LA GESTIONE COMUNITARIA DEL TERRITORIO E DEL PAESAGGIO

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LA GESTIONE COMUNITARIA
                    DEL TERRITORIO E DEL PAESAGGIO

                          Piticchio di Arcevia - 5 ottobre 2014

Qui trovate i link ai video del convegno, i testi delle poesie lette, il testo della
Carta 2 di Arcevia, quasi tutte le relazioni in forma scritta, non del tutto
corrispondenti agli interventi orali firmati, anzi alcune abbastanza diverse, per
cui hanno un valore a sé. Dopo i documenti del convegno abbiamo dato uno
spazio a sé ad alcuni contributi scritti che Paolo Maddalena ci ha fatto
pervenire dopo il convegno, di valore eccelso, che trattano in modo
approfondito alcuni dei temi di attualità toccati durante il convegno. Ne è del
tutto consigliabile la lettura per chi voglia impegnarsi a cambiare in meglio il
nostro paese o anche solo per conoscere meglio la situazione in cui ci troviamo
e quello che potremmo fare di positivo come cittadini.

INDICE

TUTTI I DOCUMENTI DEL CONVEGNO “LA GESTIONE COMUNITARIA DEL
TERRITORIO E DEL PAESAGGIO”
•   Il Convegno “La gestione comunitaria del territorio e del paesaggio”
•   Le poesie lette fra le relazioni del Convegno del mattino
•   La seconda Carta di Arcevia: un commento di Paolo Cacciari
•   La visione comunitaria di Adriano Olivetti (Francesca Limana)
•   Presentazione della Carta 2 di Arcevia (Loris Asoli)
•   La proprietà collettiva delle Comunanze nelle Marche (Olimpia Gobbi)
•   La tesi premiata - Un modello: i monti del Furlo nella valle del Metauro
•   Tutti i video del Convegno
•   Il testo della carta 2 di Arcevia

CONTRIBUTI DI PAOLO MADDALENA ALLA SOLUZIONI DEI PROBLEMI
DELL'ITALIA
•   Il disastro dello sblocca-Italia
•   La difesa delle risorse del territorio e del lavoro italiani
•   Il territorio, il lavoro, la crisi finanziaria
•   La giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di tutela e fruizione
    dell'ambiente
•   Il bene ambientale boschi e foreste
ATTI DEL CONVEGNO “LA GESTIONE COMUNITARIA DEL
TERRITORIO E DEL PAESAGGIO”

Riteniamo che questo convegno, con gli interventi dei vari relatori e con il
percorso di elaborazione della Carta 2 di Arcevia sullo stesso tema, sia stato un
momento importante e positivo, per almeno tre aspetti.
Il primo è il rafforzarsi della collaborazione e dell'alleanza fra varie reti
associative e imprese che fanno riferimento ai temi dell'Economia
solidale. Si intensifica anche il collegamento di queste reti con i giuristi e
uomini di cultura che trattano gli stessi argomenti.
Il secondo aspetto positivo riguarda l'aspetto culturale e programmatico
della Carta, che porta un passo più avanti l'elaborazione della visione
di una nuova società, basata su aspetti concreti e realizzabili. La Carta
rimane un documento aperto al quale potranno essere aggiunti altri contributi.
Il terzo aspetto importante è che si è parlato anche delle iniziative concrete,
collegate alla visione progettuale. Per esempio, Paolo Maddalena ha
proposto di estendere e generalizzare la pratica, che è stata iniziata dal
Comune di Napoli, volta a far acquisire dagli enti pubblici locali aree e immobili
abbandonati all'incuria e al degrado da parte dei proprietari, che magari hanno
delocalizzato una fabbrica all'estero.
Un'altra proposta forte riguarda la richiesta che le terre agricole degli enti
pubblici (stato, regioni, province, comuni) non siano messe in vendita, ma
siano invece coinvolte le istituzioni ad aderire a progetti di affidamento a
cooperative agricole di giovani disoccupati, in particolare formati in
agricoltura, e che vogliano praticare la conduzione biologica, per la tutela
dell'ambiente e la qualità del cibo.

TESTO DELLA CARTA

                                                                     INDICE

LE POESIE LETTE FRA LE RELAZIONI DEL CONVEGNO DEL
MATTINO

Poesie di Righetti Lionello, Angelo Verdini, Marina Catena, Franco Ar-
minio

SILENZIO
Arcevia 2014

In silenzio
il mio cuore trova pace

In silenzio

si formano le nuvole

In silenzio trovo

ispirazione

In silenzio

l'orchestra inizia

a suonare

In silenzio

le tue mani

accarezzano la mia pelle

In silenzio il vento

inizia il suo cammino

In silenzio

nascono le idee

che trasformano la vita

In silenzio nasce l'amore!

Per favore

ridateci il silenzio

(Nello Righetti)

DONNE
Firenze 2014 Ponte vecchio

Altera bellezza

Con indolenza cammini

Incurante di sguardi
Bramosi e dell’altrui

Pensiero.

…così pare!

Ti rivedo poi

Piegata in due

Schiva, quasi furtiva

Non cerchi altro

Che di passare inosservata.

Dove sei stata?

Com’è andata

Cosa hai vissuto?

Sogno e realtà

Una fusione a volte

Riuscita a volte no

La differenza sta

Nella felicità

O nel suo opposto

Comunque sia

Comunque sia

A te giovane e altera

Buona fortuna!
A te piegata in due

Grazie per essere stata con noi.

(Nello Righetti)

Una quercia si è seduta

Angelo Verdini 2007

La terra ha tremato,

le rocce si sgretolano

e una quercia si è seduta

sull’orlo del greppo,

lievemente posata

e cullata

da mani d’erba

e d’acqua rigagnolina.

Sull’orizzonte più vasto

facevano irruzione

bagliori e stordimento

e ogni giorno sopravvenivano

echi di ripetute distruzioni.

Ora riaggomitolata

prova a ordinare
tutti gli imperfetti ricordi,

riconosce la voce delle nonne

che raccontano storie

di foglie e di vicoli,

di zucchero e di selciato.

L’anima rotonda

non teme le carestie

ha scorte sufficienti

di lessico amico

e di versi a braccio

curvati dal vento.

SALTARELLO TRA LE NUVOLE
Angelo Verdini

Tutto questo vento alla fine

qualcuno si porta sempre via.

Chi se n’è andato d’inverno

rispettava gli argini dei fossi

la disciplina delle capezzagne

la regolarità delle siepi.

E la terra riconoscente restituiva

la sapienza degli innesti e dei canestri,

tenera e sfrontata in forma di fuoco

che genera pensieri di pane e ciliegia

e soccorso di parole dritte e rispettose
come le mani puntuali

che accarezzano i vitellini appena nati.

Chi è restato a girare intorno

ai giorni e alle stagioni

sa scrutare nella filigrana delle nuvole

indizi fortunati del raccolto

e immagina un cielo benevolo e protettivo

da ballarci sopra

come nelle notti di fieno e di granturco.

