LA GESTIONE COMUNITARIA DEL TERRITORIO E DEL PAESAGGIO
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LA GESTIONE COMUNITARIA DEL TERRITORIO E DEL PAESAGGIO Piticchio di Arcevia - 5 ottobre 2014 Qui trovate i link ai video del convegno, i testi delle poesie lette, il testo della Carta 2 di Arcevia, quasi tutte le relazioni in forma scritta, non del tutto corrispondenti agli interventi orali firmati, anzi alcune abbastanza diverse, per cui hanno un valore a sé. Dopo i documenti del convegno abbiamo dato uno spazio a sé ad alcuni contributi scritti che Paolo Maddalena ci ha fatto pervenire dopo il convegno, di valore eccelso, che trattano in modo approfondito alcuni dei temi di attualità toccati durante il convegno. Ne è del tutto consigliabile la lettura per chi voglia impegnarsi a cambiare in meglio il nostro paese o anche solo per conoscere meglio la situazione in cui ci troviamo e quello che potremmo fare di positivo come cittadini. INDICE TUTTI I DOCUMENTI DEL CONVEGNO “LA GESTIONE COMUNITARIA DEL TERRITORIO E DEL PAESAGGIO” • Il Convegno “La gestione comunitaria del territorio e del paesaggio” • Le poesie lette fra le relazioni del Convegno del mattino • La seconda Carta di Arcevia: un commento di Paolo Cacciari • La visione comunitaria di Adriano Olivetti (Francesca Limana) • Presentazione della Carta 2 di Arcevia (Loris Asoli) • La proprietà collettiva delle Comunanze nelle Marche (Olimpia Gobbi) • La tesi premiata - Un modello: i monti del Furlo nella valle del Metauro • Tutti i video del Convegno • Il testo della carta 2 di Arcevia CONTRIBUTI DI PAOLO MADDALENA ALLA SOLUZIONI DEI PROBLEMI DELL'ITALIA • Il disastro dello sblocca-Italia • La difesa delle risorse del territorio e del lavoro italiani • Il territorio, il lavoro, la crisi finanziaria • La giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di tutela e fruizione dell'ambiente • Il bene ambientale boschi e foreste
ATTI DEL CONVEGNO “LA GESTIONE COMUNITARIA DEL TERRITORIO E DEL PAESAGGIO” Riteniamo che questo convegno, con gli interventi dei vari relatori e con il percorso di elaborazione della Carta 2 di Arcevia sullo stesso tema, sia stato un momento importante e positivo, per almeno tre aspetti. Il primo è il rafforzarsi della collaborazione e dell'alleanza fra varie reti associative e imprese che fanno riferimento ai temi dell'Economia solidale. Si intensifica anche il collegamento di queste reti con i giuristi e uomini di cultura che trattano gli stessi argomenti. Il secondo aspetto positivo riguarda l'aspetto culturale e programmatico della Carta, che porta un passo più avanti l'elaborazione della visione di una nuova società, basata su aspetti concreti e realizzabili. La Carta rimane un documento aperto al quale potranno essere aggiunti altri contributi. Il terzo aspetto importante è che si è parlato anche delle iniziative concrete, collegate alla visione progettuale. Per esempio, Paolo Maddalena ha proposto di estendere e generalizzare la pratica, che è stata iniziata dal Comune di Napoli, volta a far acquisire dagli enti pubblici locali aree e immobili abbandonati all'incuria e al degrado da parte dei proprietari, che magari hanno delocalizzato una fabbrica all'estero. Un'altra proposta forte riguarda la richiesta che le terre agricole degli enti pubblici (stato, regioni, province, comuni) non siano messe in vendita, ma siano invece coinvolte le istituzioni ad aderire a progetti di affidamento a cooperative agricole di giovani disoccupati, in particolare formati in agricoltura, e che vogliano praticare la conduzione biologica, per la tutela dell'ambiente e la qualità del cibo. TESTO DELLA CARTA INDICE LE POESIE LETTE FRA LE RELAZIONI DEL CONVEGNO DEL MATTINO Poesie di Righetti Lionello, Angelo Verdini, Marina Catena, Franco Ar- minio SILENZIO Arcevia 2014 In silenzio
il mio cuore trova pace In silenzio si formano le nuvole In silenzio trovo ispirazione In silenzio l'orchestra inizia a suonare In silenzio le tue mani accarezzano la mia pelle In silenzio il vento inizia il suo cammino In silenzio nascono le idee che trasformano la vita In silenzio nasce l'amore! Per favore ridateci il silenzio (Nello Righetti) DONNE Firenze 2014 Ponte vecchio Altera bellezza Con indolenza cammini Incurante di sguardi
Bramosi e dell’altrui Pensiero. …così pare! Ti rivedo poi Piegata in due Schiva, quasi furtiva Non cerchi altro Che di passare inosservata. Dove sei stata? Com’è andata Cosa hai vissuto? Sogno e realtà Una fusione a volte Riuscita a volte no La differenza sta Nella felicità O nel suo opposto Comunque sia Comunque sia A te giovane e altera Buona fortuna!
