L'IMMIGRAZIONE ITALIANA, TRA REALTA' E RAPPRESENTAZIONE
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L'IMMIGRAZIONE ITALIANA, TRA REALTA' E RAPPRESENTAZIONE Un mondo globalizzato, un mondo di migranti 1 Dei sei miliardi e mezzo di persone che popolano il pianeta, solo 960 milioni risiedono nei paesi a sviluppo avanzato. Vi sono in India 35 città con più di un milione di abitanti e altre 45 in Cina, delle quali gli occidentali difficilmente conoscono il nome. Anche di questa popolazione lontana e dei suoi bisogni la mobilità è, a suo modo, un'espressione. Un miliardo e 400 milioni di persone vivono con meno di due dollari al giorno e 192 milioni sono i disoccupati. Solo in Cina sono 400 milioni gli abitanti al di sotto della soglia di povertà. Dividendo la ricchezza prodotta per il numero degli abitanti, ogni persona dovrebbe ricevere annualmente 9250 dollari, ma le cose non stanno in questi termini: si va dai 5200 dollari spettanti ai paesi i via di sviluppo ai 32.600 dollari dei paesi a sviluppo avanzato, dai 1100 dell'Africa Subsahariana ai 27.500 dollari dell'Unione Europea e ai 40.750 dollari del Nord America. Di queste differenze i flussi migratori sono un regolatore, anche se non l'unico. Questi dati di contesto aiutano a capire perchè nel mondo vi siano 191 milioni di immigrati, di cui 20 milioni richiedenti asilo o rifugiati, ai quali si aggiungono – secondo stime – 30-40 milioni in situazione irregolare e 600-800mila persone vittime della tratta. Il flusso migratorio diventerà ancora più intenso quando i migranti delle aree a maggiore pressione demografica disporranno di maggiori mezzi per spostarsi e sottrarsi così all'attuale stato di disperazione. La necessità di promuovere maggiormente lo sviluppo in loco, che costituisce un investimento a lungo termine, lascia in essere la necessità dei flussi migratori, che rappresentano una valvola di sfogo indispensabile in un contesto di globalizzazione. Gli Stati Uniti sono il primo protagonista in questo scenario non solo sul piano produttivo ma anche come area di massima immigrazione. Anche la Cina è tra i principali protagonisti del nuovo mondo globalizzato, con la diffusione dei suoi prodotti e con una collettività di 34 milioni di persone all'estero che assicurano un gettito di rimesse di 21,3 miliardi di dollari all'anno. L'Italia si inserisce in tale contesto non solo per l'esportazione dei suoi prodotti, ma anche per il fatto che all'estero vivono più di 3 milioni di cittadini italiani e più di 60 milioni di oriundi e anche per essere diventata ormai da decenni un'area di grande immigrazione con un ritmo d'aumento sensibilmente sostenuto. 1Il paragrafo è tratto dalla presentazione del XVI Rapporto Caritas/Migrantes sull'immigrazione disponibile sul sito www.caritasroma.it
1. L'immigrazione in Italia La crescita costante della popolazione straniera nel nostro Paese conferma il trend registrato nell'ultimo quindicennio: la presenza immigrata, dopo una prima consistente compersa agli inizi degli anni Novanta, continua a mostrare tassi di aumento elevati, evidenziando come l'Italia, al pari di altri paesi europei, sia divenuta un'importante meta dei percorsi migratori internazionali. A sua volta la presenza straniera in Italia ha indotto un processo di cambiamento demografico che comporta nuove sfide relative alle possibili forme di sperimentazione della convivenza interculturale, la cui difficoltà principale consiste nel delicato e necessario equilibrio tra il diritto alla differenza e il dovere all'integrazione. Per meglio comprendere le caratteristiche di questa presenza, è necessario prendere in considerazione i dati forniti dal Dossier Statistico 2006 sull'immigrazione presentato dalla Caritas, il documento più attendibile e completo sulle cifre del fenomeno in Italia. Il numero degli immigrati regolari in Italia ha raggiunto quota 3.035.000 alla fine del 2005, raggiungendo quasi quello degli emigrati italiani nel mondo e collocando il Belpaese accanto ai grandi paesi europei di immigrazione: Germania (7.287.980), Spagna (3.371.394), Francia (3.263.186) e Gran Bretagna (2.857.000). I soggiornanti dei paesi dell'Est Europa sono circa un milione; la comunità straniera residente più numerosa è quella romena, con 270.845 presenze registrate, seguita da Albania, Marocco e Ucraina. L'incidenza degli immigrati sulla popolazione residente è del 5,2% con un immigrato ogni 19 residenti. Le province con il più alto tasso di incidenza sulla popolazione straniera sono Prato (12,6%), Brescia (10,2%), Roma (9,5%), Pordenone (9,4%), Reggio Emilia (9,3%), Treviso (8,9%), Firenze (8,7%), Modena (8,6%), Macerata e Trieste (8,1%). La Lombardia accoglie da sola quasi un quarto di tutta la popolazione straniera. La maggioranza dei permessi di soggiorno è a carattere stabile, per cui più