Introduzione - Associazione Culturale Mediterraneo
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Introduzione FISCHIA IL VENTO Al funerale di Vanda Bianchi, la staffetta partigiana “Sonia”, il partigiano Giuseppe Cargioli “Sgancia” chiese gentilmente la parola. Ricordò Vanda e rivelò che forse si era un po’ innamorato di lei: era stata proprio Vanda a convincere lui, giovane partigiano di Giustizia e Libertà, che per ottenere davvero giustizia e libertà serviva un partito organizzato dei lavoratori, e che questa forza era il Partito comunista. Poi “Sgancia” chiese di cantare Fischia il vento. La cantammo in centinaia, guidati dalla sua bella voce. In Eravamo come voi di Marco Rovelli, Giovanni Zaretti “Zara”, partigiano in Val d’Ossola, ricorda che, ai monti, il canto che gli piaceva di più era arrivato dalla Liguria, “un canto che ri- suona nelle orecchie di un reduce della Russia”: Fischia il vento. Una canzone – scrive Rovelli – “che era corsa come il vento di cima in cima, fino a diventare l’unica canzone veramente unifi- cante del movimento resistenziale, per tanti altri versi frammen- tato e difficilmente riconducibile a unità”. In quelle note risuonava, per molti, l’aura della patria del proletariato, di quella Russia che aveva sconfitto l’invasore nazifascista. Ma non era solo quello: l’ardore politico per il sol dell’avvenire si mescolava alla gioiosità e alla leggerezza di una musica che era anche danza, e non un semplice inno. Fu questa mescolanza a rendere popolare la canzone, durante la Resistenza e anche nel periodo successivo. Negli anni Settanta le canzoni della Resistenza conobbero mo- menti di enorme popolarità. Un disco tra i più importanti fu quello del Duo di Piadena, uscito nel 1972: si intitolava Il vento fischia ancora, e si apriva e si concludeva con Fischia il vento. Oggi la canzone simbolo della lotta partigiana è Bella ciao: la cantarono 21
i giovani no global a Genova nel 2001, la cantò Michele Santoro in televisione nel 2002 contro Berlusconi, e oggi è l’inno dei mo- vimenti anti-austerity e delle lotte per la libertà in tutto il mondo. In un’atmosfera di intensa commozione, il comico francese Chri- stophe Aleveque ha cantato Bella ciao al funerale di Tignous, il vignettista ucciso nell’attentato alla redazione di “Charlie Ebdo” del gennaio 2015. Ma Bella ciao diventò canzone simbolo negli anni successivi alla Resistenza: ai monti il canto dei più era, invece, Fischia il vento. E tale è rimasto, per i partigiani, nel dopoguerra, fino ai giorni nostri. Nel libro riporto questo brano di una lettera del partigiano spezzino Bruno Brizzi “Cammello” alla moglie Maria, scritta nel 1952: “Mentre ti scrivo queste parole sacre, un disco alla radio suona l’inno Fischia il vento, mi sento una stretta al cuore e mi pare di rivivere le giornate nostre ai monti, quando si conduceva una lotta che era vita e amore e che oggi continua, sii forte come a te riesce e non farti mai prendere dallo sconforto, Bruno ti pensa e ti è vicino come sempre”. Fischia il vento. Felice Cascione e la canzone della libertà di Do- natella Alfonso è il libro che racconta la storia della nascita di que- sta canzone, e degli uomini che, dopo aver sentito la russa Katiuscia, l’adattarono all’Italia partigiana. Una storia poi ripresa da Marco Rovelli in Eravamo come voi. Due sono i protagonisti: Giacomo Sibilla “Ivan” e Felice Cascione “Megu”. Sibilla, impe- riese, aveva combattuto in Russia, e lì aveva ascoltato e imparato, dalle ragazze e dai prigionieri sovietici, Katiuscia. La musica era stata composta nel 1938 da Matvej Blanter, direttore dell’orche- stra jazz di Stato, riprendendo una melodia popolare. Le parole, del poeta Michail Isakovskij, non parlano di guerra ma d’amore: “Fiorivano i meli, fiorivano i peri / le nebbie veleggiavano sul fiume / Katiuscia discendeva alla riva / all’alta riva scoscesa”. Si- billa tornò dalla campagna di Russia con una grande riconoscenza per il popolo russo: “Sono un popolo magnifico”, diceva, “mi hanno salvato, mi hanno dato da mangiare, sono tornato grazie 22
a loro”. Quando capì di essere a rischio come tutti gli sbandati, salì ai monti della valle di Andora, con la Brigata “Garibaldi” co- mandata da Felice Cascione, il dottore, “U Megu”. “Ivan” amava la musica, portava la chitarra a tracolla, come il mitra. Fu nel casone della Vota Grande al Passo del Beu – il passo del bove – che venne fuori l’idea, nelle serate attorno al fuoco, nelle giornate lunghe da passare in attesa dell’azione, di scrivere la can- zone della Brigata. Scartata l’idea di scrivere un testo sulle note del Nabucco e di Addio Lugano Bella, tutti preferirono, su proposta di “Ivan”, la musica di Katiuscia. Era il dicembre 1943. “Ivan” ricorda che qualche soldato italiano aveva provato a scrivere un testo: il ri- ferimento era al vento, alla bufera. Fu Felice Cascione a buttare giù i primi otto versi. Nella valle di Andora faceva freddo: soffiava il vento, urlava la bufera. Gli uomini soffrivano la fame ma anche la mancanza degli scarponi adatti alla vita sui monti. Felice, iscritto al Partito comunista, aveva chiaro il valore politico della banda. E poi c’erano le donne: come dimenticarle? Lungo il sentiero che li portava al casone dei Crovi provarono a cantare: Soffia il vento, urla la bufera Scarpe rotte eppur bisogna ardir A conquistare la rossa primavera In cui sorge il sol dell’avvenir Ogni contrada è patria del ribelle Ogni donna a lui dona un sospir Nella notte lo guidano le stelle Forte ha il cuore e il braccio nel colpir Mancavano due giorni a Natale. Il paese più vicino, Curenna, appoggiava i partigiani, compreso il parroco. I ragazzi scesero la notte di Natale, finita la messa di mezzanotte si misero a cantare Soffia il vento: fu la prima esecuzione di una canzone destinata a passare alla storia. Il giorno dopo ogni famiglia del paese invitò 23
