L'IMMIGRAZIONE ITALIANA, TRA REALTA' E RAPPRESENTAZIONE

Pagina creata da Giulio Albano
 
CONTINUA A LEGGERE
L'IMMIGRAZIONE ITALIANA, TRA REALTA' E RAPPRESENTAZIONE

Un mondo globalizzato, un mondo di migranti 1

Dei sei miliardi e mezzo di persone che popolano il pianeta, solo 960 milioni risiedono nei paesi a
sviluppo avanzato. Vi sono in India 35 città con più di un milione di abitanti e altre 45 in Cina, delle
quali gli occidentali difficilmente conoscono il nome.
Anche di questa popolazione lontana e dei suoi bisogni la mobilità è, a suo modo, un'espressione.
Un miliardo e 400 milioni di persone vivono con meno di due dollari al giorno e 192 milioni sono i
disoccupati. Solo in Cina sono 400 milioni gli abitanti al di sotto della soglia di povertà. Dividendo
la ricchezza prodotta per il numero degli abitanti, ogni persona dovrebbe ricevere annualmente 9250
dollari, ma le cose non stanno in questi termini: si va dai 5200 dollari spettanti ai paesi i via di
sviluppo ai 32.600 dollari dei paesi a sviluppo avanzato, dai 1100 dell'Africa Subsahariana ai
27.500 dollari dell'Unione Europea e ai 40.750 dollari del Nord America.
Di queste differenze i flussi migratori sono un regolatore, anche se non l'unico.
Questi dati di contesto aiutano a capire perchè nel mondo vi siano 191 milioni di immigrati, di cui
20 milioni richiedenti asilo o rifugiati, ai quali si aggiungono – secondo stime – 30-40 milioni in
situazione irregolare e 600-800mila persone vittime della tratta.
Il flusso migratorio diventerà ancora più intenso quando i migranti delle aree a maggiore pressione
demografica disporranno di maggiori mezzi per spostarsi e sottrarsi così all'attuale stato di
disperazione. La necessità di promuovere maggiormente lo sviluppo in loco, che costituisce un
investimento a lungo termine, lascia in essere la necessità dei flussi migratori, che rappresentano
una valvola di sfogo indispensabile in un contesto di globalizzazione.
Gli Stati Uniti sono il primo protagonista in questo scenario non solo sul piano produttivo ma anche
come area di massima immigrazione.
Anche la Cina è tra i principali protagonisti del nuovo mondo globalizzato, con la diffusione dei
suoi prodotti e con una collettività di 34 milioni di persone all'estero che assicurano un gettito di
rimesse di 21,3 miliardi di dollari all'anno.
L'Italia si inserisce in tale contesto non solo per l'esportazione dei suoi prodotti, ma anche per il
fatto che all'estero vivono più di 3 milioni di cittadini italiani e più di 60 milioni di oriundi e anche
per essere diventata ormai da decenni un'area di grande immigrazione con un ritmo d'aumento
sensibilmente sostenuto.

1Il paragrafo è tratto dalla presentazione del XVI Rapporto Caritas/Migrantes sull'immigrazione disponibile sul sito
    www.caritasroma.it
1. L'immigrazione in Italia

La crescita costante della popolazione straniera nel nostro Paese conferma il trend registrato
nell'ultimo quindicennio: la presenza immigrata, dopo una prima consistente compersa agli inizi
degli anni Novanta, continua a mostrare tassi di aumento elevati, evidenziando come l'Italia, al pari
di altri paesi europei, sia divenuta un'importante meta dei percorsi migratori internazionali.
A sua volta la presenza straniera in Italia ha indotto un processo di cambiamento demografico che
comporta nuove sfide relative alle possibili forme di sperimentazione della convivenza
interculturale, la cui difficoltà principale consiste nel delicato e necessario equilibrio tra il diritto
alla differenza e il dovere all'integrazione.
Per meglio comprendere le caratteristiche di questa presenza, è necessario prendere in
considerazione i dati forniti dal Dossier Statistico 2006 sull'immigrazione presentato dalla Caritas,
il documento più attendibile e completo sulle cifre del fenomeno in Italia.
Il numero degli immigrati regolari in Italia ha raggiunto quota 3.035.000 alla fine del 2005,
raggiungendo quasi quello degli emigrati italiani nel mondo e collocando il Belpaese accanto ai
grandi paesi europei di immigrazione: Germania (7.287.980), Spagna (3.371.394), Francia
(3.263.186) e Gran Bretagna (2.857.000).
I soggiornanti dei paesi dell'Est Europa sono circa un milione; la comunità straniera residente più
numerosa è quella romena, con 270.845 presenze registrate, seguita da Albania, Marocco e Ucraina.
L'incidenza degli immigrati sulla popolazione residente è del 5,2% con un immigrato ogni 19
residenti. Le province con il più alto tasso di incidenza sulla popolazione straniera sono Prato
(12,6%), Brescia (10,2%), Roma (9,5%), Pordenone (9,4%), Reggio Emilia (9,3%), Treviso (8,9%),
Firenze (8,7%), Modena (8,6%), Macerata e Trieste (8,1%). La Lombardia accoglie da sola quasi un
quarto di tutta la popolazione straniera.
La maggioranza dei permessi di soggiorno è a carattere stabile, per cui più di 9 immigrati su 10
sono presenti per lavoro (62,6%) e per famiglia (29,3%), ai quali si aggiungono altri motivi
anch'essi connessi con una certa stabilità di soggiorno (motivi religiosi, residenza elettiva, corsi
pluriennali di studio).
La differenza dei luoghi di origine determina la co-presenza di molte fedi: cristiani (49,1%),
musulmani (33,2%), religioni orientali (4,4%). Sono un milione e mezzo i cristiani provenienti da
altri paesi, con cattolici e ortodossi che quasi si equivalgono (circa 660.000 unità ciascuno). Vi sono
poi un milione di musulmani e tra i 50 e i 100mila induisti e buddisti, oltre a 350.000 non credenti o
non classificabili.
In Italia l'immigrazione diventerà sempre di più l'unico fattore di crescita demografica in grado di
porre rimedio alla prevalenza dei decessi sulle nascite; la fecondità, infatti, risulta più alta tra le
donne straniere, in media con 2,4 figli (4 per le marocchine, 1,7 per le polacche e le romene e solo
l'1,2 per le donne italiane). I cittadini stranieri, dai quali nel 2005 sono nati 52.000 bambini, hanno
inciso per il 9,4% sulle nuove nascite.
Si riscontra una sostanziale parità tra uomini e donne, le quali, in alcune regioni, come il Lazio e la
Campania, sono la maggioranza, per il crescente bisogno della loro presenza nei servizi alla
famiglia e alle persone.
Nel 2005 sono stati assunti per la prima volta nel mercato occupazionale italiano 173.000 nuovi
lavoratori immigrati; le assunzioni sono avvenute per il 9,2% in agricoltura, per il 27,4%
nell'industria e per la restante quota nei servizi. I settori prevalenti sono l'informatica e i servizi alle
imprese (16,1%), le costruzioni (13,6%), gli alberghi e i ristoranti (11,9%), le attività svolte presso
le famiglie (10,2%) e l'agricoltura (9,2%).
Gli immigrati hanno un soddisfacente livello di istruzione, comparativamente più alto rispetto agli
italiani ma, come avviene in tutta Europa, guadagnano meno degli italiani.
L’immaginario collettivo