A te piegata in due Grazie per essere stata con noi. (Nello Righetti) Una quercia si è seduta Angelo Verdini 2007 La terra ha tremato, le rocce si sgretolano e una quercia si è seduta sull’orlo del greppo, lievemente posata e cullata da mani d’erba e d’acqua rigagnolina. Sull’orizzonte più vasto facevano irruzione bagliori e stordimento e ogni giorno sopravvenivano echi di ripetute distruzioni. Ora riaggomitolata prova a ordinare
tutti gli imperfetti ricordi, riconosce la voce delle nonne che raccontano storie di foglie e di vicoli, di zucchero e di selciato. L’anima rotonda non teme le carestie ha scorte sufficienti di lessico amico e di versi a braccio curvati dal vento. SALTARELLO TRA LE NUVOLE Angelo Verdini Tutto questo vento alla fine qualcuno si porta sempre via. Chi se n’è andato d’inverno rispettava gli argini dei fossi la disciplina delle capezzagne la regolarità delle siepi. E la terra riconoscente restituiva la sapienza degli innesti e dei canestri, tenera e sfrontata in forma di fuoco che genera pensieri di pane e ciliegia e soccorso di parole dritte e rispettose
come le mani puntuali che accarezzano i vitellini appena nati. Chi è restato a girare intorno ai giorni e alle stagioni sa scrutare nella filigrana delle nuvole indizi fortunati del raccolto e immagina un cielo benevolo e protettivo da ballarci sopra come nelle notti di fieno e di granturco. Un organetto inarrestabile fa muovere le gambe e le mani dei corpi fieri che non arretrano dai fianchi imperiosi e intemperanti sfidanti di sé e del mondo e offre un regalo di parole larghe e precise colme come i sacchi pieni di grano e di similitudini. IL MIO CAMPO E’ LA MIA PIAZZA Solo quando ti siedi nel campo e abbracci la vite storta attaccata alla terra che culla i semi amanti della luna, non hai più fame di solitudine e ti accorgi
di un canto che sale poderoso e invitante dai campi. Tra il sole e l’ombra che giocano a nascondino le parole dignitose e trepidanti dei giorni antichi gorgheggiano e fanno compagnia a chi ha abitato la “cesa” severa e si involano nel grido inquietante del vento montano. E mentre l’orologio della torre, risponde austero ai lamenti e alle gioie delle generazioni e diventa meridiana del tempo e misura di un immaginario nascente d’irriducibile dolcezza… ti ritrovi lì, nella piazza spruzzata di luce che filtra dalle pietre irregolari del borgo per dare forma, colore e armonia ai pensieri che come panchine volanti presidiano i segni e le trame di un comune bene e il coraggio della permanenza e della cittadinanza
Marina Catena 04 ottobre 2014 Tre testi per il nuovo umanesimo delle montagne Franco Arminio Abbiamo bisogno di contadini, di poeti, di gente che sa fare il pane, di gente che ama gli alberi e riconosce il vento. Più che l'anno della crescita, ci vorrebbe l'anno dell'attenzione. Attenzione a chi cade, attenzione al sole che nasce e che muore, attenzione ai ragazzi che crescono, attenzione anche a un semplice lampione, a un muro scrostato. Oggi essere rivoluzionari significa togliere più che aggiungere, significa rallentare più che accelerare, significa dare valore al silenzio, al buio, alla luce, alla fragilità, alla dolcezza. Concedetevi una vacanza intorno a un filo d'erba, dove non c'è il troppo di ogni cosa, dove il poco ancora ti festeggia con il pane e la luce, con la muta lussuria di una rosa. Ciò che conta è fuori di noi, la meraviglia del mondo è negli alberi, nelle nuvole, nella terra su cui poggiamo i piedi. Abbiate cura di andare in giro. Non rimanete fermi come uno straccio sotto il ferro da stiro. INDICE
LA SECONDA CARTA DI ARCEVIA: UN COMMENTO DI PAOLO CACCIARI La Carta di Arcevia sulla gestione del territorio segna un decisivo passo avanti del mondo dell’economia solidale nella elaborazione di una propria, compiuta e convincente, visione sociale. La Carta delinea una moderna utopia conviviale, un’“etica del futuro” (per usare una espressione del Manifesto convivialista. Di- chiarazione d’interdipendenza, Edizioni ETS, Pisa, 2014) che dà respiro alle azioni che molte persone concretamente intraprendono per cambiare la direzio- ne della loro vita attraverso pratiche di economia solidale (il primo, forse, ad usare questo termine fu Antonio Giolitti), sociale (Jean-Louis Laville), parteci- pativa (Michael Albert), civile (Zamagni, Bruni), della condivisione (Joseph Ku- marappa), ecologica (Georgescu Roegen, Joan Martinez Alier), collaborativa (Giorgio Arena, Carlo Donolo), del bene comune (Christian Fleber), informale (Serge Latouche), “del noi” (Roberta Carlini), plurale e “cenerentola” (New Economy Foundaion), morale e della sussistenza (Ivan Illich), degli affetti… o come altro vogliamo chiamare l’“altra economia”. Con questo nuovo sforzo la Rees delle Marche si ripropone come un valido motore per tutto il movimento. Dalla lettura della Carta risulta evidente che al centro di ogni ragionamento sulla possibile trasformazione degli assetti economici e – più in generale – di potere, che regolano le nostre vite, vi sono i rapporti sociali che si instaurano tra gli individui. Il cuore del cambiamento che desideriamo imprimere alla so- cietà non sono i “beni” (intesi come i mezzi e gli strumenti, materiali e cogniti- vi, naturali e culturali necessari alla sussistenza e al ben-vivere di ciascun indi- viduo sulla Terra), ma le comunità afferenti, il loro modo di costituirsi ed orga- nizzarsi, la qualità delle relazioni umane e sociali che si instaurano tra i sogget- ti umani e tra questi e tutte le altre forme di vita. Mi piace citare ancora una volta Raj Patel (Il valore delle cose e le illusioni del capitalismo, Milano, 2007, pp 95 e seguenti): “E’ il nesso che si instaura tra gli individui che definisce il bene comune. Nella gestione collettiva del bene gli individui si uniscono e crea- no communitas, realizzano un progetto collettivo, operano pratiche condivise (…) La pratica dei commons, la gestione collettiva delle risorse comuni, richie- de una rete di relazioni sociali finalizzate a tenere a freno gli istinti più vili e a promuovere un diverso modo di valutare il mondo e le cose”. I beni comuni non sono un catalogo di oggetti reperibile sul mercato e nemme- no tra i capitoli di bilancio dello stato. Sono un repertorio di modalità di azioni messe in atto dalla cittadinanza attiva per la riconcettualizzazione e la socializ- zazione sostenibile della ricchezza. Le comunità si formano attorno alla gestio- ne dei beni comuni. Società conviviali sorgono quando si forma una comunanza di intenti tra individui che decidono di mettere in comune le loro capacità per condividere le risorse naturali che hanno a disposizione. La gestione dei beni comuni deve sottostare a due elementari principi etici: la loro preservazione nel tempo e l’equo accesso ai benefici ricavabili dal loro utilizzo. E’ così che si forma una comunalità.
