ISRAELE-PALESTINA: MOLTI TASSELLI PER UN SOLO PUZZLE

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ISRAELE-PALESTINA:
  MOLTI TASSELLI PER UN SOLO PUZZLE
                                                               Antonella Vicini

U         na pesante operazione militare sulla Striscia di Gaza e massicci lanci
          di razzi di Hamas su Israele; un voto all’Onu sul riconoscimento
          della Palestina come “Stato non membro” e la riesumazione del ca-
davere di Arafat a otto anni dalla sua morte. E ancora: il ri-emergente Egitto
nella questione israelo-palestinese e il ruolo più debole dell’Anp. Tutto questo a
due mesi dalle elezioni israeliane.
Non sono pochi gli elementi con cui confrontarsi quando si parla
delle prospettive nelle relazioni fra Israele e Palestina e, nello speci-
fico, delle relazioni fra Israele e governo di Hamas nella Striscia di
Gaza e Anp in Cisgiordania. Un distinguo necessario, questo, ora
più che mai perché al di là degli accordi1 e degli step per la riconci-
liazione2 le due fazioni politiche palestinesi appaiono ormai come
due entità separate non solo geograficamente. Anzi la sensazione è
che dal 2007 agiscano spesso su piani indipendenti.
Certo è che il giubilo dopo il voto alle Nazioni Unite sull’upgrade
della Palestina a “Stato non membro osservatore” è stato un momen-
to di unità nazionale, che non cancella però quella divisione politica
emersa chiaramente durante l’ultima offensiva Pillar of Clouds.

               Gaza, l’Egitto e le elezioni in Israele

Pillar of Clouds o Pillar of Defense (se si preferisce il nome privo di ri-
ferimenti biblici) è l’operazione militare lanciata dall’aviazione isra-
eliana sulla Striscia di Gaza il 14 novembre 2012 in seguito all’ucci-
sione di Ahmed al Jabaari, leader delle brigate Ezzedin Al Qassam
(braccio armato di Hamas) e ai lanci di razzi palestinesi su Israele:
missili Fajr-5 con 75 chilometri di gittata, forniti dall’Iran, che ri-
spetto al passato sono andati ben oltre le zone di confine e il sud

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      di Israele, arrivando fino a Tel Aviv e nei pressi di Gerusalemme.
      Una pioggia di razzi (si parla di 1500 sparati in otto giorni) e conti-
      nue operazioni israeliane nella Striscia di Gaza (che hanno causato
      circa 160 morti fra i palestinesi colpendo 1500 obiettivi), interrotte
      grazie alla mediazione del presidente egiziano Mohammed Morsi,
      investito ufficialmente dagli Stati Uniti di questo nuovo, fondamen-
      tale, ruolo di mediazione.
      Praticamente assente, o comunque defilata la figura di Mohammed
      Abbas: di fronte a Pillar of Defense, l’Autorità Nazionale Palestinese
      si è sostanzialmente fatta da parte lasciando che a negoziare fosse
      la Fratellanza Musulmana egiziana, “genitrice” di quella palestinese.
      Quella stessa Fratellanza Musulmana che pare essere la vera vinci-
      trice della Primavera Araba e che sta rimodellando la regione. Ne
      è uscito così un Movimento Islamico politicamente rafforzato dal
      sostegno dell’Egitto (che aveva già partecipato alle trattative per la
      liberazione del soldato Gilad Shalit) e una Anp indebolita di fronte
      a una compagine israeliana che con tutta probabilità si vedrà ricon-
      fermata alla guida del Paese col voto del 22 gennaio.
      I sondaggi danno vincenti Netanyahu e gli alleati ultraortodossi
      del Yisrael Beytenu (legati al falco Avigdor Lieberman), grazie anche
      alla frammentazione dell’opposizione e all’uscita di scena di Ehud
      Barak. L’ex primo ministro, ex Capo di Stato Maggiore e attuale
      ministro della Difesa, che ora guida la piccola compagine di centro
      Atzmaut, era stato il sostenitore di una linea d’attacco rapida ed inci-
      siva nella Striscia di Gaza. Dopo l’accordo per il cessate-il-fuoco ha
      annunciato il suo ritiro dalla vita politica. Barak, è uno degli uomini
      più influenti in Israele, al pari del presidente Shimon Peres e dell’at-
      tuale premier Benjamin Netanyahu, e la sua scelta lascia un vuoto
      che si tenterà di colmare proprio grazie alle elezioni del 2013. In
      ogni caso quello che pare da escludersi è una virata verso sinistra.
      Nei giorni dell’offensiva su Gaza si è parlato molto di una strategia
      elettorale per il primo ministro, ma c’è chi invece ha collegato quanto
      stava accadendo a una prova generale nei confronti della Repubblica
      Islamica dell’Iran (va sottolineato che la percezione della propria sicu-
      rezza in Israele ultimamente dipende molto da ciò che accade in Iran).