due partigiani a pranzare con loro. Nei giorni successivi alla banda comandata da Cascione si unì una banda dell’albenganese, co- mandata da Franco Salimbeni: l’unità fu sancita al casone dei Crovi, dove Sibilla intonò ancora Soffia il vento. “Megu” fece arri- vare alla madre Maria il testo della canzone: perché era maestra, ma soprattutto perché era sua madre. Dalle correzioni di Maria nacque il testo definitivo, dal titolo Fischia il vento. “Eppur bisogna ardir” diventerà “Eppur bisogna andar” solo successivamente: fu una trasformazione della tradizione orale. Nel foglietto di Maria, ancora conservato, ci sono anche i versi successivi: Se ci coglie la crudele morte Dura vendetta sarà del partigian Ormai sicura è la bella sorte Contro il vile che ognun cerchiam Cessa il vento calma la bufera Torna fiero a casa il partigian Sventolando la rossa bandiera Vittoriosi alfin liberi siam Il giorno dell’Epifania la canzone venne cantata anche ad Alto, pochi chilometri più a nord ovest, dove la banda si era spo- stata per raggiungere una posizione più elevata e strategica. Le finestre si aprirono, la gente batté le mani. È ad Alto, il giorno dopo, che Cascione venne a sapere della fuga del fascista Do- gliotti, un tenente delle brigate nere catturato in battaglia. “Megu” si era opposto alla sua fucilazione, lo aveva curato, aveva cercato di educarlo alla libertà: ma pagò la sua clemenza con la morte. Le indicazioni di Dogliotti condussero le brigate nere dai garibaldini. Cascione, ferito in battaglia, disse ai suoi uomini di andarsene, “vi copro io”. I fascisti ne catturarono uno, lo tortu- rarono per fargli dire dov’era il capo, e fu Cascione che allora gridò “il capo sono io”. Fu falciato da una raffica. 24
All’indomani dell’uccisione, il ventenne Italo Calvino, di San- remo, aderì assieme al fratello Floriano alla seconda Divisione d’assalto “Garibaldi”, intitolata a Cascione. Il futuro scrittore lo ricordò con queste parole: “Il tuo nome è leggenda, molti furono quelli che infiammati dal tuo esempio s’arruolarono sotto la tua bandiera...”. In seguito Cascione fu chiamato “il Che Guevara di Imperia”. Venuto a saperlo, il figlio del Che, Camilo Guevara March, si recò a rendere omaggio al monumento a “Megu” a Case Fontane di Alto. Cascione non poté più cantare Fischia il vento, ma la canzone divenne sempre più popolare nelle bande, anche in quelle della Resistenza spezzina. Piaceva la sua levità musicale, e la capacità delle parole di rispecchiare sia la situazione in cui i partigiani si trovavano sia il loro “spirito” politico. Esaminiamo qualcuna di queste parole. Il termine “ardir” fa riferimento all’etica dell’“ardito” e agli arditi della guerra ’15-18. Nella denominazione delle “Brigate d’assalto Garibaldi” non si può non vedere qualche eco dei “re- parti d’assalto” (appunto gli arditi) della prima guerra mondiale. Ritroviamo la parola in La Brigata Garibaldi, l’inno quasi uffi- ciale delle Brigate garibaldine della provincia di Reggio Emilia, composto collettivamente da un gruppo di partigiani a Casta- gneto di Ramiseto sull’aria di una vecchia marcia fascista (ma la cui origine più antica potrebbe essere ottocentesca e garibaldina): Noi siamo i partigiani Fate largo che passa la Brigata Garibaldi La più bella, la più forte, la più ardita che ci sia La parola “ardito” richiama anche la memoria degli Arditi del Popolo, gli unici a combattere con le armi contro il fascismo nel 1921-22. Nella provincia spezzina gli Arditi del Popolo, prove- nienti da Spezia e da tutta la Val di Magra, furono protagonisti, 25
insieme agli Arditi sarzanesi, della vittoriosa difesa di Sarzana dalla spedizione fascista del luglio del 1921. L’episodio si ripro- dusse in scala minore alla Serra di Lerici nel febbraio del 1922. L’ardimento, inteso come coraggio, è la parola chiave di que- sto libro: da qui la scelta del titolo. Coraggio inteso innanzitutto come coraggio morale. Perché, come disse Robert Kennedy, “il coraggio morale è merce più rara del coraggio in battaglia o del- l’intelligenza” (discorso detto Ripple of Hope, pronunciato al- l’Università di Capetown il 6 giugno 1966). Il valore del coraggio morale, che caratterizzò i partigiani, è più che mai attuale in una fase in cui è del tutto assente dalle qualità degli uomini pubblici, sostituito dall’accondiscendenza supina e dalla cedevolezza d’animo. Di coraggio morale abbiamo bisogno perché “solo il ritorno alla politica-virtù può redimere la politica-tecnologia del potere dal discredito crescente di cui è oggetto, smascherando la sua tendenziale propensione al cinismo” (Pierfranco Pellizzetti, Società o barbarie, Il Saggiatore 2014). La parola “rosso”, riferito alla bandiera, richiama il simbolo della radicalità e anche un’affermazione di identità e (nei più an- ziani e acculturati) il desiderio che venisse riscattata la sconfitta del proletariato nel “biennio rosso” ’19-20. Il recupero della me- moria storica del “biennio rosso” è un filo che ritroviamo in tutta la Resistenza: in particolare in quella spezzina. La classe operaia della città fu un soggetto protagonista della scena sociale e po- litica fin dal primo sciopero generale nazionale nella storia d’Ita- lia, quello del settembre 1904, e dalla grande lotta sindacale per gli aumenti salariali al cantiere del Muggiano nel luglio-agosto 1905. Il primo ucciso dei tanti spezzini caduti nelle lotte sociali fu Renzo Micchi, freddato a colpi di pistola dai carabinieri nel- l’agosto del 1907, in viale Garibaldi. Il 20 maggio 1915 il cir- condario spezzino fu decretato “piazza di guerra”, soggetto a una sorta di dittatura militare fino alla fine della guerra. La prima grande manifestazione del dopoguerra si tenne nel marzo ’19, 26
con l’obbiettivo della riduzione dell’orario di lavoro. Nel giugno fu indetto lo sciopero generale contro l’aumento dei prezzi - 15.000 operai sfilarono per le vie della città – mentre tra luglio e settembre si sviluppò l’azione di solidarietà verso i soviet di Russia e Ungheria. Alle elezioni politiche del novembre il Partito socialista ottenne nel circondario spezzino il 40% dei voti, eleg- gendo per la prima volta nella storia della città un lavoratore, Angelo Bacigalupi, a deputato. Tra il marzo e il maggio del 1920 si tenne uno sciopero a oltranza per ottenere aumenti salariali. Le lotte del biennio culminarono nell’occupazione delle fabbri- che nel settembre, “con l’obbiettivo del controllo delle aziende per arrivare alla gestione collettiva e alla socializzazione di ogni forma di produzione”. La prima fabbrica occupata fu il cantiere del Muggiano, “solennemente dichiarato proprietà del proleta- riato, con relativo inalberamento di bandiera rossa con la scritta ‘Cantiere dei soviet’”. La bandiera rossa sventolò anche nella grande caserma “Duca degli Abruzzi”. L’occupazione si concluse -come nelle altre fabbriche del Nord- con una sconfitta, che si tradusse poi nella vittoria del blocco di destra alle elezioni am- ministrative dell’ottobre-novembre (Sindaco fu eletto Ezio Pon- tremoli) e nell’avanzata dello squadrismo fascista: il primo assalto alla Camera del Lavoro fu respinto il 2 novembre 1920, ma nel marzo del 1921 i fascisti, aiutati dalle guardie regie, occuparono la sede sindacale. Nella manifestazione del successivo sciopero generale le guardie regie uccisero l’operaio anarchico Adolfo Oli- vieri. La classe operaia spezzina, malgrado le violenze, aveva an- cora una sua forza: nelle elezioni politiche del maggio 1921 il Partito socialista ottenne il 33,4% dei voti, il Partito comunista, fondato nel gennaio, l’8,9%: due risultati molto migliori rispetto a quelli regionali. La manifestazione di entusiasmo dei giovani operai spezzini fu fermata da una strage: i carabinieri uccisero cinque ragazzi. Il funerale fu seguito da 30.000 persone: un segno di forte radicamento, ma in una situazione ormai com- 27
