La battaglia per definire il long covid - Filodiritto

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Tribunale Bologna 24.07.2007, n.7770 - ISSN 2239-7752
                                              Direttore responsabile: Antonio Zama

                   La battaglia per definire il long covid
 Il long covid esiste? Cosa ne pensano scienziati ed esperti? Ma, soprattutto, cosa stanno
  attraversando coloro che ne soffrono, o credono di soffrirne? Il punto in un articolo del
                                      «New Yorker».
                                                 19 Ottobre 2021
                                                Martina Giampietri

La battaglia per definire il long covid
Articolo in traduzione, pubblicato sul «New Yorker» lo scorso settembre. Dhruv Khullar, medico
internista, descrive la sua esperienza al fianco di Diana Berrent, attivista e fondatrice del movimento per
la difesa di chi è affetto da long covid: i Survivor Corps.
Pazienti e scettici sul piede di guerra: saprà la ricerca appianare il conflitto?
Una mattina, a marzo 2020, Diana Berrent, fotografa e madre di due bambini, di Long Island, si svegliò
con la febbre. Aveva brividi, diarrea e un senso di oppressione al petto, e cominciò a preoccuparsi. Sua
figlia aveva invitato delle amiche a dormire; Berrent aveva raggiunto a fatica la taverna, e chiesto alle
ragazze di andarsene. Poi, si mise in isolamento per diciotto giorni.
Berrent aveva seguito le notizie sul coronavirus da Wuhan, fino alla Lombardia e a Teheran. Ma, come mi
ha confessato di recente, “in periferia, nessuno si aspettava di essere la prima persona del quartiere a
prendere il virus”. Aveva provato a farsi un test, ma erano in gran parte riservati a chi veniva ricoverato.
Alla fine, ricevette una diagnosi di covid-19 dopo che un suo conoscente l’aveva messa in contatto con un
deputato locale che le aveva rimediato un test. Su Facebook, portò avanti da sola il tracciamento dei
contatti. Pochi giorni prima di ammalarsi, aveva infatti realizzato un servizio fotografico per un evento
nella palestra affollata di una scuola elementare, e si era convinta di essere la Paziente Zero. In quel
momento, vi erano scarse notizie sui casi di coronavirus, e poche persone ammettevano di essere infette:
il suo aggiornamento sui social era diventato virale. Il «New York Post» affidò a Berrent una rubrica
quotidiana in cui documentare la malattia. Diede inizio a un video-blog, descrivendo i suoi sintomi,
l’isolamento, la guarigione. In un episodio toccante su HGTV, aveva dato istruzioni agli spettatori su come
“organizzare la perfetta camera di isolamento”.
Durante la sua quarantena, Berrent era venuta a conoscenza del plasma convalescente, una terapia
trasfusionale che i ricercatori stavano testando sui pazienti con il covid. Decise che avrebbe voluto dare una
mano. “Ci era stato detto, come comunità globale, ‘il meglio che potete fare è letteralmente non fare
nulla,’” diceva Berrent. “La gente stava lì, a cucire mascherine e a battere le mani ogni sera. Ho pensato, ho
questi anticorpi, potrei davvero essere in grado di salvare delle vite”. Si mise in lista per ogni studio che
riuscisse a trovare; si iscrisse come Partecipante 0001 alla sperimentazione sul plasma convalescente della
Columbia University. Poi si era detta:
“Se ho questo potere come individuo – di contribuire alla
   scienza, di salvare vite – cosa potremmo fare mobilitando un
   esercito di sopravvissuti?”.
Berrent diede vita così a un gruppo Facebook chiamato Survivor Corps [“Plotone dei Sopravvissuti”, n.d.t.
], una specie di “Tinder per il plasma”, diceva.
In una settimana, il gruppo aveva più di 100.000 iscritti. Sulla pagina, Berrent scriveva che le persone
che avevano contratto il coronavirus stavano “aspettando di diventare supereroi”. Qualche tempo dopo,
quando era stata dimostrata l’efficacia degli anticorpi monoclonali nel combattere il covid-19, iniziò a
collaborare con la compagnia farmaceutica Regeneron e con l’azienda sanitaria Optum per aiutare le
persone a ricevere la terapia in casa propria.
Survivor Corps ha ora più di 175.000 membri – il più grande movimento civile per il covid nel
mondo. Ora, Berrent incontra periodicamente ufficiali di governo, illustri scienziati, gruppi di difesa del
paziente, sopravvissuti al covid con le loro famiglie. Non molto tempo fa ha realizzato delle presentazioni
presso il Centro per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie (C.D.C.), l’Istituto Nazionale della Sanità (
N.I.H.) e durante la task force della Casa Bianca sul coronavirus – tutto nella stessa settimana. Appare in
podcast e comitati, e presiede a svariati incontri sul covid nelle università e di concerto con il governo, a
volte come unica portavoce dei pazienti. “Ora mi stanno chiedendo di revisionare articoli di medicina – a
me, che non tocco biologia dalla seconda superiore”, ha detto.
I Survivor Corps non hanno una sede fisica. Si tratta, in sostanza, di un enorme gruppo Facebook, con
un sito associato. Le persone condividono storie di genitori e figli scomparsi; chiedono preghiere e
supporto; si sfogano contro un sistema sanitario privo di umanità. Descrivono sintomi debilitanti che
attribuiscono al long covid: problemi di fegato, gambe, polmoni, stomaci, pelle, denti, disturbi della
memoria e dell’umore. Riflettono su teorie biologiche e si scambiano consigli medici, alcuni validi, altri
non supportati da evidenze scientifiche, o di cui è stata provata l’inefficacia. (Il gruppo, abbastanza
moderato, ha regole contro consigli medici “inconsistenti” e teorie del complotto.) A volte, qualcuno
esprime scetticismo su quello che le persone postano. “Rimango basita nei confronti di quello che un amico
mi ha appena detto,” ha scritto una componente del gruppo. L’amico l’aveva accusata di leggere “quello
che un mucchio di persone scrivono” senza avere “la minima certezza che sia vero o meno. Ti dicono solo
quello che vuoi sentirti dire, così puoi dare la colpa dei tuoi problemi al fatto che sei stata malata per nove
mesi”.
Dare sostegno e voce a una così vasta platea ha condotto Berrent in acque scientifiche molto agitate.
Storicamente, gli attivisti per la difesa del paziente si sono spesso trovati a doversi opporre ai ricercatori
con i quali stavano cercando di collaborare; attivisti dell’aids si sono scontrati non di rado con gli
scienziati, chiedendo sperimentazioni più celeri e maggiori cure: nel maggio del 1990 centinaia di membri
dell’Act Up[1] protestarono davanti all’Istituto Nazionale delle Allergie e delle Malattie Infettive (
N.I.A.I.D.), diretto per cinque anni da Anthony Fauci. Più di recente, gli attivisti per la difesa del paziente
hanno lavorato in rappresentanza di persone che dicono di soffrire della sindrome da stanchezza cronica, di
fibromialgia, della malattia di Lyme, e di altre patologie che alcuni ricercatori ritengono non ben definite.
Circolano dubbi, tra gli scienziati, sul fatto che il long covid esista. Ma la patologia è nuova, e vive per il
momento nel regno della teoria e dell’aneddoto.