Viceversa nei rapporti di produzione e di consumo dominati dal dogma della crescita del valore monetario delle merci, i rapporti sociali comunitari si disgre- gano e ogni individuo deve affrontare da solo, o – quando è fortunato - con il solo ausilio della sua famiglia, la competizione per la messa a valore delle sue capacità lavorative. La logica del mercato capitalistico tende a massimizzare le rese, la produttività e il valore di scambio monetario ricavabile da ogni tipo di bene. Una logica economica predatoria, estrattiva e sfruttatrice è la causa di tutti i nostri mali, sia di quelli sociali (aumento delle diseguaglianze e delle po- vertà) sia di quelli ambientali (inquinamenti e rarefazione delle risorse naturali). Il codice utilitaristico capitalistico (fare profitti, accumulare, produrre e consumare sempre di più) provoca vuoto interiore, egoismo, inaffettività. La rivoluzione del pensiero dei beni comuni taglia trasversalmente tutte le di- scipline giuridiche, economiche, filosofiche e politiche. Difficile per la cultura occidentale fortemente antropocentrica e specista ammettere che non sono solo gli esseri umani meritevoli di diritti. La natura è un bene comune non pri- vatizzabile, meritevole di tutela in sé, indipendentemente dalle valutazioni che ne fanno i suoi “proprietari”. Il passaggio ad una “etica della natura” (Aldo Leo- pold) presuppone un salto di civiltà pari a quello che l’umanità ha (in parte) compiuto con l’abolizionismo dello schiavismo e con la parificazione dei diritti politici alle donne. Difficile anche per la cultura scientista riduzionistica riconoscere la distinzione tra la vera scienza e la “scienza-come-ricerca-finanziabile” dalla grande indu- stria (come la definiva Ivan Illich). A tal proposito pensiamo agli Ogm e, più in generale, alla introduzione nei Consigli di amministrazione delle università delle Fondazioni bancarie e degli industriali. Difficile soprattutto cambiare l’idea antropologica che sta sopra le teorie econo- miche liberali e neoliberali da qualche centinaio di anni a questa parte secondo cui il “carattere naturale” degli individui umani sarebbe quello del lupo (povero lupo!), maligno, aggressivo, insaziabile. Il compito della cosiddetta “scienza economica” sarebbe quello di assecondare i suoi infiniti desideri forzando i limi- ti di una natura considerata matrigna e avara. Compito della teoria dei beni comuni è propriamente quello di rovesciare simili teorie. La natura/nutrice non è affatto “scarsa”, ma solamente limitata. Compi- to nostro, nel tentare di praticare “l’arte del vivere assieme” (Alain Caillé), è riuscire ad accordare i nostri comportamenti nel modo più armonioso possibile ai ritmi di rigenerazione dei cicli naturali bio-geo-chimici, contenendo l’entropia e consentendo a tutti/e di vivere dignitosamente. (Pensiamo solo che i tempi di riassorbimento dell’anidride carbonica, responsabile del surriscaldamento glo- bale, si calcolano in millenni). La vera scienza economica dovrebbe aiutarci a stabilire il bastevole e il sufficiente in relazione all’equilibrio e all’equità. Esatta- mente l’opposto della corsa suicida alla crescita permanente cui ci inducono le teorie economiche dominanti. Per innescare simili rivoluzioni culturali e politiche è decisivo rivalutare la no- zione di comunità, di comunalità, di comunanza, di “ambiti comuni” (Gustavo Esteva, Ripensare il mondo con Ivan Illich, Museode by Hermatena, Bologna
2014). Sapendo che noi abbiamo in testa un’idea di comunità positiva e affa- scinante, come di una società di base convivialista, fondata sull’autogoverno, perciò realmente democratica. Dobbiamo però essere consapevoli che la nostra nozione di comunità si scontra sia con la credenza della globalizzazione (intesa come un processo di internazionalizzazione e integrazione dei popoli) portatrice di sviluppo e progresso, sia con l’idea – solo apparentemente opposta - delle “comunità naturali”, “originarie”, chiuse ed escludenti. In realtà sia la globaliz- zazione che il localismo sono funzionali alla “messa al lavoro” e in competizio- ne tra loro delle diverse aree geografiche del pianeta, segmentando e allun- gando le filiere produttive, favorendo le delocalizzazioni specializzate delle im- prese e acuendo la divisione internazionale del lavoro su basi etniche. La nostra è una idea di comunità territorialmente definita, radicata, responsa- bile e dotata di sovranità locale, ma in grado di uscire dai suoi confini, di vali- carli, costruendo relazioni all’esterno su scala globale e capace di aprirsi al mondo intero, accettando le sfide planetarie che incontra l’umanità, a partire da quelle ecologica e della povertà. In una parola pensiamo a comunità che af- frontano la questione delle disuguaglianze in nome dell’equità. Comunità capaci di agire seguendo principi di reciprocità, mutualità, cooperazione (introducendo clausole sociali negli scambi), sostenibilità (introducendo clausole ambientali). Così come, al loro interno, le comunità a cui pensiamo devono essere capaci di attivare “esistenze comunitarie” (Esteva), tessuti connettivi paritari, relazioni autenticamente democratiche, stili di vita e comportamenti autodisciplinati. Co- munità in grado di accogliere e convivere con identità socio-culturali diverse; religioni, stili di vita, tradizioni diverse. Tutto il contrario del localismo angusto e ristretto, chiuso ed escludente, alimentato dalle ideologie organiciste, patriar- cali, lavoristiche. L’idea di una sovranità per diritto naturale, fondata sull’ap- partenenza, “sul suolo e sul sangue” (cioè sulla proprietà), che dà vita a “co- munità di destino” ereditare e indissolubili, inibisce l’assunzione di libere scelte responsabili da parte degli individui, consegna la politica ad ogni forma di auto- ritarismo. Il nostro sogno comunitario, invece, è trovare il modo di coniugare il massimo di libertà e autonomia individuale possibile (tenendo conto delle insu- perabili interdipendenze) con il massimo di condivisione sociale (tenendo conto e non nascondendo le disparità e le ingiustizie ancora esistenti e sempre ripro- ducibili). Esiste quindi una concezione progressista, democratica e radicale di “comunità scelta”, di comunità pluriversa e universalista, come associazione li- beramente condivisa. Quasi un ossimoro (non si possono scegliere le patrie!) che diventa realistico solo se si spezza l’idea di confine invalicabile e si accetta l’idea che ognuno di noi è portatore già dentro di se di identità plurime e ap- partenenze contemporaneamente diverse (come insegna Amartya Sen). L’idea federalistica diviene fondamentale per riuscire a delineare i contorni di un altro assetto del mondo. Vengono in mente le “repubbliche di quartiere” di Murray Bookchin, le “repubbliche elementari” di Hannah Arendt, le esperienze consiliari del sindacalismo rivoluzionario, lo “stato federale delle comunità” in- tegrate, urbane e rurali, di Adriano Olivetti. E prima ancora la Comune di Parigi e Thomas Jefferson che era giunto ad ipotizzare “piccole repubbliche” dimen- sionate al bacino d’utenza delle scuole elementari. Noi preferiremmo delle re-