promessa, in cui lo squadrismo si faceva sempre più minaccioso. L’ultima grande lotta sindacale fu lo sciopero generale di cinque giorni del novembre 1921. Scrive Antonio Bianchi in Storia del movimento operaio di La Spezia e Lunigiana (Editori Riuniti 1975): “Ebbe inizio, a partire dal marzo 1922, il forte esodo dalla zona di centinaia di antifascisti, operai, contadini, artigiani, in- tellettuali, appartenenti al Partito comunista, al Partito socialista, agli anarchici e ai gruppi degli Arditi del Popolo. Molti dei pro- tagonisti delle lotte politiche e sindacali, che dal 1919 avevano lottato per l’emancipazione dei lavoratori, erano già stati arrestati. Ora, a questo vuoto di quadri politici e sindacali, si aggiunse un esodo costante, che si indirizza dapprima soprattutto verso la Francia e poi verso la Svizzera, l’Inghilterra, gli Usa e perfino il Sud America. Tale esodo avrà carattere quasi continuo fino al 1925 e, per quanto il numero di questi esuli politici non si sia mai saputo con certezza, tuttavia si calcola che almeno 3.000 persone lasciarono il circondario”. Il 28 ottobre 1922 Spezia venne occupata militarmente dalle squadre d’azione fasciste ap- poggiate da polizia e esercito. Le spedizioni punitive provocarono molte vittime. È una storia che va richiamata, perché spiega come la Resistenza sia stata interpretata, soprattutto nell’ambito operaio, anche come una ripresa, lo svolgimento finale di un conflitto apertosi tra il ’19 e il ’22. Come un riscatto dopo una transitoria sconfitta. Molti di quegli operai e lavoratori combatterono il fascismo nella clandestinità: la Resistenza non si sarebbe sviluppata senza la preparazione ideale e politica di tanti anni di lotta sotterranea contro la dittatura, senza quei militanti tenaci e “arditi” che ave- vano saputo resistere organizzando la controffensiva. Sottoline- arlo non significa sostenere la tesi della continuità pura e semplice tra antifascismo e Resistenza. Come ha scritto Norberto Bobbio, “la Resistenza fu un fatto nuovo perché fu prima di tutto un’impresa militare, il passaggio dalla fase della cospirazione a 28
quella della lotta armata, ma in quanto fu anche un movimento politico, se pur complesso, articolato e tutt’altro che coerente, non potè non essere insieme l’espressione ravvivata, aggiornata, adeguata ai nuovi obbiettivi, della tradizione dell’antifascismo militante nelle sue varie versioni e soluzioni” (Eravamo ridiventati uomini, Laterza 2013). I giovani che diventarono antifascisti per ragioni che inizialmente non avevano nulla a che vedere con le battaglie politiche di vent’anni prima si unirono ai “vecchi” an- tifascisti. Nella Resistenza spezzina questi ultimi ebbero un ruolo chiave: Anelito Barontini, Paolino Ranieri, Dario Montarese, Tommaso Lupi, Terzo Ballani, Mario Ragozzini, Agostino Bronzi, Amedeo Sommovigo, Paolo Borachia sono solo alcuni dei nomi più importanti, appartenenti a tutte le forze politiche antifasciste. Va detto che la sottolineatura della parola “rosso”, cioè del- l’apporto della classe operaia, in grande maggioranza comunista e socialista, alla Resistenza nazionale e spezzina non significa so- stegno alla tesi, del tutto sbagliata, della Resistenza “rossa”. La Resistenza fu un fatto unitario e di massa, come dimostrano le storie e i ritratti raccolti nel libro. Lo stesso Cascione poté cantare Fischia il vento a Curenna, come ho ricordato, perché dalla parte dei partigiani c’era tutta la popolazione contadina, parroco in testa. A livello nazionale, e spezzino in particolare, va inoltre ri- cordato un dato essenziale: la forte presenza delle bande di Giu- stizia e Libertà. Anche il fascino di Fischia il vento che derivava dal fatto di essere una canzone russa, e quindi di richiamare il “mito sovie- tico”, si espandeva molto al di là del mondo comunista e socia- lista. È vero: nella “rossa” Val di Magra si gridava “viva Stalin, viva la Russia”, come fece in pubblico il manovale Gino Storti di Castelnuovo a Sarzana già il 23 luglio 1943, prima della ca- duta di Mussolini. Ma, come ha raccontato un partigiano del CIL, il Corpo di Liberazione composto da militari, che combat- 29
teva insieme agli alleati: “In una battaglia che stavamo facendo, in cui ci stavamo prendendo un mucchio di botte dai tedeschi, e stavamo lì lì per scappare, l’ufficiale aveva strillato per tre volte ‘Avanti Savoia!’ e nessuno si muoveva. S’alzò in piedi un com- pagno – repubblicano – dice: ‘Avanti Stalin!’. Si spostò tutta la compagnia” (Lotte parziali e insurrezione nazionale, L’Unità, edi- zione settentrionale, 20 marzo 1944). La parola “ribelle”, presente anch’essa in Fischia il vento, è ter- mine assai diffuso e unitario: è sia nell’inno garibaldino (cantato, nella Resistenza spezzina, anche dai partigiani giellisti) Siamo i ri- belli della montagna, sia nella Preghiera del ribelle per amore, scritta dal partigiano cattolico Teresio Olivelli. Merita un cenno, infine, il termine “crudele morte”: esso non ha nulla a che fare con la cultura fascista della morte. Come ha scritto Claudio Pavone: “La morte arrecata ad altri aggredendolo è parte della cultura fascista; e la morte propria e di quelli della propria parte è un elemento integrante di questa mistica mortua- ria, che spinge perfino ad aumentare, rispetto al dato reale, il nu- mero dei propri caduti. Nei resistenti invece la possibilità di essere uccisi appare soprattutto come un pegno dato alla propria co- scienza di fronte al diritto che ci si riconosce di uccidere; e nei bollettini partigiani si accresce, spesso oltre misura, il numero dei nemici uccisi, mai quello dei propri morti” (La guerra civile, Bol- lati Boringhieri 1991). In Fischia il vento la morte è, appunto “crudele”. E in Siamo i ribelli della montagna le parole “Viviam di stenti e di patimenti” sono arcaiche e molto poco fasciste. Em- blematiche di questa differenza sono anche le Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (Einaudi 1952). Per esempio Eu- sebio Giambone “Franco”, partigiano comunista piemontese, scrive alla moglie Luisetta: “Io che non sono credente, io che non credo alla vita dell’al di là, mi dispiace morire ma non ho paura di morire: non ho paura della morte, sono per questo un Eroe? Niente affatto, sono tranquillo e calmo per una semplice ragione 30