di 9 immigrati su 10 sono presenti per lavoro (62,6%) e per famiglia (29,3%), ai quali si aggiungono altri motivi anch'essi connessi con una certa stabilità di soggiorno (motivi religiosi, residenza elettiva, corsi pluriennali di studio). La differenza dei luoghi di origine determina la co-presenza di molte fedi: cristiani (49,1%), musulmani (33,2%), religioni orientali (4,4%). Sono un milione e mezzo i cristiani provenienti da altri paesi, con cattolici e ortodossi che quasi si equivalgono (circa 660.000 unità ciascuno). Vi sono poi un milione di musulmani e tra i 50 e i 100mila induisti e buddisti, oltre a 350.000 non credenti o non classificabili. In Italia l'immigrazione diventerà sempre di più l'unico fattore di crescita demografica in grado di
porre rimedio alla prevalenza dei decessi sulle nascite; la fecondità, infatti, risulta più alta tra le donne straniere, in media con 2,4 figli (4 per le marocchine, 1,7 per le polacche e le romene e solo l'1,2 per le donne italiane). I cittadini stranieri, dai quali nel 2005 sono nati 52.000 bambini, hanno inciso per il 9,4% sulle nuove nascite. Si riscontra una sostanziale parità tra uomini e donne, le quali, in alcune regioni, come il Lazio e la Campania, sono la maggioranza, per il crescente bisogno della loro presenza nei servizi alla famiglia e alle persone. Nel 2005 sono stati assunti per la prima volta nel mercato occupazionale italiano 173.000 nuovi lavoratori immigrati; le assunzioni sono avvenute per il 9,2% in agricoltura, per il 27,4% nell'industria e per la restante quota nei servizi. I settori prevalenti sono l'informatica e i servizi alle imprese (16,1%), le costruzioni (13,6%), gli alberghi e i ristoranti (11,9%), le attività svolte presso le famiglie (10,2%) e l'agricoltura (9,2%). Gli immigrati hanno un soddisfacente livello di istruzione, comparativamente più alto rispetto agli italiani ma, come avviene in tutta Europa, guadagnano meno degli italiani.
L’immaginario collettivo 2.1 Gli stereotipi: le origini Come la psicologia cognitiva ha da tempo chiarito, l’intero processo di percezione umana è governato da idee preconcette, schemi precostituiti che consentono di categorizzare le persone in gruppi e codificare il loro comportamento in maniera automatica. I mass media, spesso in maniera inconsapevole, veicolano e riproducono stereotipi e luoghi comuni che hanno facile presa tra il pubblico proprio perché ne confermano la visione del mondo. In uso originariamente in campo tipografico, il concetto di stereotipo è stato introdotto nelle scienze sociali da Walter Lippmann per definire le conoscenze fisse e impermeabili che organizzano le nostre rappresentazioni delle categorie sociali. Nel suo famoso volume L’Opinione Pubblica (1922), il giornalista statunitense sostiene che la realtà, a causa della sua estrema complessità, non può essere conosciuta in quanto tale, ma solo attraverso le immagini mentali o rappresentazioni che l’uomo se ne crea; queste sono basate su delle semplificazioni (gli stereotipi, appunto), che consistono in forme di organizzazione preventiva dei dati, e che dunque influenzano abbondantemente la raccolta e la valutazione dei dati stessi. L’uso di tali semplificazioni risulta funzionale dunque alla gestione di un’enorme quantità di informazione, costituendo un aiuto per un sistema di elaborazione la cui capacità è, per definizione, limitata. Lippmann descrive inoltre le funzioni che gli stereotipi svolgono nel garantire all’individuo una visione del mondo e degli eventi coerente e in grado di farlo sentire dalla parte del giusto. Lo stereotipo costituisce dunque una rappresentazione ordinata e più o meno consistente del mondo, alla quale si sono adattati i nostri modi di essere, i nostri gusti, capacità, comodità e speranze. Possono non rappresentare un’immagine completa del mondo, ma sono l’immagine di un mondo possibile al quale ci siamo adattati. In quel mondo le cose e le persone hanno il loro posto noto, e fanno certe cose che sono attese. In esso ci troviamo a casa (Lippmann, 1922, trad. it. 1999, p. 95) Da questo presupposto prende le mosse la prospettiva psicodinamica nello studio degli stereotipi e delle loro basi motivazionali. Gli autori che si richiamano a questa prospettiva (cfr. Adorno et al., 1950) avanzano l’ipotesi che, mediante i meccanismi di difesa, come la proiezione2 o la 2Il termine proiezione viene usato con accezioni molto generali in psicologia. Esso indica il processo mediante il quale un evento psicologico viene spostato dal soggetto al mondo esterno; in senso più strettamente psicoanalitico si tratta di una operazione attraverso cui il soggetto espelle da sé (pro-iectum) e identifica nell’altro da sé, persona o sistema sociale, delle qualità, dei sentimenti e dei desideri, che egli non riconosce come propri o che rifiuta.
