ITER VERGILIANUM CLASSI VA, VE LICEO GINNASIO STATALE ANTONIO CANOVA - 16-20 aprile 2018
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Lo spazio dell’uomo è riflesso e memoria della storia e della società, anzi delle storie e delle società che lo hanno plasmato nel tempo, che lo plasmano oggi per gli uomini e le donne di domani. Salvatore Settis, Paesaggio, Costituzione, cemento, 2010. Introduzione Il paesaggio italiano, nella sua infinitamente ricca armonia di natura e cultura, è una compagine unica al mondo, e il percorso formativo del Liceo Classico ha un’identità peculiare, che offre agli studenti degli strumenti privilegiati per lo sviluppo di una cittadinanza attiva tale da avviarli verso la presa di consapevolezza del loro legame con quel paesaggio e, di conseguenza, un giorno, verso un atteggiamento responsabile verso lo stesso. Il nostro paesaggio è un patrimonio materiale che presuppone e si integra con un patrimonio immateriale altrettanto complesso: tale patrimonio immateriale sono i testi scritti, nelle tre lingue alla base della cultura italiana ed europea: il greco, il latino e l’italiano appunto. Il Liceo Classico porta gli studenti a comprendere testi in queste lingue e il diuturno lavoro sui testi può dare loro una chiave di lettura più profonda e stratificata della realtà che li circonda. Per questo motivo si è deciso di intrecciare la lettura del testo con un viaggio di istruzione. Obiettivo metodologico di questo lavoro è lo sviluppo della consapevolezza della centralità del testo, da intendere non solo come esercizio scolastico, ma come “fonte” da cui ricavare informazioni da riscontrare sul patrimonio materiale che ci circonda. Ne consegue un obiettivo comportamentale di avvio dello sviluppo della consapevolezza dell’integrazione tra patrimonio materiale e immateriale e, di conseguenza, della consapevolezza di disporre di uno strumento esegetico particolarmente forte che consente non solo la visione dei luoghi, ma anche la decifrazione dei loro impliciti irrinunciabili. Il percorso di studio e di ricerca pluridisciplinare si articola nell’elaborazione di una serie di schede informative sui siti oggetto della visita, nell’elaborazione di un diario di bordo del viaggio dal registro soggettivo e dall’elaborazione di un video narrato. L’attività di ricerca consiste in quattro fasi distinte: una prima in cui gli studenti, insieme con i docenti, si adoperano nella lettura, nella comprensione e nel commento delle “fonti” in lingua latina; una seconda in cui elaborano le schede informative; una terza in cui elaborano il materiale fotografico e il diario di bordo e una quarta, conclusiva, in cui, dopo il viaggio di istruzione, montano il video narrato. Dal punto di vista metodologico, la fase preparatoria si è svolta attraverso lezioni partecipate, la comprensione del testo attraverso la sollecitazione di inferenze e attraverso la somministrazione di quesiti sul testo, analoghi a quelli della prova di certificazione di lingua latina; il resto del lavoro si 2
svolge secondo una modalità di cooperative learning, in cui gli studenti devono dare prova di capacità di mediazione e di organizzazione autonoma del lavoro. 1. Le tappe del viaggio nel ricordo virgiliano. La progettazione del lavoro è partita dalla definizione delle tappe del viaggio in Campania legate al ricordo e alla letteratura virgiliana dei luoghi. A Napoli Virgilio era giunto dopo l’educazione conseguita nella Lombardia e alla scuola del romano Epidio. Anche se non si può determinare con esattezza l’anno del suo arrivo in Campania, è probabile che ciò sia avvenuto tra il 48-47 a.C, quando cioè si può collocare il V Calepton cui il poeta dà l’addio alla retorica e saluta l’approdo ai lidi della beatitudine, ai docta dicta Sironis. Sirone era il maestro di un circolo epicureo di Posillipo, dove aveva una piccola villa che alla sua morte sarebbe stata possesso di Virgilio1. Ercolano fu l’altro centro della filosofia epicurea con Filodemo di Gadara, anch’esso frequentato da Virgilio secondo la testimonianza del papiro ercolanese 1082. In questo e nel papiro 253, vengono dunque ricordate le conversazioni filosofiche a cui parteciparono i poeti augustei (Virgilio, Orazio, Vario e Plozio) 2 . L’itinerario prevede quindi come prima tappa la visita all’Officina dei papiri alla Biblioteca Nazionale di Napoli e i siti archeologici di Ercolano e Pompei, attraverso una ricostruzione attenta dell’arrivo del poeta in Campania, i suoi legami con la filosofia epicurea e il circolo di Filodemo a Ercolano e soprattutto il riflesso di tali suggestioni filosofiche nell’alta valenza attribuita all’amore per la campagna nelle Georgiche, sicuramente composte a Napoli. Sempre a Ercolano e Pompei come oggetto di studio, sono stati inoltre individuati affreschi e scritte che, ancora visibili tra le rovine, testimoniano il vivo interesse riservato a Virgilio e alle sue opere. Il vertice tuttavia sentimentale e poetico dell’incontro di Virgilio con la Campania è nel VI libro dell’Eneide che fu concepito a Napoli. La zona flegrea, e specialmente la città di Cuma, suggerì a Virgilio la concezione e l’immagine dell’oltretomba. Non è possibile percorrere il lido cumano o la Via Sacra che conduce ai templi di Giove e Apollo, né è possibile contemplare l’antro dell’oracolo della Sibilla e il lago Averno, senza ripensare con emozione ai versi virgiliani. Ecco dunque la seconda tappa del nostro itinerario a Cuma guidata dalla lettura attenta in latino e successiva analisi, di alcuni passi tratti dal VI libro (Aen., VI 1-33; 156-211; 212-235; 236-241), che permetterà agli studenti di osservare questi luoghi cogliendo le profonde suggestioni evocate attraverso l’immagine letteraria del poema virgiliano. Come recita il famoso distico ‘Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope; cecini pascua rura duces 3 ’, Virgilio morì a Brindisi, di ritorno dalla Grecia, le sue ossa furono trasportate a Napoli e fu sepolto sulla via Puteolana a circa due miglia dalla città. Ecco dunque che il nostro itinerario sulle tracce di Virgilio in Campania si conclude come ultima 1 Catalepton VIII, 1 e ss. 2 M. Gigante, Virgilio e la Campania , Napoli, Giannini 1984 3 Donato, Vita Vergili 135-139 3