che tu comprendi, sono tranquillo perché ho la coscienza pu- lita…”. Viene in mente Ada Gobetti, quando parla della sua ge- nerazione “che affronta il destino qual è nella sua aridità tragica, senza bisogno di abbellirlo, di rivestirlo d’aure eroiche: tanto più eroi in quanto non vogliono esserlo, non sanno nemmeno di es- serlo” (Diario partigiano, Einaudi 1972). UN GRANDE MOTO POPOLARE La Resistenza fu, secondo Bobbio, un movimento che mirò alla restaurazione dell’indipendenza nazionale, alla riconquista della libertà politica, all’instaurazione di uno Stato nuovo, social- mente più giusto. Come guerra patriottica, fu combattuta da quella parte dell’esercito rimasta fedele alla monarchia, che accettò la rottura dell’alleanza con la Germania e si organizzò per liberare l’Italia dalla dominazione straniera; come guerra antifascista fu combattuta da tutti i partiti antifascisti riuniti nei Comitati di Li- berazione Nazionale per sconfiggere il fascismo; come guerra ri- voluzionaria e di emancipazione sociale, oltre che come guerra patriottica e antifascista, fu combattuta dal Partito comunista e dal Partito d’azione, i maggiori organizzatori della lotta armata, e in misura minore dal Partito socialista. La Resistenza si intende solo se si considera la diversità e il faticoso intreccio unitario tra questi tre piani. Del resto, nella nostra cultura popolare, era molto radicato il legame simbolico tra pane e libertà. Per Bobbio l’insieme di queste tre componenti caratterizzò la Resistenza come un grande moto popolare, “l’unico grande moto popolare dell’Italia moderna”: “Quando parlo di ‘guerra popolare’ non voglio dire che vi abbia partecipato attivamente tutto il po- polo: coloro che si battono nel momento delle grandi decisioni sono sempre una minoranza. Ma la lotta impari e disperata di questa minoranza non sarebbe stata possibile senza il consenso e 31
la collaborazione degli operai nelle città, dei contadini nelle cam- pagne, di intellettuali, di amministratori, di professionisti che co- stituirono una fitta rete protettiva delle bande armate e dei gruppi d’azione partigiana. La Resistenza fu un moto popolare perché vi parteciparono spontaneamente, senza imposizioni dall’alto, senza coscrizione obbligatoria, uomini dei ceti popolari, di quei ceti che erano sempre stati estranei alla vita politica italiana, e non avevano partecipato che in minima parte alle guerre d’indipendenza” (Era- vamo ridiventati uomini, cit.). Nel libro emerge con chiarezza il carattere di “guerra popolare” della Resistenza spezzina: tutto il popolo, anche quello non combattente, vi partecipò con la sua opera di solidarietà, dagli operai delle fabbriche della città ai con- tadini della Val di Magra, della Val di Vara e della Lunigiana. E decisive furono le donne, non a caso tra le protagoniste del libro: per tutte Vanda Bianchi, Elvira e Dora Fidolfi, Vega Gori, Maria Ledda, Bianca Paganini e Laura Seghettini. Se gli operai, a partire dal grande sciopero del marzo 1944, diedero alla Resistenza il tratto della lotta di classe, le manifestazioni di assistenza che videro protagonista il mondo delle campagne introdussero nella nostra vicenda resistenziale un tratto più ampio di quello della lotta di classe. Tutti gli strati sociali parteciparono: non è vero che il po- polo fu scoraggiato e silente. La Resistenza fu una “guerra popo- lare” perché il popolo – anche le donne, che sono coloro che più aborrono le guerre – ne comprese il significato e diede tutto se stesso nella lotta per la sopravvivenza, perché anche di questo si trattò, e per la vittoria. I partigiani dei nostri monti sopravvissero nel durissimo inverno 1944-45 soprattutto grazie alle famiglie contadine e alle coraggiose donne della Val di Vara e della Luni- giana, che li ospitarono e li sfamarono per mesi. Lo sforzo costante del libro è quello di rievocare non solo lo scontro bellico ma anche la corposità e l’intensità della Resistenza non armata; e di far par- lare non solo i comandanti militari, ma anche le donne, gli operai, i contadini, i ragazzi, i sacerdoti. 32
Ha ragione ancora Bobbio quando insiste sul carattere di novità della guerra partigiana nella storia d’Italia e sulla sua diversità dal Risorgimento, perché non fu solo una “rivoluzione di intellettuali” ma anche “la più grande lotta” mai combattuta da “coloro che non sono mai stati considerati, se non in momenti eccezionali, i pro- tagonisti della storia” (Eravamo ridiventati uomini, cit.). Tra questi ultimi vi furono anche le donne e gli uomini del Sud: se è vero che l’esercito del Regno del Sud non partecipò, sostanzialmente, alla guerra antitedesca, è anche vero, però, che molti meridionali diventarono partigiani al Nord (nella Resistenza spezzina due nomi per tutti: Dante Castellucci “Facio” e Antonio Siligato “Nino”) e che molti atti di protesta e di rivolta della popolazione contro te- deschi e fascisti si svolsero in tutte le regioni del Sud. LA GUERRA PATRIOTTICA La Resistenza fu un processo di riconquista dell’identità nazio- nale. Nel settembre 1943 il timore era che l’Italia, nell’assenza di ogni autorità, cessasse di essere un autonomo soggetto statale. Poi le cose cambiarono: “Da quando si sono formati i primi gruppi di cosiddetti ‘ribelli’ abbiamo visto che il nome ‘Italia’ veniva pro- nunciato con un certo senso di ammirazione, non più con di- sprezzo”, scriverà un commissario garibaldino di Reggio Emilia (in Claudio Pavone, La guerra civile, cit.). Nella Resistenza spezzina la componente “patriottica” fu molto forte per la presenza della Marina Militare. Nel libro viene ricor- dato il sacrificio degli uomini della corazzata “Roma”. Tra i primi caduti della Marina nella lotta antifascista vi fu il capitano Mario Mastrangelo, spezzino, protagonista della difesa di Cefalonia. Inol- tre, fin dai primi giorni dell’occupazione tedesca, si creò un’orga- nizzazione militare clandestina antifascista – animata da uomini come il capitano Renato Mazzolani, appartenente a Giustizia e Li- 33