   Nel bel mezzo di una pandemia vissuta online, questa sindrome
   diviene oggetto di congetture costanti. Dottori, scienziati e
   pazienti condividono opinioni in libertà, insieme a chiunque
   altro.
Anche Berrent, dal canto suo, sta cercando di dare un senso a tutto ciò.
Le ricerche necessarie sono effettivamente in corso. Le scuole di medicina disseminate sul territorio
nazionale hanno iniziato a studiare il long covid, e sono stati pubblicati centinaia di articoli che tentano di
demistificare la sindrome. Il Congresso ha sbloccato più di un miliardo di dollari per la ricerca sugli effetti
a lungo termine dell’infezione da coronavirus; Francis Collins, direttore dell’Istituto Nazionale della
Sanità, ha annunciato un’iniziativa sul long covid che includerà uno studio della malattia su larga scala, per
un totale di 470.000 milioni di dollari, ideato in parte usando i dati forniti direttamente da pazienti e
famiglie. “Conosciamo persone la cui vita è stata stravolta dai gravi effetti del long covid”, ha dichiarato di
recente Collins.
In ogni caso, Berrent sostiene che la ricerca sta andando troppo a rilento, e che il long covid è stato a
malapena definito. Collins è membro dell’Accademia Nazionale delle Scienze (N.A.S.), ed è stato
premiato con la Medaglia Presidenziale della Libertà; nonostante ciò, su Twitter, Berrent si è recentemente
detta in disaccordo con la sua descrizione dei processi microscopici che potrebbero causare problemi di
respirazione persistenti nei pazienti con long covid. “Ciò dimostra una conoscenza superficiale del
#LongCovid,” ha affermato. Berrent è poi andata avanti elencando le patologie – tra cui “l’insorgenza del
diabete da covid” e l’“epilessia” – che credeva Collins stesse sottovalutando: “Forse alcuni di questi
sintomi comuni sarebbero più noti se il @N.I.H. stesse portando avanti una qualsiasi ricerca concreta”.
Incoraggiata dai membri del suo gruppo, Berrent ha dato il via a un flusso ininterrotto di storie sul long
covid a dir poco allarmanti attraverso le sue dirette social, e ha twittato in maniera polemica riguardo al
sistema con cui il C.D.C. di solito conteggia le infezioni. “Mi sembra di andare contro la direttrice del
C.D.C. nel momento stesso in cui tento di collaborare con il suo staff”, mi ha confessato.

