un’interrogazione sull’ontologia
dell’opera d’arte: il ruolo del contesto, del linguaggio, della cornice istituzionale, della ricezione. Secondo
me, la preoccupazione di quest’opera si concentrava chiaramente su ciò che doveva rimanere l’interesse
centrale della mia arte.
Verso la metà degli anni Sessanta mi sembrava assolutamente ovvio che il problema degli artisti non era la
materializzazione o la smaterializzazione dell’opera. Infatti quest’opera non era neanche interessata ai
materiali. In ciò la mia opera aveva una collocazione completamente diversa rispetto all’arte povera. Il
significato stesso divenne la questione che definiva la mia opera, come pure definiva questa attività che
divenne nota più tardi con il nome di arte concettuale. Ci si potrebbe chiedere: quali sono le questioni
manifestate nelle opere concernenti la funzione del significato nella produzione e ricezione delle opere
d’arte? Qual è il limite del linguaggio come modello, e qual è la sua applicazione, sia nella teoria che nella
produzione di opere effettive?
Quindi, ci si potrebbe chiedere, qual è il ruolo del contesto, sia esso architettonico, psicologico o
istituzionale, sulla lettura sociale, culturale e politica dell’opera? Il campo da gioco dell’opera non era la
piatta superficie del quadro o il suo bordo, non era neanche collocato nei media, il contesto stesso era il
campo da gioco e che organizzava il significato. Erano queste le questioni che separavano l’arte
concettuale dall’agenda modernista che la precedeva, ed è questa pratica non-prescrittiva che è rimasta
abbastanza flessibile da consentirle di durare e, ovviamente, di continuare a fornire la base della
pertinenza dell’arte concettuale alla recente pratica artistica. In questo senso l’arte concettuale costituiva il
punto di arrivo a una liberatoria post-modernità.

    Nello stesso periodo in cui lei dava origine all’esperienza della Conceptual Art (in particolare mi
      riferisco a quella che lei nei suoi scritti tradotti in italiano chiama “Arte Concettuale Teorica”),
          Arthur C. Danto e poi George Dickie davano inizio alla cosiddetta “Teoria istituzionale
           dell’arte”. C’era una connessione tra la teoria istituzionale dell’arte e le considerazioni
      analitiche sulla natura dell’arte proposte da lei, oppure sono da considerarsi due punti di vista
                               semplicemente diversi se non addirittura opposti?
La categoria di “arte concettuale teorica” era semplicemente una distinzione finalizzata ad articolare
un’importante differenza tra opere che si stavano ponendo la questione giusta, o semplicemente che si
ponevano questioni (!) e opere come quelle del problema della “scatola” di Judd che fondamentalmente
sono semplicemente di stile avanguardista. Ma tutto ciò accadeva trentacinque anni fa ed è relativo a quel
momento. D’altra parte non credo che le divisioni contenute nella sua domanda rivelino un’accurata
riflessione sulla storia come io la conosco. Conosco un testo di Dickie che era interessante che veniva da
quel contesto e di cui sono abbastanza sicuro che sia indipendente dai miei scritti.
Per quanto mi riguarda avrei più da ridire su Danto. Essenzialmente egli ha ripreso lo “scheletro” delle
argomentazioni che ho esposto in L’arte dopo la filosofiae vi ha aggiunto la “carne” disponibile a un
filosofo accademico. Molti hanno trovato curioso che egli non abbia mai menzionato L’arte dopo la
filosofiain nessuno dei suoi scritti, anche se quasi ogni altro ha sentito la necessità di farne cenno
scrivendo su questi argomenti, e anche se le sue tesi condividono così evidenti somiglianze con le mie.
Perché il peccato è che, invece di riconoscere il suo debito verso il mio testo, e di acconsentire ad esso,
egli si è piuttosto nascosto da esso.