Un organetto inarrestabile

fa muovere le gambe e le mani

dei corpi fieri che non arretrano

dai fianchi imperiosi e intemperanti

sfidanti di sé e del mondo

e offre un regalo di parole larghe e precise

colme come i sacchi

pieni di grano e di similitudini.

IL MIO CAMPO E’ LA MIA PIAZZA

Solo quando ti siedi nel campo

e abbracci la vite storta

attaccata alla terra

che culla i semi

amanti della luna,

non hai più fame di solitudine

e ti accorgi
di un canto che sale

poderoso e invitante dai campi.

Tra il sole e l’ombra

che giocano a nascondino

le parole dignitose e trepidanti dei giorni antichi

gorgheggiano e fanno compagnia

a chi ha abitato la “cesa” severa

e si involano nel grido inquietante

del vento montano.

E mentre l’orologio della torre,

risponde austero

ai lamenti e alle gioie delle generazioni

e diventa meridiana del tempo

e misura di un immaginario nascente

d’irriducibile dolcezza…

ti ritrovi lì,

nella piazza spruzzata di luce

che filtra dalle pietre irregolari del borgo

per dare forma, colore e armonia ai pensieri

che come panchine volanti

presidiano i segni e le trame di un comune bene

e il coraggio della permanenza e della cittadinanza
Marina Catena    04 ottobre 2014

Tre testi per il nuovo umanesimo delle montagne

Franco Arminio

Abbiamo bisogno di contadini, di poeti,
di gente che sa fare il pane,
di gente che ama gli alberi e riconosce il vento.
Più che l'anno della crescita, ci vorrebbe l'anno dell'attenzione.
Attenzione a chi cade,
attenzione al sole che nasce e che muore,
attenzione ai ragazzi che crescono,
attenzione anche a un semplice lampione,
a un muro scrostato.
Oggi essere rivoluzionari
significa togliere più che aggiungere,
significa rallentare più che accelerare,
significa dare valore al silenzio, al buio, alla luce,
alla fragilità, alla dolcezza.

Concedetevi una vacanza intorno a un filo d'erba,
dove non c'è il troppo di ogni cosa, dove il poco ancora ti festeggia con il
pane e la luce,
con la muta lussuria di una rosa.

Ciò che conta è fuori di noi,
la meraviglia del mondo è negli alberi,
nelle nuvole, nella terra su cui poggiamo i piedi.
Abbiate cura di andare in giro. Non rimanete fermi
come uno straccio sotto il ferro da stiro.
                                                                     INDICE
LA SECONDA CARTA DI ARCEVIA: UN COMMENTO DI PAOLO
CACCIARI

La Carta di Arcevia sulla gestione del territorio segna un decisivo passo avanti
del mondo dell’economia solidale nella elaborazione di una propria, compiuta e
convincente, visione sociale. La Carta delinea una moderna utopia conviviale,
un’“etica del futuro” (per usare una espressione del Manifesto convivialista. Di-
chiarazione d’interdipendenza, Edizioni ETS, Pisa, 2014) che dà respiro alle
azioni che molte persone concretamente intraprendono per cambiare la direzio-
ne della loro vita attraverso pratiche di economia solidale (il primo, forse, ad
usare questo termine fu Antonio Giolitti), sociale (Jean-Louis Laville), parteci-
pativa (Michael Albert), civile (Zamagni, Bruni), della condivisione (Joseph Ku-
marappa), ecologica (Georgescu Roegen, Joan Martinez Alier), collaborativa
(Giorgio Arena, Carlo Donolo), del bene comune (Christian Fleber), informale
(Serge Latouche), “del noi” (Roberta Carlini), plurale e “cenerentola” (New
Economy Foundaion), morale e della sussistenza (Ivan Illich), degli affetti… o
come altro vogliamo chiamare l’“altra economia”. Con questo nuovo sforzo la
Rees delle Marche si ripropone come un valido motore per tutto il movimento.

Dalla lettura della Carta risulta evidente che al centro di ogni ragionamento
sulla possibile trasformazione degli assetti economici e – più in generale – di
potere, che regolano le nostre vite, vi sono i rapporti sociali che si instaurano
tra gli individui. Il cuore del cambiamento che desideriamo imprimere alla so-
cietà non sono i “beni” (intesi come i mezzi e gli strumenti, materiali e cogniti-
vi, naturali e culturali necessari alla sussistenza e al ben-vivere di ciascun indi-
viduo sulla Terra), ma le comunità afferenti, il loro modo di costituirsi ed orga-
nizzarsi, la qualità delle relazioni umane e sociali che si instaurano tra i sogget-
ti umani e tra questi e tutte le altre forme di vita. Mi piace citare ancora una
volta Raj Patel (Il valore delle cose e le illusioni del capitalismo, Milano, 2007,
pp 95 e seguenti): “E’ il nesso che si instaura tra gli individui che definisce il
bene comune. Nella gestione collettiva del bene gli individui si uniscono e crea-
no communitas, realizzano un progetto collettivo, operano pratiche condivise
(…) La pratica dei commons, la gestione collettiva delle risorse comuni, richie-
de una rete di relazioni sociali finalizzate a tenere a freno gli istinti più vili e a
promuovere un diverso modo di valutare il mondo e le cose”.

I beni comuni non sono un catalogo di oggetti reperibile sul mercato e nemme-
no tra i capitoli di bilancio dello stato. Sono un repertorio di modalità di azioni
messe in atto dalla cittadinanza attiva per la riconcettualizzazione e la socializ-
zazione sostenibile della ricchezza. Le comunità si formano attorno alla gestio-
ne dei beni comuni. Società conviviali sorgono quando si forma una comunanza
di intenti tra individui che decidono di mettere in comune le loro capacità per
condividere le risorse naturali che hanno a disposizione. La gestione dei beni
comuni deve sottostare a due elementari principi etici: la loro preservazione
nel tempo e l’equo accesso ai benefici ricavabili dal loro utilizzo. E’ così che si
forma una comunalità.
Viceversa nei rapporti di produzione e di consumo dominati dal dogma della
crescita del valore monetario delle merci, i rapporti sociali comunitari si disgre-
gano e ogni individuo deve affrontare da solo, o – quando è fortunato - con il
solo ausilio della sua famiglia, la competizione per la messa a valore delle sue
capacità lavorative. La logica del mercato capitalistico tende a massimizzare le
rese, la produttività e il valore di scambio monetario ricavabile da ogni tipo di
bene. Una logica economica predatoria, estrattiva e sfruttatrice è la causa di
tutti i nostri mali, sia di quelli sociali (aumento delle diseguaglianze e delle po-
vertà) sia di quelli ambientali (inquinamenti e rarefazione delle risorse
naturali). Il codice utilitaristico capitalistico (fare profitti, accumulare, produrre
e consumare sempre di più) provoca vuoto interiore, egoismo, inaffettività.