dislocazione3, gli attributi negativi del Sé o del gruppo di appartenenza vengano percepiti come caratteristici di qualche altra persona o di qualche altro gruppo esterno. E’proprio mediante questa percezione del gruppo esterno in termini negativi che il proprio diventa invece “migliore”. Ma nella visione di Lippmann gli stereotipi hanno anche altre finalità; in quanto prodotti della cultura e del patrimonio di idee del gruppo sono dei veicoli per creare omogeneità di valori e di credenze. Da questo punto di vista acquistano notevole importanza i mezzi di comunicazione, quali agenti in grado di formare, trasmettere e rafforzare gli stereotipi. Infine, nel suo contributo, Lippmann anticipa quella che sarà la prospettiva cognitiva nello studio degli stereotipi: essi vengono considerati sistemi di credenze a proposito degli attributi associati ai vari gruppi sociali. Si tratta di un approccio che sottolinea l’importanza dei processi di categorizzazione sia nel momento della formazione delle concezioni a proposito di un gruppo, sia nella successiva fase in cui vengono percepite somiglianze e differenze tra i membri all’interno della categoria sociale così individuata (Arcuri - Cadinu, 1998). 2.2 Gli effetti della categorizzazione: basi motivazionali e cognitive Gli studi sulla categorizzazione sociale prendono corpo dai lavori sperimentali di Tajfel sul rapporto tra valore e grandezza fisica, nei quali è riuscito a cogliere una continuità tra problemi percettivi e problemi sociali. Tajfel e Wilkes (1963), continuando i lavori iniziati da Bruner (1957) e dal movimento del New Look sulla percezione, dimostrano come la categorizzazione in classi di stimoli fisici produca una sovrastima delle somiglianze all’interno di una stessa categoria (somiglianza intracategoriale) e un’accentuazione delle differenze tra categorie diverse (differenza intercategoriale). I processi di categorizzazione facilitano la produzione di giudizi e opinioni, perché se una persona viene riconosciuta come appartenente a una qualsiasi categoria o classe, si impossessa automaticamente delle caratteristiche ritenute comuni agli oggetti di quella medesima categoria; si verifica la cosiddetta categorizzazione sociale. L’appartenenza etnica si presta ai meccanismi di categorizzazione, favorendo la formazione di etichette sociali, capaci di ricondurre in maniera immediata uno specifico evento a una specifica categoria, nei confronti della quale si è preventivamente formata una certa costellazione di pensieri e atteggiamenti che influenzano il giudizio che viene prodotto. La categorizzazione sociale è, dunque, secondo Tajfel “un processo che consiste nel raggruppare oggetti o eventi sociali in gruppi equivalenti dal punto di vista delle azioni, delle intenzioni e dei 3 Si parla di dislocazione quando un impulso aggressivo viene indirizzato verso un capro espiatorio
sistemi di credenze di un individuo” (1981, trad. it. 1985, p. 315). Un’implicazione importante della categorizzazione sociale sulle dinamiche di gruppo di appartenenza (ingroup) e gruppo esterno (outgroup) è il cosiddetto “effetto dell’omogeneità dell’outgroup”. Se il proprio gruppo di appartenenza viene generalmente percepito in maniera piuttosto differenziata al suo interno, esiste invece la tendenza ad enfatizzare il grado di omogeneità dell’outgroup ignorandone la diversità interna. Ciò è legato non solo alla scarsa familiarità con il gruppo esterno, ma anche alle diverse strategie cognitive utilizzate per organizzare informazioni su ingroup e outgroup. Infatti, mentre quelle sull’ingroup vengono organizzate attorno a singoli individui o sottogruppi di persone, le informazioni riguardanti l’outgroup si formano a partire da categorie più generali. 2.3 Gli effetti della categorizzazione che portano al favoritismo per il proprio gruppo di appartenenza Gli stereotipi non sono dei sistemi di rappresentazione “neutrali”; essi normalmente veicolano in maniera implicita sistemi di valore, gerarchie di criteri, preferenze e giudizi tendenziosi. Nel momento in cui la realtà si articola in due gruppi contrapposti, quello cui il soggetto appartiene e quello che si colloca all’esterno, si creano le condizioni per il manifestarsi di un’asimmetria valutativa. In questo senso, il processo di categorizzazione, nella misura in cui rende visibile e psicologicamente significativa questa articolazione della realtà sociale entro cui l’individuo si colloca, favorisce i fenomeni di favoritismo nei confronti dell’ingroup e, in ultima istanza, di discriminazione nei confronti dell’outgroup. Il ragionamento di Tajfel collegava questi effetti al semplice crearsi del contesto di categorizzazione e non prevedeva che fosse necessario l’emergere di un confronto competitivo tra i membri dei due gruppi così individuati (Arcuri - Cadinu, 1998). Tajfel (1981) si propone di dimostrare che il puro contesto di categorizzazione è comunque sufficiente perché quest’ultimo emetta dei giudizi e pianifichi dei comportamenti che realizzano il cosiddetto ingroup bias. A tale scopo Tajfel e collaboratori si servono di un modello sperimentale noto come “paradigma dei gruppi minimi”, dal quale risulta che i soggetti tendevano a favorire in modo sistematico il proprio gruppo a discapito dell’outgroup. La tendenza ad assegnare una connotazione negativa all’outgroup viene attribuita principalmente al cosiddetto effetto di correlazione illusoria, uno dei più noti errori di inferenza legati agli stereotipi. Esso consiste nel percepire come più frequente di quanto non sia nella realtà la presentazione associata (e quindi la possibile connessione causale) sia di fatti che ci si aspetta di vedere insieme, sia di fatti che sono per motivi diversi particolarmente salienti. L’aspettativa preventiva sarebbe