2.1      Gli stereotipi: le origini

Come la psicologia cognitiva ha da tempo chiarito, l’intero processo di percezione umana è
governato da idee preconcette, schemi precostituiti che consentono di categorizzare le persone in
gruppi e codificare il loro comportamento in maniera automatica. I mass media, spesso in maniera
inconsapevole, veicolano e riproducono stereotipi e luoghi comuni che hanno facile presa tra il
pubblico proprio perché ne confermano la visione del mondo.
In uso originariamente in campo tipografico, il concetto di stereotipo è stato introdotto nelle scienze
sociali da Walter Lippmann per definire le conoscenze fisse e impermeabili che organizzano le
nostre rappresentazioni delle categorie sociali.
Nel suo famoso volume L’Opinione Pubblica (1922), il giornalista statunitense sostiene che la
realtà, a causa della sua estrema complessità, non può essere conosciuta in quanto tale, ma solo
attraverso le immagini mentali o rappresentazioni che l’uomo se ne crea; queste sono basate su delle
semplificazioni (gli stereotipi, appunto), che consistono in forme di organizzazione preventiva dei
dati, e che dunque influenzano abbondantemente la raccolta e la valutazione dei dati stessi.
L’uso di tali semplificazioni risulta funzionale dunque alla gestione di un’enorme quantità di
informazione, costituendo un aiuto per un sistema di elaborazione la cui capacità è, per definizione,
limitata.
Lippmann descrive inoltre le funzioni che gli stereotipi svolgono nel garantire all’individuo una
visione del mondo e degli eventi coerente e in grado di farlo sentire dalla parte del giusto.
Lo stereotipo costituisce dunque

         una rappresentazione ordinata e più o meno consistente del mondo, alla quale si sono adattati i nostri
         modi di essere, i nostri gusti, capacità, comodità e speranze. Possono non rappresentare un’immagine
         completa del mondo, ma sono l’immagine di un mondo possibile al quale ci siamo adattati. In quel
         mondo le cose e le persone hanno il loro posto noto, e fanno certe cose che sono attese. In esso ci
         troviamo a casa (Lippmann, 1922, trad. it. 1999, p. 95)

Da questo presupposto prende le mosse la prospettiva psicodinamica nello studio degli stereotipi e
delle loro basi motivazionali. Gli autori che si richiamano a questa prospettiva (cfr. Adorno et al.,
1950) avanzano l’ipotesi che, mediante i meccanismi di difesa, come la proiezione2 o la

2Il termine proiezione viene usato con accezioni molto generali in psicologia. Esso indica il processo mediante il quale
    un evento psicologico viene spostato dal soggetto al mondo esterno; in senso più strettamente psicoanalitico si tratta
    di una operazione attraverso cui il soggetto espelle da sé (pro-iectum) e identifica nell’altro da sé, persona o sistema
    sociale, delle qualità, dei sentimenti e dei desideri, che egli non riconosce come propri o che rifiuta.
dislocazione3, gli attributi negativi del Sé o del gruppo di appartenenza vengano percepiti come
caratteristici di qualche altra persona o di qualche altro gruppo esterno. E’proprio mediante questa
percezione del gruppo esterno in termini negativi che il proprio diventa invece “migliore”.
Ma nella visione di Lippmann gli stereotipi hanno anche altre finalità; in quanto prodotti della
cultura e del patrimonio di idee del gruppo sono dei veicoli per creare omogeneità di valori e di
credenze. Da questo punto di vista acquistano notevole importanza i mezzi di comunicazione, quali
agenti in grado di formare, trasmettere e rafforzare gli stereotipi.
Infine, nel suo contributo, Lippmann anticipa quella che sarà la prospettiva cognitiva nello studio
degli stereotipi: essi vengono considerati sistemi di credenze a proposito degli attributi associati ai
vari gruppi sociali. Si tratta di un approccio che sottolinea l’importanza dei processi di
categorizzazione sia nel momento della formazione delle concezioni a proposito di un gruppo, sia
nella successiva fase in cui vengono percepite somiglianze e differenze tra i membri all’interno
della categoria sociale così individuata (Arcuri - Cadinu, 1998).