bertà – che confluirà nelle SAP (Squadre di Azione Patriottica) coinvolgendo anche graduati dell’Aeronautica e dell’Esercito. Le azioni di sabotaggio condotte da questo gruppo furono preziosis- sime: soprattutto quelle che avvennero nelle acque del golfo nella notte tra il 21 e il 22 giugno 1944, quando con cariche esplosive furono affondati l’incrociatore “Bolzano” e un sommergibile. Maz- zolani, catturato dalle brigate nere, per non tradire i compagni si suicidò in carcere il 24 febbraio 1945. Furono le SAP a difendere gli impianti industriali spezzini, sabotando le mine poste dai te- deschi, mentre in montagna la difesa delle centrali elettriche e delle dighe dell’Appennino ligure-tosco-emiliano fu affidata ai parti- giani. Anche così si riconquistò un’identità nazionale. La parola “Patria” è la parola chiave delle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana, anche dei comunisti. Albino Al- bico scrive: “Contento di morire per la nostra causa: il comunismo e la nostra cara e bella Italia”. Arturo Cappettini saluta la mamma con: “Addio evviva l’Italia evviva l’idea comune”. Cesare Dattilo parla della sua morte scrivendo: “Questo destino colpisce solo ogni vero Italiano della nuova Patria che risorge”. Quasi le stesse parole della lettera di Romolo Iacopini alla madre: “Mi sento veramente un italiano, contento di andare alla morte invocando la tua bene- dizione”. Famose diventarono nel dopoguerra le parole scritte da Walter Fillak, partigiano operante in Liguria e in Piemonte: “Sono tranquillo e sereno perché pienamente consapevole di aver fatto tutto il mio dovere di italiano e di comunista”. Fino all’ultima let- tera alla madre: “Mia cara mamma, è la mia ultima lettera. Molto presto sarò fucilato. Ho combattuto per la liberazione del mio Paese e per affermare il diritto dei comunisti ala riconoscenza e al rispetto di tutti gli Italiani”. Le Lettere rivelano gli indizi di un’ere- dità culturale in cui l’anelito della Patria mantiene un ruolo deci- sivo. Altrettanto e forse ancor più decisiva, in questa eredità, sarà, come vedremo, la presenza, a volte anche inconsapevole, di una dimensione religiosa. 34
LA GUERRA ANTIFASCISTA Quella che Claudio Pavone ha definito la “guerra civile” tra gli italiani non fu combattuta tra il Regno del Sud e la Repub- blica sociale italiana ma tra i fascisti e gli antifascisti, sull’unico territorio che li vedeva presenti entrambi politicamente e mili- tarmente, l’Italia centrosettentrionale. Ma la lotta assumeva un significato coinvolgente l’intero popolo italiano. Così, nella stessa area dell’Italia, la lotta tra fascisti e antifascisti negli anni Venti, con la vittoria dello squadrismo, aveva inciso sulle sorti di tutta la nazione. Spezia fu zona di scontro feroce in entrambe le guerre. Pavone afferma che, scorrendo i documenti resistenziali più di- retti e spontanei, “sembra prevalente l’odio contro i fascisti ri- spetto a quello contro i tedeschi” (La guerra civile, cit.). Mentre gli azionisti non muovevano di massima obiezioni contro questa tendenza a vedere nel fascista il nemico principale, i dirigenti comunisti sentirono più volte la necessità di frenarla, preoccupati che essa conducesse all’offuscarsi del carattere nazionale della lotta. Essi ammonivano sempre che la lotta contro i tedeschi do- veva essere considerata quella principale. In realtà, sul campo, furono più spesso i tedeschi a mediare con la popolazione che non i fascisti. E i tedeschi a volte riuscirono anche a dirottare contro i fascisti la rabbia partigiana. Le Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana sono, anche in questo caso, rivelatrici. Se Luigi Ciol muore scrivendo “A morte il fascismo e viva la libertà dei popoli”, Giordano Ca- vestro parla del fascismo come di “un grosso mostro che vuol fare più vittime possibile”. Emblematica la lettera di Giovanni Mecca Ferroglia a un amico partigiano: “Il mio destino è stato questo: mi hanno denunciato al Tribunale più schifoso che esista: ti narro un po’ il processo. Mi portarono via dalle carceri legato come un delinquente, sbattendomi sul banco degli accusati. I giudici sono tutti assassini e delinquenti: non mi hanno fatto nemmeno par- 35
lare. Chiesero la mia condanna a morte col sorriso sulle labbra e hanno pronunciato la mia condanna ridendo sguaiatamente come se avessero assistito a una rappresentazione comica”. A Spezia, come altrove, il carattere antifascista della guerra partigiana fu molto netto. Nel libro emerge con forza dalle te- stimonianze di tutti coloro che raccontano che cosa fu il 21° Reggimento Fanteria: la caserma, occupata dalle brigate nere, fu trasformata in comando-carcere e in luogo di terribili torture. La stessa memoria spezzina della deportazione è fortemente an- tifascista, non solo antinazista: dal 21° partivano infatti i prigio- nieri condannati ai campi di concentramento in Germania. Il carattere antifascista della guerra partigiana emerse con net- tezza non solo durante la guerra ma anche dopo, al tempo dei processi contro i crimini fascisti, che rivelarono una vera e pro- pria galleria degli orrori. La Corte d’Assise straordinaria della Spezia (composta da un Presidente e da quattro giudici popolari, scelti dal Presidente del Tribunale su un elenco compilato dal CLN) nel periodo che va dal giugno 1945 al maggio 1947 emise tutta una serie di sentenze, delle quali ben 21 alla pena capitale (ma tre soltanto furono eseguite), mentre altre pene dello stesso tipo o a trent’anni furono emanate da Corti di altre città italiane per fatti commessi anche nel nostro territorio. I fascisti spezzini, catturati e concentrati nel campo di prigionia di Coltano (Pisa), erano stati prelevati e tradotti in carcere a Spezia, “scortati” da centinaia di antifascisti. I processi sono stati raccontati da Anto- nio Bianchi nel suo La guerra fredda in una regione italiana. La Spezia e Lunigiana 1945-1953 (Franco Angeli, 1991). In parti- colare fu il “processo Gallo”, dal nome del maggior imputato, che si tenne presso la Corte d’Assise straordinaria dal 6 al 14 maggio 1946, a impressionare la pubblica opinione e a mobili- tare migliaia di persone, a cominciare dai parenti delle vittime. Decine di donne parteciparono vestite di nero al processo nella palestra di via Napoli, mentre la folla era trattenuta fuori. Aurelio 36