pubbliche dimensionate sulle “bioregioni”, delle nazioni disegnate attorno ai bacini idrogeografici, delle città dimensionate sull’impronta ecologica. E’ neces- sario ridare fisicità alle cose, “de-angelizzare” il Pil (Ernan Daly), de-anonimiz- zare le società per azioni e ri-nominare gli interessi in gioco. Per noi le comunità sono un processo di presa di parola e di responsabilità da parte delle popolazioni residenti e della cittadinanza che si riappropriano di ciò che decidono di gestire in comune per il bene comune. Un processo che non avviene in laboratorio sotto una campana di vetro, ma nel fuoco di conflitti ge- nerati dalle smisurate asimmetrie di potere esistenti tra i ceti sociali, tra i ge- neri, tra le generazioni, tra le popolazioni residenti nelle diverse parti del pia- neta. Per dare l’idea della processualità e dell’azione di cambiamento, John Holloway e Peter Linebaugh hanno coniato dei nuovi verbi, rispettivamente: “comunizar” e “commoning”. Fare comunità, mettere in comune per creare nuove istituzioni del bene comune sostanzialmente e radicalmente democrati- che. Stiamo prospettando un processo politico di collettivizzazione senza stata- lizzazione, di controllo pubblico dell’economia senza pianificazione centralizza- ta, di liberazione dai rapporti sociali subordinati ed eterodiretti attraverso la formazione di una soggettività collettiva nuova, decisamente etica. Altra eco- nomia e lotte per i beni comuni sono due facce della stessa medaglia. Ambe- due mirano a realizzare spazi comuni liberati dalle logiche mercantili (res extra commecium, res in usu pubblico, res communis omnium), autoorganizzati e autogovernati con “con-motíon” (altro neologismo coniato da Esteva) che sta ad indicare una interrelazione simultanea di azioni, idee, sentimenti che resti- tuisce una pienezza di significato ai commons, ai beni comuni, alle comunità come comunanze. Piticchio di Arcevia 5 ottobre 2014 INDICE LA VISIONE COMUNITARIA DI ADRIANO OLIVETTI Aspetti di attualità per la società contemporanea Arcevia, 5 ottobre 2014 Innanzitutto molte grazie per aver invitato la Fondazione Adriano Olivetti a partecipare a questo incontro. Sono molto felice di essere qui e di raccontare alcuni aspetti della visione comunitaria di Adriano Olivetti. Ci tengo molto a sottolineare che è soprattutto negli scritti e nei discorsi di Adriano, ripubblicati di recente dalle Edizioni di Comunità, che si rintraccia l’at- tualità della sua azione. Mai come oggi, alcuni temi come la dignità della perso- na e del lavoro, il valore della cultura, la capacità di creare innovazione sono più che mai attuali considerato il delicato momento che l’Italia sta attraversan- do.
Adriano Olivetti è stato tante cose: imprenditore, editore, politico, urbanista ma soprattutto quello che oggi definiremmo un innovatore sociale. Adriano non ha mai inteso il progresso e la ricchezza generata dall’impresa come fine a sé stessa ma come strumento per la costruzione di un mondo spiritualmente più elevato. Per parlare della visione comunitaria di Adriano Olivetti è necessario tracciare un profilo più vasto di Adriano. Ripercorrerò per questa ragione, alcuni aspetti: 1. la sua formazione (Il padre Camillo | Il viaggio in America) 2. l’evoluzione e trasformazione della fabbrica 3. l’esilio svizzero e il consolidamento del suo pensiero politico 4. fino ad arrivare all’esperienza dell’IRUR, esempio dell’azione co- munitaria in Canavese. 1. LA SUA FORMAZIONE Il padre Camillo Adriano Olivetti nasce a Ivrea nel 1901, secondo di sei figli, si forma in un am - biente liberale, democratico, socialista, antifascista, della Torino di Gobetti e Gramsci. Il padre Camillo, ebreo e la madre Luisa, valdese. L’incontro di due storiche minoranze religiose, una mescolanza di culture, che sta probabilmente all’origine di quell’alta idea che aveva della persona, portatrice di una missione. Sia per Adriano sia per Camillo sarà fondamentale spingersi oltreoceano per assorbire il dinamismo industriale americano. Camillo - personalità colta ed eclettica – laureato in Ingegneria studia con il Professor Galileo Ferraris e tra la fine dell’800 e gli inizi del Novecento compie due viaggi negli Stati Uniti: insegna a Stanford, visita le più importanti fabbriche di macchine per scrivere (Remington, Under- wood, Royal, Corona), va in quei piccoli villaggi americani, che rappresentano quanto di meglio ha l’A- merica: scuole, Università, servizi tramviari, grandi viali, parchi, tutto quello che in Italia, in quegli anni, si vede solo nelle grandi città.
Nel 1908 Camillo fonda a Ivrea la Ing. Camillo Olivetti & C. Prima fabbrica Ita - liana di macchine per scrivere. Anche nell’educazione dei figli, Camillo rompe gli schemi tradizionali: nessun bambino Olivetti frequenterà la scuola fino ad otto anni. Saranno educati in casa e manterranno un forte legame con la natura. A 13 anni Adriano compie la sua prima esperienza in fabbrica, fondamentale negli anni a venire che lui stesso descrive con queste parole: Nel lontano agosto del 1914, avevo allora 13 anni, mio padre mi mandò a la- vorare in fabbrica. Imparai così ben presto a conoscere e odiare il lavoro in se- rie: una tortura per lo spirito che stava imprigionato per delle ore che non fini- vano mai, nel nero e nel buio di una vecchia officina… per molti anni non rimisi piede nella fabbrica, ben deciso che nella vita non avrei atteso all’industria pa- terna. Così per fortuna non fu. Il viaggio in America Negli anni venti Adriano frequenta il Politecnico di Torino dove si laureerà in In- gegneria Chimica nel 1924. L’anno seguente, seguendo le orme paterne, com- pirà il suo primo viaggio negli Stati Uniti. In quasi sei mesi, visita 105 fabbriche e porta con sé una cinquantina di libri soprattutto sull’organizzazione scientifica del lavoro, i cui titoli poi ritroveremo spesso pubblicati dalle Edizioni di Comuni- tà. Come per Camillo l’esperienza in America sarà fondamentale come persona e come futuro imprenditore. Quando il 2 agosto mi avvicinavo alla statua della libertà e mi apparivano i grandi grattacieli, mi pulsava nel cuore un orgoglioso pensiero: giungevo per studiare, per capire il segreto della potenza industriale, ma non riuscivo a con- vincermi che tutto era possibile anche nel mio piccolo paese, che vi sarei tor- nato per dimostrare a me e agli altri quanto la volontà e il metodo potessero prevalere sugli uomini e sulle cose. 2. L’EVOLUZIONE E TRASFORMAZIONE DELLA FABBRICA In America, Camillo e Adriano capiscono come gli americani riescono così bene dove gli italiani sono fermi: trasformare le scoperte scientifiche in tecnica e applicare la tecnica alla produzione.