2.2 Gli effetti della categorizzazione: basi motivazionali e cognitive

Gli studi sulla categorizzazione sociale prendono corpo dai lavori sperimentali di Tajfel sul rapporto
tra valore e grandezza fisica, nei quali è riuscito a cogliere una continuità tra problemi percettivi e
problemi sociali.
Tajfel e Wilkes (1963), continuando i lavori iniziati da Bruner (1957) e dal movimento del
New Look sulla percezione, dimostrano come la categorizzazione in classi di stimoli fisici produca
una sovrastima delle somiglianze all’interno di una stessa categoria (somiglianza intracategoriale) e
un’accentuazione delle differenze tra categorie diverse (differenza intercategoriale).
I processi di categorizzazione facilitano la produzione di giudizi e opinioni, perché se una persona
viene riconosciuta come appartenente a una qualsiasi categoria o classe, si impossessa
automaticamente delle caratteristiche ritenute comuni agli oggetti di quella medesima categoria; si
verifica la cosiddetta categorizzazione sociale.
L’appartenenza etnica si presta ai meccanismi di categorizzazione, favorendo la formazione di
etichette sociali, capaci di ricondurre in maniera immediata uno specifico evento a una specifica
categoria, nei confronti della quale si è preventivamente formata una certa costellazione di pensieri
e atteggiamenti che influenzano il giudizio che viene prodotto.
La categorizzazione sociale è, dunque, secondo Tajfel “un processo che consiste nel raggruppare
oggetti o eventi sociali in gruppi equivalenti dal punto di vista delle azioni, delle intenzioni e dei

3 Si parla di dislocazione quando un impulso aggressivo viene indirizzato verso un capro espiatorio
sistemi di credenze di un individuo” (1981, trad. it. 1985, p. 315).
Un’implicazione importante della categorizzazione sociale sulle dinamiche di gruppo di
appartenenza (ingroup) e gruppo esterno (outgroup) è il cosiddetto “effetto dell’omogeneità
dell’outgroup”.
Se il proprio gruppo di appartenenza viene generalmente percepito in maniera piuttosto
differenziata al suo interno, esiste invece la tendenza ad enfatizzare il grado di omogeneità
dell’outgroup ignorandone la diversità interna. Ciò è legato non solo alla scarsa familiarità con il
gruppo esterno, ma anche alle diverse strategie cognitive utilizzate per organizzare informazioni su
ingroup e outgroup. Infatti, mentre quelle sull’ingroup vengono organizzate attorno a singoli
individui o sottogruppi di persone, le informazioni riguardanti l’outgroup si formano a partire da
categorie più generali.

2.3 Gli effetti della categorizzazione che portano al favoritismo per il proprio gruppo di
appartenenza

Gli stereotipi non sono dei sistemi di rappresentazione “neutrali”; essi normalmente veicolano in
maniera implicita sistemi di valore, gerarchie di criteri, preferenze e giudizi tendenziosi. Nel
momento in cui la realtà si articola in due gruppi contrapposti, quello cui il soggetto appartiene e
quello che si colloca all’esterno, si creano le condizioni per il manifestarsi di un’asimmetria
valutativa. In questo senso, il processo di categorizzazione, nella misura in cui rende visibile e
psicologicamente significativa questa articolazione della realtà sociale entro cui l’individuo si
colloca, favorisce i fenomeni di favoritismo nei confronti dell’ingroup e, in ultima istanza, di
discriminazione nei confronti dell’outgroup. Il ragionamento di Tajfel collegava questi effetti al
semplice crearsi del contesto di categorizzazione e non prevedeva che fosse necessario l’emergere
di un confronto competitivo tra i membri dei due gruppi così individuati (Arcuri - Cadinu, 1998).
Tajfel (1981) si propone di dimostrare che il puro contesto di categorizzazione è comunque
sufficiente perché quest’ultimo emetta dei giudizi e pianifichi dei comportamenti che realizzano il
cosiddetto ingroup bias. A tale scopo Tajfel e collaboratori si servono di un modello sperimentale
noto come “paradigma dei gruppi minimi”, dal quale risulta che i soggetti tendevano a favorire in
modo sistematico il proprio gruppo a discapito dell’outgroup.
La tendenza ad assegnare una connotazione negativa all’outgroup viene attribuita principalmente al
cosiddetto effetto di correlazione illusoria, uno dei più noti errori di inferenza legati agli stereotipi.
Esso consiste nel percepire come più frequente di quanto non sia nella realtà la presentazione
associata (e quindi la possibile connessione causale) sia di fatti che ci si aspetta di vedere insieme,
sia di fatti che sono per motivi diversi particolarmente salienti. L’aspettativa preventiva sarebbe
costituita dallo stereotipo preesistente: se ci si aspetta di vedere tratti negativi legati agli immigrati,
si tenderà a percepire tale correlazione come più frequente di quanto non sia nella realtà; è questo il
modo in cui lo stereotipo favorisce un errore percettivo-inferenziale.
Le persone, infatti, tendono a percepire gli individui appartenenti a dei gruppi sociali in modo
coerente con le immagini stereotipiche da loro possedute, ignorando le informazioni incongruenti
con tali rappresentazioni.
Accanto a degli indubbi vantaggi nei termini di economizzazione delle risorse cognitive, quindi, lo
stereotipo possiede anche effetti collaterali: quello, in particolare, di rendere più povera, grossolana
e semplificata l’impressione che ci formiamo degli altri. Causa di distorsioni di giudizio
sistematiche, gli stereotipi possono influenzare le stesse interazioni sociali, favorendo la
modificazione del comportamento dei soggetti.