tappa nel Parco Vergiliano a Piedigrotta che contiene il cenotafio del poeta latino, un colombario di età romana, tradizionalmente ritenuto la tomba del poeta. L’importanza di tale luogo e del ricordo ad esso associato, è stata messa in luce anche attraverso la lettura in latino e italiano delle numerose testimonianze legate al sepolcro e visibili in autori e letterati dal I al XV secolo4 . Da sottolineare infine una tappa particolare di questo viaggio in Campania dedicata, oltre a Sperlonga con la famosa Villa di Tiberio e i gruppi scultorei dell’epos omerico, anche a Gaeta. Qui, partendo dal riferimento a Caieta, nutrice di Enea, morta in questi luoghi e ricordata all’inizio del libro VII dell’Eneide, è stato immaginato per gli studenti, un gioco a squadre sull’origine del toponimo e sulle diverse tradizioni ad esso associato. Come ultime precisazioni riguardo alla strutturazione di questo viaggio in Campania, va comunque evidenziato l’inserimento di alcune visite comunque significative, anche se non legate in maniera diretta a Virgilio, come alcune sale scelte del Museo Archeologico di Napoli, la visita della città, le catacombe di Rione sanità e la tomba di Leopardi nel Parco Vergiliano. 2. La preparazione degli studenti al viaggio. Se l’organizzazione dell’itinerario del viaggio in Campania è stata progettata dagli insegnanti delle due classi, la fase operativa ha visto come protagonisti gli studenti. Dopo uno studio attento in latino e in italiano delle fonti, dei riferimenti critici e degli studi relativi ai siti sopra menzionati da parte dell’intera classe, i ragazzi sono stati suddivisi in gruppi di lavoro. Obiettivo è stato quello di creare delle schede relative alle diverse tappe del viaggio che mettessero in luce il legame con il poeta latino attraverso citazioni delle opere virgiliane e non, sottolineando di volta in volta il forte legame tra il soggiorno di Virgilio in questi luoghi e l’immagine letteraria che traspare nelle sue opere attraverso richiami visivi e filosofici. Tale scheda, così definita, verrà poi esposta dai componenti dei singoli gruppi, una volta arrivati nei diversi siti. Parte non meno importante del progetto è stata la suddivisione, sempre all’interno dei gruppi, di altri compiti in loco come riprese video, fotografie e la stesura di un diario di bordo giornaliera che faccia memoria di quanto visto. 3. Il viaggio e la sua narrazione (storytelling) L’iter virgilianum avverrà nel mese di aprile (16-20 aprile), quindi in questa relazione del progetto, non siamo nelle condizioni di registrare l’effettivo svolgimento di quanto fino ad ora progettato ed effettuato. La fase di progettazione ha previsto comunque una prova interdisciplinare somministrata nelle due classi i cui risultati (vedi scheda di verifica del progetto), hanno comunque messo in evidenza l’interesse e la partecipazione degli studenti a questo percorso di studio. Dopo il viaggio e la raccolta del materiale video e fotografico in loco, l’ultima fase del nostro progetto 4 M.Capasso, Il sepolcro di Virgilio, Napoli, Giannini 1983 4
riguarderà la narrazione dei siti visitati in Campania attraverso la tecnica dello storytelling. Quest’ultima altro non è che una narrazione realizzata attraverso strumenti digitali organizzando i contenuti selezionati in un sistema coerente, in modo da ottenere un racconto costituito da molteplici elementi di vario formato (video, audio, immagini, testi, ecc.). Obiettivo finale del nostro progetto è dunque quello di unire il fascino della narrazione al ricordo, amalgamando codici, informazioni ed eventi che partono però nei nostri studenti da un’esperienza significativa e soprattutto realmente vissuta. Proff. Carla Borghetto, Paola Massironi, Alberto Pavan, Anna Topan 5
SCHEDE DEGLI STUDENTI I. Il giovane Virgilio e gli studi in Campania Virgilio proveniva da una famiglia di proprietari terrieri, arricchita anche grazie all’attività di apicoltura da parte del padre e al commercio da parte del nonno materno. Virgilio ha un grande legame con il territorio lombardo e con la sua natura, e ciò è testimoniato da una sua opera, le Bucoliche, scritte tra il 42-39 a.C. Per quanto riguarda il contesto storico il poeta ha vissuto in un periodo molto importante per la storia romana. Egli ha infatti assistito alla battaglia di Farsàlo nel 48 a. C, tra Cesariani e Pompeiani e quella di Filippi, nel 42 a. C, tra i cesaricidi e Ottaviano e Antonio, ma anche all’assassinio di Cesare alle idi di marzo dell’anno 44 a.C. Da sottolineare è che in seguito alla guerra civile di Filippi, si dovette procedere con le espropriazioni dei territori per concederle ai veterani. In particolare i territori di Cremona, Mantova e altre città del territorio lombardo vennero accusate di essersi schierate dalla parte dei cesaricidi e di conseguenza per molte famiglie ci fu la confisca dei beni. Lo stesso Virgilio dunque visse in prima persona questa situazione poiché anche la sua famiglia avrebbe potuto essere vittima dell’espropriazione dei territori e solo grazie ad amicizie influenti, riuscì ad evitare questa situazione. Virgilio frequentò le prime scuole di grammatica a Milano e Cremona e dal 53 a.C la scuola di retorica a Roma presso il retore Epidio, dove conobbe Ottaviano ed entrò in contatto con i poetae novi. Quando si trasferì nell’Urbe conobbe molti poeti e uomini di cultura ma con il tempo abbandonò la retorica, poco congeniale al suo carattere timido e riservato e non ancora trentenne, si spostò nel 42 a.C. a Napoli, alla scuola dei filosofi Filodemo di Gadara e Sirone per apprendere i precetti di Epicuro. Durante i suoi anni a Roma,Virgilio fu accolto all’interno del circolo di Mecenate, uomo politico molto vicino ad Augusto, nato nello stesso anno di Virgilio. Mecenate diede vita a questo circolo per volontà di Augusto, radunando intellettuali, studiosi, filosofi e poeti di quel tempo al fine di propagandare attraverso la letteratura gli antichi valori del mos maiorum allora corrotti dal lusso e dai vizi. Gli fu commissionata la stesura delle Georgiche e in particolare dell’Eneide, ritenuto poema nazionale. Virgilio dunque giunse a Napoli dopo l’educazione conseguita alla scuola del romano Epidio. Non è noto con esattezza l’anno di arrivo in Campania, ma probabilmente avvenne tra il 47-48 a.C. quando dunque si può collocare il V Catalepton. Questo, come dice il nome ("alla spicciolata"),è un "contenitore" di piccoli testi, quattordici componimenti che fanno parte di un raggruppamento di 33 carmi di diversa composizione metrica attribuiti a Virgilio da alcune fonti antiche e ora raccolti in una silloge, l’Appendix Vergiliana . Nel V Catalepton il poeta dà l’addio alla retorica salutando l’approdo ai lidi della beatitudine, ai docta dicta Sironis. 6