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Un sondaggio pubblicato su Ha’aretz al sesto giorno di conflitto ha
mostrato l’84% della popolazione a favore di Pillar of Defense e solo
il 13% contrario. Secondo Gershon Baskin3, presidente dell’IPCRI-
Israel Palestine Centre for Research and Information, l’opinione pubblica
israeliana si aspetta quindi di più di quanto accaduto con l’ultima
operazione su Gaza: si aspetta che i lanci di razzi verso il sud cessi-
no definitivamente, che Israele forzi un regime change e che ciò che
non è accaduto quando c’è stata l’occasione, cioè dopo l’uccisione
dell’uomo forte del movimento al Jaabari, avvenga in futuro.
Questo peserà sul voto. Come si diceva, con tutta probabilità ri-
troveremo un Israele guidato dai conservatori, accompagnati dagli
oltranzisti di ultradestra (Avigdor Lieberman è colui che nel 2004
promosse il Populated-Area Exchange Plan che puntava addirittura
a separare gli arabi israeliani dagli ebrei israeliani, cedendoli all’au-
torità palestinese), costretto a confrontarsi, però, con un Hamas
molto più consapevole delle sue alleanze. Alleanze che sono via via
mutate nel corso del 2012, passando dall’asse composto da Siria-
Iran- Hezbollah in Libano a quello di Egitto-Turchia- Qatar.
Il Qatar è anche il luogo dove vive il leader politico del movimento Kha-
led Meshaal, dopo aver abbandonato Damasco (e la sfera d’influenza
siriana). Da ricordare, inoltre, che l’emiro Sheykh Hamad bin Khalifa
al Thani il 23 ottobre ha visitato per poche ore Gaza; si tratta della pri-
ma visita di un capo di Stato giustificata dall’inaugurazione di lavori di
ricostruzione stradale per 250 milioni di dollari. Un investimento non
da poco, arrivato da Doha, sunnita, e non da Teheran, sciita, che per il
momento sta continuando il suo sostegno militare ad Hamas.

                       Hamas e le sfide interne

Come spiega bene Paola Caridi la sensazione è che Hamas abbia tutto da
guadagnare dall’isolamento che gli è stato imposto e che il governo di Gaza
si sia trasformato sempre più in “regime” (ne è una dimostrazione la dura
repressione delle manifestazioni dei giovani sulla spinta della Primavera
Araba avvenute nel 2011), “una burocrazia, un governo che controlla un
territorio con limiti ben precisi, definiti dal confine che chiude – anche con

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      l’embargo – la piccola Striscia di Gaza” e che non fa più “resistenza contro
      Israele”4. Almeno queste sono le accuse che provengono dai gruppi inter-
      ni, dall’anima jihadista e salafita (per intenderci quelli che hanno sequestrato
      e ucciso il cooperante Vittorio Arrigoni e quegli stessi ritenuti da Morsi
      corresponsabili dell’attacco avvenuto nel Sinai la scorsa estate, causando la
      morte di 16 guardie egiziane) che criticano Hamas di non fare più resisten-
      za “per rompere un assedio che comprende ancora non solo i confini con
      Israele ma anche il valico di Rafah verso l’Egitto”5.“L’opposizione laica, che
      esprime a sua volta anche fazioni armate - prosegue la Caridi - lancia le me-
      desime critiche a Hamas, accusato di essere a questo punto solo regime”6.
      Frizioni, quindi, anche nello stretto perimetro della Striscia con in
      più l’incognita per il futuro del movimento e della sua leadership:
      Ismail Haniyeh non fa mistero di essere pronto a prendere il po-
      sto che Khaled Meshaal invece è intenzionato a lasciare7. Ma tra i
      candidati c’è anche un veterano come Moussa Abu Marzouq, già a
      capo del politburo prima di essere arrestato e sostituito da Meshaal.
      Marzouq rispetto a Haniyeh vanta buoni contatti con il mondo al
      di fuori di Gaza e vive già in Egitto, al riparo di possibili attentati.
      È evidente, dunque, che al di là dell’euforia per un cessate-il-fuoco
      che ha allentato in piccola parte la morsa israeliana e che ha, di fat-
      to, sdoganato Hamas come controparte politica, la situazione nella
      piccola striscia di terra rischia di esplodere di nuovo.