2.4 Il ruolo del linguaggio nella trasmissione degli stereotipi

Gli stereotipi, che non si limitano dunque a costruire delle forme di rappresentazione che risiedono
nella mente delle persone, ma servono anche per trasmettere contenuti culturali e conoscenze
condivise, hanno bisogno di una fondamentale forma di mediazione, ossia quella linguistica. E’
appunto attraverso i discorsi quotidiani, i giornali, i libri di testo, la televisione, i messaggi
pubblicitari, che in maniera sottile ma costante avviene il passaggio di queste forme di conoscenza e
di interpretazione del mondo.
Innanzitutto, il linguaggio ha la funzione di garantire la trasmissione culturale dei contenuti
associati agli stereotipi. Queste forme di rappresentazione si cristallizzano in una terminologia dal
significato pregnante e di presa immediata, al punto che l’uso del vocabolario etnico-razziale per
descrivere persone o comportamenti può diventare inopportuno e offensivo, senza che il
comunicante ne sia consapevole.
Numerose ricerche empiriche sul fenomeno hanno dimostrato come i processi di attivazione
semantica indotti dalla comparsa di un termine linguistico che si riferisce a una categoria sociale
hanno importanti conseguenze sul modo in cui il comunicante è in grado di elaborare le
informazioni associate in termini stereotipici a quell’etichetta.
I mezzi di comunicazione di massa sono, da questo punto di vista, un potente veicolo di
trasmissione degli stereotipi.
2.4.1 Il discorso razzista

Che siano interpretati in termini di razza, di religione, di cultura o di classe sociale, esistono sempre
dei sentimenti di ostilità collettiva tra i gruppi già insediati e i nuovi arrivati.
L'impiego del termine “extracomunitari”, praticamente sconosciuto nelle altre lingue europee,
traduce una volontà di marcare i confini e tenere a distanza gli immigrati, certamente utili e forse
necessari, ma anche percepiti come ingombranti e indesiderabili.
Il discorso razzista, prodotto della visione pregiudiziale dell'altro, pone l'accento sulle differenze e
si stabilisce su una gerarchia del genere umano. Per avere credibilità, esso ruota attorno a temi come
la preferenza (nazionale, culturale o sociale) e la distinzione (di usanze, di costumi e di destini).
La differenza, in virtù del proprio potere destabilizzante, costituisce il cardine del razzismo; il
diverso fa paura e per questo suscita aggressività. La differenza, negazione dell'ordine stabilito,
incrina le proprie certezze identitarie e porta con sé il rischio di dubitatare di se stessi. Per
rassicurarsi, si attribuiscono all'altro valori negativi; affinchè il mio ordine sia buono, è necessario
che il suo sia cattivo. Il razzismo è comodo.
Immigrazione e mass media