Ite hinc, inanes, ite, rhetorum ampullae, inflata rhoezo non Achaico verba; et vos, Selique Tarquitique Varroque, scholasticorum natio madens pingui, ite hinc, inane cymbalon iuventutis. Tuque, o mearum cura, Sexte, curarum, vale, Sabine; iam valete formosi. Nos ad beatos vela mittimus portus magni petens docta dicta Sironis, vitamque ab omni vindicabimus cura. Ite hinc, Camenae; vos quoque ite iam sane, dulces Camenae (nam fatebimur verum, dulces fuistis): et tamen meas chartas revisitote, sed pudenter et raro. ‘Via di qui, via ! Vuote ampolle di retori, parole inturgidite da una valanga di barbari stridori! E voi, e Selio e Tarquizio e Varrone, tribù di pedanti precettori madida di grasso, via di qui, vuoto cembalo della gioventù. E tu Sesto Sabino, desiato amor mio addio! Addio ormai belli della compagnia! Noi a vele spiegate puntiamo ai porti della felicità, in cerca dei dotti detti del grande Sirone, e la vita libereremo da ogni pena. Via di qui, Camene! Eh sì, ormai anche voi dolci Camene – perché dobbiamo confessare il vero, dolci siete state -: e tuttavia in avvenire rivisitate le mie carte, con pudore e raramente’. La Campania rappresentò dunque per Virgilio, il ritiro, la dimora segreta, il rifugio, il secessus, come testimonia nella sicura testimonianza biografica Donato: “habuitque domum Romae Esquiliis iuxta hortos Maecenatianos, quamquam secessu Campaniae Siciliaeque plurimum uteretur’. “Ebbe in Roma una casa nell'Esquilino presso gli orti di Mecenate, ma se ne stava quasi sempre lontano e solo, in Campania e in Sicilia”. E qui in Campania Virgilio si dedicò allo studio della filosofia epicurea introdotta a Napoli ad opera di due maestri di origine siriana Filodemo di Gadara (110-35 a.C.) e Sirone. Il fondatore della scuola epicurea fu Epicuro, nato in Grecia, presso l’isola di Samo tra il IV e il III sec a.C. L’epicureismo è una dottrina filosofica che mira alla felicità personale dell’uomo e predicava il “vivi nascosto”, poiché credeva che gli affari, le guerre e la politica potessero sconvolgere l’animo umano e non condurlo all’atarassia. Massima tuttavia invisa alla cultura romana da sempre impegnata in modo attivo nella vita pubblica e politica. Riprendendo il principio dell’atomismo, Epicuro afferma che ogni cosa, anche l’animo umano è 7
formata da tanti atomi che possono unirsi o disgregarsi, e in questo modo annulla la paura della morte che insieme al fatto che gli dei non si interessano all'uomo e non hanno incidenza sulla sua vita, che il dolore fisico ha una durata breve e che il piacere è soppressione del dolore raggiungibile soddisfacendo gli stimoli primari, costituiscono il quadrifarmaco, ovvero la ‘ricetta’ per la felicità umana. L’influenza dell’epicureismo è visibile non solo nelle Georgiche ma anche nella condanna dell’amore passionale nel IV libro dell’Eneide. Per Epicuro, infatti, che compie una distinzione dei diversi bisogni dell'uomo, da necessari a naturali, anche l'amore, ed in particolare l'amore passionale, ha una sua esatta identificazione, venendo considerato dunque un bisogno naturale ma non necessario, senza il quale l'uomo può benissimo sopravvivere. Anche in Virgilio l’amor è il perno negativo su cui ruota una triplice opposizione: l'otium del pastore, nelle Bucoliche; la cura dell'allevatore, nelle Georgiche, ma in particolare la pietas del guerriero, nell'Eneide. Si legge nelle Bucoliche, X 69: Omnia vincit Amor et nos cedamus Amor Amore vince su tutto e noi cediamo ad Amore. Ma è proprio contro la capacità di sacrificare il piacere al dovere di Enea che si scontra l'amor di Didone, caratterizzato da un furor , da una passione violenta che degrada la donna da regina a baccante, classico simbolo della femminilità scatenata e incontrollata, e che, secondo le idee di Epicuro, una volta entrato in contatto con l'atarassia, ovvero l'assenza di turbamento, che contraddistingue l'epicureismo, rischia di distruggerlo. Nonostante gli storici descrivano Filodemo e Sirone come autori non originali, le testimonianze parlano di un grande fervore culturale del territorio. Filodemo visse nella Villa dei Pisoni, protetto da Calpurnio Pisone Cesonino, padre di Calpurnia e quindi suocero di Giulio Cesare. Tale villa risale all’epoca romana e sepolta durante l'eruzione del Vesuvio del ιλ d.C., fu ritrovata a seguito degli scavi archeologici dell'antica Ercolano. Questa è anche conosciuta come Villa dei papiri perché al suo interno conservava una biblioteca con oltre milleottocento papiri, molti dei quali contenenti frammenti di opere del filosofo e opere inedite della scuola di Epicuro. Anticamente entrambi i maestri presero parte attiva alla vita culturale della città: tra i loro allievi ci furono Virgilio ed Orazio oltre a Vario Rufo e Quintilio Varo. Sirone fondò la scuola di Posillipo, nei pressi di Napoli, dove possedeva una piccola villa circondata da un giardino di fronte all’azzurro mare. In questa villa trovò il suo rifugio Virgilio, tanto che alla morte del maestro ne divenne proprietario, come viene dimostrato nell’VIII Catalepton. Villula, quae Sironis eras, et pauper agelle, verum illi domino tu quoque divitiae, 8
me tibi et hos una mecum, quos semper amavi, siquid de patria tristius audiero, commendo in primisque patrem: tu nunc eris illi, Mantua quod fuerat quodque Cremona prius. ‘O villetta, che un tempo eri di Sirone e tu, piccolo povero campo – eppure per quel padrone anche tu eri una ricchezza- se dovessi udire qualcosa di più sulla mia triste patria, a te mi affido e insieme con me affido i miei da me sempre amati – ecco essi sono qui – e, primo di ogni altro, mio padre; tu ora sarai per lui quel che prima Mantova, quel che prima fu Cremona’ Ispirate alla filosofia epicurea e ai paesaggi di Partenope e dei Campi Flegrei non furono tanto le Bucoliche delle quali conosciamo solo l’anno di composizione tra il 42-39 a.C. quanto le Georgiche che risalgono al 37-30 a.C. e in cui Virgilio nei versi finali dichiara, Georg., IV 563-566: Illo Vergilium me tempore dulcis alebat Parthenope studiis florentem ignobilis oti, carmina qui lusi pastorum audaxque iuventa, 565 Tityre, te patulae cecini sub tegmine fagi. In quel tempo, mi accoglieva la dolce Partenope, immerso in occupazioni prive di gloria. Io, Virgilio, narrai i canti dei pastori e, audace di giovinezza, cantai te, Titiro, all’ombra d’un frondoso faggio. Le Georgiche sono un poema didascalico, costituito da quattro libri che nell’ordine trattano: il lavoro dei campi, l’arboricoltura, l’allevamento del bestiame, l’apicoltura. Un’opera scritta non con l’intento di creare un manuale di avviamento all’agricoltura, ma con quello di rappresentare la vita del contadino come ideale: essa è frugale e austera, certo esposta a insuccessi e sofferenze, ma se vissuta in armonia con la natura e con l’ordine divino delle cose è moralmente soddisfacente e procura in compenso pace e soddisfazione; il lavoro agreste è il fondamento della grandezza d’Italia. La coltivazione dei campi può essere una metafora: i toni usati fanno capire che l’opera era destinata all’élite romana e gli argomenti agricoli rappresentano gli antichi valori della Roma delle origini, valori che la propaganda augustea teneva in grande considerazione. Nelle Georgiche emerge quanto incise profondamente sull’animo del poeta l’influenza della filosofia epicurea nel connotare di un’altra valenza di pensiero l’amore per la campagna, che rappresenta per lui un rifugio spirituale dalle guerre civili ma anche una insopprimibile dimensione dello spirito per l’acquisto della felicità interiore. In questi luoghi Virgilio respirava l’otium, termine latino che letteralmente indica il tempo libero, che per l’autore era favorevole alla poesia e realizzava il modello epicureo del vivere nascosto, nel contrasto tra l’otium nella campagna e i negotia degli uomini presi dal turbine della vita politica, nella gioia della contemplazione, nella 9