   Berrent affronta un problema noto agli attivisti per la difesa del
   paziente: c’è un contrasto netto tra ciò che i singoli pazienti
   provano, vogliono, e di cui hanno bisogno, e ciò che i medici
   possono offrire.
Ma, con la pandemia, la portata del fenomeno è cambiata. Secondo alcune stime, più di cento milioni di
americani hanno contratto il coronavirus. Molti si sentono abbandonati dai propri leader,
marginalizzati dai concittadini, e sono insofferenti nei confronti dei ricercatori. Eppure è solo
attraverso la progettazione attenta degli studi, le analisi metodiche dei dati, l’interpretazione scientifica dei
risultati che possiamo separare speculazioni infondate dal fatto scientifico. Berrent e il suo gruppo vogliono
un’azione decisa e immediata; la scienza chiede cautela. Molte persone, la cui salute è stata stravolta dal
covid-19, stanno vivendo in questo limbo. A chi dovrebbero rivolgersi?
A luglio, ho incontrato Berrent per un caffè nell’Upper East Side di Manhattan. Si era trasferita da poco a
Washington, D.C., ed era in città per far visita alla madre. Mi ero precipitato lì da un ospedale dall’altra
parte della città, dove mi stavo prendendo cura come internista di alcuni pazienti – molti dei quali malati di
covid.
All’esterno di una piccola panetteria, abbiamo deciso entrambi di toglierci le mascherine. Berrent, che ha
occhi di un azzurro brillante e un sorriso genuino, parlava velocemente tra un boccone e l’altro di hummus
e gazpacho, fermandosi di tanto in tanto per mostrarmi l’e-mail di uno scienziato col quale aveva
cominciato a collaborare, oppure un post su Facebook di un membro dei Survivor Corps. Parlava con foga
delle battaglie dei portatori a lungo termine, del dolore delle famiglie, del livore di no-vax e no-masks.
Berrent è cresciuta a circa dieci isolati da dove eravamo seduti, e ha frequentato la Trinity, prestigiosa
scuola privata di Manhattan. Durante il college, alla Kenyon, ha portato avanti un tirocinio nell’ufficio del
senatore Daniel Patrick, e sembrava avviarsi verso una carriera in politica. Ha partecipato alla campagna
per la rielezione di Bill Clinton e più tardi ha lavorato al Dipartimento di Stato come assistente di
Madeleine Albright. Lei e suo marito si sono conosciuti come membri dello staff della campagna
presidenziale di Al Gore, nel 2000. Entrambi avevano frequentato la facoltà di legge alla Cornell; ha
lavorato per uno studio legale, ma se ne è allontanata dopo la nascita dei figli. Nel 2007, ha iniziato la sua
attività di fotografa.
L’esperienza politica di Berrent le è stata di grande aiuto quando ha lanciato i Survivor Corps. Ha cercato
esperti in ogni campo e in breve ha trovato molti alleati, tra cui Micheal Joyner, anestesista rinomato della
Mayo Clinic; Kavita Patel, specialista delle politiche sanitarie durante il governo Obama, ora alla
Brookings Institution; David Shulkin, ex-segretario del Veterans Affairs. Ma è come outsider che sente di
avere molto da offrire. “Sono in grado di guardare con occhi nuovi, e vedere quando le cose semplicemente
non hanno senso”. Durante la sua presentazione al N.I.H., Berrent ha affermato: “La cosa di cui vado più
fiera è che abbiamo davvero ridefinito il concetto di cittadini scienziati. Abbiamo bisogno di ascoltare i
pazienti per orientare la scienza”.
Con il procedere della pandemia, è diventato chiaro che molti membri dei Survivor Corps stessero lottando
contro i sintomi non per giorni o settimane ma per mesi, e Berrent ha iniziato a concentrarsi sul long covid.
Ha avvertito i dottori riguardo i sintomi che i membri del suo gruppo stavano segnalando – tremori,
vibrazioni interne, insonnia, dolori lancinanti. In molti casi, ha detto, ha trovato “vergognose” le
risposte dei medici. L’unica cosa che sembrava sapessero rispondere, mi ha detto, era: “Davvero misteriosa
la faccenda, non crede?”.
Berrent sa raccontare in maniera coinvolgente – usa frasi brevi e potenti, facendo pause nei momenti giusti.
Durante la presentazione al N.I.H., sulla piattaforma Zoom, fissava la telecamera dichiarando che il sistema
medico stava deludendo i pazienti affetti da long covid: “Quello che sta accadendo sul campo è che le
persone subiscono gravi, gravissimi danni agli organi. Stanno avendo problemi neurologici che li portano
al suicidio. Dobbiamo concentrarci sui sintomi e dare priorità alla ricerca in base alla quantità di
sofferenza che causano – non in base alla loro frequenza
”.
Berrent cerca di fare da tramite fra i pazienti e il sistema medico. Spesso però la comunicazione è a senso
unico: Berrent riporta le preoccupazioni dei pazienti ai ricercatori, curandosi meno di ciò che preme invece
agli scienziati, e cioè cosa sia o non sia supportato da evidenze scientifiche. Berrent fa frequenti sondaggi
tra i Survivor Corps e, nonostante producano informazioni significative, queste ultime somigliano a ciò che
rileva un partito politico quando intervista i suoi più grandi sostenitori – vengono, cioè, da una fetta non
rappresentativa della popolazione. Di recente, durante un seminario online ospitato dal «Washington Post»,
Berrent ha descritto un sondaggio tra i Survivor Corps in cui chiedeva dei sintomi che stavano impedendo
alle persone di tornare a lavoro. Hanno risposto circa 600.000 membri. “Il motivo principale che impedisce
alla gente di ricominciare a lavorare è un mutamento drastico della personalità” ha spiegato. “È stato uno
shock terribile”.
Berrent ha suggerito che il covid potrebbe finire per essere considerato non come una malattia
respiratoria ma come una patologia neurologica. “Temo che ci sia una carica virale più alta nella
variante Delta che si concentra nel naso e nella bocca”, ha detto. “ Cosa accade? A rigor di logica, la
malattia risale attraverso il naso, manda fuori uso il sistema olfattivo, e cosa c’è subito dopo? Il nervo vago,
che controlla tutte le nostre funzioni automatiche... Sappiamo che il virus passa attraverso la barriera
ematoencefalica” – uno strato essenziale delle difese immunitarie che impedisce ai microrganismi di
infettare il sistema nervoso centrale – “e abbiamo infatti casi evidenti di danni diretti al cervello”.
L’intervistatrice ha ribattuto: “Penso sia abbastanza chiaro che non sappiamo ancora se possa oltrepassare o
meno la barriera ematoencefalica.” (Infatti, molte infezioni partono dalla bocca e dal naso senza infettare il
sistema nervoso, e, sebbene la ricerca abbia supposto che la proteina spike possa infrangere la barriera
protettiva nei topi, non c’è nessuna prova certa che il coronavirus infetti il cervello umano.)
“Ne siamo consapevoli”, ha risposto Berrent.
In un altro momento della presentazione, Berrent ha dissentito rispetto alla decisione del C.D.C. di non
approfondire i primi casi di covid che non avevano avuto bisogno di ospedalizzazione. “Non c’è nulla
come un caso lieve di covid”, ha detto, come dice spesso. “Lasciatemi spiegare cosa intendono con ‘lieve’.
Intendono encefalite. Polmonite da covid. Intendono insufficienza degli organi all’ultimo stadio”.
L’intervistatrice si è fermata, lo sguardo interrogativo. “Quindi lei sta dicendo che l’insufficienza degli
organi all’ultimo stadio viene considerata come lieve?”, ha chiesto.
Per un attimo, Berrent ha esitato. “Ne sono certa”, ha poi risposto.
Il gruppo di attivisti per la difesa del paziente di Berrent è formato in parte da sopravvissuti al covid
che il pubblico, e anche molti medici professionisti, non vedono mai. Ascolta persone che dicono di star
combattendo con sintomi non comuni e non legati all’apparato respiratorio, come disfunzione erettile e
diarrea cronica. Un membro dei Survivor Corps è una giovane madre con un sondino nasogastrico e undici
denti guasti.
Tramite Berrent, ho incontrato Nick Güthe, che è diventato un consulente di fiducia dei Survivor Corps
all’inizio dell’estate. Güthe, filmmaker indipendente di cinquant’anni, mi ha raccontato la storia di sua
moglie. La tragica ambiguità che la caratterizza è tipica di molte storie del movimento long covid.
Nell’aprile del 2020, Heidi Ferrer, moglie di Güthe ed ex-sceneggiatrice di Dawson’s Creek, aveva
cominciato a sentire dolori lancinanti alle dita dei piedi. Subito dopo, dolori di stomaco e diarrea. Ferrer e
Güthe fecero un test rapido al drive-in, risultando negativi. (I test rapidi sono meno affidabili dei
molecolari.) Nelle settimane che seguirono, Ferrer ebbe palpitazioni, dolori muscolari, e un senso di
spossatezza così estremo da avere difficoltà a salire le scale.
In autunno, Ferrer era convinta di avere il long covid. Cercò dottori specializzati, ma senza risultato. Si
rivolse ad agopuntori e professionisti di medicina alternativa, e cominciò a prendere l’ivermectina – un
antiparassitario per cavalli, che da allora è stato dimostrato inefficace contro il covid-19. Durante la
primavera, aveva sviluppato degli spasmi involontari molto evidenti. Sentiva come una vibrazione interna,
e aveva detto a Güthe che era come avere delle bollicine di champagne che frizzavano nelle vene. Incapace
di dormire, Ferrer cominciò a prendere dosi massicce di Ambien, a volte una pillola ogni due ore. Poiché
non era mai risultata positiva al coronavirus, il dottore esitò a mandarla in una clinica specializzata in long
covid aperta da poco. Aveva consultato un neurologo, il quale, mi ha detto Güthe, provò a “insinuare che
fosse tutto frutto della sua mente”. Ferrer non aveva avuto episodi documentati di malattia mentale, ma la
sua storia familiare era stata fortemente segnata dalla depressione: sia il padre sia la nonna erano morti
suicidi. Aveva avuto problemi di alcolismo, ma era sobria dal 2017.
Il 22 maggio, Güthe andò a riprendere il figlio di tredici anni da un suo amico. Mentre tornavano a casa,
Güthe aveva detto: “Dobbiamo parlare della mamma. Voglio credere che migliorerà. Ma devo anche essere
onesto, con te: non so davvero come andrà a finire”.
Una volta a casa, lui e il figlio erano andati al piano di sopra, dove avevano trovato Ferrer in camera da
letto appesa a un drappo del baldacchino. Güthe aveva detto al figlio di andare nella sua stanza. Aveva
provato a liberare Ferrer, ma non c’era riuscito. Era corso di sotto per prendere le forbici, e alla fine era
riuscito a tagliare la stoffa.
Quando arrivarono in ospedale, il cuore di Ferrer batteva ancora, ma era chiaro che non si sarebbe ripresa.
Un medico chiese a Güthe da quanto la moglie fosse depressa. “Non è depressa”, aveva detto Güthe. “Il
suo corpo ha collassato a causa del long covid”. Allora il dottore aveva chiesto a Güthe di cosa si trattasse.
“Lo cerchi su internet”, aveva risposto lui.
A giugno, Güthe ha inviato un necrologio a «Deadline», diventato subito virale. “Heidi mi aveva detto,
‘Se succede qualcosa, fai sapere al mondo cosa mi ha fatto il long covid’”. Attraverso Twitter, Güthe si è
messo in contatto con Berrent, e ha scoperto che Ferrer era stata un membro dei Survivor Corps. Negli
ultimi mesi, Güthe ha preso parte con Berrent a una dozzina di eventi. Ora risponde a messaggi Facebook
di persone da tutto il mondo, che raccontano la loro battaglia con il long covid e chiedono aiuto. Non di
rado, qualcuno condivide pensieri suicidi. “Tiro giù qualcuno dal cornicione ogni settimana”, ha detto
Güthe. “Dico loro, ‘Le cose si stanno muovendo molto più in fretta di quanto pensiate. La speranza sta
arrivando. L’aiuto anche. La gente ha iniziato ad ascoltarci, ora’”.
Altri, facendo notare che Ferrer non è mai risultata positiva al virus, hanno messo in dubbio che sia stato il
covid a ucciderla. Lo stesso grado di incertezza caratterizza molti casi di long covid meno drammatici di
quello di Ferrer.