                  Mahmoud Abbas, leader alle Nazioni Unite

      Che fine ha fatto Abu Mazen?La risposta immediata a una simile
      domanda è che il presidente dell’Anp è più impegnato all’esterno
      del Paese che al suo interno. Mazen è infatti ora il volto, emoziona-
      to e sorridente, dello storico voto all’Assemblea Generale dell’Onu
      che con 138 “sì”, 9 “no” e 41 astenuti ha proclamato la Palestina
      “Stato”, “Stato osservatore non membro”, ma pur sempre “Stato”;
      che politicamente vale molto più di una “Entità”.
      Ma nei Territori le cose vanno in maniera diversa. Nel corso dell’anno
      appena trascorso, Mahmoud Abbas ha manifestato un certo risenti-
      mento di fronte alle manovre politiche di Hamas fatte al di fuori della

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Striscia di Gaza, in Egitto, lo scorso settembre, e ha dovuto confron-
tarsi con la creazione di un nuovo governo di unità nazionale e un
processo di pace bloccato da un Israele troppo preoccupato dall’Iran
per affrontare le molte questioni irrisolte con la Palestina.
Nonostante questo, però, il 2013 si apre con una sua immagine che
richiama un po’ l’icona di Arafat durante il suo storico discorso con
mitra e ramoscello di ulivo.
Simboli. Si tratta di simboli. Anche l’upgrade da “Entità” a “Stato” è
un simbolo, ma ha un significato dalle profonde potenzialità politiche.
Non a caso, Israele non ha gradito. Lo status di “Non-member Obser-
ver State” è certamente meno delle aspirazioni iniziali e non avrà il po-
tere di mutare la situazione sul terreno, di cancellare settlement, muri,
check point e di riunire Striscia di Gaza e Cisgiordania, ma pone la Pale-
stina su un gradino più in alto. A livello pratico, oltre al diritto di parola
durante gli incontri dell’Assemblea Generale, alla partecipazione alle
procedure di voto (senza però poter votare le risoluzioni), offre la pos-
sibilità di accedere alla giurisdizione della Corte Penale internazionale.
L’International Criminal Court (ICC, l’acronimo in inglese) è frutto del
Trattato di Roma, siglato nel 1998 e entrato in vigore nel 2002, e
costituisce un organo permanente, indipendente dalle Nazioni Uni-
te, incaricato di giudicare e quindi porre fine a crimini di guerra,
crimini contro l’umanità, genocidi. I fatti possono essere perseguiti
solo se commessi sul territorio di uno Stato firmatario o da un cit-
tadino dello stesso Stato. In realtà, Israele non ha mai ratificato la
sua adesione, come pure gli Stati Uniti, la Russia e la Cina, mentre
l’Autorità Palestinese aveva provato ad aderire al tribunale, ma pro-
prio la condizione di semplice entità non era stata sufficiente. In un
parere espresso dalla Corte lo scorso aprile8, si chiariva che sarebbe
stato possibile considerare i crimini di guerra commessi in Palestina
solo una volta risolta la controversia sullo status”9. Dopo essere
entrata a far parte dell’Unesco, la Palestina ha di fatto in mano un
altro strumento internazionale.
Oltre a questa nuova possibilità, i punti clou del documento si
trovano nel riferimento esplicito al riavvio dei negoziati di pace e,
soprattutto, nel richiamo alla terra occupata nel 1967 e ai confini

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      prima della Guerra dei Sei Giorni. Le Nazioni Unite ritengono già
      illegittima l’occupazione di quei territori, ma il fatto che venga ri-
      badito e sottoscritto dall’Assemblea vuol dire “fissare” il profilo di
      un futuro palestinese entro i suoi limiti precedenti.