La Olivetti dei primi del Novecento compie un salto dopo il primo viaggio di Adriano negli Stati Uniti. Pensate che la prima macchina per scrivere, la M1, presentata nel 1911 all’Esposizione Universale di Torino, veniva interamente prodotta all’interno della fabbrica. Ogni pezzo veniva fatto a mano, con un rit- mo di produzione di circa 5 macchine al giorno. (con Adriano nel 1960 si arriverà a un ritmo di produzione di sei mac- chine al minuto!) Alla vigilia della prima guerra mondiale il salario medio di un operaio era di mille lire l’anno, una automobile FIAT costava settemila lire e una M1 Olivetti costava cinquecento lire. Adriano torna dall’America con la consapevolezza che il segreto del dinamismo americano sta nella struttura dell’organizzazione e nel rigore dei meto- di. Propone al padre Camillo un progetto rivoluzionario di modernizzazione della fabbrica introducendo alcuni fondamenti del management noti ancora oggi: - organizzazione decentrata del personale, - direzione per funzioni, - razionalizzazione dei tempi e metodi di montaggio, - sviluppo della rete commerciale in Italia e all’estero. - apertura verso il mercato di massa (pensate anche solo alla MP1, prima macchina per scrivere portatile del 1932). [Rispetto ai 17 chili della M1, la MP1 pesa “solamente” 5,2 chili; è alta 11,7 centimetri, quasi la metà della M1, ed è destinata oltre che al mondo degli uffici anche agli utenti privati] L’idea di Adriano è quella di armonizzare persone e organizzazione. L'uomo e l'organizzazione sono un equilibrio armonico; - diceva Adriano - l'or- ganizzazione con degli uomini mediocri funziona più o meno bene, degli uomini senza organizzazione funzionano altrettanto insufficientemente, l'ottimo è quando c'è un'organizzazione e degli uomini adatti, di capacità adatta e al loro
posto. Una sopravvalutazione dell'organizzazione porta talvolta a trascurare il valore delle persone. L’innovazione gioca lo stesso ruolo dell’organizzazione e germoglia solo se considera tutti i fattori di sviluppo come parti del suo mera- viglioso ingranaggio. Gli anni della grande guerra furono aspri ma la Olivetti restò in piedi. Nel 1938 Adriano diventa Presidente della Olivetti subentrando al padre Camil- lo che gli lascia un solo legato: Tu puoi fare qualunque cosa tranne licenziare qualcuno per l’introduzione di nuovi metodi perché la disoccupazione involontaria è il male più terribile che affligge la classe operaia. Adriano va oltre. Delinea e approfondisce l’intuizione che ha avuto in America della “industria progressiva”, un’industria dove il gruppo dei dirigenti non può limitarsi alla gestione delle attività normali ma deve accumulare un potenziale di esperienze e di idee per anticipare le esigenze nuove. Adriano matura un’i- dea di “industria complessa di massa” dove complessa significa una indu- stria che non può esaurirsi nella produzione e nel profitto perché ha dei compiti e degli obblighi che si estendono verso l’ambiente circo- stante e la società. Purtroppo, all’orizzonte, si profila un’altra guerra. Devastante anche questa. 3. L’ESILIO SVIZZERO E IL CONSOLIDAMENTO DEL SUO PENSIE- RO POLITICO Con l’avvento della seconda guerra mondiale, l’Adriano Olivetti prende posizio- ni nette nei confronti del Regime e viene arrestato a Roma per attività antina- ziste. Dopo una seppur breve, permanenza nel carcere di Regina Coeli, decide di partire verso l’Engadina, rifugiarsi così in un luogo più sicuro per lui. E’ proprio durante l’esilio che Adriano mette a fuoco il suo pensiero politico scrivendo l’Ordine Politico delle comunità ancora oggi di ispirazione, come di- mostra questo incontro. Torno quindi a ringraziarvi per aver invitato la Fondazione AO a contribuire alla discussione che oggi porterà all’approvazione della Carta 2 di Arcevia forte- mente ispirata alla impostazione comunitaria di AO.
Provo a ripercorrere alcuni elementi fondamentali dell’Ordine, ragione della sua attualità: Nel libro Adriano vengono definite le linee guida di un nuovo Stato, che chiama lo “Stato Federale delle Comunità”. Fondato su un’etica profondamente perso- nalista e cristiana, ispirandosi in questo alle suggestioni dei cattolici francesi, Maritain e Mounier. L’ordine politico delle Comunità è un progetto di riforma costituzionale dello Stato italiano che dà corpo a un’idea di organizzazione politico-istituziona- le che condensa in sé un impianto federalista. Si presenta come un progetto organico, tuttavia perfettibile e che delinerà il profilo dell’azione politica olivettiana che verrà negli anni cinquanta concretiz- zata e condotta attraverso le azioni del Movimento Comunità. Nell'architettura istituzionale pianificata da Olivetti, al centro di tutto si trova la Comunità. La comunità è un'unità territoriale, amministrativa e politica nella quale vivono tra i 100 e i 150 mila abitanti, è dotata di un motore economico come una grande fabbrica e di una fiorente attività agricola. Le Comunità, singolarmente delimitate entro confini quali le circoscrizioni elet- torali o le diocesi, riunite insieme determinano le regioni, il cui federarsi dà luo- go allo stato nazionale. Il progetto di riforma si fonda quindi su una logica di federazione, e su un processo che oggi definiremmo di democrazia dal basso. Alla base del funzionamento della Comunità olivettiana c’è una diffusa solida- rietà sociale e partecipazione mentre alle Regioni allo Stato Federale competono soprattutto attività di coordinamento. L’AZIONE COMUNITARIA IN CANAVESE: L’ESPERIENZA DELL’IRUR L’azione Comunitaria riesce a irrorare tutti i rami di un albero la cui radice pro- fonda non può non essere rintracciata nel Canavese. Nell’unica intervista filmata che Adriano rilasciò alla RAI, poco prima di morire, descrisse la creazione dell’esperimento comunitario nel Canavese come uno strumento vivo, un progetto pilota, un laboratorio sociale, in cui nella real- tà e nella vera vita si da luogo ad un'azione comunitaria, cioè un'azione in cui ciascuno nel proprio ambito e nella propria funzione, lavora a un fine comune e coordinato che è la caratteristica vitale dell'ideologia comunitaria.