   Giustamente, i dottori dicono che alcuni dei sintomi attribuiti al
   long covid possono appartenere a svariate altre patologie.
Tuttavia molti pazienti – con o senza infezioni da coronavirus
   documentate – sono convinti che i loro problemi persistano dopo
   gli effetti del virus.
Definire una malattia nuova è un obiettivo complesso, pieno di rischi. Alcuni medici credono che la
gravità e la portata della patologia siano state esagerate. In un articolo recente su STAT (sito di notizie su
medicina e salute), Adam Gaffney, medico di terapia intensiva, ha scritto che c’è bisogno di “cominciare a
pensare in maniera più critica al long covid – e a parlarne con più cautela”, sostenendo che la narrazione
costruita attorno agli effetti a lungo termine dell’infezione sta “andando oltre l’evidenza”. Un recente
articolo sul «Wall Street Journal» a cura dello psichiatra Jeremy Devine ha ipotizzato che molti dei sintomi
del long covid potrebbero essere “generati a livello psicologico o causati da una malattia fisica non
correlata all’infezione precedente”. Devine ha suggerito che il long covid sia “fondamentalmente
un’invenzione dei gruppi di attivisti che danno voce al paziente”.
Come ogni campagna, il movimento dei sopravvissuti al covid deve decidere quanto è grande la
tenda che vuole costruire. Ho parlato, poco tempo fa, con Emily Taylor, la direttrice della Long Covid
Alliance – un’organizzazione-ombrello composta da più di cento gruppi per la difesa del paziente. Taylor
mi ha detto che la battaglia per legittimare il long covid le ricorda il suo lavoro precedente come portavoce
di persone, tra le quali sua madre, che soffrono di sindrome della fatica cronica, una malattia misteriosa
caratterizzata anch’essa da “nebbia cerebrale”, affaticamento da sforzo e disturbi del sonno. “La cosa
meravigliosa è che il long covid potrebbe dare legittimità ad altre sindromi post-virali, per le quali le
persone si sentono dire che sono malattie immaginarie”, ha detto. Taylor ha convocato gruppi di esperti per
creare codici diagnostici per il long covid, i quali permetterebbero ai medici di essere pagati per applicarli.
Il suo team ha aiutato di recente a introdurre l’Atto dei Portatori di long covid, una legislazione federale
che dovrebbe fornire quasi cento milioni di dollari per la ricerca, infrastrutture di dati territoriali ed
educazione pubblica. Il gruppo sta pianificando l’introduzione di un secondo investimento, che andrebbe
a sostegno di quindici “Centri di Eccellenza Post-Covid” – istituti che combinano ricerca e cure
mediche– in giro per il paese. “Abbiamo iniziato a sostenere la causa del long covid lo scorso anno, quando
i legislatori continuavano a dire: ‘Siamo nel bel mezzo di una crisi, le persone stanno morendo, questo è un
problema del prossimo anno’”, ha detto Taylor. “Beh, ora è il prossimo anno. È tempo di agire”.
Come medico che si affacciava per la prima volta al mondo dell’attivismo per la difesa del paziente, non
potevo nascondermi di essere parte del sistema medico – verso cui tanto risentimento è diretto. Sono
andato via sentendo che la medicina potrebbe essere più delicata ed efficace se i pazienti fossero più
presenti, non solo come soggetti di sperimentazione o persone bisognose di cure, ma come partner
autentici nel progetto di miglioramento della condizione umana. Certo, trasalivo ogni volta che qualcuno
menzionava vitamine o ivermectina come rimedi, o riportava aneddoti su internet riguardo studi scientifici
qualificati, o metteva in dubbio con ferocia le buone intenzioni di dottori e infermieri.

