2018 Millennial: la generazione dei "senza lavoro" - Gianfranco Zucca IREF | Istituto di Ricerche Educative e Formative - Acli
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2018 Millennial: la generazione dei «senza lavoro» Gianfranco Zucca IREF | Istituto di Ricerche Educative e Formative
Durante l’intero corso dell’umanità, il lavoro è sempre stato dato a priori. Ha accompagnato, assediato, braccato gli uomini per millenni. Negli ultimi anni, tutto ciò è cambiato. Non è più il lavoro a inseguire gli uomini. Noi inseguiamo lui. Lo ricerchiamo. Con ogni mezzo. Così come si cerca una preziosa materia prima. Come i cacciatori cercano la preda. Il vero lavoro di oggi non è più il lavoro in sé, ma cercare lavoro. Un disoccupato non è un uomo senza lavoro. Al contrario. È un uomo con un lavoro impareggiabilmente difficile, quello di cercare lavoro. La forma più ambiziosa di lavoro. Forse addirittura la sua manifestazione più alta e completa. Joachim Zelter, La scuola dei disoccupati, ISBN: Milano, 2002 1. OCCUPAZIONE GIOVANILE E CRISI ECONOMICA: LE CATEGORIE INTERPRETATIVE E LE CONSEGUENZE PRATICHE Nel 2016 in Germania i disoccupati tra i venti e i quarantacinque anni sono oltre dieci milioni. Il governo federale decide così di istituire una campo di addestramento per disoccupati, un luogo distante dalle città dove insegnare come trovare lavoro, a ogni costo anche leggendo i necrologi dei giornali. Joachim Zelter ha scritto “La scuola dei disoccupati” nel 2002, a distanza di quindici anni il presente prefigurato nel romanzo non è così distopico, ma la situazione non è certo positiva, tantomeno guardando all’Italia. Gli ultimi decenni sono stati contrassegnati da una crescita su larga scala della disoccupazione, soprattutto di quella giovanile. Inizialmente si è affrontata la questione usando eufemismi e termini neutri: “atipico”, “non standard”, “flessibile”, con il passare degli anni, e con la penetrazione del tema anche nell’immaginario culturale (libri, film, canzoni, programmi televisivi), si è consolidata l’idea che il nuovo regime del lavoro, soprattutto per i giovani fosse marcato dalla precarietà. Qualche anno fa si parlava di “generazione mille euro”, citando un fortunato romanzo1, dieci anni dopo per molti ragazzi mille euro al mese 2 sono un sogno, oggi si rischia una generazione senza lavoro. 1.1 Uno sguardo al futuro per iniziare a capire il presente: perché il capitalismo dell’informazione ha un basso fabbisogno occupazionale? La connotazione generazionale del precariato non autorizza però a considerare la questione in termini di conflitto tra segmenti anagrafici. In altre parole, la lettura per la quale dai privilegi degli adulti conseguano le difficoltà dei giovani è inadeguata, se non proprio scorretta. Guy Standing [2011: 59] analizzando la demografia del precariato, afferma che in ogni generazione ci sono “grinners” (letteralmente chi se la sghignazza) e “groaners” (chi grugnisce sconsolato). Tra i giovani chi la prende a ridere sono soprattutto gli studenti, felici di guadagnare qualcosa attraverso lavoretti casuali e a breve termine; chi invece non ride per niente sono tutti quei ragazzi che hanno terminato gli studi o li hanno interrotti e non riescono a entrare nel mercato del lavoro oppure passano da un lavoro all’altro. Una distinzione simile si può fare anche tra gli adulti: se la ridono tutte quelle persone che hanno una copertura pensionistica e lavorano per il piacere di farlo o per arrotondare le entrate; ride meno chi non è ancora in pensione e deve competere con i giovani per lavori instabili a basso reddito. La distinzione è ancor più pregnante se si considera la situazione delle donne: un conto e avere un impiego precario che si combina con l’impiego stabile del partner, altro discorso è essere precari quando si è una madre sola. La contrapposizione tra giovani e adulti è valida dunque solo parzialmente: i giovani rimangono intrappolati nella precarietà più spesso degli adulti, ma ciò non vuol dire che la precarizzazione non riguardi 1.“Generazione mille euro” è un romanzo di Antonio Incorvaia e Alessandro Rimassa uscito nel 2006 dal quale tre anni dopo è stato tratto un film di discreto successo diretto da Massimo Venier