visione di una vita serena lontana dalle ambizioni volgari. Lo stesso Filodemo, il filosofo che, come detto sopra, conobbe Virgilio, nell’opera Sull’economia , ha concepito e teorizzato una nozione della campagna non solo come ritiro, secessus o ignobile otium, ma anche matrice di mezzi e di frutti. La visione virgiliana della campagna si dimostra dunque concorde a quella della filosofia epicurea, di cui senz’altro Virgilio ha subito un’influenza pur non essendo un filosofo epicureo. II. Un’altra Eneide: affreschi e iscrizioni virgiliane a Pompei Quel Virgilio che a Napoli cantava degli esiti felici della filosofia e della religiosità, riappare a Pompei nelle trascrizioni di alcuni versi sulle pareti e nelle ispirazioni di alcuni dipinti all'interno delle varie abitazioni. Grazie a Pompei ci è possibile comprendere la misura dell'universalità della poesia virgiliana che in poco tempo si diffuse in tutto il mondo civile dominato o influenzato da Roma. Sono molti i versi dell'Eneide trascritti sui muri di questa città che ci sono arrivati. Forse il più importante tra questi è la “parodia” del primo verso del I libro (rinvenuto ben 1ι volte nella sua forma originale) presente nella lavanderia di un certo Fabius Ululitremulus, dove fu graffito fullones ululamque cano, non arma virumque ovvero “non canto le armi e l'eroe ma la civetta e i i tintori”. Colui che scrisse ciò adatta l'eroico verso ai nuovi eroi della media borghesia pompeiana, che avevano un ruolo nella vita commerciale e politica. In un'altra citazione presente nella casa di Marco Fabio Rufo, ovvero Antenor potuit mediis elapsus Achivis Illyricoso penetrare sinus, viene proposta la tradizione dell'arrivo dell'eroe troiano Antenore a Padova, probabilmente prima che Enea fondasse la nuova Troia: ma Ugo Foscolo vide in Antenore l'eroe pio e profugo fondatore di Padova e di Venezia, su questa testimonianza sviluppò la polemica contro Roma e l'età Augustea e, ponendo a Venezia il trasferimento degli dei, dava un colpo mortale alla tradizione delle origini divine di Roma. Molti dei versi tratti dal II libro sono presenti nella casa del Menandro, in cui, per esempio, viene ripetuto per ben 15 volte l'inizio del libro; altri versi presenti in quest'abitazione sono: • v. 14 relativo a coloro che costruiscono il cavallo ductores Danaum (tot iam labentibus annis) • v. 148 con le parole pietose del vecchio Priamo al falso Sinone quisquis es, amissos hinc iam obliviscere Graicos • v. 324 venit summa dies et ineluctabile tempus (Dardaniae), pronunciate da Panto, sacerdote di Apollo che consegna a Enea i Penati destinati a vivere in Roma eterna. Molti altri sono i graffiti presenti per le strade di Pompei, soprattutto ricordiamo quelli del VI libro. Tra questi è presente il graffito si potuit Manis arcessere coniugis Orpheus il quale richiama le 10
parole di Enea alla Sibilla; mentre vinceret amor patriae laudumque immensa cupido richiama invece le parole di Anchise. Del IX libro ritroviamo il v. vidisti quo Turnus equo, quibus ibat in armis aureus? , con la domanda di Ascanio a Niso, e tu, dea, tu praesens nostro succurre labori, che riconduce al centro dell'incontro di Eurialo con Niso. Di certo non possono mancare affreschi che hanno come soggetto episodi dell'Eneide. Innanzi tutto nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli troviamo una raffigurazione di Enea, ferito in combattimento, mentre viene operato dal medico Japix che cerca di estrarre parte della freccia nemica conficcatasi nella coscia dell'eroe, il quale poggia con affetto la mano sinistra sulla spalla del figlio Ascanio. Dall'alto giunge in volo Venere portando un fascio di erbe medicinali per Affresco pompeiano conservato al Museo archeologico nazionale di Napoli curare la ferita, mentre alle spalle di Enea due guerrieri armati assistono alla scena. L'affresco riprende l'episodio del XII libro dell'Eneide quando Enea venne ferito dai Rutuli ad una coscia da una freccia e fu costretto a ritirarsi. Realizzato da un pittore dalle scarse capacità artistiche, l'interesse cade soprattutto nel vedere un medico che esegue una vera e propria operazione. La scelta del soggetto, rappresentato all'interno di un triclinium (sala destinata a ricevere ospiti) rappresenta certamente un omaggio al racconto mitologico delle origini di Roma. Inoltre del poema è rappresenta innanzi tutto la fuga di Enea da Troia della casa del Criptoportico dove sono stati dipinti Enea, Anchise ed Ascanio che guidati da Ermes fuggono da Troia: il fregio, eseguito negli anni 20 del I sec a. C., mostra nella concezione dell'artista il 11 Affresco pompeiano di Enea con Anchise e Ascanio
passaggio dall'antica alla nuova Troia. In questo affresco è raffigurato Enea con il padre sulle spalle, che tiene in mano, nella capsa , i Penati di Troia. All’eroe è assegnata la figura di centro, che domina lo spazio e la scena. Il figlio però, è rappresentato più grande di quanto dovrebbe essere un normale bambino, inoltre non è avvinghiato al braccio paterno, come lo descrive Virgilio (non passibus aequis). Ascanio tiene per mano il padre e sembra lui a guidarlo, per risultanza prospettica. D’altronde sarà Ascanio a fondare Alba che in seguito darà origine alla dinastia di Romolo e da cui si farà discendere la gens Iulia. Il dipinto è situato nella parte alta della casa dove sono dipinte altre scene della guerra di Troia, dalla peste nel campo acheo fino ai giochi funebri in onore di Patroclo. Torniamo quindi alla già citata casa del Menandro, dove è rappresentata la morte di Lacoonte con i suoi due figli il quale presenta un'azione che si svolge alla presenza di due gruppi di spettatori atterriti, a sinistra e a destra, connotati come Troiani dai costumi orientali. Un figlio del sacerdote è Affresco sulla morte di Laooconte conservato a Pompei, nella casa del Menandro morto e giace nudo in primo piano, mentre il secondo, nudo e indossante la clamide, resiste disperatamente al serpente che lo ha assalito. Laocoonte, con il capo cinto da una corona d’alloro e vestito con il mantello e una lunga e bianca tunica sacerdotale manicata, lotta con il secondo serpente, il cui assalto lo ha costretto ad inginocchiarsi per terra. L’improvvisa e concitata interruzione del rito è illustrata dal repentino rovesciamento di una tavola da sacrifici e degli oggetti rituali che stavano su di essa. A sinistra di Laocoonte c’era un podio, oggi riconoscibile solo dal fatto che la sua presenza nasconde i corpi di un gruppo di Troiani. Sempre alla sinistra del sacerdote si trova il corpo giacente del toro con il sangue visibile sulla cervice a testimonianza dell’inizio dell’uccisione e la nebbia di fumi retrostante, segno di oscuri presagi. Laocoonte è rappresentato con la lunga veste che indossavano i sacerdoti greci mentre sacrificavano davanti alle mura di Troia. Nella parete di fondo della casa del Menandro è invece rappresento l'ingresso del cavallo nelle mura di Troia, in quella settentrionale Cassandra che cerca di tenersi aggrappata al Palladio e Menelao che alla destra di Priamo tiene per i capelli Elena. 12