   Mi sono chiesto se il movimento dei sopravvissuti al covid si
   nutrisse dello stesso sentimento anti-elitario che attraversa gran
   parte del paese – una sfiducia nelle istituzioni e un disprezzo per
le competenze.
Se così fosse, sarebbe in parte colpa dell’annoso fallimento istituzionale nell’incontrare i bisogni di chi
soffre. I dottori hanno spesso liquidato e minimizzato le preoccupazioni dei pazienti; altri si sono
approfittati delle sovradiagnosi. Se l’edificio della medicina poggia su una faglia – causata dalla
sfiducia tra dottori e pazienti, e tra ospedali e comunità – allora il covid-19 è un terremoto. Tenere in
piedi la struttura è responsabilità di tutti.
“Abbiamo sentito parlare tanto di ‘coinvolgimento della comunità’ e ‘coinvolgimento del paziente’, negli
ultimi vent’anni”, mi ha detto Micheal Joyner, l’anestesista della Mayo Clinic. “Erano tutti termini di
moda, ambiziosi. Ma durante la pandemia persone come Diana hanno accelerato i tempi”. I Survivor Corps
hanno aiutato ad arruolare moltissimi pazienti per la sperimentazione sul plasma convalescente; alla fine,
una serie di studi randomizzati non sono riusciti a dimostrare che la terapia fosse benefica. “La domanda
per la comunità medica è: come prendiamo questo livello di coinvolgimento del paziente e
continuiamo a mandarlo avanti?”. Joyner crede che la mancanza di coordinamento e di empatia tra i
professionisti della sanità abbia condotto molte persone verso rimedi non dimostrati. “Ciò che vuoi
impedire è che la gente entri in queste odissee diagnostiche”, dice. “Quando devono combattere con
sintomi fastidiosi e poco chiari, le persone finiscono per rivolgersi a sei medici diversi. Il cardiologo dà
loro una serie di spiegazioni, l’endocrinologo un’altra. Niente ha veramente senso. Poi qualcuno dice,
prendi lo zinco, oppure fai questa cosa, o quest’altra, e di sicuro la proveranno”.
Joyner ha collegato lo scetticismo dei medici sul long covid alla diffidenza riguardo patologie come la
sindrome da tachicardia posturale ortostatica, anche detta POTS. Le persone che hanno la POTS subiscono
sbalzi atipici del battito cardiaco e della pressione arteriosa quando stanno in piedi; molti provano anche
vertigini, affaticamento, e “nebbia cerebrale”. Molti dottori credevano che la pots fosse collegata all’ansia
o a disturbi dell’umore. Ma Joyner ha voluto esplorare un’altra possibilità: che i cuori delle persone
stessero compensando un accumulo insolito di sangue nelle gambe. Ha invitato dei pazienti nel suo
laboratorio e li ha fatti distendere con le gambe inserite in un macchinario ermetico. L’aria veniva tirata
fuori dalla macchina, cosicché la pressione negativa, applicata alle gambe, facesse in modo che al cuore
tornasse indietro meno sangue – simulando cioè l’effetto dello stare in piedi.
Joyner ha condotto due “finti” esperimenti. Prima di tutto, ha acceso la macchina, disattivando però la
funzione a pressione negativa. Le persone pensavano che fosse accesa, ma non era così. Ha attivato poi la
pressione negativa, ma solo dopo che i pazienti avevano indossato dei pantaloni speciali che riducevano
l’effetto del macchinario. In entrambi i casi, le persone sperimentavano niente di più che un piccolo sbalzo
del battito cardiaco. Soltanto quando le loro estremità erano davvero sottoposte alla pressione negativa i
loro cuori hanno cominciato a pompare più velocemente. “Vent’anni fa avrei scommesso che la POTS
fosse psicosomatica”, ha detto Joyner. “Abbiamo fatto di tutto per dimostrare che fosse così. Non ci siamo
riusciti”. Ad oggi, crede che i pazienti con la pots sperimentino una specie di “ipervigilanza somatica”, in
cui diventano eccezionalmente sensibili ai cambiamenti fisiologici del proprio corpo.
È possibile che qualcosa di simile stia accadendo ai pazienti affetti da long covid? Vinay Prasad, un
medico e un esperto di medicina basata su evidenze scientifiche all’università della California (San
Francisco), mi ha detto che, quando si tratta del long covid, ci sono due tipi di domande scientifiche. Il
primo tipo si focalizza su una migliore definizione della sindrome e della sua diffusione: quali sono,
esattamente, i sintomi, e come è possibile che sia un’infezione a causarli? Il secondo tipo si chiede se i
sintomi siano collegati al virus stesso, o a qualcos’altro. Anche le cure contro il covid possono causare
problemi
: il solo essere intubati, ad esempio, è associato a debolezza prolungata, perdita di memoria, ansia,
depressione e difficoltà a tornare a lavoro. “Ci vuole tempo prima di ritornare a essere sé stessi”, ha detto
Prasad. Anche pazienti con una polmonite comune spesso riportano sintomi come tosse, spossatezza e
dolori al petto nei tre mesi successivi.
Per rispondere a queste domande, è necessario affrontare questioni metodologiche di lunga data. All’inizio
della pandemia, milioni di americani che avrebbero dovuto ricevere una diagnosi di covid non sono mai
stati sottoposti al test; dovrebbero essere conteggiati come portatori a lungo termine? Nel frattempo, a
causa dei gravi disagi nella routine delle cure mediche, la salute fisica e mentale di molti pazienti potrebbe
essere peggiorata. E il numero di persone infette complica ancora di più le cose. La ricerca sulla malattia di
Lyme – una sindrome post-infettiva controversa, con sintomi ampiamente simili a quelli del long covid –
ha come base di partenza circa 4.000 casi di Lyme in America ogni anno; gli Stati Uniti hanno registrato,
una volta, quasi altrettanti nuovi casi di coronavirus in un singolo giorno. Può essere vero, quindi, che
alcuni portatori a lungo termine sperimentino sintomi non comuni – forse connessi al virus, o forse
no –, come può essere vero che quei sintomi non siano quelli di cui la persona media dovrebbe
preoccuparsi, o sui quali i ricercatori dovrebbero concentrarsi. Se lanci un dado cento volte, la
possibilità che esca il sei per sei volte consecutive è estremamente bassa. Se lo lanci duecentoventi milioni
di volte – grossomodo il numero di casi di coronavirus accertati nel mondo –, è giocoforza che alcune cose
strane accadano.
Come sindrome post-infettiva amorfa, il long covid presenta sfide particolari. Prasad descrive un problema
conosciuto come “bias dell’accertamento”.
“Se hai avuto l’influenza due anni fa rispetto al covid lo scorso anno, il modo in cui i medici guarderanno
alle complicazioni sarà molto diverso”, ha detto. Un altro problema correlato è “il bias del pregiudizio”:
dato che il covid è un evento molto rilevante nella vita delle persone, queste potrebbero attribuire ogni
sintomo che provano nei mesi seguenti a quella infezione.
Non molto tempo fa, Berrent mi ha detto che il covid era responsabile della caduta del dente davanti del
figlio, nove mesi dopo la diagnosi. Le ho chiesto come fosse certa del collegamento con il covid; mi ha
risposto che aveva postato un sondaggio sulla pagina dei Survivor Corps, e che molte persone avevano
riportato problemi non comuni ai denti. “Se cerchi una parola-chiave nei Survivor Corps e nessun altro ha
provato qualcosa di simile, probabilmente non è collegato al covid”, ha detto Berrent. “Ma, quando
controlli e ci sono migliaia di risposte in merito, realizzi che sei sulla buona strada”.
Forse, o forse no.
Ho chiesto spiegazioni a Berrent riguardo la sua frase: “non c’è nulla come un caso lieve di covid”.
Cosa dire dei milioni di persone che, essendosi a un certo punto infettate, risultano ora stare bene? Le ho
detto di aver avuto in cura persone completamente guarite. Di sicuro anche lei ne conosce.
“È vero”, ha risposto. “Ma abbiamo visto che il covid può agire come una bomba a orologeria, e che può
esplodere da un momento all’altro, in qualsiasi parte del corpo”.
La sovradiagnosi da long covid può dar vita a una serie a sé stante di rischi. Un secolo fa, i dottori
diagnosticavano regolarmente l’“idropisia”, termine generico per indicare una patologia in cui un eccesso
di liquidi causa rigonfiamenti nel corpo. Conosciuta ora come edema, tali rigonfiamenti sono tra le
patologie più comuni che incontro in quanto medico. Ma il modo in cui me ne occupo dipende da cosa lo
sta causando. Il rigonfiamento riflette un problema al cuore, al fegato, o ai reni? Si tratta di una carenza
nutrizionale, o di un cancro esteso? A volte, l’edema richiede un trattamento semplice, come un frullato di
proteine; altre volte, la terapia giusta potrebbe essere un intervento a cuore aperto. Per alcuni sintomi, una
diagnosi di long covid potrebbe nascondere più di quanto riveli.
Prasad mi ha detto che, secondo la sua esperienza, sta diventando sempre più difficile fare domande