La rivoluzione del pensiero dei beni comuni taglia trasversalmente tutte le di-
scipline giuridiche, economiche, filosofiche e politiche. Difficile per la cultura
occidentale fortemente antropocentrica e specista ammettere che non sono
solo gli esseri umani meritevoli di diritti. La natura è un bene comune non pri-
vatizzabile, meritevole di tutela in sé, indipendentemente dalle valutazioni che
ne fanno i suoi “proprietari”. Il passaggio ad una “etica della natura” (Aldo Leo-
pold) presuppone un salto di civiltà pari a quello che l’umanità ha (in parte)
compiuto con l’abolizionismo dello schiavismo e con la parificazione dei diritti
politici alle donne.

Difficile anche per la cultura scientista riduzionistica riconoscere la distinzione
tra la vera scienza e la “scienza-come-ricerca-finanziabile” dalla grande indu-
stria (come la definiva Ivan Illich). A tal proposito pensiamo agli Ogm e, più in
generale, alla introduzione nei Consigli di amministrazione delle università delle
Fondazioni bancarie e degli industriali.

Difficile soprattutto cambiare l’idea antropologica che sta sopra le teorie econo-
miche liberali e neoliberali da qualche centinaio di anni a questa parte secondo
cui il “carattere naturale” degli individui umani sarebbe quello del lupo (povero
lupo!), maligno, aggressivo, insaziabile. Il compito della cosiddetta “scienza
economica” sarebbe quello di assecondare i suoi infiniti desideri forzando i limi-
ti di una natura considerata matrigna e avara.

Compito della teoria dei beni comuni è propriamente quello di rovesciare simili
teorie. La natura/nutrice non è affatto “scarsa”, ma solamente limitata. Compi-
to nostro, nel tentare di praticare “l’arte del vivere assieme” (Alain Caillé), è
riuscire ad accordare i nostri comportamenti nel modo più armonioso possibile
ai ritmi di rigenerazione dei cicli naturali bio-geo-chimici, contenendo l’entropia
e consentendo a tutti/e di vivere dignitosamente. (Pensiamo solo che i tempi di
riassorbimento dell’anidride carbonica, responsabile del surriscaldamento glo-
bale, si calcolano in millenni). La vera scienza economica dovrebbe aiutarci a
stabilire il bastevole e il sufficiente in relazione all’equilibrio e all’equità. Esatta-
mente l’opposto della corsa suicida alla crescita permanente cui ci inducono le
teorie economiche dominanti.

Per innescare simili rivoluzioni culturali e politiche è decisivo rivalutare la no-
zione di comunità, di comunalità, di comunanza, di “ambiti comuni” (Gustavo
Esteva, Ripensare il mondo con Ivan Illich, Museode by Hermatena, Bologna
2014). Sapendo che noi abbiamo in testa un’idea di comunità positiva e affa-
scinante, come di una società di base convivialista, fondata sull’autogoverno,
perciò realmente democratica. Dobbiamo però essere consapevoli che la nostra
nozione di comunità si scontra sia con la credenza della globalizzazione (intesa
come un processo di internazionalizzazione e integrazione dei popoli) portatrice
di sviluppo e progresso, sia con l’idea – solo apparentemente opposta - delle
“comunità naturali”, “originarie”, chiuse ed escludenti. In realtà sia la globaliz-
zazione che il localismo sono funzionali alla “messa al lavoro” e in competizio-
ne tra loro delle diverse aree geografiche del pianeta, segmentando e allun-
gando le filiere produttive, favorendo le delocalizzazioni specializzate delle im-
prese e acuendo la divisione internazionale del lavoro su basi etniche.

La nostra è una idea di comunità territorialmente definita, radicata, responsa-
bile e dotata di sovranità locale, ma in grado di uscire dai suoi confini, di vali-
carli, costruendo relazioni all’esterno su scala globale e capace di aprirsi al
mondo intero, accettando le sfide planetarie che incontra l’umanità, a partire
da quelle ecologica e della povertà. In una parola pensiamo a comunità che af-
frontano la questione delle disuguaglianze in nome dell’equità. Comunità capaci
di agire seguendo principi di reciprocità, mutualità, cooperazione (introducendo
clausole sociali negli scambi), sostenibilità (introducendo clausole ambientali).

Così come, al loro interno, le comunità a cui pensiamo devono essere capaci di
attivare “esistenze comunitarie” (Esteva), tessuti connettivi paritari, relazioni
autenticamente democratiche, stili di vita e comportamenti autodisciplinati. Co-
munità in grado di accogliere e convivere con identità socio-culturali diverse;
religioni, stili di vita, tradizioni diverse. Tutto il contrario del localismo angusto
e ristretto, chiuso ed escludente, alimentato dalle ideologie organiciste, patriar-
cali, lavoristiche. L’idea di una sovranità per diritto naturale, fondata sull’ap-
partenenza, “sul suolo e sul sangue” (cioè sulla proprietà), che dà vita a “co-
munità di destino” ereditare e indissolubili, inibisce l’assunzione di libere scelte
responsabili da parte degli individui, consegna la politica ad ogni forma di auto-
ritarismo. Il nostro sogno comunitario, invece, è trovare il modo di coniugare il
massimo di libertà e autonomia individuale possibile (tenendo conto delle insu-
perabili interdipendenze) con il massimo di condivisione sociale (tenendo conto
e non nascondendo le disparità e le ingiustizie ancora esistenti e sempre ripro-
ducibili). Esiste quindi una concezione progressista, democratica e radicale di
“comunità scelta”, di comunità pluriversa e universalista, come associazione li-
beramente condivisa. Quasi un ossimoro (non si possono scegliere le patrie!)
che diventa realistico solo se si spezza l’idea di confine invalicabile e si accetta
l’idea che ognuno di noi è portatore già dentro di se di identità plurime e ap-
partenenze contemporaneamente diverse (come insegna Amartya Sen).

L’idea federalistica diviene fondamentale per riuscire a delineare i contorni di
un altro assetto del mondo. Vengono in mente le “repubbliche di quartiere” di
Murray Bookchin, le “repubbliche elementari” di Hannah Arendt, le esperienze
consiliari del sindacalismo rivoluzionario, lo “stato federale delle comunità” in-
tegrate, urbane e rurali, di Adriano Olivetti. E prima ancora la Comune di Parigi
e Thomas Jefferson che era giunto ad ipotizzare “piccole repubbliche” dimen-
sionate al bacino d’utenza delle scuole elementari. Noi preferiremmo delle re-
pubbliche dimensionate sulle “bioregioni”, delle nazioni disegnate attorno ai
bacini idrogeografici, delle città dimensionate sull’impronta ecologica. E’ neces-
sario ridare fisicità alle cose, “de-angelizzare” il Pil (Ernan Daly), de-anonimiz-
zare le società per azioni e ri-nominare gli interessi in gioco.