costituita dallo stereotipo preesistente: se ci si aspetta di vedere tratti negativi legati agli immigrati, si tenderà a percepire tale correlazione come più frequente di quanto non sia nella realtà; è questo il modo in cui lo stereotipo favorisce un errore percettivo-inferenziale. Le persone, infatti, tendono a percepire gli individui appartenenti a dei gruppi sociali in modo coerente con le immagini stereotipiche da loro possedute, ignorando le informazioni incongruenti con tali rappresentazioni. Accanto a degli indubbi vantaggi nei termini di economizzazione delle risorse cognitive, quindi, lo stereotipo possiede anche effetti collaterali: quello, in particolare, di rendere più povera, grossolana e semplificata l’impressione che ci formiamo degli altri. Causa di distorsioni di giudizio sistematiche, gli stereotipi possono influenzare le stesse interazioni sociali, favorendo la modificazione del comportamento dei soggetti. 2.4 Il ruolo del linguaggio nella trasmissione degli stereotipi Gli stereotipi, che non si limitano dunque a costruire delle forme di rappresentazione che risiedono nella mente delle persone, ma servono anche per trasmettere contenuti culturali e conoscenze condivise, hanno bisogno di una fondamentale forma di mediazione, ossia quella linguistica. E’ appunto attraverso i discorsi quotidiani, i giornali, i libri di testo, la televisione, i messaggi pubblicitari, che in maniera sottile ma costante avviene il passaggio di queste forme di conoscenza e di interpretazione del mondo. Innanzitutto, il linguaggio ha la funzione di garantire la trasmissione culturale dei contenuti associati agli stereotipi. Queste forme di rappresentazione si cristallizzano in una terminologia dal significato pregnante e di presa immediata, al punto che l’uso del vocabolario etnico-razziale per descrivere persone o comportamenti può diventare inopportuno e offensivo, senza che il comunicante ne sia consapevole. Numerose ricerche empiriche sul fenomeno hanno dimostrato come i processi di attivazione semantica indotti dalla comparsa di un termine linguistico che si riferisce a una categoria sociale hanno importanti conseguenze sul modo in cui il comunicante è in grado di elaborare le informazioni associate in termini stereotipici a quell’etichetta. I mezzi di comunicazione di massa sono, da questo punto di vista, un potente veicolo di trasmissione degli stereotipi.
2.4.1 Il discorso razzista Che siano interpretati in termini di razza, di religione, di cultura o di classe sociale, esistono sempre dei sentimenti di ostilità collettiva tra i gruppi già insediati e i nuovi arrivati. L'impiego del termine “extracomunitari”, praticamente sconosciuto nelle altre lingue europee, traduce una volontà di marcare i confini e tenere a distanza gli immigrati, certamente utili e forse necessari, ma anche percepiti come ingombranti e indesiderabili. Il discorso razzista, prodotto della visione pregiudiziale dell'altro, pone l'accento sulle differenze e si stabilisce su una gerarchia del genere umano. Per avere credibilità, esso ruota attorno a temi come la preferenza (nazionale, culturale o sociale) e la distinzione (di usanze, di costumi e di destini). La differenza, in virtù del proprio potere destabilizzante, costituisce il cardine del razzismo; il diverso fa paura e per questo suscita aggressività. La differenza, negazione dell'ordine stabilito, incrina le proprie certezze identitarie e porta con sé il rischio di dubitatare di se stessi. Per rassicurarsi, si attribuiscono all'altro valori negativi; affinchè il mio ordine sia buono, è necessario che il suo sia cattivo. Il razzismo è comodo.
Immigrazione e mass media 3.1 La rappresentazione mediale degli immigrati in Italia: tra allarmismo e stereotipi Le questioni legate all'immigrazione sono ormai sulla bocca di tutti. Si tratta non solo di un tema da “prima pagina”, ma di un issue quasi usurata dalle tante ricerche scientifiche e iniziative correnti che negli ultimi anni, in ambito internazionale e anche in Italia, si sono proposte di esplorare a tutte le latitudini questo territorio emergente dell'esperienza sociale e della convivenza civile. I nostri anni sono protagonisti di una visibilità senza precedenti della figura dei migranti nelle culture urbane e mediali. Rispetto ad altri momenti storici, si deve infatti ai fenomeni di globalizzazione e alla centralità del sistema mediale un effetto determinante nel potenziare l'imponenza – reale e percepita – dei fenomeni migratori, in un gioco serrato di immagini e di reciproche proiezioni tra realtà e rappresentazione, oltre che tra punti di vista spesso antagonisti tesi a confrontarsi nello spazio pubblico. Una dinamica che vede i riflettori della comunicazione costantemente, e spesso impietosamente, puntati sui migranti, fino a farne attori di assoluto primo piano nella quotidiana “messa in scena” della società italiana e del suo cambiamento. L'immigrazione tira infatti in campo non solo una serie molto ampia e spinosa di questioni socio- economiche e politiche, ma anche un fitto intreccio di dinamiche culturali che attengono alla vita quotidiana e alla sfera propriamente micro-sociale: modelli simbolici e di interazione che chiamano direttamente in causa le responsabilità della comunicazione e dei suoi protagonisti. I mezzi di comunicazione, soprattutto quelli generalisti, risultano oggi responsabili di drammatici ritardi nell'aggiornare non solo i propri linguaggi e stili narrativi, ma lo stesso punto di vista rivolto su fenomeni e realtà il cui background è spesso poco noto al pubblico. In questo contesto sono le regole di genere proprie dell'informazione a farne il formato più esposto ai rischi di semplificazione e pura “ruminazione” di luoghi comuni: soprattutto l'estrema compressione dei tempi redazionali e produttivi tende a favorire, infatti, una copertura in cui è sempre in agguato la tentazione di privilegiare stereotipi, accenti emotivi e scelte pregiudiziali, in una rappresentazione spesso distorta dei fatti e dei protagonisti. Se attribuire unicamente al sistema dei media la responsabilità del modo in cui gli italiani guardano al fenomeno migratorio risulta riduttivo e fuorviante, è vero che i mezzi di comunicazione generalisti considerano i migranti come soggetti destinati a restare indecifrabili e borderline rispetto alle culture autoctone. Ancora una volta, “nuovi barbari” in terra straniera, da sospingere ai confini e ai margini; figure ingombranti, a cui si stenta ancora a riconoscere piena soggettività culturale e cittadinanza della comunicazione. La consapevolezza della rilevanza dei processi culturali e comunicativi nella costruzione dell’immagine pubblica dei migranti si fa sempre più strada fra quanti ritengono importante contrastare attivamente le cause dell’esclusione e della marginalità sociale degli stranieri.