In Canavese infatti Adriano realizza il suo modello di comunità attraverso di- versi strumenti di azione: Dai centri comunitari all’IRUR – l’Istituto per il Rinnovamento Urbano e Rurale. Come troviamo scritto in un opuscolo del Movimento comunità del 1958, I Centri Comunitari nascono intorno al 1949 per rafforzare i vincoli di solidarietà tra i contadini e gli operai del Canavese. I centri comunitari costituiscono il cuore del villaggio o del rione cittadino. Essi soddisfano le necessità culturali sociali, assistenziali di una piccola civile vicinanza. Dopo avervi parlato dei centri comunitari vorrei ora vocalizzare l’attenzione su un’esperienza forse meno nota nata esattamente 60 anni fa. Mi riferisco all’IRUR, l’Istituto per il Rinnovamento Urbano e Rurale, l’organo coordinatore dell’economia comunitaria. Per parlarvi dell’IRUR devo prima fare alcune premesse: L’avvenimento industriale di maggior rilievo per il Canavese fu certamente quello della fabbrica Olivetti. Il patrimonio industriale della regione era integra - to anche da altre fabbriche, alcune sorte ex novo, altre in continuità con le vecchie attività artigianali. Ma le sorti di queste PMI furono diverse e non sem- pre favorevoli. La fervente attività industriale della Olivetti aveva determinato conseguenze ri- levanti per l’economia del territorio: da un lato lo svilimento delle risorse rurali, dall’altro quello delle attività commerciali che si trasferiscono nei centri più grandi. In particolare, l’agricoltura viene abbandonata o spezzettata in tante piccole proprietà, l’artigianato subisce un declino economico, le campagne e le valli co- minciano a spopolarsi. Come si legge in un supplemento della Rivista Comunità del 1958, “la crisi dell’agricoltura non si risolve semplicisticamente abbandonando la ter- ra spostando manodopera agricola dai campi alle fabbriche. L’industria non deve dominare da sola l’economia della Comunità, lo stabilimento non deve più essere un miraggio per gli agricoltori che non ricavano di che vivere dalla loro fatica. Accanto alla fabbrica deve prosperare l’azienda agricola; accanto alla
fresatrice dev’esserci il trattore; all’organizzazione e specializzazione del lavoro industriale deve corrispondere una analoga organizzazione e specializzazione del lavoro agricolo; accanto all’operaio deve lavorare un contadino nuovo, libe- ro dall’opprimente sensazione di una sua inferiorità economica. Perché nasca una comunità fiorente l’agricoltura deve comunque trasformarsi e mo- dernizzarsi” Quindi per fronteggiare lo scollamento tra la crescente produttività della fabbri- ca e la depressione dei territori circostanti, Adriano crea l'I-RUR, Istituto per il Rinnovamento Urbano e Rurale. Cosa fa concretamente l’Irur? L’Istituto studia e pianifica a diversi livelli le possibilità di sviluppo dell’industria in armonia con l’agricoltura. Per questo l’Istituto coordina e agevola le politiche di sviluppo di settore (agri- coltura, allevamento, industria…) fornendo assistenza tecnica e amministrativa. Mentre si concretizzava in Canavese la visione comunitaria di Olivetti attraver- so l’IRUR e i centri comunitari, di cui abbiamo parlato - ma anche attraverso i centri culturali e sociali e la lega dei comuni – ritroviamo in quegli stessi anni esperienze comunitarie molto simili in America, Inghilterra, Canada, India e Israele. Ci sarebbero moltissimi altri aspetti legati ad Adriano Olivetti e alle vicende della Olivetti prima e dopo la sua prematura scomparsa. Concludo raccontandovi di quando nel luglio del 1960, la rivista di Comunità pubblicò un fascicolo speciale dedicato alla memoria di Adriano Olivetti. Venne- ro raccolte a pochi mesi di distanza dalla sua morte una serie di testimonianze che andavano da Giulio Carlo Argan, Carlo Bo, Georges Friedmann, Ugo La Malfa, Le Corbusier, Jacques Maritain, Eugenio Montale, Aldo Moro, Ferruccio Parri, Giuseppe Saragat, Altieri Spinelli, Bruno Zevi e molti altri. Nessuna proveniva dal mondo dell’impresa e nessuna di esse parlava di Adria- no come imprenditore, con l’unica eccezione di quella di Saragat. Adriano ha conquistato una grande ammirazione in tutto il mondo ma è stato a lungo ricordato per frammenti: ciascuno ha avocato a se l’Adriano uomo di cul- tura, l’Adriano urbanista, l’Adriano imprenditore o realizzatore di opere sociali. In pochi sono stati capaci di cogliere la sua esperienza come missione: l’idea coraggiosa e illuminata che l’impresa, non fosse solo produttrice di beni ma produttrice di bene il vero motore della nostra civiltà.
Per questo ci auguriamo, anche grazie al lavoro della Fondazione Adriano Oli- vetti, che Adriano Olivetti continui ad essere riconosciuto come patrimonio del- la cultura del nostro Paese ma anche e soprattutto fonte di ispirazione per le nuove generazioni. Francesca Limana INDICE PRESENTAZIONE DELLA CARTA 2 DI ARCEVIA a cura di Loris Asoli Dopo l'incontro di successo dello scorso anno culla Carta 1, dal titolo “Un modello di agricoltura per una nuova società” , con prima firmataria Vandana Shiva, ci eravamo riuniti per decidere se e come continuare sulla stessa scia per l'anno successivo. La risposta è stata positiva e il tema scelto, grazie anche alla nuova collaborazione con il Forum paesaggio Marche fu “La gestione comunitaria del territorio e del paesaggio”. Il tema era senz'altro più vasto e impegnativo del precedente, una vera sfida. Per di più nell'affrontarlo ci siamo resi conto che non si poteva pensare alla “gestione comunitaria del territorio e del paesaggio”, senza allargare il campo alla “gestione comunitaria della società” per cui il titolo vero sarebbe “La gestione comunitaria del territorio del paesaggio....e della società”. Potete capire che la vastità del tema non poteva farci pensare di arrivare ad una Carta compiutamente definita come è stata la Carta 1, per cui per questa carta non chiediamo una sottoscrizione, ma vogliamo lasciarla in progress e chiunque potrà proporre integrazioni e/o modifiche. Tuttavia pensiamo che si sia raggiunto già un buon livello di elaborazione e che l'incontro di oggi costituisca una tappa importante sia per la parte teorica che per l'ampliamento di una rete di rapporti e di alleanze, che per l'avvio di attività concrete. Il filo rosso che attraversa tutta la Carta è il concetto di “Comunità”. Le prossime considerazioni vogliono quindi cercare di far comprendere quale visione di “comunità” è stata sviluppata, ma non sono sostitutive della lettura della Carta, dove potrete approfondire. Per poterci capire per primo facciamo riferimento alla esperienza personale di comunità di noi tutti. Si può dire che la maggior parte di noi vive la comunità quasi esclusivamente nella famiglia sana. In questa tipo di famiglia, che rappresenta ancora la maggioranza, i componenti agiscono nell'ottica del bene comune e ognuno svolge un ruolo per il bene dell'insieme della famiglia. Oltre la famiglia, almeno nelle società occidentali, spesso si trova il nulla. Il motivo principale si può individuare nel valore eccessivo che hanno assunto l'individualismo, l'interesse personale e la competizione per affermarsi, favoriti