basilari sulle origini e sulla gravità del long covid. Suggerire che potrebbero essere implicati fattori
psicologici – o che i sintomi persistenti non siano specifici del virus – spesso solleva accuse di sviamento.
“Sembra di camminare sulle uova”, ha detto. Diversi, recenti studi hanno scoperto che molte persone che
riportano sintomi da long covid non hanno anticorpi contro il coronavirus. (Sebbene i livelli di anticorpi
possano scendere col tempo, la maggior parte delle persone che hanno avuto l’infezione continua ad avere
anticorpi per mesi.) Molti attivisti in difesa di pazienti con long covid, inclusa Berrent, insistono col dire
che la sindrome deve essere considerata un disturbo fisiologico, dipendente dal coronavirus. Ma la malattia
mentale è comunque una malattia; a modo loro, stanno decretando quale sofferenza conta, e quale no.
A prescindere da ciò che mostrano i dati, ha detto Prasad, abbiamo bisogno di “riconoscere la sofferenza
delle persone. Quando qualcuno sente qualcosa nel proprio corpo, quel “qualcosa” esiste – sia o meno
correlato al covid. La gente impiega moltissime energie mentali chiedendosi se si tratti di long covid
oppure no. Ma, in sostanza, la professione del medico ha a che fare con la compassione. Come dottori,
se i pazienti stanno soffrendo abbiamo il dovere di capire in che modo aiutarli”.
All’inizio dell’estate, ho partecipato a un summit virtuale sulla difesa del paziente tenuto dai Covid
Survivors for Change (C.S.F.C.), un’organizzazione fondata da Chris Kocher, avvocato del Queens. Circa
duecento persone si sono riunite per un corso intensivo sulla difesa del paziente; i punti all’ordine del
giorno includevano dibattiti sui vaccini e l’organizzazione di marce politiche. Kocher parlava da una stanza
poco illuminata, e ha aperto la sessione accendendo una candela. Dietro di lui, su un muro beige, c’era una
bacheca in cui campeggiavano adesivi e braccialetti a supporto di varie cause. Ha descritto così uno degli
obiettivi della difesa dei pazienti affetti da covid: “Onorare lo strazio che tutti voi avete provato, ma anche
costruire qualcosa di inclusivo, resiliente, pieno di speranza”.
Prima di fondare il C.S.F.C., Kocher, che ha prestato servizio come consulente speciale presso l’ex-sindaco
Micheal Bloomberg, ha gestito l’Everytown Survivor Network, sezione di quartiere dell’ Everytown for
Gun Safety – ossia il più ampio gruppo di prevenzione della violenza da armi da fuoco del paese. Lo scorso
anno, con i suoi amici, conoscenti e colleghi toccati dalla pandemia, ha deciso di dedicarsi alla difesa dei
pazienti affetti da covid. Si è unito a gruppi Facebook e ad altri forum online per pazienti e famiglie.
“C’erano così tante somiglianze tra il covid e la violenza da armi da fuoco”, mi ha detto Kocher. “La
perdita improvvisa di persone care, famiglie che non hanno potuto essere loro vicino negli ultimi istanti,
questa mancanza completa di una chiusura, di un addio”.
Al summit, una donna di nome Kim ha affermato che parlare con persone che non hanno dovuto lottare con
il long covid l’ha fatta sentire “insignificante, nella mia esperienza, perché la loro normalità sembra contare
di più delle nostre perdite. È davvero frustrante”. Un uomo, Ed, ha riportato che “le persone pensano che il
covid sia acqua passata e che sia tempo di andare oltre”. C.S.F.C. sta sostenendo circa una dozzina di
proposte politiche, compreso un supporto economico alle famiglie colpite dal covid; una strategia a livello
nazionale per l’elaborazione del lutto e per la salute mentale; il rimborso delle spese funebri per le vittime
di covid; il diritto esteso di congedo retribuito, assicurazione per la disabilità, condono del prestito e
indennizzo lavorativo per i portatori a lungo termine di covid.
I primi di agosto, i C.S.F.C. sono passati dalla formazione virtuale alle dimostrazioni in presenza.
Ho partecipato a un marcia dei sopravvissuti a New York City, annunciata da Kocher come “una delle
giornate più partecipate, a livello nazionale, di consapevolezza e azione al fianco dei sopravvissuti al
covid”. C.S.F.C. ha supportato l’organizzazione di circa trenta marche in venti stati. Più di una dozzina di
edifici in tutto il paese, oltre alle cascate del Niagara, sono state illuminate di giallo, il colore dei
sopravvissuti al covid.
Il nostro obiettivo era di fare 615.000 passi – uno per ogni americano morto a causa del virus. Güthe e
Berrent sarebbero intervenuti durante l’evento finale: eravamo d’accordo per incontrarci prima e
partecipare insieme alla marcia.
Ho incontrato Berrent nella hall di un hotel, indossando una mascherina chirurgica; ha insistito perché
prendessi una delle sue FFP2. (Lei e Güthe portavano entrambi due mascherine: una FFP2 bianca e sopra
una di stoffa nera, su cui era disegnato il logo dei Survivor Corps.)
Ci siamo stretti in un taxi e abbiamo abbassato i finestrini. Ho chiesto a Berrent cosa pensasse
dell’annuncio del sindaco Bill de Blasio, ossia che a New York City sarebbe stato necessario esibire il
certificato di vaccinazione per mangiare nei locali al chiuso, andare in palestra e assistere agli spettacoli di
Broadway. “Stai scherzando? Io vorrei un mandato federale [l’equivalente di un mandato d’arresto, o
perquisizione, n.d.t.]”, ha risposto. Il modo per far vaccinare gli americani, mi ha detto, sarebbe
“spaventarli parlandogli del long covid. Nessun venticinquenne pensa di finire intubato. Ma tu digli:
‘soffrirai di disfunziole erettile, ti cadranno i denti, non andrai più in palestra’. Si vaccinerebbe e
indosserebbe due mascherine, non una. Capisci?”.
Quando siamo arrivati al lato est del Cadman Plaza Park, ai piedi del ponte di Brooklyn, il sole splendeva
allegramente. Centinaia di persone, quasi tutte vestite di giallo, si erano riunite. Molti avevano cartelli al
collo con le foto dei propri cari scomparsi e le date in cui erano morti. Nonostante ciò, l’atmosfera era
sorprendentemente festosa – più un incontro di football che una commemorazione. Un dj si era sistemato al
centro del parco, e gli altoparlanti mandavano musica a tutto volume: i Chainsmokers, Baby Bash, Kool &
the Gang. Una donna aveva un tutù giallo; un uomo portava una parrucca gialla fosforescente. Qualcuno
ballava. Ognuno, quasi, di quelli che potevo vedere indossava la mascherina.
Berrent ha salutato i partecipanti alla marcia come il sindaco molto amato di una piccola città.
“Mi sento come se ti dovessi la vita”, le ha detto un uomo. All’inizio di quest’anno, lui e la moglie si sono
ammalati di covid, e così i tre figli piccoli. I genitori della moglie erano morti entrambi a causa del virus.
“Quando ci siamo ammalati, il dottore ci ha detto: ‘Ecco tre Motrin, prendeteli e tornate a casa’”, ha
raccontato l’uomo. Sentendosi abbandonati, si sono rivolti alla pagina Facebook di Berrent. Lì hanno
trovato una comunità, e sono venuti a conoscenza di diversi rimedi non provati, ma usati da molti: zinco,
magnesio, aspirina, tè nero. La moglie ha descritto poi la sua frustrazione nei confronti
dell’amministrazione Biden, la quale, ha detto, ha dato molta enfasi ai vaccini mentre “non diceva alle
persone come prendersi cura di sé quando contraevano il covid. Abbiamo guardato le notizie per tutto
l’anno e non abbiamo imparato nulla. La tua pagina Facebook ci ha cambiato la vita”.
Una donna con un fiore giallo nei capelli si è fatta avanti. Portava un cartello con la fotografia di sua
madre, e ha detto a Berrent come si fosse sentita sopraffatta dalla sua diagnosi di covid, ad aprile dell’anno
scorso. Isolata in casa, impossibilitata a vedere sua madre di persona, la donna aveva visitato il gruppo
Facebook di Berrent. “C’erano più informazioni in quel gruppo che in ogni altro posto”, ha detto. “Dicevo
all’ospedale, ‘Dobbiamo fare questo, dobbiamo fare quello’. Loro mi dicevano, ‘Non facciamo queste cose,
qui’”. Alla fine, la madre della donna è morta. “Le persone sulla tua pagina sono state incredibilmente di
supporto”, ha detto. “Seicento estranei sulla tua pagina, che pregavano per la mamma. La potenza di un
gesto simile è incommensurabile”.
La marcia lungo il ponte ha avuto inizio. Berrent ha ripreso in diretta l’evento con il cellulare, fermandosi
per qualche selfie. “Sono qui a marciare per ognuno e per tutti voi”, ha detto alla telecamera. Le macchine
suonavano il clacson in supporto; i ciclisti ci davano il cinque, sfrecciandoci vicino. Mentre camminavo – il
sudore che colava sulle tempie, il profilo di Manhattan di fronte – mi sono chiesto cosa ne sarebbe stato di
questo movimento.
Durante la pandemia, l’America è sembrata spesso divisa in due tribù: una che ignora gli scienziati e l’altra
che invece li ascolta.