Il IV libro ci viene in misura maggiore evocato dai dipinti. In più dobbiamo affermare che il pittore di Enea e Didone non Affresco su Enea e Didone conservato nel Museo archeologico nazionale di Napoli poteva ignorare Virgilio. Ebbe forse ragione il Sogliano a sostenere che Virgilio tra i poeti latini è quello che influì più direttamente sulla pittura murale campana: solo quando la materia è invenzione virgiliana non è dubbio che il decoratore attingeva all'Eneide. Questo è appunto il caso del dipinto di Didone che si confida con Anna e le ancelle. Nell'affresco la regina si confronta con le fanciulle riguardo alla partenza dell'eroe di cui è possibile vederne le navi che si allontanano dal porto sullo sfondo. Tra le figure femminili si nota anche una donna dalle corna taurine, personificazione dell'Africa. Anche l'abbandono di Didone è il tema di altri due dipinti virgiliani: uno nel triclinio della Casa degli Amanti, con Enea e Didone abbracciati e seduti sul triclinio, dietro ai quali si nota una grotta oltre che un cane da caccia ai loro piedi e due figure in abiti servili sul lato destro; e l'altro nella Casa di Meleagro. Inoltre un dipinto della Casa di Lacoonte che rappresenta Polifemo e Enea ci riporta al III libro dell'Eneide nei vv.655-661. Altri dipinti ci riportano a episodi della vita dell'eroe come il ricevimento delle armi da parte della madre e la ferita del duello con Turno. Infine, in un elmo gladiatorio pompeiano sono rappresentate sequenze dell'Eneide fino all'apoteosi di Iulo. Il successo pompeiano di Virgilio è quindi notevole: non occorre infatti arrovellarsi per attestare la popolarità all'Eneide nella città vesuviana. Luna Benotto, Lorenzo Conte, Marta Fogolin, Vittoria Pivetta, Matilde Priviero, Iulia Bona Vespaziani Reginato 13
III. I luoghi dell’Eneide III. 1 Cuma e il tempio di Apollo, Aen. VI La tappa più importante di questo Iter Vergilianum è Cuma, in quanto rappresenta il centro di uno dei passi più poetici di tutta l’Eneide. Ora noi leggeremo, tradurre ed esaminare più nello specifico i primi versi 1-5 del VI libro. Sic fatur lacrimans classique immittit habenas et tandem Euboicis Cumarum adlabitur oris obvertunt pelago proras;tum dente tenaci ancora fundabat navis et litora curvae praetexunt puppes”. Il poeta ci presenta un Enea in uno stato di profondo abbandono a causa della perdita del nocchiero, nonché suo fedele compagno, Palinuro, la cui morte è narrata nel V libro: attraverso questo primo verso Virgilio lega il VI libro con il precedente, e allo stesso tempo ci ostenta la sfera emotiva che caratterizza il protagonista, a differenza di quanto veniva fatto nei due poemi greci, in cui i personaggi da individui pensanti venivano ridotti a meri stereotipi. Subito dopo Virgilio ci mostra l’approdo a Cuma, fornendoci un’immagine profondamente poetica in cui la nave viene paragonata ad un cocchio, giacché quando si vuole andare più veloci le redini vengono allentate così come le vele vengono invece dispiegate: vi è attraverso questa metafora un’unione forse tra il passato e il presente dal momento che i cavalli simboleggiano Ilio, ed anche perciò i Troiani, mentre le vele, l’Italia, quindi un passaggio alla “cultura italica”. L’eruditissimo Virgilio non si sofferma soltanto sul piano poetico ma anche su quello storico, Cuma infatti viene detta Euboicae orae, poiché i suoi fondatori sono stati gli Eubei di Calcide: essa è stata la prima colonia greca in Italia, fondata nel 730 a.C. , assai florida e potente fino al 421 a.C. quando soccombette ai Sanniti, fino a giungere alla definitiva conquista romana del 334 a.C. .Tuttavia notiamo un evidente anacronismo, poiché la fondazione nell’Eneide risale ad un periodo di molto precedente a quello reale (Enea giunge subito dopo la caduta di Troia, mentre Dedalo ancora prima), Aen., VIII 5-8: Iuvenum manus emicat ardens litus in Hesperium: quaerit pars semina flammae abstrusa in venis silicis, pars densa ferarum tecta rapit silvas inventaque flumina monstrat. Nella seconda sequenza viene messa in rilievo la differenza tra Enea e i suoi compagni: il primo 14
riveste il ruolo di pater pius, volendo recarsi subito dalla Sibilla per ricevere i responsi di Apollo, mettendo in primo piano il bene comune. D’altra parte i giovani si mostrano individualisti, andando alla ricerca alcuni del fuoco, altri dell’acqua. Particolare quel semina flammae, attraverso cui si vuole designare la selce:questo è un chiaro richiamo al I libro, in quanto Acate prima di ogni altra cosa si preoccupa di accendere tramite la selce il fuoco. Ricorre anche il bosco, visto come luogo in cui trovano rifugio le fiere (densa tecta ferarum, sineddoche che indica appunto la folta selva), Aen., VI 9-13: At pius Aeneas arces, quibus altus Apollo praesidet, horrendaque procul secreta Sybillae, antrum immane, petit, magnam cui mentem animumque Delius ispira vates aperitque futura. Iam subeunt Triviae lucos atque aurea tecta. Qui Enea si avvia finalmente, percorrendo la via sacra, verso il tempio di Apollo definito, tramite un’ipallage, altus, dando così un’indicazione topografica, visto che il luogo di culto si trovava in una posizione sopraelevata, sull’acropoli. Qui egli spera di incontrare la Sibilla, già a lui nota grazie alla profezia di Eleno, presente nel III libro, e al monito del padre Anchise, apparsogli in sogno nel V. Il tempio di cui parla Virgilio è quello restaurato dallo stesso Augusto in età imperiale, che era in realtà un imponente complesso termale. Elemento centrale di questo passo è l’antro definito immane, termine che, assieme all’allitterazione della “m” amplifica ancor più la grandezza e l’atmosfera cupa e misteriosa e ci sembra quasi di sentire la voce della profetessa che rimbomba contro le oscure pareti. Nelle vicinanze vi era il lago d’Averno (il suo nome deriva dal greco aornos che significa “senza uccelli”, infatti questi, sorvolandolo cadevano morti per le esalazioni delle molte fumarole). Viene citato anche il bosco sacro a Trivia, identificata con Diana dal momento che è la divinità che personifica la terra (dea della caccia), il cielo (la luna), e gli inferi (poiché moglie di Plutone), Aen., VI 14-30: . Daedalus ,ut fama est, fugiens Minoia regna, praepetibus pinnis ausus se credere caelo, insuetum per iter gelidas enavit ad Arctos Chalcidicaque levis tandem super adstitit arce. Redditus his primum terris tibi, Phoebe, sacravit, remigium alarum posuitque immania templa. In foribus letum Androgeo; tum pendere poenas Cecropidae iussi (miserum!) septena quotannis 15