3.1 La rappresentazione mediale degli immigrati in Italia: tra allarmismo e stereotipi

Le questioni legate all'immigrazione sono ormai sulla bocca di tutti. Si tratta non solo di un tema da
“prima pagina”, ma di un issue quasi usurata dalle tante ricerche scientifiche e iniziative correnti
che negli ultimi anni, in ambito internazionale e anche in Italia, si sono proposte di esplorare a tutte
le latitudini questo territorio emergente dell'esperienza sociale e della convivenza civile.
I nostri anni sono protagonisti di una visibilità senza precedenti della figura dei migranti nelle
culture urbane e mediali. Rispetto ad altri momenti storici, si deve infatti ai fenomeni di
globalizzazione e alla centralità del sistema mediale un effetto determinante nel potenziare
l'imponenza – reale e percepita – dei fenomeni migratori, in un gioco serrato di immagini e di
reciproche proiezioni tra realtà e rappresentazione, oltre che tra punti di vista spesso antagonisti tesi
a confrontarsi nello spazio pubblico. Una dinamica che vede i riflettori della comunicazione
costantemente, e spesso impietosamente, puntati sui migranti, fino a farne attori di assoluto primo
piano nella quotidiana “messa in scena” della società italiana e del suo cambiamento.
L'immigrazione tira infatti in campo non solo una serie molto ampia e spinosa di questioni socio-
economiche e politiche, ma anche un fitto intreccio di dinamiche culturali che attengono alla vita
quotidiana e alla sfera propriamente micro-sociale: modelli simbolici e di interazione che chiamano
direttamente in causa le responsabilità della comunicazione e dei suoi protagonisti.
I mezzi di comunicazione, soprattutto quelli generalisti, risultano oggi responsabili di drammatici
ritardi nell'aggiornare non solo i propri linguaggi e stili narrativi, ma lo stesso punto di vista rivolto
su fenomeni e realtà il cui background è spesso poco noto al pubblico.
In questo contesto sono le regole di genere proprie dell'informazione a farne il formato più esposto
ai rischi di semplificazione e pura “ruminazione” di luoghi comuni: soprattutto l'estrema
compressione dei tempi redazionali e produttivi tende a favorire, infatti, una copertura in cui è
sempre in agguato la tentazione di privilegiare stereotipi, accenti emotivi e scelte pregiudiziali, in
una rappresentazione spesso distorta dei fatti e dei protagonisti.
Se attribuire unicamente al sistema dei media la responsabilità del modo in cui gli italiani guardano
al fenomeno migratorio risulta riduttivo e fuorviante, è vero che i mezzi di comunicazione
generalisti considerano i migranti come soggetti destinati a restare indecifrabili e borderline rispetto
alle culture autoctone. Ancora una volta, “nuovi barbari” in terra straniera, da sospingere ai confini
e ai margini; figure ingombranti, a cui si stenta ancora a riconoscere piena soggettività culturale e
cittadinanza della comunicazione.
La consapevolezza della rilevanza dei processi culturali e comunicativi nella costruzione
dell’immagine pubblica dei migranti si fa sempre più strada fra quanti ritengono importante
contrastare attivamente le cause dell’esclusione e della marginalità sociale degli stranieri.
Non a caso, anche in Italia l’immigrazione e la sua rappresentazione mediale sono state oggetto di
numerose ricerche empiriche negli ultimi anni; iniziative i cui risultati convergono nel delineare uno
scenario ancora piuttostro controverso, perchè dominato da una sconfortante inadeguatezza dei
contenuti e dei linguaggi proposti al pubblico 4 .
Una delle caratteristiche peculiari della rappresentazione mediale degli stranieri residenti in Italia è
legata ai fatti e al genere della cronaca.
Il risultato delle ricerche condotte negli ultimi venti anni in Europa e in Italia è nel tempo piuttosto
stabile e, pur essendo difficile la comparazione di situazioni e prospettive di analisi talvolta molto
differenziate, il quadro complessivo evidenzia “una prevalenza quantitativa di notizie di cronaca
nera, ossia relative a episodi di criminalità e violenza, che coinvolgono gli appartenenti a minoranze
etniche” (M.Binotto-V.Martino, 2004, p.45).
L'unico tratto comune ai risultati delle ricerche quindi vede predominare un'attenzione alle bad
news, tipica dei procedimenti giornalistici di selezione che tenderebbero a privilegiare una
trattazione routinizzata e appiattita sulla cronaca nera.
Questo caso è confermato anche dalle ultime ricerche. Le recenti indagini compiute dal Censis 5 e
dall'Osservatorio di Pavia 6 rimandano tuttora ad un trattamento del tema quasi esclusivamente
collegabile alla cronaca nera. La ricostruzione di queste analisi conferma che

        I mezzi di comunicazione di massa forniscono un'interpretazione quasi univoca e, dunque, più che
        razzista, fortemente stereotipata del soggetto immigrato, dipingendolo talvolta come autore di
        comportamenti devianti e azioni criminose, altre volte come vittima della sua stessa condizione di
        disperato in balia di organizzazioni senza scrupoli che sfruttano la sua voglia di rifarsi una vita
        ovvero vittima di episodi razzisti e di intolleranza (ibidem, p.46).

Il risultato di ricerche, tesi di laurea e convegni appare univoco. La presenza nei media appare
limitata a fatti di cronaca nera, confermando una stretta contiguità tematica tra devianza e

4Le più importanti ricerche condotte in Italia vedono protagonisti alcuni Dipartimenti delle maggiori Università, tra cui
   Torino, Genova, Roma. Tra i diversi contributi si rimanda a Del Lago (a cura di ), Lo straniero e il nemico, Costa e
   Nolan, Genova, 1998 e Non persone. L'esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano, 1999; V.
   Cotesta, La cittadella assediata. Immigrazione e conflitti etnici in Italia, Editori Riuniti, Roma, 1992 e Sociologia
   dei conflitti etnici. Razzismo, immigrazione e società multiculturale, Laterza, Roma-Bari, 1999; C. Marletti,
   Extracomunitari. Dall'immaginario collettivo al vissuto quotidiano del razzismo, Eri Rai-Vqpt, Torino, 1991;
   M.Binotto e V.Martino (a cura di ), Fuoriluogo. L'immigrazione e i media italiani, Rai-Eri, Pellegrini Editore,
   Cosenza, 2004. Va inoltre segnalata la ricerca sull'agenzia di stampa Ansa condotta da Maurizio Corte (Stranieri e
   mass media. Stampa, immigrazione, Pedagogia interculturale, Cedam, Padova, 2002). Si rinvia anche ai dati
   dell'Osservatorio di Pavia e al rapporto Censis Tuning into Diversity. Immigrati e minoranze etniche nei media
   (www.censis.it).
5Censis, L'immagine degli immigrati e delle minoranze etniche nei media. Rapporto finale, novembre 2002
6Osservatorio di Pavia, Il tema dell'immigrazione nei telegiornali del prime time (1 gennaio-31 dicembre 2000),
   “Comunicazione Politica”, n. 1, Franco Angeli, Milano, 2001
immigrazione.
Il ruolo svolto dagli stranieri sul tasso di criminalità italiano è oggetto di dibattito; senza dubbio,
però, la presenza immigrata nei media sembra limitarsi a questo aspetto. Le condizioni e le
ripercussioni sociali, economiche e culturali appaiono persistere sullo sfondo della rappresentazione
fornita. Il tono risulta continuamente allarmista o pietistico e la presenza è ridotta a stereotipo.
Donne e uomini immigrati appaiono solo come vittime o come carnefici.