Per noi le comunità sono un processo di presa di parola e di responsabilità da
parte delle popolazioni residenti e della cittadinanza che si riappropriano di ciò
che decidono di gestire in comune per il bene comune. Un processo che non
avviene in laboratorio sotto una campana di vetro, ma nel fuoco di conflitti ge-
nerati dalle smisurate asimmetrie di potere esistenti tra i ceti sociali, tra i ge-
neri, tra le generazioni, tra le popolazioni residenti nelle diverse parti del pia-
neta. Per dare l’idea della processualità e dell’azione di cambiamento, John
Holloway e Peter Linebaugh hanno coniato dei nuovi verbi, rispettivamente:
“comunizar” e “commoning”. Fare comunità, mettere in comune per creare
nuove istituzioni del bene comune sostanzialmente e radicalmente democrati-
che. Stiamo prospettando un processo politico di collettivizzazione senza stata-
lizzazione, di controllo pubblico dell’economia senza pianificazione centralizza-
ta, di liberazione dai rapporti sociali subordinati ed eterodiretti attraverso la
formazione di una soggettività collettiva nuova, decisamente etica. Altra eco-
nomia e lotte per i beni comuni sono due facce della stessa medaglia. Ambe-
due mirano a realizzare spazi comuni liberati dalle logiche mercantili (res extra
commecium, res in usu pubblico, res communis omnium), autoorganizzati e
autogovernati con “con-motíon” (altro neologismo coniato da Esteva) che sta
ad indicare una interrelazione simultanea di azioni, idee, sentimenti che resti-
tuisce una pienezza di significato ai commons, ai beni comuni, alle comunità
come comunanze.

Piticchio di Arcevia 5 ottobre 2014

                                                                     INDICE

LA VISIONE COMUNITARIA DI ADRIANO OLIVETTI
Aspetti di attualità per la società contemporanea
Arcevia, 5 ottobre 2014

Innanzitutto molte grazie per aver invitato la Fondazione Adriano Olivetti a
partecipare a questo incontro. Sono molto felice di essere qui e di raccontare
alcuni aspetti della visione comunitaria di Adriano Olivetti.

Ci tengo molto a sottolineare che è soprattutto negli scritti e nei discorsi di
Adriano, ripubblicati di recente dalle Edizioni di Comunità, che si rintraccia l’at-
tualità della sua azione. Mai come oggi, alcuni temi come la dignità della perso-
na e del lavoro, il valore della cultura, la capacità di creare innovazione sono
più che mai attuali considerato il delicato momento che l’Italia sta attraversan-
do.
Adriano Olivetti è stato tante cose: imprenditore, editore, politico, urbanista
     ma soprattutto quello che oggi definiremmo un innovatore sociale. Adriano non
     ha mai inteso il progresso e la ricchezza generata dall’impresa come fine a sé
     stessa ma come strumento per la costruzione di un mondo spiritualmente più
     elevato.

     Per parlare della visione comunitaria di Adriano Olivetti è necessario tracciare
     un profilo più vasto di Adriano. Ripercorrerò per questa ragione, alcuni aspetti:

        1.     la sua formazione (Il padre Camillo | Il viaggio in America)

        2.     l’evoluzione e trasformazione della fabbrica

        3.     l’esilio svizzero e il consolidamento del suo pensiero politico

        4.    fino ad arrivare all’esperienza dell’IRUR, esempio dell’azione co-
             munitaria in Canavese.

1.     LA SUA FORMAZIONE

     Il padre Camillo

     Adriano Olivetti nasce a Ivrea nel 1901, secondo di sei figli, si forma in un am -
     biente liberale, democratico, socialista, antifascista, della Torino di Gobetti e
     Gramsci. Il padre Camillo, ebreo e la madre Luisa, valdese. L’incontro di due
     storiche minoranze religiose, una mescolanza di culture, che sta probabilmente
     all’origine di quell’alta idea che aveva della persona, portatrice di una missione.

     Sia per Adriano sia per Camillo sarà fondamentale spingersi oltreoceano per
     assorbire il dinamismo industriale americano.

     Camillo - personalità colta ed eclettica – laureato in Ingegneria studia con il
     Professor Galileo Ferraris e tra la fine dell’800 e gli inizi del Novecento compie
     due viaggi negli Stati Uniti:

     insegna a Stanford,

     visita le più importanti fabbriche di macchine per scrivere (Remington, Under-
     wood, Royal, Corona),

     va in quei piccoli villaggi americani, che rappresentano quanto di meglio ha l’A-
     merica: scuole, Università, servizi tramviari, grandi viali, parchi, tutto quello
     che in Italia, in quegli anni, si vede solo nelle grandi città.
Nel 1908 Camillo fonda a Ivrea la Ing. Camillo Olivetti & C. Prima fabbrica Ita -
liana di macchine per scrivere.

Anche nell’educazione dei figli, Camillo rompe gli schemi tradizionali: nessun
bambino Olivetti frequenterà la scuola fino ad otto anni. Saranno educati in
casa e manterranno un forte legame con la natura.

A 13 anni Adriano compie la sua prima esperienza in fabbrica, fondamentale
negli anni a venire che lui stesso descrive con queste parole:

Nel lontano agosto del 1914, avevo allora 13 anni, mio padre mi mandò a la-
vorare in fabbrica. Imparai così ben presto a conoscere e odiare il lavoro in se-
rie: una tortura per lo spirito che stava imprigionato per delle ore che non fini-
vano mai, nel nero e nel buio di una vecchia officina… per molti anni non rimisi
piede nella fabbrica, ben deciso che nella vita non avrei atteso all’industria pa-
terna.

Così per fortuna non fu.

Il viaggio in America

Negli anni venti Adriano frequenta il Politecnico di Torino dove si laureerà in In-
gegneria Chimica nel 1924. L’anno seguente, seguendo le orme paterne, com-
pirà il suo primo viaggio negli Stati Uniti. In quasi sei mesi, visita 105 fabbriche
e porta con sé una cinquantina di libri soprattutto sull’organizzazione scientifica
del lavoro, i cui titoli poi ritroveremo spesso pubblicati dalle Edizioni di Comuni-
tà. Come per Camillo l’esperienza in America sarà fondamentale come persona
e come futuro imprenditore.

Quando il 2 agosto mi avvicinavo alla statua della libertà e mi apparivano i
grandi grattacieli, mi pulsava nel cuore un orgoglioso pensiero: giungevo per
studiare, per capire il segreto della potenza industriale, ma non riuscivo a con-
vincermi che tutto era possibile anche nel mio piccolo paese, che vi sarei tor-
nato per dimostrare a me e agli altri quanto la volontà e il metodo potessero
prevalere sugli uomini e sulle cose.

   2.   L’EVOLUZIONE E TRASFORMAZIONE DELLA FABBRICA

In America, Camillo e Adriano capiscono come gli americani riescono così bene
dove gli italiani sono fermi: trasformare le scoperte scientifiche in tecnica
e applicare la tecnica alla produzione.
La Olivetti dei primi del Novecento compie un salto dopo il primo viaggio di
    Adriano negli Stati Uniti. Pensate che la prima macchina per scrivere, la M1,
    presentata nel 1911 all’Esposizione Universale di Torino, veniva interamente
    prodotta all’interno della fabbrica. Ogni pezzo veniva fatto a mano, con un rit-
    mo di produzione di circa 5 macchine al giorno.