corpora nato rum, stat ductis sortibus urna. Contra elata mari respondet Cnosia tellus: hic crudelis amor tauri suppostaque furto Pasifae mixtumque genus prolesque biformis Minotaurus inest, Veneris monumenta nefandae; hic labor ille domus et inextricabilis error; magnum reginae sed enim miseratus amorem Daedalus ipse dolos tecti ambagesque resolvit, caeca regens filo vestigia. Enea prima di imbattersi nella Sibilla si sofferma ad ammirare i bassorilievi presenti sulle porte (similmente a quanto avviene nel I libro con gli affreschi nel tempio di Giunone a Cartagine) del tempio di Apollo: infatti esso è stato costruito da Dedalo, dopo essere fuggito dal regno minoico, volando sopra le nuvole (enavit ad Arctos) in modo tale che la cera che legava le penne non si sciogliesse per via del Sole, come era capitato invece a Icaro. Mirabile la metafora remigium alarum, che ci fa immaginare in una maniera molto realistica il modo in cui erano disposte le penne, esse sembravano infatti delle file di remi (si può notare anche un paragone tra i remi e le ali in quanto entrambi permettono il movimento, da una parte la navigazione, dall’altra il volo). Le scene raffigurate trattano delle mitiche vicende cretesi: Androgeo, figlio di Minosse, valoroso atleta, che vinse moltissime gare alle Panatenaiche, ferendo l’orgoglio degli Ateniesi, i quali accecati dall’invidia lo uccisero. Il re cretese, adirato oltremodo, impose ad Atene un forte tributo, basato sul sacrificio di sette fanciulli e sette fanciulle (secondo Virgilio le vittime erano soltanto sette e non quattordici);essi infatti, ogni nove anni sarebbero andati in pasto al Minotauro, bestia ibrida (metà uomo e metà toro), frutto dell’amore nefando (da ne for , “che non si può dire”) tra Pasifae e un toro, suscitato da Venere per vendicarsi della regina cretese, giacché quest’ultima rese noto il suo tradimento con il dio Marte, celato a Vulcano). Il Minotauro, secondo la leggenda, fu rinchiuso nel palazzo-labirinto, costruito dall’architetto Dedalo; dopo che il mostro fu ucciso grazie all’intervento dell’eroe ateniese, Teseo, figlio di Egeo, aiutato nella propria impresa da Arianna, definita regina poiché sorella di Androgeno e così figlia di Pasifae, il costruttore fu imprigionato assieme al figlio nella reggia, giacché era a conoscenza dell’amore indicibile. Sul piano lessicale importanti sono i termini monimenta e error : il primo non indica un semplice ammonimento, destinato ad essere dimenticato, bensì una traccia perenne. Il secondo invece, è riferito al labirinto e ci mostra con immediatezza il groviglio di strade: error infatti contiene la radice di errare, che significa sbagliare ma anche vagare (viene adoperato lo stesso termine per indicare l’andirivieni dei Troiani durante il ludus Troiae nel V libro), Aen., VI 29-32: . 16
Tu quoque magnam partem opere in tanto, sineret dolor, Icare haberes. Bis conatus erat casus effingere in auro, bis patriae cecidere manus. In quest’ultimo passo è presente tutta la sensibilità di Virgilio che ci narra la morte di uno dei tanti giovani, e la sofferenza di un padre, che non ha nemmeno la forza di scolpire e di ripensare alla triste vicenda, soccombendo a quell’abbandono interiore, amplificato dall’anastrofe (bis, bis). Aen. VI, 156-167 Aeneas maesto defixus lumina voltu ingreditur, linquens antrum, caecosque volutat eventus animo secum: Cui fidus Achates it comes et paribus curis vestigia figit. Multa inter sese vario sermone serebant, quem socium exanimem vates, quod corpus humandum diceret. Atque illi Misenum in litore sicco, ut venere, vident indigna morte peremptum, Misenum Aeoliden, quo non praestantior alter aere ciere viros Martemque accendere cantu. Hectoris hic magni fuerat comes, Hectora circum et lituo pugnas insignis obibat et hasta. Enea, lasciando l’antro, cammina cogli occhi fissi a terra e lo sguardo triste e medita tra sé sugli oscuri eventi. Va con lui Acate, compagno fidato, e muove lenti passi con uguali affanni. Di molte cose discorrevano tra loro e con opinioni diverse, di quale compagno estinto e di quale corpo da seppellire parlasse la veggente (Sibilla). Ed ecco che essi, non appena giunsero sull’asciutto lido, vedono Miseno figlio di Eolo, strappato da un’indegna morte, del quale nessuno era più capace di eccitare i soldati con la tromba e infiammare col suono la battaglia. Costui era stato compagno del grande Ettore, al fianco di Ettore affrontava le battaglie, famoso sia per la sua tromba che per la capacità nel maneggiare l’asta. Virgilio dal verso 156 del VI libro dell’Eneide narra le vicende di Enea da quando è uscito dall’antro per consultare la Sibilla. Molto importante è la figura di questa profetessa, che viene definita dal poeta con il termine vates e quindi un’indovina quasi paragonabile ad un Dio. Enea pensa e ripensa alle parole di costei e insieme al suo amico fidato discutono tra loro con opinioni diverse e poi scorgono Miseno sulla 17
costa strappato da una morte indegna. In questi versi sono presenti delle figure retoriche molto importanti, primo tra tutti un chiasmo, una costruzione incrociata che lega due parole chiave per la caratterizzazione del personaggio, cioè aere all’inizio del verso e cantu alla fine. Segue poi una metonimia dove Virgilio con il termine bronzo fa rifermento alle armi (e quindi al materiale con il quale le armi sono costruite), per concludere con la perifrasi Martem accendere, “suscitare battaglia”, il temine battaglia è espresso attraverso Marte, dio della guerra, questo può rappresentare sia una personificazione sia una metonimia. Acate Inoltre, in questi versi si distingue anche la figura di Acate; egli durante la guerra di Troia, sembra apparire come l'uccisore di Protesilao, il primo eroe greco a morire sulla costa asiatica. Più volte citato da Virgilio sin dal primo libro, viene indicato come uno dei fedelissimi di Enea, sempre al suo fianco in tutte le sue peripezie, ed è il capitano di una delle navi con cui Enea e i suoi lasciano Troia. Enea è tanto sicuro della fedeltà di Acate da arrivare ad affidargli le proprie armi. In questi versi Acate è ricordato per essere colui che conduce Enea all'antro della Sibilla. Durante la guerra fra Troiani ed Italici, Acate farà da scudiero a Enea, aiutandolo come si vede soprattutto nel libro X, allorché il capo troiano verrà assalito da sette giovani guerrieri latini, tutti figli di Forco. In tale circostanza Acate rimane leggermente ferito dall'asta che uno di questi, Numitore, scaglia contro Enea. Nel libro XII egli si renderà anche autore dell’uccisione di un rutulo e lo decapiterà con la spada. Marte Marte (in latino: Mars) è, secondo la religione romana, il dio della guerra, dei duelli e degli spargimenti di sangue, l'equivalente della divinità greca Ares. Secondo la mitologia romana più arcaica è anche il dio del tuono, della pioggia e della fertilità. Insieme a Quirino e a Giove, faceva parte della cosiddetta Triade Capitolina arcaica, che in seguito, su influsso della cultura etrusca, sarà invece costituita da Giove, Giunone e Minerva. Più tardi, identificandolo con il greco Ares, venne detto figlio di Giunone e di Giove. Nel De agri cultura , Catone lo invoca per proteggere i campi da ogni tipo di sciagura e malattia, e per questa ragione gli studiosi del passato credevano fosse una vera e propria divinità agraria, ma è stato in seguito verificato che il suo ruolo nell'agricoltura è esclusivamente di difensore armato dei campi da mali umani e soprannaturali. Il dio, inoltre, rappresentava la virtù e la forza della natura e della gioventù, che nei tempi antichi era dedita alla pratica militare. Marte, nella società romana, assunse un ruolo molto più importante della sua controparte greca (Ares), probabilmente perché considerato il padre del popolo romano e di tutti gli italici in generale: Marte, accoppiatosi con la vestale Rea Silvia, generò Romolo e Remo, che fondarono Roma. Di conseguenza Marte era considerato il padre del popolo romano e i romani si chiamavano tra loro 18