        La realtà dell'immigrazione viene considerata quasi esclusivamente nel contesto di episodi che si
        collocano nelle cronache criminali e che vengono spesso privati di qualsiasi approfondimento o
        commento critico sulle cause che vedono protagonosti -nel bene e nel male- cittadini
        extracomunitari 7 .

Anche una ricerca sui dispacci Ansa tra il 1998 e il 2002 conferma una trattazione dominata dalla
presenza criminale e clandestina. La visibilità quotidiana degli stranieri viene amplificata:
l'immigrato sembra essere solo una persona che passa il suo tempo davanti ai semafori o a chiedere
l'elemosina 8 .

3.2 “L'emergenza sbarchi”

La ricerca svolta nel 2003 nell'ambito del progetto Etnequal Social Communication, coordinata dal
Dipartimento di Sociologia e Comunicazione dell'Università “La Sapienza” di Roma 9 , ha
evidenziato come l'immagine degli immigrati appena sbarcati sulle nostre coste e dei soccorritori
intenti a rifocillarli rappresenti una delle vere e proprie icone dell'immigrazione nella sua
rappresentazione mediatica 10 . Non a caso si tratta di un tema che nella percezione del pubblico
televisivo e dei lettori della carta stampata simboleggia in maniera immediata tutta una serie di
elementi problematici del fenomeno migratorio, quando addirittura non lo esaurisce.
Un elemento più volte sottolineato riguardo al tema degli sbarchi e, più in generale, degli arrivi di
immigrati nel nostro paese e il tipo di relativa copertura da parte dei mass media, riguarda l'utilizzo
di un frame narrativo costantemente declinato nel senso dell'emergenza.

7Vedi nota 2
8Vedi nota 1
9I risultati della ricerca sono pubblicati nel volume M.Binotto e V.Martino (a cura di ), Fuoriluogo. L'immigrazione e i
    media italiani, Rai-Eri, Pellegrini Editore, Cosenza, 2004
10M. Bruno, “L'ennesimo sbarco di clandestini. La tematica dell'arrivo nella comunicazione italiana”, in Fuoriluogo
    (op. cit.)
L'analisi della letteratura di riferimento riguardo all'immagine pubblica dell'immigrato rileva che
tale immagine si presenta molto spesso appiattita sulla dimensione degli arrivi, ed è evidente che i
discorsi e le immagini sugli sbarchi sono parte rilevante di tale appiattimento (M.Binotto-
V.Martino, 2004).
In realtà solo una minima parte degli immigrati che giungono nel nostro Paese lo fa via mare. Basti
pensare al fatto che negli ultimi anni il maggior numero di stranieri residenti in Italia proviene
dall'Europa dell'Est; i dati riportati dal Dossier Statistico 2006 sull'immigrazione presentato dalla
Caritas vedono la comunità rumena, con 270.845 presenze registrate nel 2005, come il gruppo più
consistente di stranieri residenti nel nostro Paese. Solo al terzo posto la comunità marocchina,
componente storica dell'immigrazione italiana.
Marco Bruno, nell'ambito della ricerca promossa dal Dipartimento di Sociologia e Comunicazione
dell'Università “La Sapienza”, mette in evidenza due conseguenze derivanti dall'appiattimento del
discorso mediale sull'immigrazione alla sola dimensione dell'arrivo:

•   Sovrarappresentare il momento dell'arrivo relega in un cono d'ombra impenetrabile per l'occhio
    del sistema mediale la storia dell'immigrato e del suo percorso migratorio: nessuna presenza
    delle cause che lo hanno spinto ad andarsene dal luogo di origine, la povertà, lìinsoddisfazione, a
    volte la paura e le guerre sono al massimo uno sfondo lontano. Dall'altro lato resta invisibile
    qualsiasi forma di progettualità nella scelta di migrare.

•   L'appiattimento sulla dimensione dell'arrivo fa sì che il discorso mediale sull'immigrazione
    eluda completamente un possibile momento di riflessione sia sulle cause strutturali del
    fenomeno, sia sulle connessioni che esso presenta con problematiche quali il processo di
    globalizzazione economica, i conflitti e le crisi politiche internazionali o la crisi economica,
    demografica e sanitaria di una larga parte del mondo: tutti macrofenomeni di cui, per certi versi,
    i flussi migratori globali rappresentano solo uno degli aspetti (M.Binotto-V.Martino, 2004).

Dalla stessa ricerca è emerso che, dal punto di vista del tono della copertura e della connotazione
complessiva dei discorsi sull'immigrazione, la trattazione mediale sembra condividere con la
percezione nell'opinione pubblica, ma anche con larga parte del mondo politico, un atteggiamento
singolarmente polarizzato intorno a due modalità di rappresentazione che possono essere collegate
all'esito dei singoli tentativi di sbarco sulle coste meridionali italiane. L'atteggiamento oscilla senza
vie di mezzo tra una rappresentazione allarmistica e fortemente negativa nei confronti dell'invasione
dei clandestini e uno sguardo compassionevole, a volte paternalistico, verso “poveretti infreddoliti”,
in difficoltà o in pericolo “alla ricerca di un porto amico”.
I termini utilizzati aumentano la caratterizzazione ansiogena: gli sbarchi, infatti, “riprendono dopo
         alcune settimane di tregua”; il vocabolario si adatta allo “stato di guerra”, siamo sotto assedio. Allo
         stesso modo gli sbarchi “si susseguono”, i clandestini arrivano “a ondate” [...] (M.Binotto-V.
         Martino, 2004, p.106).