    (con Adriano nel 1960 si arriverà a un ritmo di produzione di sei mac-
    chine al minuto!)

    Alla vigilia della prima guerra mondiale

    il salario medio di un operaio era di mille lire l’anno,

    una automobile FIAT costava settemila lire

    e una M1 Olivetti costava cinquecento lire.

    Adriano torna dall’America con la consapevolezza che il segreto del dinamismo
    americano sta nella struttura dell’organizzazione e nel rigore dei meto-
    di.

    Propone al padre Camillo un progetto rivoluzionario di modernizzazione della
    fabbrica introducendo alcuni fondamenti del management noti ancora oggi:

-       organizzazione decentrata del personale,

-       direzione per funzioni,

-       razionalizzazione dei tempi e metodi di montaggio,

-       sviluppo della rete commerciale in Italia e all’estero.

-      apertura verso il mercato di massa (pensate anche solo alla MP1, prima
    macchina per scrivere portatile del 1932).

    [Rispetto ai 17 chili della M1, la MP1 pesa “solamente” 5,2 chili; è alta
    11,7 centimetri, quasi la metà della M1, ed è destinata oltre che al
    mondo degli uffici anche agli utenti privati]

    L’idea di Adriano è quella di armonizzare persone e organizzazione.

    L'uomo e l'organizzazione sono un equilibrio armonico; - diceva Adriano - l'or-
    ganizzazione con degli uomini mediocri funziona più o meno bene, degli uomini
    senza organizzazione funzionano altrettanto insufficientemente, l'ottimo è
    quando c'è un'organizzazione e degli uomini adatti, di capacità adatta e al loro
posto. Una sopravvalutazione dell'organizzazione porta talvolta a trascurare il
valore delle persone. L’innovazione gioca lo stesso ruolo dell’organizzazione e
germoglia solo se considera tutti i fattori di sviluppo come parti del suo mera-
viglioso ingranaggio.

Gli anni della grande guerra furono aspri ma la Olivetti restò in piedi.

Nel 1938 Adriano diventa Presidente della Olivetti subentrando al padre Camil-
lo che

gli lascia un solo legato:

Tu puoi fare qualunque cosa tranne licenziare qualcuno per l’introduzione di
nuovi metodi perché la disoccupazione involontaria è il male più terribile che
affligge la classe operaia.

Adriano va oltre. Delinea e approfondisce l’intuizione che ha avuto in America
della “industria progressiva”, un’industria dove il gruppo dei dirigenti non può
limitarsi alla gestione delle attività normali ma deve accumulare un potenziale
di esperienze e di idee per anticipare le esigenze nuove. Adriano matura un’i-
dea di “industria complessa di massa” dove complessa significa una indu-
stria che non può esaurirsi nella produzione e nel profitto perché ha
dei compiti e degli obblighi che si estendono verso l’ambiente circo-
stante e la società.

Purtroppo, all’orizzonte, si profila un’altra guerra. Devastante anche questa.

   3.     L’ESILIO SVIZZERO E IL CONSOLIDAMENTO DEL SUO PENSIE-
        RO POLITICO

Con l’avvento della seconda guerra mondiale, l’Adriano Olivetti prende posizio-
ni nette nei confronti del Regime e viene arrestato a Roma per attività antina-
ziste. Dopo una seppur breve, permanenza nel carcere di Regina Coeli, decide
di partire verso l’Engadina, rifugiarsi così in un luogo più sicuro per lui.

E’ proprio durante l’esilio che Adriano mette a fuoco il suo pensiero politico
scrivendo l’Ordine Politico delle comunità ancora oggi di ispirazione, come di-
mostra questo incontro.

Torno quindi a ringraziarvi per aver invitato la Fondazione AO a contribuire alla
discussione che oggi porterà all’approvazione della Carta 2 di Arcevia forte-
mente ispirata alla impostazione comunitaria di AO.
Provo a ripercorrere alcuni elementi fondamentali dell’Ordine, ragione della sua
attualità:

Nel libro Adriano vengono definite le linee guida di un nuovo Stato, che chiama
lo “Stato Federale delle Comunità”. Fondato su un’etica profondamente perso-
nalista e cristiana, ispirandosi in questo alle suggestioni dei cattolici francesi,
Maritain e Mounier.

L’ordine politico delle Comunità è un progetto di riforma costituzionale dello
Stato italiano che dà corpo a un’idea di organizzazione politico-istituziona-
le che condensa in sé un impianto federalista.

Si presenta come un progetto organico, tuttavia perfettibile e che delinerà il
profilo dell’azione politica olivettiana che verrà negli anni cinquanta concretiz-
zata e condotta attraverso le azioni del Movimento Comunità.

Nell'architettura istituzionale pianificata da Olivetti, al centro di tutto si trova la
Comunità.
La comunità è un'unità territoriale, amministrativa e politica nella quale vivono
tra i 100 e i 150 mila abitanti,
è dotata di un motore economico come una grande fabbrica e di una fiorente
attività agricola.
Le Comunità, singolarmente delimitate entro confini quali le circoscrizioni elet-
torali o le diocesi, riunite insieme determinano le regioni, il cui federarsi dà luo-
go allo stato nazionale. Il progetto di riforma si fonda quindi su una logica di
federazione, e su un processo che oggi definiremmo di democrazia dal basso.
Alla base del funzionamento della Comunità olivettiana c’è una diffusa solida-
rietà sociale e partecipazione mentre alle Regioni allo Stato Federale
competono soprattutto attività di coordinamento.

L’AZIONE COMUNITARIA IN CANAVESE: L’ESPERIENZA DELL’IRUR

L’azione Comunitaria riesce a irrorare tutti i rami di un albero la cui radice pro-
fonda non può non essere rintracciata nel Canavese.

Nell’unica intervista filmata che Adriano rilasciò alla RAI, poco prima di morire,
descrisse la creazione dell’esperimento comunitario nel Canavese come
uno strumento vivo, un progetto pilota, un laboratorio sociale, in cui nella real-
tà e nella vera vita si da luogo ad un'azione comunitaria, cioè un'azione in cui
ciascuno nel proprio ambito e nella propria funzione, lavora a un fine comune e
coordinato che è la caratteristica vitale dell'ideologia comunitaria.
In Canavese infatti Adriano realizza il suo modello di comunità attraverso di-
versi strumenti di azione:
Dai centri comunitari all’IRUR – l’Istituto per il Rinnovamento Urbano e Rurale.

Come troviamo scritto in un opuscolo del Movimento comunità del 1958, I
 Centri Comunitari nascono intorno al 1949 per rafforzare i vincoli di solidarietà
tra i contadini e gli operai del Canavese. I centri comunitari costituiscono il
cuore del villaggio o del rione cittadino.