Non a caso, anche in Italia l’immigrazione e la sua rappresentazione mediale sono state oggetto di numerose ricerche empiriche negli ultimi anni; iniziative i cui risultati convergono nel delineare uno scenario ancora piuttostro controverso, perchè dominato da una sconfortante inadeguatezza dei contenuti e dei linguaggi proposti al pubblico 4 . Una delle caratteristiche peculiari della rappresentazione mediale degli stranieri residenti in Italia è legata ai fatti e al genere della cronaca. Il risultato delle ricerche condotte negli ultimi venti anni in Europa e in Italia è nel tempo piuttosto stabile e, pur essendo difficile la comparazione di situazioni e prospettive di analisi talvolta molto differenziate, il quadro complessivo evidenzia “una prevalenza quantitativa di notizie di cronaca nera, ossia relative a episodi di criminalità e violenza, che coinvolgono gli appartenenti a minoranze etniche” (M.Binotto-V.Martino, 2004, p.45). L'unico tratto comune ai risultati delle ricerche quindi vede predominare un'attenzione alle bad news, tipica dei procedimenti giornalistici di selezione che tenderebbero a privilegiare una trattazione routinizzata e appiattita sulla cronaca nera. Questo caso è confermato anche dalle ultime ricerche. Le recenti indagini compiute dal Censis 5 e dall'Osservatorio di Pavia 6 rimandano tuttora ad un trattamento del tema quasi esclusivamente collegabile alla cronaca nera. La ricostruzione di queste analisi conferma che I mezzi di comunicazione di massa forniscono un'interpretazione quasi univoca e, dunque, più che razzista, fortemente stereotipata del soggetto immigrato, dipingendolo talvolta come autore di comportamenti devianti e azioni criminose, altre volte come vittima della sua stessa condizione di disperato in balia di organizzazioni senza scrupoli che sfruttano la sua voglia di rifarsi una vita ovvero vittima di episodi razzisti e di intolleranza (ibidem, p.46). Il risultato di ricerche, tesi di laurea e convegni appare univoco. La presenza nei media appare limitata a fatti di cronaca nera, confermando una stretta contiguità tematica tra devianza e 4Le più importanti ricerche condotte in Italia vedono protagonisti alcuni Dipartimenti delle maggiori Università, tra cui Torino, Genova, Roma. Tra i diversi contributi si rimanda a Del Lago (a cura di ), Lo straniero e il nemico, Costa e Nolan, Genova, 1998 e Non persone. L'esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano, 1999; V. Cotesta, La cittadella assediata. Immigrazione e conflitti etnici in Italia, Editori Riuniti, Roma, 1992 e Sociologia dei conflitti etnici. Razzismo, immigrazione e società multiculturale, Laterza, Roma-Bari, 1999; C. Marletti, Extracomunitari. Dall'immaginario collettivo al vissuto quotidiano del razzismo, Eri Rai-Vqpt, Torino, 1991; M.Binotto e V.Martino (a cura di ), Fuoriluogo. L'immigrazione e i media italiani, Rai-Eri, Pellegrini Editore, Cosenza, 2004. Va inoltre segnalata la ricerca sull'agenzia di stampa Ansa condotta da Maurizio Corte (Stranieri e mass media. Stampa, immigrazione, Pedagogia interculturale, Cedam, Padova, 2002). Si rinvia anche ai dati dell'Osservatorio di Pavia e al rapporto Censis Tuning into Diversity. Immigrati e minoranze etniche nei media (www.censis.it). 5Censis, L'immagine degli immigrati e delle minoranze etniche nei media. Rapporto finale, novembre 2002 6Osservatorio di Pavia, Il tema dell'immigrazione nei telegiornali del prime time (1 gennaio-31 dicembre 2000), “Comunicazione Politica”, n. 1, Franco Angeli, Milano, 2001
immigrazione. Il ruolo svolto dagli stranieri sul tasso di criminalità italiano è oggetto di dibattito; senza dubbio, però, la presenza immigrata nei media sembra limitarsi a questo aspetto. Le condizioni e le ripercussioni sociali, economiche e culturali appaiono persistere sullo sfondo della rappresentazione fornita. Il tono risulta continuamente allarmista o pietistico e la presenza è ridotta a stereotipo. Donne e uomini immigrati appaiono solo come vittime o come carnefici. La realtà dell'immigrazione viene considerata quasi esclusivamente nel contesto di episodi che si collocano nelle cronache criminali e che vengono spesso privati di qualsiasi approfondimento o commento critico sulle cause che vedono protagonosti -nel bene e nel male- cittadini extracomunitari 7 . Anche una ricerca sui dispacci Ansa tra il 1998 e il 2002 conferma una trattazione dominata dalla presenza criminale e clandestina. La visibilità quotidiana degli stranieri viene amplificata: l'immigrato sembra essere solo una persona che passa il suo tempo davanti ai semafori o a chiedere l'elemosina 8 . 