Gallo, il più feroce torturatore del 21° Reggimento Fanteria, fu condannato a morte insieme a Emilio Battisti e a Achille Morelli. Altri tre imputati furono condannati a trent’anni: non solo l’Anpi ma anche la Camera del Lavoro chiesero un “più rigido senso di severità”. Il 22 novembre 1946 le sentenze furono con- fermate. Il 23 gennaio 1947 una grande folla bloccò piazza Verdi, mentre posti di blocco spontanei, sconfessati dai partiti della si- nistra, dall’Anpi e dalla Camera del Lavoro, sorsero nei quartieri più popolosi della città. Furono il segretario dell’Anpi Piero Ga- lantini, già comandante della Brigata “Muccini”, e il segretario della Fiom Otello Giovannelli a convincere i manifestanti ad avere fiducia e a evitare lo sciopero generale. Il 5 marzo i tre con- dannati a morte vennero condotti al forte Bastia, nel Comune di Vezzano Ligure, e fucilati. LA GUERRA RIVOLUZIONARIA La guerra rivoluzionaria o di classe coinvolse molti partigiani, soprattutto di estrazione operaia. La classe operaia delle fabbriche principali fu, nel dissolversi delle istituzioni sociali e civili dopo l’8 settembre 1943, il gruppo sociale che rivelò i maggiori tratti di coesione e di solidarietà interna. Luigi Migliavacca scrive alla madre: “Cerca di essere fiera di aver dato un figlio per la libertà della classe operaia” (Lettere dei condannati a morte della Resi- stenza italiana, cit.) Le motivazioni di emancipazione sociale spesso convissero, nei resistenti, con quelle patriottiche e con quelle antifasciste. I fucilati che morirono gridando “viva il co- munismo, viva l’Italia, viva la libertà” oppure “viva l’Italia, viva Stalin, viva il comunismo” sintetizzarono nel loro estremo mes- saggio le ragioni plurime della loro scelta. Tra i quadri comunisti ci fu un travaglio, teso a non annebbiare nell’unità nazionale ogni opposizione di classe, ma alla fine fu egemone la politica di 37
Palmiro Togliatti: costruire l’unità nazionale, spingere le masse povere a uscire dal sovversivismo e dalla rivolta, riconciliare classe e nazione. La riconciliazione tra classe e nazione certamente non cancellava il tratto di fondo della partecipazione operaia alla Re- sistenza: la speranza di una maggiore fratellanza tra gli uomini, l’ideale di una società fondata su una maggiore eguaglianza, sulla eliminazione dei privilegi economici, sull’abolizione della distin- zione tra le classi. Ma temperava questa spinta con quella unita- ria. Nella più vasta solidarietà nazionale si svilupparono anche rapporti tra industriali e operai. A Spezia ci furono piccoli indu- striali che collaborarono in qualche modo alla Resistenza: Primo Ferrari, per esempio, come rivelano le memorie di Primo Batti- stini “Tullio”, raccolte nel libro. La salvaguardia degli impianti e delle macchine era, del resto, un elemento che univa, al di là della distinzione tra le classi. Il forte senso della dignità operaia comportava un’etica del lavoro, per cui l’essere un buon parti- giano e un buon comunista era un tutt’uno con l’essere un lavo- ratore serio e capace, orgoglioso del proprio lavoro e della propria fabbrica. Questa etica del lavoro caratterizzò sia la Resistenza che la ricostruzione. Il Pci non diede indicazioni di lasciare le fabbriche per i monti: la Resistenza italiana doveva essere, come in effetti fu, una combinazione tra lotta di massa e lotta armata. I quadri fu- rono ripartiti tra le fabbriche e i monti, anche se, dopo gli scio- peri del marzo 1944, ci fu una svolta nel segno della lotta armata: sia per assestare il colpo finale ai nazifascisti sia per evitare che i capi dello sciopero fossero arrestati. In ogni caso il nesso tra mo- bilitazione di classe e guerra partigiana si presentò, in Italia, con caratteristiche uniche, originali rispetto alla Resistenza europea. La vicenda spezzina, da questo punto di vista, è emblematica. Il ruolo fondamentale del Pci nella lotta in fabbrica veniva da lontano, dall’avvento del fascismo. Nuclei clandestini comu- nisti si formarono in molte fabbriche: furono decimati dagli ar- 38
resti del 1928 ma riuscirono a organizzare manifestazioni all’Oto Melara e allo jutificio nel 1932, fino ai nuovi arresti del 1933, del 1935, del 1937 e del 1941, nel mentre cresceva una nuova leva di giovani operai che fu protagonista della guerra di Spagna e poi della Resistenza. Ma il ruolo fondamentale dei comunisti non cancella quello svolto da altre forze politiche. Vale, anche in questo caso, l’esperienza spezzina: già nel luglio 1943 Anelito Barontini, incaricato dal Pci della ripresa del lavoro nelle fabbri- che, ricercò subito i contatti con i rappresentanti delle altre forze politiche. In quei mesi nacque un Comitato unitario sindacale clandestino, coordinato dal comunista Mario Ragozzini, dal so- cialista Rolando Locori e dal democristiano Amedeo Ravecca. Oltre al grande sciopero del marzo 1944, che diede un colpo formidabile al regime nazifascista, va ricordata la successiva azione di difesa degli impianti e delle macchine in una fase de- cisiva della guerra, dalla quale dipendeva la possibilità della ri- messa in funzione delle fabbriche a liberazione avvenuta. I tedeschi avevano provveduto a far saltare i moli di attracco nel porto e tutti gli impianti portuali fin dall’ottobre 1944, mentre erano iniziati gli scavi per minare l’Arsenale, strade, ponti e gal- lerie. Si erano salvati fabbriche e cantieri perché impegnati nella produzione bellica. Furono gli operai a salvare il porto. E a smon- tare e a nascondere le macchine delle fabbriche pezzo per pezzo, sia allo jutificio Montecatini che al cantiere Ansaldo del Mug- giano, per evitare che i tedeschi potessero portarle in Germania. Il riferimento alla presenza democristiana nel Comitato uni- tario sindacale richiama la questione del ruolo dei cattolici nella Resistenza: in quella patriottica, in quella antifascista ma anche, sia pure in modo minore, in quella operaia. La religione come istituzione spingeva allo stare super partes e a volte alla compro- missione: anche se non va dimenticato che, nonostante orienta- menti vaticani molto “continuisti” verso il fascismo, Pio XII nel 1944 espresse in un radiomessaggio una preferenza verso la de- 39
mocrazia, motivandola anche in relazione al fatto che gli Stati democratici non avevano voluto la guerra ed erano intervenuti per contrastare l’aggressione nazifascista e per ripristinare la pace. La religione come fatto di coscienza spingeva, invece, a schierarsi contro la prepotenza e l’ingiustizia. Il “basso clero” fece in gran parte questa seconda scelta, anche nello spezzino: un percorso sviluppato attraverso aspetti umani e morali prima ancora che politici e ideologici. Non mancarono i comunisti cattolici: “Muoio da comunista cristiano”, scrive alla mamma Jules Taglia- vini, mentre il comunista Pietro Pinetti, vicecomandante di una Brigata garibaldina genovese, scrive alla mamma: “Ciò che ho fatto è dovuto al mio fermo carattere di seguire un’idea e per questo pago così la vita, come già pagarono in modo ancora più orrendo e atroce migliaia di seguaci di Cristo la loro fede”. E il comunista Pietro Benedetti scrive ai figli: “Dell’amore per l’uma- nità fate una religione” (Lettere di condannati a morte della Resi- stenza italiana, cit.). Nelle Lettere si rinviene, come si accennava, una tradizione religiosa, che riaffiora spesso inconsapevolmente: un’eredità che per secoli, e ancora nel Novecento, ha costituito un fondamentale legame di coesione sociale e di disciplina mo- rale degli italiani. LA SCELTA MORALE L’ardimento della scelta morale si manifestò già subito dopo l’8 settembre, sia con i primi barlumi di iniziativa di molti militari sbandati per combattere tedeschi e fascisti, sia con le manifesta- zioni di solidarietà e di aiuto concreto che gran parte della popo- lazione offrì ai soldati fuggiaschi. Ha scritto Claudio Pavone: “Lo scatenarsi di un tendenziale bellum omnium contra omnes trovò un contrappeso nell’aiuto che disinteressatamente si prestavano persone tra loro sconosciute. L’asprezza della guerra civile e della 40