Venni presentato a Danto una volta a un vernissage del Guggenheim Museum di New York e lui sbiancò in
volto, balbettò qualcosa e scappò via. Non so se fu la falsa coscienza o una semplice coincidenza, ma
Danto passò i successivi trent’anni evitando ogni relazione con i miei scritti o le mie opere, e perciò
indirizzandosi verso sentieri meno fruttuosi, invece che in quelle direzioni che avrebbero reso le sue
teorizzazioni più feconde. Penso, per esempio, al suo scritto su una figura piuttosto minore come Mel
Bochner, che ha dato un limitato contributo come critico e curatore al post-minimalismo, ma il suo lavoro
ha contribuito per una parte molto piccola alla storia della nostra pratica (naturalmente Bochner fu uno dei
primi a tornare alla pittura quando il vento cambiò, e solo recentemente ha posto l’attenzione sulla piccola
parte della sua attività che con qualche speranza può chiamare “concettuale”).
Molte delle direzioni seguite dagli scritti di Danto sembrano cadere in una sorta di interstizio tra due
discipline senza centrarne neanche una con decisione. Le sue argomentazioni, ciò nondimeno, sono
interessanti, anche se le sue conclusioni lo sono molto meno. Quindi è stato uno spreco. Ma la “Teoria
Istituzionale”, come la chiama lei, non arriva ad essere una vera e propria teoria quanto piuttosto una
conclusione argomentata sulla base di teorie precedenti come la mia. Ci sono stati molti tentativi fatti lungo
questa linea, tutti piuttosto insoddisfacenti, argutamente polemici o semplicemente sbagliati, Benjamin
Buchloh è un esempio del primo caso e Thierry de Duve un esempio del secondo.
Su quali temi sta lavorando in questo periodo?
Da dove cominciare? Possiamo iniziare con il titolo della mia recente installazione alla galleria Sean Kelly
di New York, A Propos (Réflecteur deRéflecteur) che veramente è venuta fuori da una conversazione con
qualcuno, e questo mi è piaciuto perché si riferisce a una condizione generale di specificità, e al tempo
stesso suggerisce una contingenza. “Allo scopo”, che è il suo significato originale e letterale, sembrava un
buon titolo per un’opera costituita da elementi autonomi che interagiscono in modo contingente per dare
luogo a un’installazione relativa alla genealogia delle influenze interne alla filosofia francese, a partire da
Cartesio, essendo una sorta di cronologia con interruzioni post-moderne. Il tutto è avvicinato con
un’interpretazione della mia opera, come ho detto, come dramma sulle “relazioni tra relazioni”. Veramente
il resto del titolo in francese tra parentesi, “réflecteur deréflecteur” è ugualmente importante. Ho trovato
questo termine facendo una ricerca su Kierkegaard per l’installazione che sto facendo a Copenhagen
come parte dell’anniversario di Hans Christian Andersen, e si riferisce alla posizione di riflessività che
l’opera impone al realizzatore e allo spettatore. Qualcuno mi ha chiesto spiegazioni del fatto che questa
installazione come opera si manifesta in due modi. Ho fatto spesso negli anni lavori su questo tema, e le
installazioni sono concepite come prendendo in considerazione le due condizioni.
C’è l’“intero” che è l’installazione. Ci sono poi le parti individuali delle quali l’installazione è composta, ma,
che quando sono sole, sono anch’esse un “intero”. C’è un certificato emesso per tutta l’installazione come
una sola opera, e ci sono poi dei certificati emessi per ognuno degli elementi individuali che la
compongono. Quindi, mentre essi sono realizzati fisicamente due volte, rimangono opere uniche. Le
singole opere funzionano come opere, dal momento che loro trattengono da una parte una traccia di tutti i
miei lavori precedenti in senso generale, ma dall’altra anche una traccia dell’installazione stessa.
Ogni citazione riflette il pensiero di un filosofo o di un teorico. Essa è rappresentativa del significato
prodotto da loro. L’installazione è il significato della rete di relazioni tra loro.
Come accennai all’inizio, ho sempre sostenuto che un’importante parte del mio materiale di lavoro è il
contesto stesso. E, come sa, questo è un aspetto dell’installazione che è stato basilare per il mio lavoro
per quasi quarant’anni.
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