3.2 “L'emergenza sbarchi” La ricerca svolta nel 2003 nell'ambito del progetto Etnequal Social Communication, coordinata dal Dipartimento di Sociologia e Comunicazione dell'Università “La Sapienza” di Roma 9 , ha evidenziato come l'immagine degli immigrati appena sbarcati sulle nostre coste e dei soccorritori intenti a rifocillarli rappresenti una delle vere e proprie icone dell'immigrazione nella sua rappresentazione mediatica 10 . Non a caso si tratta di un tema che nella percezione del pubblico televisivo e dei lettori della carta stampata simboleggia in maniera immediata tutta una serie di elementi problematici del fenomeno migratorio, quando addirittura non lo esaurisce. Un elemento più volte sottolineato riguardo al tema degli sbarchi e, più in generale, degli arrivi di immigrati nel nostro paese e il tipo di relativa copertura da parte dei mass media, riguarda l'utilizzo di un frame narrativo costantemente declinato nel senso dell'emergenza. 7Vedi nota 2 8Vedi nota 1 9I risultati della ricerca sono pubblicati nel volume M.Binotto e V.Martino (a cura di ), Fuoriluogo. L'immigrazione e i media italiani, Rai-Eri, Pellegrini Editore, Cosenza, 2004 10M. Bruno, “L'ennesimo sbarco di clandestini. La tematica dell'arrivo nella comunicazione italiana”, in Fuoriluogo (op. cit.)
L'analisi della letteratura di riferimento riguardo all'immagine pubblica dell'immigrato rileva che tale immagine si presenta molto spesso appiattita sulla dimensione degli arrivi, ed è evidente che i discorsi e le immagini sugli sbarchi sono parte rilevante di tale appiattimento (M.Binotto- V.Martino, 2004). In realtà solo una minima parte degli immigrati che giungono nel nostro Paese lo fa via mare. Basti pensare al fatto che negli ultimi anni il maggior numero di stranieri residenti in Italia proviene dall'Europa dell'Est; i dati riportati dal Dossier Statistico 2006 sull'immigrazione presentato dalla Caritas vedono la comunità rumena, con 270.845 presenze registrate nel 2005, come il gruppo più consistente di stranieri residenti nel nostro Paese. Solo al terzo posto la comunità marocchina, componente storica dell'immigrazione italiana. Marco Bruno, nell'ambito della ricerca promossa dal Dipartimento di Sociologia e Comunicazione dell'Università “La Sapienza”, mette in evidenza due conseguenze derivanti dall'appiattimento del discorso mediale sull'immigrazione alla sola dimensione dell'arrivo: • Sovrarappresentare il momento dell'arrivo relega in un cono d'ombra impenetrabile per l'occhio del sistema mediale la storia dell'immigrato e del suo percorso migratorio: nessuna presenza delle cause che lo hanno spinto ad andarsene dal luogo di origine, la povertà, lìinsoddisfazione, a volte la paura e le guerre sono al massimo uno sfondo lontano. Dall'altro lato resta invisibile qualsiasi forma di progettualità nella scelta di migrare. • L'appiattimento sulla dimensione dell'arrivo fa sì che il discorso mediale sull'immigrazione eluda completamente un possibile momento di riflessione sia sulle cause strutturali del fenomeno, sia sulle connessioni che esso presenta con problematiche quali il processo di globalizzazione economica, i conflitti e le crisi politiche internazionali o la crisi economica, demografica e sanitaria di una larga parte del mondo: tutti macrofenomeni di cui, per certi versi, i flussi migratori globali rappresentano solo uno degli aspetti (M.Binotto-V.Martino, 2004). Dalla stessa ricerca è emerso che, dal punto di vista del tono della copertura e della connotazione complessiva dei discorsi sull'immigrazione, la trattazione mediale sembra condividere con la percezione nell'opinione pubblica, ma anche con larga parte del mondo politico, un atteggiamento singolarmente polarizzato intorno a due modalità di rappresentazione che possono essere collegate all'esito dei singoli tentativi di sbarco sulle coste meridionali italiane. L'atteggiamento oscilla senza vie di mezzo tra una rappresentazione allarmistica e fortemente negativa nei confronti dell'invasione dei clandestini e uno sguardo compassionevole, a volte paternalistico, verso “poveretti infreddoliti”, in difficoltà o in pericolo “alla ricerca di un porto amico”.