                                Le spoglie di Arafat

      A completare il quadro un altro fatto: la questione della morte di
      Arafat, un caso rimasto in sospeso dal 2004, anno del decesso del
      leader dell’Anp e dell’Olp, su cui si vociferò molto. Complotto o
      morte naturale? Ictus, Aids o polonio? A otto anni dall’evento che
      politicamente si è tradotto in un ulteriore indebolimento dell’Auto-
      rità Nazionale Palestinese, nell’esplosione delle divisioni interne e
      in una disgregazione che ha portato allo scontro diretto tra Fatah e
      Hamas, favorito anche dal ritiro unilaterale israeliano dalla Striscia
      di Gaza, si torna a cercare di far luce su quei fatti.
      Perché solo ora? Solo ora Suha, la moglie del leader palestinese, ha
      sporto denuncia alle autorità francesi, per competenza territoriale, in
      seguito ai risultati di analisi effettuate dai periti dell’Istituto radiofisi-
      co di Losanna che hanno riscontrato polonio 210 radioattivo sugli
      indumenti del presidente palestinese. Ma il polonio, la stessa sostanza
      utilizzata per avvelenare lo 007 russo Litvinenko,è un materiale che
      dimezza la propria radioattività in tempi che oggi rendono difficile
      un’analisi certa. I risultati, se anche dovessero confermare l’intossi-
      cazione del leader, non scioglieranno i molti dubbi sul chi decise di
      eliminare il padre dell’Anp. Se si dovesse rispondere a un semplice cui
      prodest sarebbe facile pensare a Israele, non nuovo a espedienti simili
      (si ricordi il tentato omicidio per avvelenamento di Khaled Meshaal,
      da parte del Mossad costretto poi a fornire l’antidoto su “invito” sta-
      tunitense. Stiamo parlando del 1997, epoca della presidenza Clinton
      e di Benjamin Netanyahu già primo ministro). Ma c’è chi ha puntato
      il dito anche contro i suoi nemici interni o contro la stessa Suha,
      descritta come una donna molto attaccata al patrimonio del coniuge.
      La questione nei prossimi mesi potrebbe approdare alla Corte Pe-
      nale Internazionale, come ha minacciato il capo dell’intelligence

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della West Bank, Tawfik Tirawi. Una minaccia che ora che la Pale-
stina è stata accolta dalle Nazioni Unite come “Stato non membro”
assume tutto un altro rilievo anche per Israele.

Note

1
  http://www.aljazeera.com/news/middlee-
  ast/2011/04/2011427152119845721.html
2
  http://www.reuters.com/article/2012/02/23/us-palestinians-
  unity-idUSTRE81M0TR20120223
3
   “There were three opinions considered. One, supported by pe-
  ople like me, advocated that there was a growing trend of prag-
  matism (to be differentiated from moderation) in Hamas that was
  willing to enforce a ceasefire and undertake preventive actions
  stopping attacks against Israel. The opinion on the opposite side
  argued that Israel needed to conduct a forced regime change
  in Gaza. If Israel did not do it now, it would have to do it in
  the future”. http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2012/
  nov/25/has-pillar-of-defence-created-a-meaningful-deterrent
4
  http://www.ispionline.it/sites/default/files/pubblicazioni/com-
  mentary_caridi_23.11.2012.pdf
5
  ibid.
6
   ibid.
7
  http://www.maannews.net/eng/ViewDetails.aspx?ID=522725
8
   http://icc-cpi.int/NR/rdonlyres/C6162BBF-FEB9-4FAF-AFA9-
  836106D2694A/284387/SituationinPalestine030412ENG.pdf.
  “The Office could in the future consider allegations of crimes
  committed in Palestine, should competent organs of the United
  Nations or eventually the Assembly of States Parties resolve the
  legal issue relevant to an assessment of article 12 or should the
  Security Council, in accordance with article 13(b), make a referral
  providing jurisdiction”.
9
  Tratto dall’articolo pubblicato sul magazine Reset, all’indomani
  del voto. http://www.resetdoc.org/story/00000022143

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