   Ora il long covid ha dato vita a un terzo gruppo: persone che
   prendono ogni precauzione e che al tempo stesso sono in aperta
   opposizione con il sistema scientifico, diffidenti riguardo le sue
   motivazioni, approcci e capacità.
Se il movimento dei sopravvissuti al covid non abbraccia un approccio razionale alla propria
sofferenza, cadrà vittima della cattiva informazione.
Ma, dopo una pandemia ideologicamente polarizzata, i sopravvissuti potrebbero ora essere ideologici a loro
volta. Un’ideologia non lascia spazio alle sfumature finché non rimangono solo sostenitori e oppositori, chi
crede e chi non crede. Il dogma oscura il dato; la causa sbaraglia la verità. Quando lo scetticismo diventa
un tabù, il progresso avanza a fatica.
Poco dopo mezzogiorno, ci siamo avvicinati alla City Hall. Su un palchetto in mezzo alla strada, Kocher ha
introdotto alcuni di coloro che avrebbero parlato: un veterano dell’areonautica militare il cui padre veterano
era morto di covid; una ragazza di quindici anni che aveva perso il nonno a causa del virus. Al mio fianco,
Berrent ha preso un paio di tacchi neri dalla sua borsa. Quando è stato il suo momento di parlare, si è
avvicinata al leggio e si è tolta le mascherine. “Rappresentiamo circa 135 milioni di americani
sopravvissuti al covid, ma che sono lontati dall’essere guariti”, ha detto. “Il covid è stato, e continua a
essere, la più grande guerra della nostra generazione. Come americani, non lasciamo i nostri compagni da
soli sul campo di battaglia. Non è questo che siamo, come popolo”.
Berrent è scesa dal palco, e un altro oratore è salito. Su una panchina lì vicino, con il suo cellulare, mi ha
letto qualche commento riconoscente che i membri dei Survivor Corps avevano lasciato sulla pagina del
gruppo, in risposta alla sua live-stream. Poco dopo mi sono congedato, ho chiamato un taxi e mi sono
diretto a casa.
Il taxi ha girato verso est, in direzione di un ospedale del centro in cui qualche volta presto servizio. Ho
pensato a quegli ambulatori, alle sale conferenze, ai laboratori, e a tutte le sfide future. Il dolore di chi è
sopravvissuto al covid è reale e, in alcuni casi, crescente. E ancora ci vorranno anni di ricerca scrupolosa
per conoscerlo fino in fondo.
Eppure, mi sento come se fossi caduto anch’io nel limbo, assieme ai sopravvissuti, tra scienza e difesa,
dottori e pazienti, dati e dimostrazioni. Avverto un senso di disperazione per quelli che ho appena lasciato e
un’affinità con quelli verso cui sto viaggiando: medici e ricercatori che hanno dedicato la loro carriera,
seppur in maniera imperfetta, ad aiutare i pazienti. Mi sono chiesto cosa avrebbe comportato attraversare il
limbo. Ho sperato che, guardandolo, ci saremmo accorti che è lo stesso ponte, quello su cui dobbiamo
camminare.
[1] “Organizzazione internazionale ad azione diretta, impegnata a richiamare l’attenzione sulle vite dei
malati di AIDS e sulla relativa e possibile pandemia, per condurre a legislazioni, ricerche e trattamenti
medici che portino alla fine della malattia, mitigando la perdita vite e salute umane”.