anche dalla concezione culturale darwinistica e da quella economica della mano invisibile di Adam Smith, che presuppone che possa venir fuori magicamente il bene da un insieme di comportamenti egoistici. L'esperienza ci dice chiaramente che ciò è falso. Supponiamo che la crisi sistemica in cui ci troviamo sia legata anche al dover vivere in un tipo di economia strutturata in maniera tale che il bene di ciascuno sia legato al male degli altri, alla necessità di vincere la concorrenza, in modo corretto o scorretto, per non dover soccombere sul mercato. Il nostro obiettivo è quindi di spostare il confine dell'esperienza comunitaria oltre la famiglia ad un livello basale dello Stato che chiamiamo “Comunità” dove la strutturazione e organizzazione della società preveda esplicitamente il perseguimento creativo del bene comune e la collaborazione al posto della competizione. Non ci siamo mossi nello spazio della fantasia, ma in collegamento a fenomeni storici, del passato e più attuali. Vediamo quindi per primo alcuni riferimenti storici, che sul testo della Carta non trovate, che sicuramente non sono gli unici possibili e che, pur essendo diversi dall'idea comunitaria più moderna e compiuta che vi vogliamo presentare, ci forniscono alcuni aspetti che sono presenti nella nostra visione. Come primissimi riferimenti storici si è scoperto che alcune società arcaiche primitive erano organizzate in forma comunitaria, in particolare nella zona della Mesopotamia. Un aspetto del concetto che vogliamo presentarvi è presente più tardi nelle Città stato della antica Grecia. Esse non erano del tutto comunitarie in quanto alcune categorie di cittadini erano escluse dal portare responsabilità per la società locale. Per esempio erano escluse le donne, gli schiavi e gli stranieri ed era accettata la schiavitù. L'elemento che prediamo come valido è che i cittadini ammessi amministravano comunitariamente la loro società nel loro territorio in tutti gli aspetti. In questo modo la civiltà greca poté esprimere delle eccellenze nel campo della conoscenza, della cultura, della tecnica e dell'arte. Un forte aspetto comunitario ebbero indubbiamente le prime comunità cristiane: Dagli Atti degli apostoli apprendiamo che i primi tempi dopo la morte del Cristo, i suoi discepoli formavano una grande comunità e mettevano insieme tutti i beni, in una specie di comunismo spirituale. Un'esperienza così radicale andò presto in crisi, tuttavia lo spirito comunitario rimase forte all'interno del primo cristianesimo. Anche più tardi, dal 5° all'8° secolo, ci furono varie comunità di base organizzate in modo comunitario, prima che si instaurasse un forte potere ecclesiale centralizzato. Lo spirito comunitario all'interno del movimento cristiano si sviluppò anche attraverso il fenomeno dei monasteri, che erano anche dei veri centri di vita comunitaria e punti di riferimento per il territorio circostante. Il fenomeno si sviluppò in modo significativo lungo vari secoli. Per esempio le regole di San Benedetto, sintetizzate nel famoso “ora et labora”, sono del 500, mentre il movimento francescano prende avvio nel 1200. I monasteri medioevali spesso non sono solo centri religiosi, ma anche culturali ed economici, piccole città, largamente indipendenti economicamente. I Comuni medioevali cosi come nascono dopo l'anno 1000, e si sviluppano nei secoli dall'XI° al XIII° forniscono un altro esempio, simile ma non uguale a quello delle città stato greche. Essi, approfittando della debolezza di
organizzazioni più centrali e imperiali, organizzarono in modo autonomo, in varie parti d'Italia, la vita dei territori locali facendo rifiorire le attività artigianali, agricole e commerciali e rappresentarono delle vere istituzioni politiche nuove, con una loro forma di autogoverno, differenziata fra i vari territori e certamente non esente da varie problematiche e conflitti di potere. Le città-stato nel rinascimento italiano sono un altro esempio di istituzioni politiche autonome legate ad un territorio, anche queste certamente con molte contraddizioni rispetto al potersi considerare delle vere comunità. Quello che vogliamo mettere in evidenza è la gestione collettiva dei vari aspetti che riguardano la vita della popolazione di un territorio. Senza questo probabilmente il miracolo del Rinascimento italiano non sarebbe potuto avvenire. Un altro aspetto comunitario si trova nelle proprietà collettive dei territori da parte dei loro abitanti e nella loro gestione comunitaria unita. Questa forma di proprietà, seppur osteggiata, si è tramandata dalla notte dei tempi ed è rimasta residua soprattutto in zone montane, anche in molte parti d'Italia. Essa introduce al concetto di beni comuni e si può notare che quando c'è un bene da gestire insieme, la comune responsabilità favorisce le relazioni, lo spirito comunitario e una gestione volta al bene collettivo intergenerazionale, piuttosto che al proprio bene personale e garantisce la preservazione ecologica dei beni gestiti collettivamente. Non mi dilungo perché sulle proprietà collettive parleranno sia Paolo Maddalena che Olimpia Gobbi. Un aspetto importante che si è notato in tutte queste vicende storiche è che nei periodi di disfacimento dei poteri centralizzati e della società, la sua ricostruzione avviene sempre dal basso, dalle comunità locali. Visto l'attuale fase di crisi generale forse conviene volgersi alle energie e risorse territoriali, stimolandole, per trovare la soluzione ai nostri problemi. Vengo ora ai collegamenti più attuali del concetto di comunità che presentiamo con la Carta. Un collegamento molto importante è con la visione comunitaria che aveva elaborato Adriano Olivetti. Egli non fu solo un grande imprenditore, ma sviluppò una compiuta visione politica comunitaria dello Stato e delle istituzioni, che è descritta nel suo libro “L'ordine politico delle comunità”. Di questo ci parlerà Francesca Limana Un secondo collegamento importante e quello con le RES, Reti di Economia Solidale, che in Italia in modo particolare si stanno muovendo in un ottica comunitaria. I DES, distretti di economia solidale, sono concepiti come potenziali comunità, che gestiscono tutti gli aspetti della vita di un territorio. Un terzo collegamento attuale lo vediamo nel Movimento di difesa e valorizzazione dei beni comuni. A questo tema è dedicato un capitolo della Carta e ne parlerà anche Paolo Cacciari. Dalla storia passiamo ora alla geografia, in quanto il concetto di comunità elaborato ha una estensione territoriale ottimale non casuale, ma legata ad aspetti precisi. Nella carta diciamo che il territorio chiama a divenire Comunità. Sì, ma quale territorio? Di quale dimensione? Delimitato come? Dovranno essere soddisfatti una serie di criteri. Innanzitutto pensiamo che tutto il territorio italiano debba essere diviso in comunità più o meno omogenee rispetto alla quantità di popolazione e di territorio, per cui per