anche i segmenti anagrafici più maturi, basti pensare alla situazione dei cosiddetti “esodati”, spalla a spalla con i giovani nello svolgimento di uno dei tanti survival jobs [Mortimer 2009]. In questo lavoro ci si concentrerà sulla condizione giovanile, tuttavia come si sarà intuito molte delle considerazioni fatte possono essere valide anche per gli adulti. Un’altra lettura che conviene da subito porre sotto una lente critica è quella per la quale gli interventi legislativi avrebbero prodotto la precarizzazione. La catena di eventi è nota. L’attuale scenario che vede la disoccupazione giovanile giunta a livelli elevatissimi, viene fatto risalire al ciclo di interventi legislativi che, a cavallo tra la seconda metà degli anni ’90 e primi anni 2000, ha ristrutturato il mercato del lavoro italiano alla ricerca di una maggiore flessibilità. Pacchetto Treu (1997), Riforma Biagi (2003) e, poi, di recente il Jobs Act sono le principali tappe di un percorso normativo volto a modificare le dinamiche del mercato del lavoro. Lasciando da parte le posizioni politiche, pur legittime e comprensibili, è evidente che la transizione normativa avvenuta in Italia è coerente con le esigenze del capitalismo informazionale così come descritto da Manuel Castells a metà anni Novanta. Secondo lo studioso catalano, lo sviluppo dell’economia dell’informazione implica anche una jobless society, una modalità di produzione nella quale il numero di lavoratori necessari è sempre minore [Castells 2010: 295-296]: The prevailing model for labor in the new, information-based economy is that of a core labor force, formed by information-based managers and by those whom Reich calls "symbolic analysts," and a disposable labor force that can be automated and/or hired/fired/offshored, depending upon market demand and labor costs. Spesso si usa l’immagine della piramide occupazionale, con l’intento di rappresentare una struttura del lavoro nella quale salendo diminuisce progressivamente il numero di occupati. La struttura occupazionale contemporanea assomiglia sempre meno a una piramide perché ha una strozzatura al centro: a una grande massa di lavoratori non specializzati e dequalificati corrisponde un ristretto numero di tecnici altamente qualificati e manager. Impiegati, operai quadri semplicemente non servono. Il basso terziario, quello dei servizi alle imprese e alle persone, non ha caso è uno dei settori che meno ha risentito della crisi. Nel 3 capitalismo contemporaneo servono facchini, autisti, giardinieri, commessi, cassieri, camerieri, addetti alle pulizie e alla logistica. Le mansioni esecutive, così come suggerito da Castells, sono soggette a un rapido turnover e suscettibili di essere automatizzate laddove il costo del lavoro fosse troppo gravoso. In uno scenario del genere è più semplice comprendere il senso del termine «precariato» così come proposto da Standing [2011]. Nonostante le assonanze con la categoria marxista, il termine secondo l’autore non identifica una classe, ma un eterogeneo gruppo sociale diffuso su scala globale che non si contrappone al padrone, semplicemente perché spesso neanche sa chi sia o non ha modo di interagire con lui. Standing definisce il precariato in termini di “persone che non hanno controllo sul proprio lavoro”2. Nell’economia dei servizi sempre più spesso le mansioni esecutive sono distanti da quelle gestionali e di coordinamento, tra questi due livelli organizzativi non c’è comunicazione, ma solo intermediari. Difatti, il precariato è la categoria centrale di manifestazioni economiche che stanno rivoluzionando il modo di intendere il capitalismo. Un esempio pregnante è Uber, un servizio di trasporto automobilistico privato che attraverso un'applicazione software mobile (app) mette in collegamento diretto passeggeri e autisti. Questo modello, la cui logica è stata replicata per diversi servizi, ha creato la cosiddetta economia on demand, costituita da attività che vengono realizzate solo quando c’è richiesta: in pratica, il legame con il datore di lavoro semplicemente non esiste perché Uber (o qualunque altra società adotti il modello) mette solo in collegamento domanda (il passeggero) e offerta (l’autista). Il modello entra in crisi quando i lavoratori – che pur sottostanno a diverse restrizioni come ad esempio i tempi di risposta alle chiamate – rivendicano il proprio diritto a una continuità lavorativa nei confronti della società che gestisce il servizio. La recente protesta dei lavoratori Foodora a Torino (un servizio di consegna a domicilio di cibo) pone una questione ancora più significativa: i corrieri in bicicletta sono stati obbligati a passare da una retribuzione oraria (5,6 2. Il termine ha avuto una tale diffusione che anche un’istituzione come l’INPS ha adottato la categoria, creando un Osservatorio sul precariato.