L'analisi del contenuto condotta dalla Fondazione ISMU, nell'ambito del dodicesimo rapporto sulle
migrazioni 2006 11 , evidenzia come, nei quotidiani italiani,

         [...] Rimane appena accennato il tema del lavoro.Raramente vengono presentati il contributo che gli
         stranieri danno all'economia italiana e i servizi che svolgono [...]. E' poco sottolineato il fatto che i
         migranti sono e possono essere ancora di più una risorsa per l'Italia e per l'Europa (Fondazione
         ISMU, 2006, p.99).

La terminologia drammatizzata utilizzata dai mass media per descrivere il fenomeno migratorio
rinforza l'idea di invasione paventata da buona parte dell'opinione pubblica italiana.
La sindrome dell'assedio cresce a dismisura; poco importa se in tutto ciò c'è poco di emergenziale e
molto di fisiologico e strutturale, poco importa se il nostro sistema economico riesce ad assorbire,
anzi si nutre, della forza lavoro portata da questi flussi.

3.3 Tra realtà e rappresentazione

Emerge a questo punto un'evidente contraddizione tra la definizione e l'origine dell'immigrazione e
la sua immagine veicolata dai media.
Le cause dei flussi internazionali sono molteplici, ma, fra le principali, l'ONU ha individuato “gli
squilibri economici internazionali, la povertà e il degrado ambientale” 12 . Sono soprattutto, quindi,
fattori di tipo economico i motori propulsivi della scelta migratoria; è la possibilità di trovare un
lavoro a spingere gli individui ad emigrare dalla loro terra d'origine 13 .
Seppure spesso attraverso vie illegali, gli immigrati arrivano in Italia con la speranza di trovare un
lavoro e di regolarizzare la propria posizione.
Eppure, nonostante la forte spinta economica, l'immigrato non viene mai considerato come soggetto
economico attivo e la sua identità non viene definita in termini lavorativi; egli è considerato

11Cfr. Dodicesimo Rapporto sulle migrazioni ISMU, FrancoAngeli, Milano, 2007. All'interno del testo, sono descritti i
   risultati di un'analisi del contenuto relativa agli articoli sull'immigrazione pubblicati dai quotidiani Il Corriere della
   Sera, La Repubblica, Il Giornale e Avvenire nel periodo gennaio-settembre 2006.
12Cfr. il rapporto del Segretario Generale dell'ONU International migration and development presentato il 18 maggio
   2006 (www.un.org)
13Secondo i dati del Dossier Statistico 2006 sull'immigrazione presentato dalla Caritas, il 62,6% degli immigrati sono
   venuti in Italia per motivi di lavoro.
principalmente un problema sociale, di sicurezza e di ordine pubblico, che una risorsa economica.
Adottare questo atteggiamento significa chiudere gli occhi di fronte a una realtà innegabile presente
ormai nel nostro paese: l'immigrato è un cittadino che produce ricchezza. L'apporto del suo lavoro
costituisce una discreta fetta del nostro Pi, circa il 6%, un dato che acquista maggiore importanza se
letto in rapporto all'aumento della popolazione immigrata 14 .
I lavoratori immigrati stanno esercitando un peso crescente sul mercato lavorativo; gli immigrati
incidono per un sesto sul totale delle assunzioni (727.582 su 4.557.871) e rispondono ad un'
esigenza demografica particolarmente sentita nel nostro paese, fra i più vecchi al mondo, dove circa
il 25 % della popolazione è costituita da ultrasessantenni.
Un'inversione della piramide demografica dovuta principalmente al crollo delle nascite registrato
negli ultimi decenni, che ha prodotto una netta diminuzione della popolazione in età lavorativa. Al
contrario, l'età dell'immigrazione italiana si attesta per il 70% nella fascia tra i 15 e i 44 anni, mentre
tra gli italiani l'incidenza è di un terzo inferiore 15 . Appare ovvio, quindi, il bisogno strutturale dei
flussi migratori per riempire i gap demografici del nostro paese.
In secondo luogo, la presenza di forza lavoro immigrata ha permesso, nell'ultimo decennio, la
sopravvivenza o la rivitalizzazione, di interi settori produttivi. Ad esempio, la pesca a Mazara del
Vallo, la floricoltura in Liguria, la pastorizia in Abruzzo e nel Lazio; nell'insieme il lavoro
immigrato svolge una funzione complementare piuttosto che concorrenziale rispetto a quello svolto
dai cittadini italiani.
Non soltanto risorse, però, ma anche operatori economici. Gli immigrati, attraverso il flusso
internazionale dei loro risparmi, diventano promotori per lo sviluppo. L'invio delle rimesse, infatti,
costituisce il secondo flusso monetario mondiale dopo il petrolio, rendendo così l'immigrazione non
un'alternativa allo sviluppo ma essa stessa un fattore di sviluppo. Secondo i dati fornito dal
Rapporto Caritas/Migrantes, le rimesse dei cittadini stranieri in Italia sono cresciute del 15,8% nel
2005 rispetto all'anno precedente e hanno quasi raggiunto i 2,5 miliardi di euro.
Gli immigrati, quindi, possono esere definiti delle vere e proprie imprese migranti che, in virtù dei
loro spostamenti, rientrano perfettamente nelle logiche transnazionali dettate dalla globalizzazione,
di cui restano però un attore non protagonista. Eppure il migrante rappresenta un soggetto
economico sia per il paese di accoglienza che per quello di origine: è un attore transnazionale a tutti
gli effetti che produce sviluppo. Inoltre, diventano anche una specie di ammortizzatore sociale
interno, sostituendosi ad un welfare spesso assente, poiché sono destinate soprattutto a persone in
situazioni di disagio economico. In questo modo, i migranti finanziano sia le società globali che si