Figli di Marte. Il mese di marzo, il giorno di martedì, i nomi Marco, Marcello, Martino, il pianeta Marte, il popolo dei Marsi e il loro territorio Martia Antica (l'odierna Marsica) devono a lui il loro nome. A Roma Marte era onorato in modo particolare. A partire dal regno di Numa Pompilio, venne istituito un consiglio di sacerdoti, chiamati Salii, riconoscibili per la loro tunica color porpora, chiamati a vigilare su dodici scudi sacri, gli Ancilia , di cui si dice che uno sia caduto dal cielo. Aen. VI, 168-178 Postquam illum vita victor spoliavit Achilles, Dardanio Aeneae sese fortissimus heros addiderat socium, non inferiora secutus. Sed tum forte cava dum personat aequora concha, demens, et cantu vocat in certamina divos, aemulus exceptum Triton, si credere dignum est, inter saxa virum spumosa inmerserat unda. Ergo omnes magno circum clamore fremebant, praecipue pius Aeneas. Tum iussa Sibyllae haud mora, festinant flentes aramque sepulcri congerere arboribus caeloque educere certant. Dopo che Achille vincitore spogliò lui (Ettore) della vita, questo fortissimo eroe si era aggiunto come compagno ad Enea Dardanio, seguendo imprese non inferiori. Ma allora per caso mentre fa risuonare con la cava conchiglia le distese del mare folle e mentre sfida gli dei ad una gara di canto, un tritone invidioso, se è lecito crederlo, aveva sommerso con un'onda spumeggiante tra gli scogli quel guerriero preso alla sprovvista. E dunque tutt'intorno piangevano con grandi grida, in particolare il pio Enea. Allora senza indugio s'affrettano ad eseguire gli ordini della Sibilla e gareggiano nel costruire ammassando gli alberi l'ara del sepolcro e la innalzano al cielo. Sibilla La Sibilla cumana era la somma sacerdotessa dell'oracolo di Apollo (divinità solare ellenica) e di Ecate (antica dea lunare pre-ellenica), oracolo situato nella città magnogreca di Cuma. Ella svolgeva la sua attività oracolare nei pressi del lago d'Averno, in una caverna conosciuta come “l'antro della Sibilla”, dove la sacerdotessa, invasata dalla divinità, trascriveva in esametri i suoi vaticini su foglie di palma le quali, alla fine della predizione, erano mescolate dai venti provenienti dalle cento aperture dell'antro, rendendo i vaticini “sibillini”, cioè ambigui. La Sibilla, in questo episodio dell'Eneide, dopo aver preannunciato ad Enea il suo futuro, su richiesta dell'eroe, lo accompagnerà nel regno dei morti. L'eroe però prima deve obbedire agli ordini della Sibilla, ovvero dovrà trovare un ramo d'oro da offrire alla regina dei morti, Proserpina, e dovrà seppellire uno dei suoi compagni che giace ancora insepolto sulla spiaggia. Enea infatti quando torna presso le navi vi trova morto il trombettiere Miseno, che ha osato sfidare anche gli dei nel suonare la tromba, ma è stato punito e affogato da Tritone, divinità del mare, figlio di Poseidone. 19
Aen. VI, 179-189 itur in antiquam siluam, stabula alta ferarum; procumbunt piceae, sonat icta securibus ilex fraxineaeque trabes cuneis et fissile robur scinditur, aduoluunt ingentis montibus ornos. Nec non Aeneas opera inter talia primus hortatur socios paribusque accingitur armis. atque haec ipse suo tristi cum corde uolutat aspectans siluam immensam, et sic forte precatur: 'si nunc se nobis ille aureus arbore ramus ostendat nemore in tanto! quando omnia uere heu nimium de te uates, Misene, locuta est. Si va nell’antico bosco, riparo profondo di fiere, si abbattono pioppi, il leccio risuona colpito dalle scuri e il frassino e la quercia fendibile si spacca con i cunei, fanno rotolare giù dai monti gli orni giganteschi e certamente Enea per primo in mezzo a tali opere esorta i compagni e si adopera con gli stessi mezzi. E egli tra sè e sè medita nel suo cuore rattristato osservando il bosco immenso e forse così prega: Oh! Se si mostrasse ora quel ramo d'oro da un albero in questo sconfinato bosco, dal momento che la veggente, ahimé, ha detto di te cose purtroppo vere. Enea e i suoi compagni vanno nel bosco vicino per tagliare la legna necessaria alla costruzione della pira per Miseno. Enea è addolorato per la morte dell’amico e allo stesso tempo pensieroso: la morte di Miseno avvalora anche le altre previsioni della Sibilla. Mentre si dedica al lavoro al pari dei suoi seguaci, prega di trovare il ramo d’oro che gli servirà ad entrare nell’Ade. I Troiani condividono il dolore di Enea per la morte di Miseno, e si adoperano per organizzare i riti funebri. Ancora Enea viene definito pius e il suo cuore triste (tristi corde). Miseno Capo Miseno tra l’altro non è un’altura qualunque: costituito da roccia tufacea gialla, rientra in pieno nella zona flegrea, infatti custodisce un antico edificio vulcanico facente parte dei Campi Flegrei e risalente a migliaia di anni fa. Miseno infatti deve il suo nome al mito dell’Eneide di Virgilio e in particolare al passo relativo al viaggio di Enea a Cuma per incontrare la Sibilla Cumana che gli predirà un imminente futuro di guerre e sangue. Qui troviamo la figura di Miseno, trombettiere di Enea che, avendo sfidato Tritone nel suono della tromba, era stato gettato in mare dove era annegato. Aen. VI, 190-200 Vix ea fatus erat, geminae cum forte columbae ipsa sub ora viri caelo venere volantes et viridi sedere solo; tum maximus heros maternas adgnovit aves laetusque precatur: 20
"Este duces, o siqua via est, cursumque per auras dirigite in lucos, ubi pinguem dives opacat ramus humum. Tuque o dubiis ne defice rebus diva parens." Sic effatus, vestigia pressit observans, quae signa ferant, quo tendere pergant. Pascentes illae tantum prodire volando, quantum acie possent oculi servare sequentum. Aveva appena pronunciato queste parole che per caso due colombe volando sopraggiunsero dal cielo sotto lo sguardo di Enea e si posarono sul verde suolo. Allora il grande eroe riconobbe gli uccelli cari alla madre e lieto prega: Siate le mie guide, se c'è un qualche sentiero e per l'aria dirigete il volo nei boschi, dove l'aureo ramo ombreggia la fertile terra. E tu, o madre divina, non abbandonarmi in questa incerta impresa. Detto così, fermò i passi osservando quali indizi offrano, per dove continuino a dirigersi. Le colombe, beccandosi, volando avanzano fin dove con lo sguardo potessero giungere gli occhi di chi le seguiva. Enea vede due colombe, e riconoscendo gli animali devoti alla madre, Venere, chiede loro di indicargli la strada per il ramoscello d’oro, lasciapassare per gli inferi, e prega la madre affinché non lo abbandoni in questi momenti difficili. Le colombe allora si alzano in volo, dirigendosi verso