Essi soddisfano le necessità culturali sociali, assistenziali di una piccola civile
vicinanza.

Dopo avervi parlato dei centri comunitari vorrei ora vocalizzare l’attenzione su
un’esperienza forse meno nota nata esattamente 60 anni fa.

Mi riferisco all’IRUR, l’Istituto per il Rinnovamento Urbano e Rurale, l’organo
coordinatore dell’economia comunitaria.

Per parlarvi dell’IRUR devo prima fare alcune premesse:

L’avvenimento industriale di maggior rilievo per il Canavese fu certamente
quello della fabbrica Olivetti. Il patrimonio industriale della regione era integra -
to anche da altre fabbriche, alcune sorte ex novo, altre in continuità con le
vecchie attività artigianali. Ma le sorti di queste PMI furono diverse e non sem-
pre favorevoli.

La fervente attività industriale della Olivetti aveva determinato conseguenze ri-
levanti per l’economia del territorio: da un lato lo svilimento delle risorse rurali,
dall’altro quello delle attività commerciali che si trasferiscono nei centri più
grandi.

In particolare, l’agricoltura viene abbandonata o spezzettata in tante piccole
proprietà, l’artigianato subisce un declino economico, le campagne e le valli co-
minciano a spopolarsi.

Come si legge in un supplemento della Rivista Comunità del 1958,

“la crisi dell’agricoltura non si risolve semplicisticamente abbandonando la ter-
ra spostando manodopera agricola dai campi alle fabbriche. L’industria non
deve dominare da sola l’economia della Comunità, lo stabilimento non deve più
essere un miraggio per gli agricoltori che non ricavano di che vivere dalla loro
fatica. Accanto alla fabbrica deve prosperare l’azienda agricola; accanto alla
fresatrice dev’esserci il trattore; all’organizzazione e specializzazione del lavoro
industriale deve corrispondere una analoga organizzazione e specializzazione
del lavoro agricolo; accanto all’operaio deve lavorare un contadino nuovo, libe-
ro dall’opprimente sensazione di una sua inferiorità economica. Perché nasca
una comunità fiorente l’agricoltura deve comunque trasformarsi e mo-
dernizzarsi”

Quindi per fronteggiare lo scollamento tra la crescente produttività della fabbri-
ca e la depressione dei territori circostanti, Adriano crea l'I-RUR, Istituto per il
Rinnovamento Urbano e Rurale.

Cosa fa concretamente l’Irur?

L’Istituto studia e pianifica a diversi livelli le possibilità di sviluppo dell’industria
in armonia con l’agricoltura.

Per questo l’Istituto coordina e agevola le politiche di sviluppo di settore (agri-
coltura, allevamento, industria…) fornendo assistenza tecnica e amministrativa.

Mentre si concretizzava in Canavese la visione comunitaria di Olivetti attraver-
so l’IRUR e i centri comunitari, di cui abbiamo parlato - ma anche attraverso i
centri culturali e sociali e la lega dei comuni – ritroviamo in quegli stessi anni
esperienze comunitarie molto simili in America, Inghilterra, Canada, India e
Israele.

Ci sarebbero moltissimi altri aspetti legati ad Adriano Olivetti e alle vicende
della Olivetti prima e dopo la sua prematura scomparsa.
Concludo raccontandovi di quando nel luglio del 1960, la rivista di Comunità
pubblicò un fascicolo speciale dedicato alla memoria di Adriano Olivetti. Venne-
ro raccolte a pochi mesi di distanza dalla sua morte una serie di testimonianze
che andavano da Giulio Carlo Argan, Carlo Bo, Georges Friedmann, Ugo La
Malfa, Le Corbusier, Jacques Maritain, Eugenio Montale, Aldo Moro, Ferruccio
Parri, Giuseppe Saragat, Altieri Spinelli, Bruno Zevi e molti altri.

Nessuna proveniva dal mondo dell’impresa e nessuna di esse parlava di Adria-
no come imprenditore, con l’unica eccezione di quella di Saragat.
Adriano ha conquistato una grande ammirazione in tutto il mondo ma è stato a
lungo ricordato per frammenti: ciascuno ha avocato a se l’Adriano uomo di cul-
tura, l’Adriano urbanista, l’Adriano imprenditore o realizzatore di opere sociali.

In pochi sono stati capaci di cogliere la sua esperienza come missione: l’idea
coraggiosa e illuminata che l’impresa, non fosse solo produttrice di beni ma
produttrice di bene il vero motore della nostra civiltà.
Per questo ci auguriamo, anche grazie al lavoro della Fondazione Adriano Oli-
vetti, che Adriano Olivetti continui ad essere riconosciuto come patrimonio del-
la cultura del nostro Paese ma anche e soprattutto fonte di ispirazione per le
nuove generazioni.