l'estensione non potremo fare riferimento agli attuali Comuni, alcuni dei quali hanno pochissima popolazione ed altri moltissima. “Comunità” significa “relazioni”, e dunque di esse si dovrà avere la traccia storica, consuetudinaria e ancora attuale. Se guardiamo al territorio in cui ci troviamo, esso si chiama Valle Misa e Nevola e comprende una decina di comuni che sono nel bacino orografico di questi due piccoli fiumi. Questa è la dimensione geografica che intendiamo per la Comunità. La sua popolazione è sempre stata collegata dalla caratteristica fisica del territorio che facilità le comunicazioni, dalle vicende storiche, dalla cultura e sensibilità comune sviluppata nel corso dei secoli, che si riflette anche in un dialetto comune. Le grandi città invece andranno divise in rioni omogenei, in modo tale che la popolazione compresa sia in media dai 100.000 ai 200.000 abitanti. Questa dimensione più o meno omogenea in quantità di popolazione e di territorio, nei limiti consentiti dalla grande disparità di situazioni, deve permettere una facilità di incontro diretto fra le persone per la gestione delle attività economiche, politiche e culturali. E qui si tocca un altro aspetto essenziale: la dimensione è legata anche alla possibilità che il territorio possa raggiungere una certa autonomia negli aspetti basilari di vita (cibo, acqua, case, vestiario, energia, istruzione, salute, assistenza, ecc.), per cui non può essere troppo piccolo. Questa dimensione è pensata come ideale affinché la Comunità possa diventare il livello basilare dello Stato, al posto dei Comuni, e con un valore molto superiore in quanto lo Stato verrebbe ad essere formato quasi federativamente, dal basso verso l'alto, invece che dall'alto verso il basso con il decentramento di un potere centrale. E' da osservare che nella società attuale c'è già un forte richiamo verso questa dimensione. Infatti vediamo che quando si parla di gestione di aspetti concreti della società si finisce per adottare una dimensione che viene chiamata Distretto o Comprensorio di comuni, o Unione di comuni, o Ambiti territoriali, o Comunità montane, ecc.). Così è per la scuola, la sanità, il turismo, i servizi sociali e assistenza, le elezioni, la produzione, ecc. La nostra proposta è che ci sia un riferimento territoriale unico per tutti gli aspetti della società invece che una moltiplicazione di ambiti distinti e scollegati, e che la loro gestione sia affidata il più possibile alla responsabilità delle popolazioni del territorio. Questo rappresenterebbe una vera e propria rivoluzione democratica e funzionale e ci farebbe uscire dalla falsa democrazia in cui ci troviamo. Questo tipo di Comunità avrebbe poi dei sotto-livelli territoriali (comuni, quartieri, ecc.) con cui gestire in modo ancora più diffuso le varie responsabilità. A questo punto, dopo aver mostrato dei collegamenti storici e aver parlato della dimensione territoriale ideale e di tutto ciò che vi è collegato possiamo esprimere in modo chiaro il concetto di Comunità del futuro che si mostra come già maturo per essere realizzato quanto prima. La Comunità è chiamata ad essere il livello base dello Stato, un nuovo Stato delle Comunità, gestito con responsabilità che salgono dal basso verso l'alto. Queste comunità portano la responsabilità anche per lo sviluppo economico del territorio e sono gestite con una democrazia partecipativa molto più ampia di quella attuale. Sono Comunità che hanno un potere decisionale diretto su tutti gli aspetti che riguardano la vita dei cittadini del territorio. Queste comunità danno vero potere alla cittadinanza attraverso due vie ben chiare, definite e
funzionali a una migliore gestione della società. Da una parte il maggior potere alla base viene raggiunto perché le Comunità nel loro complesso hanno un maggiore potere nei confronti dello Stato, rispetto alla situazione attuale. Dall'altra il maggior potere o la maggiore responsabilità del cittadino si raggiunge anche perché all'interno delle Comunità vengono create strutture decisionali partecipative molto più diffuse di quelle attuali e sotto il controllo della cittadinanza. Questo non significa che non sia data importanza ai livelli superiori del potere democratico (Regioni e Stato). Anzi dal rafforzamento delle Comunità locali nello Stato non può che derivarne un maggiore potere, prestigio e successo anche per le dimensioni superiori della vita sociale che potranno agire meglio al loro livello, più alto, di responsabilità. E' essenziale che le responsabilità siano più diffuse a livello di base, perché è dalla responsabilità collettiva sulla gestione di tutti gli aspetti della vita sociale che viene favorito uno spirito comunitario e uno stile di vita e di gestione più partecipato e condiviso, in grado di far raggiungere mete più elevate, nella scienza, nella cultura, nell'arte, nella produzione, nella spiritualità e nelle architetture giuridiche e sociali. Tuttavia e meglio non illudersi rispetto ad un punto: senza la volontà delle persone di migliorarsi, di stare in rapporti più armoniosi con le altre persone, e di dare maggiore importanza al collettivo e al bene comune, nessun tipo di strutturazione potrà risolvere i problemi. Per concludere ricordo che questo incontro ha degli obiettivi pratici. Certamente anche l'arrivare ad una visione condivisa della società dell'immediato futuro, è un obiettivo che potrà avere innumerevoli risvolti pratici, ora mi riferisco però a speciali azioni pratiche a cui vorremmo dedicarci nel prossimo periodo. Una delle principali riguarda l'opposizione alla vendita- svendita di tutti i beni demaniali pubblici (statali, regionali, provinciali e comunali) e, in particolare delle terre agricole, proponendo invece di darle in gestione a cooperative di giovani inoccupati, dietro presentazione di progetti produttivi ed ecologici. INDICE LA PROPRIETA' COLLETTIVA DELLE COMUNANZE NELLE MARCHE Sintesi dell’intervento di Olimpia Gobbi tenuto in Arcevia il 5 ottobre 2014 Perché questo focus sulle comunanze agrarie nelle Marche in una giorna- ta dedicata alla gestione comunitaria del territorio e del paesaggio? Appare evidente che avvicinare lo sguardo a questo modo quasi scono- sciuto di intendere la proprietà e di vivere la relazione fra comunità e risorse ambientali ci permette di capire che le proposte contenute nella Carta di Arce- via 2 e le tesi illustrate dai relatori di questa mattina, in particolare da Paolo Maddalena, non sono pure elaborazioni intellettuali, giuridiche o sociologiche,
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