I termini utilizzati aumentano la caratterizzazione ansiogena: gli sbarchi, infatti, “riprendono dopo alcune settimane di tregua”; il vocabolario si adatta allo “stato di guerra”, siamo sotto assedio. Allo stesso modo gli sbarchi “si susseguono”, i clandestini arrivano “a ondate” [...] (M.Binotto-V. Martino, 2004, p.106). L'analisi del contenuto condotta dalla Fondazione ISMU, nell'ambito del dodicesimo rapporto sulle migrazioni 2006 11 , evidenzia come, nei quotidiani italiani, [...] Rimane appena accennato il tema del lavoro.Raramente vengono presentati il contributo che gli stranieri danno all'economia italiana e i servizi che svolgono [...]. E' poco sottolineato il fatto che i migranti sono e possono essere ancora di più una risorsa per l'Italia e per l'Europa (Fondazione ISMU, 2006, p.99). La terminologia drammatizzata utilizzata dai mass media per descrivere il fenomeno migratorio rinforza l'idea di invasione paventata da buona parte dell'opinione pubblica italiana. La sindrome dell'assedio cresce a dismisura; poco importa se in tutto ciò c'è poco di emergenziale e molto di fisiologico e strutturale, poco importa se il nostro sistema economico riesce ad assorbire, anzi si nutre, della forza lavoro portata da questi flussi. 3.3 Tra realtà e rappresentazione Emerge a questo punto un'evidente contraddizione tra la definizione e l'origine dell'immigrazione e la sua immagine veicolata dai media. Le cause dei flussi internazionali sono molteplici, ma, fra le principali, l'ONU ha individuato “gli squilibri economici internazionali, la povertà e il degrado ambientale” 12 . Sono soprattutto, quindi, fattori di tipo economico i motori propulsivi della scelta migratoria; è la possibilità di trovare un lavoro a spingere gli individui ad emigrare dalla loro terra d'origine 13 . Seppure spesso attraverso vie illegali, gli immigrati arrivano in Italia con la speranza di trovare un lavoro e di regolarizzare la propria posizione. Eppure, nonostante la forte spinta economica, l'immigrato non viene mai considerato come soggetto economico attivo e la sua identità non viene definita in termini lavorativi; egli è considerato 11Cfr. Dodicesimo Rapporto sulle migrazioni ISMU, FrancoAngeli, Milano, 2007. All'interno del testo, sono descritti i risultati di un'analisi del contenuto relativa agli articoli sull'immigrazione pubblicati dai quotidiani Il Corriere della Sera, La Repubblica, Il Giornale e Avvenire nel periodo gennaio-settembre 2006. 12Cfr. il rapporto del Segretario Generale dell'ONU International migration and development presentato il 18 maggio 2006 (www.un.org) 13Secondo i dati del Dossier Statistico 2006 sull'immigrazione presentato dalla Caritas, il 62,6% degli immigrati sono venuti in Italia per motivi di lavoro.
principalmente un problema sociale, di sicurezza e di ordine pubblico, che una risorsa economica. Adottare questo atteggiamento significa chiudere gli occhi di fronte a una realtà innegabile presente ormai nel nostro paese: l'immigrato è un cittadino che produce ricchezza. L'apporto del suo lavoro costituisce una discreta fetta del nostro Pi, circa il 6%, un dato che acquista maggiore importanza se letto in rapporto all'aumento della popolazione immigrata 14 . I lavoratori immigrati stanno esercitando un peso crescente sul mercato lavorativo; gli immigrati incidono per un sesto sul totale delle assunzioni (727.582 su 4.557.871) e rispondono ad un' esigenza demografica particolarmente sentita nel nostro paese, fra i più vecchi al mondo, dove circa il 25 % della popolazione è costituita da ultrasessantenni. Un'inversione della piramide demografica dovuta principalmente al crollo delle nascite registrato negli ultimi decenni, che ha prodotto una netta diminuzione della popolazione in età lavorativa. Al contrario, l'età dell'immigrazione italiana si attesta per il 70% nella fascia tra i 15 e i 44 anni, mentre tra gli italiani l'incidenza è di un terzo inferiore 15 . Appare ovvio, quindi, il bisogno strutturale dei flussi migratori per riempire i gap demografici del nostro paese. In secondo luogo, la presenza di forza lavoro immigrata ha permesso, nell'ultimo decennio, la sopravvivenza o la rivitalizzazione, di interi settori produttivi. Ad esempio, la pesca a Mazara del Vallo, la floricoltura in Liguria, la pastorizia in Abruzzo e nel Lazio; nell'insieme il lavoro immigrato svolge una funzione complementare piuttosto che concorrenziale rispetto a quello svolto dai cittadini italiani. Non soltanto risorse, però, ma anche operatori economici. Gli immigrati, attraverso il flusso internazionale dei loro risparmi, diventano promotori per lo sviluppo. L'invio delle rimesse, infatti, costituisce il secondo flusso monetario mondiale dopo il petrolio, rendendo così l'immigrazione non un'alternativa allo sviluppo ma essa stessa un fattore di sviluppo. Secondo i dati fornito dal Rapporto Caritas/Migrantes, le rimesse dei cittadini stranieri in Italia sono cresciute del 15,8% nel 2005 rispetto all'anno precedente e hanno quasi raggiunto i 2,5 miliardi di euro. Gli immigrati, quindi, possono esere definiti delle vere e proprie imprese migranti che, in virtù dei loro spostamenti, rientrano perfettamente nelle logiche transnazionali dettate dalla globalizzazione, di cui restano però un attore non protagonista. Eppure il migrante rappresenta un soggetto economico sia per il paese di accoglienza che per quello di origine: è un attore transnazionale a tutti gli effetti che produce sviluppo. Inoltre, diventano anche una specie di ammortizzatore sociale interno, sostituendosi ad un welfare spesso assente, poiché sono destinate soprattutto a persone in situazioni di disagio economico. In questo modo, i migranti finanziano sia le società globali che si 14 Secondo il rapporto del Dipartimento affari economici e sociali delle Nazioni Unite pubblicato nell'aprile 2007, nel 2050 l'Italia sarà il quarto paese al mondo meta dei principali flussi migratori dopo Usa, Canada e Germania. 15Cfr. Dossier Statistico Immigrazione 2006. Secondo le previsioni Eurostat/Inail, i giovani lavoratori italiani (15-44 anni) diminuiranno di 1.350.000 unità nel 2010 e di 3.209.000 nel 2020, mentre quelli più anziani (45-64 anni) aumenteranno di 910.000 unità nel 2010 e di 1.573.000 unità nel 2020.