Francesca Limana

                                                                     INDICE

PRESENTAZIONE DELLA CARTA 2 DI ARCEVIA

a cura di Loris Asoli

Dopo l'incontro di successo dello scorso anno culla Carta 1, dal titolo “Un
modello di agricoltura per una nuova società” , con prima firmataria Vandana
Shiva, ci eravamo riuniti per decidere se e come continuare sulla stessa scia
per l'anno successivo. La risposta è stata positiva e il tema scelto, grazie anche
alla nuova collaborazione con il Forum paesaggio Marche fu “La gestione
comunitaria del territorio e del paesaggio”. Il tema era senz'altro più vasto e
impegnativo del precedente, una vera sfida. Per di più nell'affrontarlo ci siamo
resi conto che non si poteva pensare alla “gestione comunitaria del territorio e
del paesaggio”, senza allargare il campo alla “gestione comunitaria della
società” per cui il titolo vero sarebbe “La gestione comunitaria del
territorio del paesaggio....e della società”. Potete capire che la vastità del
tema non poteva farci pensare di arrivare ad una Carta compiutamente definita
come è stata la Carta 1, per cui per questa carta non chiediamo una
sottoscrizione, ma vogliamo lasciarla in progress e chiunque potrà proporre
integrazioni e/o modifiche.
Tuttavia pensiamo che si sia raggiunto già un buon livello di elaborazione e
che l'incontro di oggi costituisca una tappa importante sia per la parte teorica
che per l'ampliamento di una rete di rapporti e di alleanze, che per l'avvio di
attività concrete.
Il filo rosso che attraversa tutta la Carta è il concetto di “Comunità”.
Le prossime considerazioni vogliono quindi cercare di far comprendere quale
visione di “comunità” è stata sviluppata, ma non sono sostitutive della lettura
della Carta, dove potrete approfondire.
Per poterci capire per primo facciamo riferimento alla esperienza personale di
comunità di noi tutti. Si può dire che la maggior parte di noi vive la comunità
quasi esclusivamente nella famiglia sana. In questa tipo di famiglia, che
rappresenta ancora la maggioranza, i componenti agiscono nell'ottica del bene
comune e ognuno svolge un ruolo per il bene dell'insieme della famiglia. Oltre
la famiglia, almeno nelle società occidentali, spesso si trova il nulla. Il motivo
principale si può individuare nel valore eccessivo che hanno assunto
l'individualismo, l'interesse personale e la competizione per affermarsi, favoriti
anche dalla concezione culturale darwinistica e da quella economica della
mano invisibile di Adam Smith, che presuppone che possa venir fuori
magicamente il bene da un insieme di comportamenti egoistici. L'esperienza ci
dice chiaramente che ciò è falso. Supponiamo che la crisi sistemica in cui ci
troviamo sia legata anche al dover vivere in un tipo di economia strutturata in
maniera tale che il bene di ciascuno sia legato al male degli altri, alla necessità
di vincere la concorrenza, in modo corretto o scorretto, per non dover
soccombere sul mercato.
Il nostro obiettivo è quindi di spostare il confine dell'esperienza
comunitaria oltre la famiglia ad un livello basale dello Stato che
chiamiamo “Comunità” dove la strutturazione e organizzazione della
società preveda esplicitamente il perseguimento creativo del bene
comune e la collaborazione al posto della competizione.
Non ci siamo mossi nello spazio della fantasia, ma in collegamento a fenomeni
storici, del passato e più attuali. Vediamo quindi per primo alcuni riferimenti
storici, che sul testo della Carta non trovate, che sicuramente non sono gli
unici possibili e che, pur essendo diversi dall'idea comunitaria più moderna e
compiuta che vi vogliamo presentare, ci forniscono alcuni aspetti che sono
presenti nella nostra visione. Come primissimi riferimenti storici si è scoperto
che alcune società arcaiche primitive erano organizzate in forma comunitaria,
in particolare nella zona della Mesopotamia. Un aspetto del concetto che
vogliamo presentarvi è presente più tardi nelle Città stato della antica Grecia.
Esse non erano del tutto comunitarie in quanto alcune categorie di cittadini
erano escluse dal portare responsabilità per la società locale. Per esempio
erano escluse le donne, gli schiavi e gli stranieri ed era accettata la schiavitù.
L'elemento che prediamo come valido è che i cittadini ammessi
amministravano comunitariamente la loro società nel loro territorio in tutti gli
aspetti. In questo modo la civiltà greca poté esprimere delle eccellenze nel
campo della conoscenza, della cultura, della tecnica e dell'arte.
Un forte aspetto comunitario ebbero indubbiamente le prime comunità
cristiane: Dagli Atti degli apostoli apprendiamo che i primi tempi dopo la morte
del Cristo, i suoi discepoli formavano una grande comunità e mettevano
insieme tutti i beni, in una specie di comunismo spirituale. Un'esperienza così
radicale andò presto in crisi, tuttavia lo spirito comunitario rimase forte
all'interno del primo cristianesimo. Anche più tardi, dal 5° all'8° secolo, ci
furono varie comunità di base organizzate in modo comunitario, prima che si
instaurasse un forte potere ecclesiale centralizzato. Lo spirito comunitario
all'interno del movimento cristiano si sviluppò anche attraverso il fenomeno dei
monasteri, che erano anche dei veri centri di vita comunitaria e punti di
riferimento per il territorio circostante. Il fenomeno si sviluppò in modo
significativo lungo vari secoli. Per esempio le regole di San Benedetto,
sintetizzate nel famoso “ora et labora”, sono del 500, mentre il movimento
francescano prende avvio nel 1200. I monasteri medioevali spesso non sono
solo centri religiosi, ma anche culturali ed economici, piccole città, largamente
indipendenti economicamente.
I Comuni medioevali cosi come nascono dopo l'anno 1000, e si sviluppano nei
secoli dall'XI° al XIII° forniscono un altro esempio, simile ma non uguale a
quello delle città stato greche. Essi, approfittando della debolezza di
organizzazioni più centrali e imperiali, organizzarono in modo autonomo, in
varie parti d'Italia, la vita dei territori locali facendo rifiorire le attività
artigianali, agricole e commerciali e rappresentarono delle vere istituzioni
politiche nuove, con una loro forma di autogoverno, differenziata fra i vari
territori e certamente non esente da varie problematiche e conflitti di potere.
Le città-stato nel rinascimento italiano sono un altro esempio di istituzioni
politiche autonome legate ad un territorio, anche queste certamente con molte
contraddizioni rispetto al potersi considerare delle vere comunità. Quello che
vogliamo mettere in evidenza è la gestione collettiva dei vari aspetti che
riguardano la vita della popolazione di un territorio. Senza questo
probabilmente il miracolo del Rinascimento italiano non sarebbe potuto
avvenire.
Un altro aspetto comunitario si trova nelle proprietà collettive dei territori
da parte dei loro abitanti e nella loro gestione comunitaria unita. Questa forma
di proprietà, seppur osteggiata, si è tramandata dalla notte dei tempi ed è
rimasta residua soprattutto in zone montane, anche in molte parti d'Italia. Essa
introduce al concetto di beni comuni e si può notare che quando c'è un bene
da gestire insieme, la comune responsabilità favorisce le relazioni, lo spirito
comunitario e una gestione volta al bene collettivo intergenerazionale,
piuttosto che al proprio bene personale e garantisce la preservazione ecologica
dei beni gestiti collettivamente. Non mi dilungo perché sulle proprietà
collettive parleranno sia Paolo Maddalena che Olimpia Gobbi.
Un aspetto importante che si è notato in tutte queste vicende storiche è che
nei periodi di disfacimento dei poteri centralizzati e della società, la sua
ricostruzione avviene sempre dal basso, dalle comunità locali. Visto l'attuale
fase di crisi generale forse conviene volgersi alle energie e risorse territoriali,
stimolandole, per trovare la soluzione ai nostri problemi.
Vengo ora ai collegamenti più attuali del concetto di comunità che presentiamo
con la Carta. Un collegamento molto importante è con la visione comunitaria
che aveva elaborato Adriano Olivetti. Egli non fu solo un grande imprenditore,
ma sviluppò una compiuta visione politica comunitaria dello Stato e delle
istituzioni, che è descritta nel suo libro “L'ordine politico delle comunità”. Di
questo ci parlerà Francesca Limana
Un secondo collegamento importante e quello con le RES, Reti di Economia
Solidale, che in Italia in modo particolare si stanno muovendo in un ottica
comunitaria. I DES, distretti di economia solidale, sono concepiti come
potenziali comunità, che gestiscono tutti gli aspetti della vita di un territorio.
Un terzo collegamento attuale lo vediamo nel Movimento di difesa e
valorizzazione dei beni comuni. A questo tema è dedicato un capitolo della
Carta e ne parlerà anche Paolo Cacciari.
Dalla storia passiamo ora alla geografia, in quanto il concetto di comunità
elaborato ha una estensione territoriale ottimale non casuale, ma legata ad
aspetti precisi. Nella carta diciamo che il territorio chiama a divenire
Comunità. Sì, ma quale territorio? Di quale dimensione? Delimitato come?
Dovranno essere soddisfatti una serie di criteri. Innanzitutto pensiamo che
tutto il territorio italiano debba essere diviso in comunità più o meno
omogenee rispetto alla quantità di popolazione e di territorio, per cui per
l'estensione non potremo fare riferimento agli attuali Comuni, alcuni dei quali
hanno pochissima popolazione ed altri moltissima. “Comunità” significa
“relazioni”, e dunque di esse si dovrà avere la traccia storica, consuetudinaria e
ancora attuale. Se guardiamo al territorio in cui ci troviamo, esso si chiama
Valle Misa e Nevola e comprende una decina di comuni che sono nel bacino
orografico di questi due piccoli fiumi. Questa è la dimensione geografica che
intendiamo per la Comunità. La sua popolazione è sempre stata collegata dalla
caratteristica fisica del territorio che facilità le comunicazioni, dalle vicende
storiche, dalla cultura e sensibilità comune sviluppata nel corso dei secoli, che
si riflette anche in un dialetto comune. Le grandi città invece andranno divise
in rioni omogenei, in modo tale che la popolazione compresa sia in media dai
100.000 ai 200.000 abitanti. Questa dimensione più o meno omogenea in
quantità di popolazione e di territorio, nei limiti consentiti dalla grande
disparità di situazioni, deve permettere una facilità di incontro diretto fra le
persone per la gestione delle attività economiche, politiche e culturali. E qui si
tocca un altro aspetto essenziale: la dimensione è legata anche alla possibilità
che il territorio possa raggiungere una certa autonomia negli aspetti basilari di
vita (cibo, acqua, case, vestiario, energia, istruzione, salute, assistenza, ecc.),
per cui non può essere troppo piccolo. Questa dimensione è pensata come
ideale affinché la Comunità possa diventare il livello basilare dello Stato, al
posto dei Comuni, e con un valore molto superiore in quanto lo Stato verrebbe
ad essere formato quasi federativamente, dal basso verso l'alto, invece che
dall'alto verso il basso con il decentramento di un potere centrale.
E' da osservare che nella società attuale c'è già un forte richiamo verso questa
dimensione. Infatti vediamo che quando si parla di gestione di aspetti concreti
della società si finisce per adottare una dimensione che viene chiamata
Distretto o Comprensorio di comuni, o Unione di comuni, o Ambiti territoriali, o
Comunità montane, ecc.). Così è per la scuola, la sanità, il turismo, i servizi
sociali e assistenza, le elezioni, la produzione, ecc. La nostra proposta è che ci
sia un riferimento territoriale unico per tutti gli aspetti della società invece che
una moltiplicazione di ambiti distinti e scollegati, e che la loro gestione sia
affidata il più possibile alla responsabilità delle popolazioni del territorio.
Questo rappresenterebbe una vera e propria rivoluzione democratica e
funzionale e ci farebbe uscire dalla falsa democrazia in cui ci troviamo. Questo
tipo di Comunità avrebbe poi dei sotto-livelli territoriali (comuni, quartieri,
ecc.) con cui gestire in modo ancora più diffuso le varie responsabilità.