guerra contro l’occupante batteva alle porte, e la gente sembrava avesse scoperto che l’unico punto di appoggio rimaneva la fiducia nel prossimo” (La guerra civile, cit.). Giaime Pintor, intellettuale che divenne partigiano, così descriveva nell’ottobre 1943 l’umi- liazione dei militari, base della scelta futura per la libertà: “I soldati che nel settembre scorso traversavano l’Italia affamati e seminudi, volevano soprattutto tornare a casa, non sentire più parlare di guerra e di fatiche. Erano un popolo vinto; ma portavano dentro di sé il germe di un’oscura ripresa: il senso delle offese inflitte e subite, il disgusto per l’ingiustizia in cui erano vissuti” (Il sangue d’Europa 1939-1943, Einaudi 1950). Luigi Fiori, il nostro indimenticabile “Fra Diavolo”, ha rac- contato tante volte con parole straordinarie questa pagina di sto- ria alle ragazze e ai ragazzi delle scuole: “L’ 8 settembre c’è stato un crollo improvviso e totale di tutto. Siamo passati dalla rigi- dissima disciplina dell’esercito... la cravatta diritta, il bottone ab- bottonato... perché eravamo in guerra!... le mostrine lucidate, tutte queste puttanate che facevano gli ufficiali. Ecco all’improv- viso mi sono trovato in mezzo alla strada in pigiama da notte e scarpe da tennis!”. Nel terribile caos della Roma del 9 settembre Luigi ritrova per caso in uno scantinato il suo colonnello e il suo capitano e si presenta salutando con i tacchi, con le scarpe da tennis. “E questo qui mi dice: ‘Levati dai coglioni!’. Io ero stu- pito, pensavo che mi dicesse: ‘Organizziamoci!’ e invece... Mi ri- cordo che io gli ho risposto: ‘Io mi ci levo anche ma non mi sono mica messo io in mezzo ai coglioni! Sono qui in pigiama a 400 chilometri da casa e lei mi dice di...’. Il ripudio del regio esercito fu alla base della scelta di molti che salirono ai monti. Luigi, scampato miracolosamente ai tedeschi, tornò nella sua Sarzana e salì nel parmense: era stato un giovane ufficiale fascista, divenne partigiano anche se: “Non ero ancora un antifascista, non avevo la cultura, nessuno mi aveva detto negli anni precedenti che c’era un altro modo di pensare” (Fra Diavolo partigiano borghese, in 41
Ora e sempre Resistenza, Micromega, 3/2015). Come scrisse Nuto Revelli: “Tutto ignoravamo” (La guerra dei poveri, Einaudi 1962). La scelta la fecero, in quei giorni, non solo i militari che non esitarono da subito a combattere i nazifascisti, ma anche i co- munisti, i socialisti, i popolani che si misero a raccogliere le armi: nello spezzino avvenne dappertutto, nel capoluogo, a Sarzana, ad Arcola, a Pitelli, a Portovenere, a Vezzano, a Follo… Il libro raccoglie molte testimonianze, sia degli uni che degli altri. Le pagine più belle sulla scelta, dal punto di vista dell’analisi storica, le ha scritte Claudio Pavone in “Una guerra civile, che non a caso ha come sottotitolo Saggio storico sulla moralità della Resistenza (cioè il titolo che Pavone avrebbe voluto dare al libro). Dopo i primi giorni la spontanea, umana solidarietà non fu più sufficiente. Le truppe tedesche cominciarono a dare un minimo di formalizzazione alla loro violenza, i fascisti crearono la Repub- blica Sociale: “La scelta da compiere divenne più dura e dram- matica... dovette infatti esercitarsi tra una disobbedienza dai prezzi sempre più alti e le lusinghe della pur tetra normalizza- zione nazifascista”. Il primo significato di libertà che assume la scelta resistenziale è implicito nel suo essere un atto di disobbe- dienza: “Una rivolta contro il potere dell’uomo sull’uomo, una riaffermazione dell’antico principio che il potere non deve averla vinta sulla virtù”. Continua lo storico: “Per la prima volta nella storia d’Italia gli italiani vissero in forme varie un’esperienza di disobbedienza di massa. Il fatto era di enorme rilevanza educativa per la generazione che, nella scuola elementare, aveva dovuto im- parare a memoria queste parole del libro unico di Stato: ‘Quale dev’essere la prima virtù di un balilla? L’obbedienza! E la seconda? L’obbedienza (in caratteri più grandi). E la terza? L’obbedienza (in caratteri enormi) (Una guerra civile, cit.). Un secondo ele- mento da prendere in considerazione, secondo Pavone, è che la scelta fu compiuta nella “responsabilità totale nella solitudine to- tale”, una solitudine profonda a cui non sfuggirono nemmeno i 42
cattolici, che pure avevano alle spalle le uniche istituzioni che non erano crollate. Vito Salmi scrive alle sorelle e agli zii: “Ho fatto di mia spontanea volontà, perciò non dovete piangere” (Let- tere di condannati a morte della Resistenza italiana, cit.). Il libro riporta, tra le altre, le riflessioni di un intellettuale azionista, Cesare Godano “Gatto”, e di un operaio comunista, Bruno Brizzi “Cammello”. Il primo scrive di “una rivolu- zione… anzitutto nella propria interiorità… per estrarne una visione della vita totalmente opposta a quella del fascismo e del nazismo”. Il secondo si domanda: “Chi ci chiamava a parteci- pare a una guerra non conosciuta, dove non vi erano caserme per proteggerci, approvvigionamenti sicuri, riforniti di niente?”, per rispondere così: “Sicuramente la nostra scelta non era l’avventura, ma la ribellione contro un regime oppressore della libertà”. C’è nei resistenti una varietà di motivazioni in- dividuali molto ampia, che si iscrivono tutte in un “clima mo- rale”, che accomuna la scelta partigiana a quella compiuta nei campi di internamento in Germania dai militari che preferi- rono quell’inferno all’adesione alla Repubblica sociale. La scelta morale fu rinnovata nei successivi, difficili mesi: “La scelta va considerata piuttosto che come un’istantanea illuminazione come un processo che talvolta si apre la strada a fatica, perché affaticati sono gli uomini che lo vivono” (Una guerra civile, cit.). Ciascuno si è trovato solo di fronte alla propria scelta. Ogni partigiano ha un suo caso di coscienza, un suo personale “ardir”, come testimonia anche questo libro. Ma da tutte queste storie individuali sorse una storia collettiva. Fu questa dimensione morale, che Piero Calamandrei indi- cava come una sorta di impulso diffuso, generato “da una voce sotterranea”, a indicare agli italiani la via della ribellione e del ri- scatto. Nel libro ci sono anche le violenze, i tradimenti e le ombre della Resistenza spezzina, su cui va fatta piena chiarezza e, ove necessario, come nel “caso Facio” (a cui è dedicato un capitolo), 43