FONTI

«New Yorker» – articolo del 20 settembre 2021

Diana Berrent – profilo Twitter

The New York Post — rubrica quotidiana, Diana Berrent

Survivor Corps – pagina Facebook

C.D.C. – sito ufficiale

N.I.H. – sito ufficiale

Survivor Corps – sito ufficiale

Act Up – sito ufficiale

N.I.A.I.D. – sito ufficiale

Anthony Fauci – pagina Wikipedia

Sindrome da stanchezza cronica – pagina Wikipedia

Francis Collins – sito ufficiale N.I.H.

N.A.S. – sito ufficiale

Medaglia Presidenziale della Libertà – pagina Wikipedia

Micheal Joyner – sito ufficiale Mayo Clinic

Kavita Patel – sito ufficiale Brookings Institution

David Shulkin – pagina Wikipedia

Veterans Affairs – sito ufficiale

Cittadini scienziati – pagina Wikipedia
Deadline – sito ufficiale

Adam Gaffney – sito ufficiale P.N.H.P. (medici per un programma nazionale di sanità pubblica)

The Wall Street Journal – articolo di Jeremy Devine

Long Covid Alliance – sito ufficiale

Sanità Informazione – articolo sulla “nebbia cerebrale”

Atto dei Portatori di long covid

Tachicardia posturale ortostatica – pagina Wikipedia

Vinay Prasad – sito ufficiale

C.S.F.C. – sito ufficiale

Chris Kocher – profilo Twitter

Everytown for Gun Safety – sito ufficiale

TAG: Covid-19, salute, long covid, medicina

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