occupano del trasferimento di denaro 16 , sia l'economia interna del proprio paese di origine. Il ruolo positivo dei migranti, oltre alla localizzazione e allo sfruttamento delle opportunità di scambio di beni e servizi, si estende alla funzione che rivestono come veicolo di conoscenze ed innovazioni tecnologiche dai paesi avanzati a quelli poveri. I migranti, in particolare coloro che tornano nei paesi d'origine, rappresentano per molti paesi l'unico canale d'accesso allo stock di conoscenza prodotto dalle economie avanzate. Conoscere il fenomeno: semplificare senza ridurre Il lavoro e le dinamiche ad esso connesse sono certamente aspetti preminenti nell'immigrazione e una loro corretta conoscenza e rappresentazione può favorirne la comprensione, ma non esaurisce la realtà del fenomeno migratorio. Il migrante che arriva in Italia non è solo un lavoratore ma porta con sé una serie di bisogni sociali e culturali. L'ostacolo, in questo caso, è superare una concezione puramente strumentale che vede l'immigrato soprattutto come forza lavoro e considerarlo innanzi tutto una persona. La sfida appare duplice e complessa: da un lato, occorre insegnare a non temere gli immigrati come una minaccia per l'occupazione ma sottolinearne l'importante apporto per la nostra economia; dall'altro, bisogna riconoscere le opportunità culturali date dall'ingresso di nuove tradizioni e di nuovi costumi di cui è portatore l'immigrato, accanto però all'esigenza del riconoscimento di diritti e doveri come cittadino del nostro Paese. Chiudersi di fronte all'alterità costituita dall'immigrazione e arroccarsi sui propri pregiudizi significa rifiutare la globalizzazione in atto, fenomeno inarrestabile e costitutivo della società moderna. Preservare la presunta “purezza” del proprio gruppo di appartenenza, negando l'inclusione di gruppi altri risulta altrettanto dannoso; le contaminazioni nella società in cui viviamo sono necessarie e inevitabili. Allo stesso modo, favorire la coesistenza in virtù del fatto di essere tutti uguali porta a negare le differenze, con il rischio di omologazione. Conoscere e capire l'alterità vuol dire allargare i propri orizzonti culturali; lungi dal rappresentare un pericolo per la propria identità, la differenza costituisce una risorsa preziosa, una fonte di arricchimento culturale e umano. Ombretta Scattoni collaboratrice Fondazione Basso – Sezione Internazionale 16La capillare diffusione della rete Western Union ha fatto dell'Italia il secondo mercato al mondo, per il gruppo, dopo gli Stati Uniti.
Riferimenti bibliografici Adorno T.W. et alii, 1950, The Authoritan Personality, Harper & Brothers, New York Arcuri L. - Cadinu M.R., 1998, Gli stereotipi. Dinamiche psicologiche e contesto delle relazioni sociali, Il Mulino, Bologna Binotto M. – Martino V. (a cura di ), 2004, FuoriLuogo: l'immigrazione e i media italiani : rapporto di ricerca dell'Osservatorio Terza.com su informazione, pratiche giornalistiche e opinione pubblica, Rai-Eri, Pellegrini, Cosenza Censis, 2002, L'immagine degli immigrati e delle minoranze etniche nei media. Rapporto finale Fondazione ISMU, 2007, Dodicesimo Rapporto sulle migrazioni 2006, FrancoAngeli, Milano Bruner S., 1957, Symposium held at the University of Colorado, Harvard University Press, Cambridge Dossier statistico immigrazione Caritas/Migrantes 2006 Lippmann W., 1922, The Pubblic Opinion, Macmillan, New York (trad. it. 1999, L’Opinione Pubblica, Universale Donzelli, Roma) Osservatorio di Pavia, 2001, Il tema dell'immigrazione nei telegiornali del prime time (1 gennaio-31 dicembre 2000), “Comunicazione Politica”, n. 1, Franco Angeli, Milano Tajfel H. - Wilkes A.L., 1963, Classification and Quantitative Judgement, in “British Journal of Psychology”, n. 54 Tajfel H., 1981, Human Groups and Social Categories. Studies in Social Psycology, Cambridge University Press, Cambridge (trad. it. 1985, Gruppi umani e categorie sociali, Il Mulino, Bologna)
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