anche un’autocritica radicale da parte di chi porta responsabilità; ma essi in nessun caso riescono a scalfire il tessuto connettivo della lotta partigiana, la luce della scelta morale. La Resistenza cambiò non tanto il Paese, quanto le persone che vi presero parte. Fu scuola di vita, laboratorio di maturazione, di crescita perso- nale e sociale, di emancipazione: “Furono gli anni in cui molti divennero diversi da ciò che erano stati prima. Diversi e migliori. La sensazione che la gente fosse divenuta migliore circolava nelle strade. Ognuno sentiva di dover dare il meglio di sé. Questo spandeva intorno uno straordinario benessere insieme ai disagi, al freddo, alla fame e alla paura, che in quelle giornate non ci la- sciavano mai” (Natalia Ginzburg, Prefazione a La letteratura par- tigiana in Italia 1943-1945, Editori Riuniti, 1984). DALLE BANDE ALL’ESERCITO Nei primi mesi del 1944 i nazifascisti si illusero di aver stron- cato il movimento delle prime bande partigiane. Ma dalla re- pressione e dallo sbandamento nacque un movimento nuovo, organizzato e disciplinato. Dalle bande ribelli, tra maggio e lu- glio, nacque l’esercito della Liberazione: Brigate e Divisioni messe sotto la diretta influenza dei CLN, dei Comandi unici e, di fatto, dei partiti, in primo piano il Partito comunista e il Par- tito d’azione. Ne scaturirono tensioni e conflitti, come quelli che portarono all’uccisione di “Facio”: l’uso della violenza fu una co- stante per la soluzione dei dissidi interni al mondo resistenziale. Furono spesso emarginati i comandanti partigiani che erano emersi come “capi carismatici”. E si creò il contrasto tra l’egua- glianza delle prime bande, sentita come un valore fondato sulla comune scelta di libertà e sulla comune accettazione del rischio, e la diseguaglianza indotta dall’ordine gerarchico della “milita- rizzazione”. 44
Nello spezzino il risultato finale di questo processo fu la na- scita, verso il 25 luglio 1944, della I Divisione “Liguria”, che as- sunse in seguito il nome di IV Zona. Comandante fu nominato il colonnello del regio esercito Mario Fontana “Turchi”, socialista (il nome di battaglia era ironico, perchè era il cognome del fascista Capo della provincia), mentre come commissario politico fu scelto il comunista Antonio Cabrelli “Salvatore”. In sostanza, ha scritto lo storico Maurizio Fiorillo, “il Comando unico interpar- titico nacque da un compromesso tra il Pci, che otteneva la carica di commissario ma rinunciava a far assumere alla Divisione qua- lunque colore politico, e gli azionisti di Vero Del Carpio ‘Il Boia’, che non ottenevano ruoli importanti, ma ponevano un militare di carriera a loro gradito e non comunista al vertice militare della Divisione” (Uomini alla macchia, Laterza 2010). Il compromesso fu raggiunto solo a seguito della visita di due rappresentanti del Comando Regionale della Liguria, il comunista Anelito Barontini e l’azionista Giulio Bertonelli. Il Comando unico estese gradualmente la sua funzione e la sua autorità grazie essenzialmente alle capacità di Fontana, anche se il suo disegno di “militarizzazione” non si realizzò fino in fondo: la banda dotata di una sua autonomia, ribattezzata Distaccamento o Compagnia, rimase pur sempre l’unità tattica fondamentale. La “militarizzazione”, inoltre, intaccò solo in parte il carattere localistico delle bande. Perché contavano il reclutamento locale, la solidarietà tra partigiani di uno stesso paese, la loro vicinanza alle famiglie e alle terre da coltivare. Il localismo ebbe aspetti po- sitivi: il radicamento popolare e sociale delle bande. E meno po- sitivi: il restringimento dell’orizzonte ideale e politico, e la difficoltà delle bande a combattere fuori dal proprio territorio. Nello spezzino la solidità delle bande di Giustizia e Libertà era garantita in buona parte da questo radicamento locale: un docu- mento comunista dell’epoca descriveva una formazione giellista con l’epiteto “patrioti casalinghi”. Ma il contributo della Colonna 45
“Giustizia e Libertà” alla Resistenza della IV Zona non fu certo inferiore a quello delle Brigate garibaldine. Alla “militarizzazione” si accompagnò la “politicizzazione”, con un crescente ruolo dei partiti, che fecero da contrappeso alle spinte anarchico-individualistiche e localistiche. I legami con i partiti, ha scritto Pavone, “operarono come fattori di unità perché non solo trasmisero alla base la politica unitaria del CLN, ma ali- mentarono la convinzione che fosse l’impegno politico in quanto tale a costituire il cemento sostanziale tra i partigiani” (La guerra civile, cit.). Certamente ciò fu un presupposto del radicamento dei partiti nella società italiana del dopoguerra. Che non si veri- ficò, però, per il Partito d’azione: probabilmente anche perché, per quanto riguarda le bande gielliste, “militarizzazione” e “poli- ticizzazione” non andarono di pari passo (nonostante le figure dei commissari politici). LA VIOLENZA L’esercizio della violenza caratterizzò tutti e tre gli aspetti della Resistenza distinti in precedenza, anche nello spezzino. Il libro si sofferma, per esempio, sulla fucilazione dei militi repubblichini del presidio di Borghetto; e, come ho accennato, anche sull’uso della violenza all’interno del movimento partigiano. Ha scritto Pavone: “Nell’Italia del 1940, e con finale evidenza in quella del 1943, l’esercizio della violenza apparve come lo sbocco di un’ac- cumulazione di lunga data. Questo rese la violenza da una parte più ovvia, dall’altra più spietata; ma preparò allo stesso tempo il passaggio a una riconsiderazione dei limiti del ricorso a essa e della possibilità di un suo uso contingente per renderla nel futuro impossibile. La violenza come seduzione e la violenza come dura necessità si scontrarono così in modo palese, pur convivendo tal- volta nelle stesse persone” (Una guerra civile, cit.). 46
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