l’albero dove l’eroe avrebbe trovato il ramoscello. In questa parte Enea invoca l'aiuto della madre Venere e trova, grazie ad essa, il ramo d'oro. Egli è forte e ha una grande virtus, però ha bisogno dell'aiuto divino, ciò sottolinea lo stretto legame tra l'uomo e la divinità e la necessaria sottomissione dell’uomo alla divinità. L’Averno L'Averno (o Ade o Orco) identifica il regno delle anime greche e romane. Il regno dei morti greco/latino era un vero e proprio luogo fisico, al quale si poteva persino accedere in terra da alcuni luoghi impervi, difficilmente raggiungibili o comunque segreti e inaccessibili ai mortali. Omero (nell'Odissea ) non gli dà un carattere di vero e proprio "regno" esteso, ma lo descrive solamente come una sfera fisica oscura e misteriosa, perlopiù preclusa ai viventi, dove soggiornano in eterno le ombre (e non le anime) degli uomini senza apparente distinzione tra ombre buone e ombre malvagie. Nella tradizione romana, uno degli ingressi infernali si trovava vicino al lago dell'Averno (che poi divenne il nome del regno infernale stesso), dal quale Enea discese insieme alla Sibilla cumana. Per accedervi bisognava superare prima Cerbero, poi attraversare l'Acheronte versando un obolo al terribile Caronte e raggiungere i tre giudici Minosse, Eaco e Radamanto i quali emettevano il loro verdetto. È composto da varie sezioni; - Il Tartaro, il luogo in cui si trovano sia i Titani che invano tentarono di sconfiggere gli dei Olimpi, sia quei mortali puniti per i loro gravi misfatti come Tantalo, Sisifo, le Danaidi. - Il Prato degli Asfodeli, un luogo bello ma debolmente illuminato dove si aggirano le anime 21
di coloro che in vita non furono né malvagie né straordinariamente virtuose - I Campi Elisi (o Isole Fortunate), luogo molto luminoso a cui accedono le anime più nobili Virgilio aggiunge i Campi del Pianto, riservati ai morti suicidi e a coloro che in vita furono travolti dalla passione, e una sezione che accoglie tutti i caduti in guerra d'animo non malvagio e onorevolmente sepolti. Invece i morti senza tomba, come Icaro e Palinuro, vagano senza sosta al di fuori del regno, secondo alcuni autori per sempre, secondo altri per cento anni, sempre che qualcuno sulla terra non provveda a onorare i loro resti; qualora ciò succeda, essi possono finalmente varcare la soglia dell'Ade ed essere anche loro in grado, come tutti gli altri defunti, di scrutare ciò che succede tra i vivi, e gli eventi futuri. Il lago d’Averno Il lago d'Averno è un lago vulcanico che si trova nel comune di Pozzuoli e precisamente tra la frazione Lucrino e Cuma, nella città metropolitana di Napoli. Il nome Avernus deriva dal greco άο νο (senza uccelli). Si narra che tale assenza fosse dovuta al fatto che le acque del lago esalassero dei particolari gas che non permettessero la vita agli uccelli. Secondo la religione greca e poi romana, era un accesso all'Oltretomba, regno del dio Plutone. Per tal motivo gli inferi romani (l'Ade greco) si chiamano anche Averno. Il lago di Averno giace all'interno di un cratere vulcanico spento, nato 4.000 anni fa. Infatti anche il poeta Virgilio nel sesto libro dell'Eneide colloca vicino a tale lago l’ingresso mistico agli Inferi, dove l'eroe Enea deve recarsi (scrupea, tuta lacu nigro nemorumque tenebris VI 238). Vicino al lago si trovano il Tempio d'Apollo, l’antro della Sibilla cumana (in realtà una grotta scavata nel tufo, di circa 200 m, probabilmente creata per collegare il lago al mare, la quale, per la suggestione dell'ambiente e le infiltrazioni d'acqua che creano un fiumiciattolo sotterraneo, veniva associata allo Stige infernale e ai luoghi dell'Acheronte) e la Grotta di Cocceio, un cunicolo scavato dai Romani per scopi militari che collegava il lago a Cuma. III.2 Dall’eroe Miseno a capo Miseno: l’eziologia nell’Eneide. Eziologia Aen. VI, 232-235 at pius Aeneas ingenti mole sepulcrum imponit suaque arma viro remumque tubamque monte sub aerio, qui nunc Misenus ab illo dicitur aeternumque tenet per saecula nomen ma il pio Enea protegge il sepolcro con gigantesca mole, per l'eroe mette le sue armi, il remo, la tromba sotto l'aereo monte, che ora da lui si chiama Miseno e ne mantiene nei secoli il nome eterno. In questo passo si può individuare un esempio di uso eziologico del mito (αἰτ ο ογ ό da αἰτ α = 22
causa + ογό = racconto), ossia un racconto mitico-storico che tenta di spiegare l’origine di un nome, ricollegandola a personaggi o eventi illustri dell'antichità. Virgilio utilizzava questi al fine della propaganda augustea. Dal momento che i Romani vantavano di discendere dei Troiani e si credevano vendicatori nei confronti dei Greci, lo scopo del collegamento tra i diversi luoghi dell'impero e il troiano Enea era quello di nobilitare l'origine dell'impero romano, alla cui base c'era Augusto. Ogni morte, distruzione e guerra aveva come fine la fondazione di Roma. L'invenzione dell'eziologia è precedente a Virgilio e, infatti, venne utilizzata anche da Ovidio, nel poema Metamorfosi e da Omero negli Inni già a partire dal VI secolo a.C. Alcuni esempi di uso eziologico del mito sono quelli relativi a Capo Miseno e Capo Palinuro, i cui nomi derivano rispettivamente dal trombettiere Miseno e dal nocchiero Palinuro. Capo Miseno Capo Miseno è collocato nella punta estrema della penisola flegrea, tra il comune di Miseno e il porto di Bacoli. Una posizione territorialmente predominante, tanto che con i suoi 164 metri, l’altura da cui svetta il faro di Capo Miseno che abbraccia il golfo di Napoli, segna, in un certo senso, il confine tra il golfo di Napoli e quello di Gaeta. Capo Miseno, rientrante nella zona flegrea, custodisce un antico edificio vulcanico facente parte dei Campi Flegrei e risalente a Capo Miseno un periodo compreso tra i 35.000 e i 10.500 anni fa. Virgilio, nell’Eneide, spiega il nome di questo luogo attraverso la storia di Miseno. Il mito di Miseno Miseno, figlio di Eolo, era il trombettiere dell'esercito troiano. Un giorno in cui la flotta era ormeggiata lungo le coste della Campania, Miseno si vantò con gli dei di saper suonare la tromba meglio di chiunque di loro (…demens = pazzo v. 172, così definito perché ha osato sfidare gli dei) e il dio Tritone che, come Miseno, suonava la conchiglia (...forte cava dum personat aequora concha = mentre per caso con cava conchiglia fa risuonare il mare vv.171-174) lo punì del suo orgoglio precipitandolo in mare (inter saxa virum spumosa immerserat unda = aveva sommerso tra le rocce nell'onda spumosa l'eroe v.174). Il corpo venne subito ritrovato ed Enea, addolorato per la morte dell’amico, organizzò un solenne funerale seppellendo il corpo in quello che oggi è Capo Miseno (il profilo del monte somiglia infatti ad un tumulo, ben descritto ai vv. 232-235 di Aen. VI) ed invocando l’amico perché gli fosse concesso il "ramo d'oro", necessario per discendere agli Inferi. Il funerale di Miseno viene così descritto nei versi 212-235 del VI libro dell’Eneide. I Teucri, 23
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