14 Secondo il rapporto del Dipartimento affari economici e sociali delle Nazioni Unite pubblicato nell'aprile 2007, nel
  2050 l'Italia sarà il quarto paese al mondo meta dei principali flussi migratori dopo Usa, Canada e Germania.
15Cfr. Dossier Statistico Immigrazione 2006.
   Secondo le previsioni Eurostat/Inail, i giovani lavoratori italiani (15-44 anni) diminuiranno di 1.350.000 unità nel
   2010 e di 3.209.000 nel 2020, mentre quelli più anziani (45-64 anni) aumenteranno di 910.000 unità nel 2010 e di
   1.573.000 unità nel 2020.
occupano del trasferimento di denaro 16 , sia l'economia interna del proprio paese di origine.
Il ruolo positivo dei migranti, oltre alla localizzazione e allo sfruttamento delle opportunità di
scambio di beni e servizi, si estende alla funzione che rivestono come veicolo di conoscenze ed
innovazioni tecnologiche dai paesi avanzati a quelli poveri. I migranti, in particolare coloro che
tornano nei paesi d'origine, rappresentano per molti paesi l'unico canale d'accesso allo stock di
conoscenza prodotto dalle economie avanzate.

Conoscere il fenomeno: semplificare senza ridurre

Il lavoro e le dinamiche ad esso connesse sono certamente aspetti preminenti nell'immigrazione e
una loro corretta conoscenza e rappresentazione può favorirne la comprensione, ma non esaurisce la
realtà del fenomeno migratorio. Il migrante che arriva in Italia non è solo un lavoratore ma porta
con sé una serie di bisogni sociali e culturali.
L'ostacolo, in questo caso, è superare una concezione puramente strumentale che vede l'immigrato
soprattutto come forza lavoro e considerarlo innanzi tutto una persona. La sfida appare duplice e
complessa: da un lato, occorre insegnare a non temere gli immigrati come una minaccia per
l'occupazione ma sottolinearne l'importante apporto per la nostra economia; dall'altro, bisogna
riconoscere le opportunità culturali date dall'ingresso di nuove tradizioni e di nuovi costumi di cui è
portatore l'immigrato, accanto però all'esigenza del riconoscimento di diritti e doveri come cittadino
del nostro Paese.
Chiudersi di fronte all'alterità costituita dall'immigrazione e arroccarsi sui propri pregiudizi significa
rifiutare la globalizzazione in atto, fenomeno inarrestabile e costitutivo della società moderna.
Preservare la presunta “purezza” del proprio gruppo di appartenenza, negando l'inclusione di gruppi
altri risulta altrettanto dannoso; le contaminazioni nella società in cui viviamo sono necessarie e
inevitabili. Allo stesso modo, favorire la coesistenza in virtù del fatto di essere tutti uguali porta a
negare le differenze, con il rischio di omologazione.
Conoscere e capire l'alterità vuol dire allargare i propri orizzonti culturali; lungi dal rappresentare
un pericolo per la propria identità, la differenza costituisce una risorsa preziosa, una fonte di
arricchimento culturale e umano.

                                                                  Ombretta Scattoni

                                            collaboratrice Fondazione Basso – Sezione Internazionale

16La capillare diffusione della rete Western Union ha fatto dell'Italia il secondo mercato al mondo, per il gruppo, dopo
   gli Stati Uniti.
Riferimenti bibliografici

Adorno T.W. et alii, 1950, The Authoritan Personality, Harper & Brothers, New York

Arcuri L. - Cadinu M.R., 1998, Gli stereotipi. Dinamiche psicologiche e contesto delle relazioni
sociali, Il Mulino, Bologna

Binotto M. – Martino V. (a cura di ), 2004, FuoriLuogo: l'immigrazione e i media italiani : rapporto
di ricerca dell'Osservatorio Terza.com su informazione, pratiche giornalistiche e opinione pubblica,
Rai-Eri, Pellegrini, Cosenza

Censis, 2002, L'immagine degli immigrati e delle minoranze etniche nei media. Rapporto finale

Fondazione ISMU, 2007, Dodicesimo Rapporto sulle migrazioni 2006, FrancoAngeli, Milano
Bruner S., 1957, Symposium held at the University of Colorado, Harvard University Press,
Cambridge

Dossier statistico immigrazione Caritas/Migrantes 2006

Lippmann W., 1922, The Pubblic Opinion, Macmillan, New York (trad. it. 1999, L’Opinione
Pubblica, Universale Donzelli, Roma)

Osservatorio di Pavia, 2001, Il tema dell'immigrazione nei telegiornali del prime time (1 gennaio-31
  dicembre 2000), “Comunicazione Politica”, n. 1, Franco Angeli, Milano

Tajfel H. - Wilkes A.L., 1963, Classification and Quantitative Judgement, in “British Journal of
Psychology”, n. 54

Tajfel H., 1981, Human Groups and Social Categories. Studies in Social Psycology, Cambridge
University Press, Cambridge (trad. it. 1985, Gruppi umani e categorie sociali, Il Mulino, Bologna)
Puoi anche leggere