A questo punto, dopo aver mostrato dei collegamenti storici e aver parlato
della dimensione territoriale ideale e di tutto ciò che vi è collegato possiamo
esprimere in modo chiaro il concetto di Comunità del futuro che si mostra
come già maturo per essere realizzato quanto prima.
La Comunità è chiamata ad essere il livello base dello Stato, un nuovo Stato
delle Comunità, gestito con responsabilità che salgono dal basso verso l'alto.
Queste comunità portano la responsabilità anche per lo sviluppo economico del
territorio e sono gestite con una democrazia partecipativa molto più ampia di
quella attuale. Sono Comunità che hanno un potere decisionale diretto su tutti
gli aspetti che riguardano la vita dei cittadini del territorio. Queste comunità
danno vero potere alla cittadinanza attraverso due vie ben chiare, definite e
funzionali a una migliore gestione della società. Da una parte il maggior
potere alla base viene raggiunto perché le Comunità nel loro complesso hanno
un maggiore potere nei confronti dello Stato, rispetto alla situazione attuale.
Dall'altra il maggior potere o la maggiore responsabilità del cittadino si
raggiunge anche perché all'interno delle Comunità vengono create strutture
decisionali partecipative molto più diffuse di quelle attuali e sotto il controllo
della cittadinanza. Questo non significa che non sia data importanza ai livelli
superiori del potere democratico (Regioni e Stato). Anzi dal rafforzamento
delle Comunità locali nello Stato non può che derivarne un maggiore potere,
prestigio e successo anche per le dimensioni superiori della vita sociale che
potranno agire meglio al loro livello, più alto, di responsabilità.
E' essenziale che le responsabilità siano più diffuse a livello di base, perché è
dalla responsabilità collettiva sulla gestione di tutti gli aspetti della vita sociale
che viene favorito uno spirito comunitario e uno stile di vita e di gestione più
partecipato e condiviso, in grado di far raggiungere mete più elevate, nella
scienza, nella cultura, nell'arte, nella produzione, nella spiritualità e nelle
architetture giuridiche e sociali.
Tuttavia e meglio non illudersi rispetto ad un punto: senza la volontà delle
persone di migliorarsi, di stare in rapporti più armoniosi con le altre persone, e
di dare maggiore importanza al collettivo e al bene comune, nessun tipo di
strutturazione potrà risolvere i problemi.
Per concludere ricordo che questo incontro ha degli obiettivi pratici.
Certamente anche l'arrivare ad una visione condivisa della società
dell'immediato futuro, è un obiettivo che potrà avere innumerevoli risvolti
pratici, ora mi riferisco però a speciali azioni pratiche a cui vorremmo dedicarci
nel prossimo periodo. Una delle principali riguarda l'opposizione alla vendita-
svendita di tutti i beni demaniali pubblici (statali, regionali, provinciali e
comunali) e, in particolare delle terre agricole, proponendo invece di darle in
gestione a cooperative di giovani inoccupati, dietro presentazione di progetti
produttivi ed ecologici.

                                                                      INDICE

LA PROPRIETA' COLLETTIVA DELLE COMUNANZE NELLE
MARCHE

Sintesi dell’intervento di Olimpia Gobbi tenuto in Arcevia il 5 ottobre 2014

      Perché questo focus sulle comunanze agrarie nelle Marche in una giorna-
ta dedicata alla gestione comunitaria del territorio e del paesaggio?

       Appare evidente che avvicinare lo sguardo a questo modo quasi scono-
sciuto di intendere la proprietà e di vivere la relazione fra comunità e risorse
ambientali ci permette di capire che le proposte contenute nella Carta di Arce-
via 2 e le tesi illustrate dai relatori di questa mattina, in particolare da Paolo
Maddalena, non sono pure elaborazioni intellettuali, giuridiche o sociologiche,
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