euro lordi) a un pagamento a consegna effettuata (inizialmente 3 euro, dopo le proteste 4). Il problema è che se non ci sono chiamate da parte di clienti si rimane disponibili senza percepire alcunché. Queste situazioni vengono definite con il termine di uberization, termine con il quale s’intende la conversione di servizi e prestazioni lavorative continuative, tipiche dell’economia tradizionale, in attività che invece vengono svolte solo quando c’è richiesta (on demand): il modello di Uber è sempre più diffuso perché sgancia, in modo abbastanza furbo, l’azienda dai lavoratori. Alle obiezioni di chi rivendica il legame tra autisti e società di servizi, Uber e altre aziende del genere hanno più volte risposto che non esiste alcun vincolo poiché Uber non fa altro che offrire una piattaforma informatica di scambio tra domanda e offerta. Per queste manifestazioni economiche negli Stati Uniti è stata coniata l’espressione “gig economy”, ossia economia dei lavoretti (“gig” è il cachet degli artisti per un singolo spettacolo). L’affare è di proporzioni tali che addirittura Hilary Clinton ha affrontato il tema in un discorso pubblico dell’estate 2016: Many Americans are making extra money renting out a small room, designing websites, selling products they design themselves at home, or even driving their own car. This on-demand, or so-called gig economy is creating exciting economies and unleashing innovation. But it is also raising hard questions about work-place protections and what a good job will look like in the future [Wald 2016]. Pur in una sostanziale accettazione del modello di business caratteristico della gig economy, anche Clinton sembra esprimere dubbi sull’equità di queste forme di lavoro: nella «gig economy» c’è sghignazza per la facilità con la quale si possono guadagnare soldi con relativamente poca fatica e chi invece grugnisce sotto il peso di un’instabilità lavorativa che spesso non permette neanche la sussistenza. Si dirà che si tratta di casi limite e che nell’immediato l’espansione della gig economy sarà legata a settori specifici. Non è detto. Oracle, una delle maggiori multinazionali informatiche al mondo, nella primavera del 2016 ha pubblicato un white paper nel quale spiega perché nei prossimi anni si concentrerà sulla Now Economy (economia del qui e ora), ovvero sul soddisfacimento in tempo quasi reale dei bisogni dei consumatori. Nel documento, si parla del ruolo delle aziende in termini di orchestration [Oracle 2016]: le 4 grandi imprese in un futuro prossimo non dovranno far altro che gestire e facilitare flussi di domanda-offerta di servizi. Il business è lì perché permette di ridurre al minimo necessario la forza lavoro, concentrandosi sull’orchestrare le transazioni senza più produrre nulla, saranno le persone a farsi carico dei rischi di impresa. È uno scenario più prossimo di quanto si possa pensare anche perché il presente ci sta facendo abituare a cambiamenti repentini. Detto in modo diretto: il capitalismo dell’informazione ha un basso fabbisogno occupazionale poiché molte mansioni possono essere automatizzate o esternalizzate. La conseguenza più immediata è che sviluppo economico e piena occupazione sono dinamiche sempre più autonome: la crescita senza lavoro o addirittura con perdita di lavoro è uno dei dati significativi del ciclo economico recente. In molti paesi lo shock finanziario è stato superato senza che i posti di lavoro distrutti dalla crisi venissero ricreati. Quando si parla di disoccupazione (giovanile e non) bisogna dunque tenere conto che nel futuro prossimo i fabbisogni occupazionali saranno sempre più ridotti e concentrati in settori specifici. Quale sarà dunque il posto dei giovani nella società “senza lavoro”, rideranno o mugugneranno? Prima di rispondere a queste domande occorre però ricostruire il percorso che ha portato l’Italia ad avere due milioni di disoccupati under35. 1.2 Flessibilità + crisi = la tempesta perfetta. Come siamo arrivati ad aver due milioni di disoccupati under35 Il binomio flessibilità/precarietà è stato il filo rosso degli ultimi vent’anni di dibattito sul lavoro in Italia. Con l’esigenza di creare un mercato che fosse più corrispondente alle esigenze produttive si è proceduto a una ristrutturazione dei meccanismi di ingresso e uscita dal lavoro, al fine di rendere la struttura occupazionale più flessibile e competitiva. La parola chiave, almeno sino all’inizio della grande crisi del 2008, era “flessicurezza”. Con questo termine si intendevano le misure che avrebbero dovuto assicurare un equilibrio
tra flessibilità del mercato del lavoro e garanzie di sicurezza sociale per i “fisiologici” periodi di non lavoro. Nello schema iniziale, desunto da esperienze maturate in Nord Europa (Danimarca e Olanda), si sarebbe dovuto sperimentare un mix di politiche attive e passive, volte a supportare il lavoratore nel passaggio da un lavoro a un altro. Il concetto gemello della flessicurezza è l’occupabilità. Questo neologismo indica la capacità delle persone di essere occupate o di saper cercare attivamente, di trovare e di mantenere un lavoro. Per tutti gli anni 2000, le politiche comunitarie e di conseguenza anche quelle nazionali hanno fatto perno su questo binomio, confidando nell’idea che, nonostante la bassa crescita, se si fosse iniettata maggiore flessibilità nel mercato sarebbe se ne sarebbe migliorato il dinamismo. A complemento di questa scelta di policy, sul fronte delle leve per innalzare i livelli occupazionali, ci sono stati forti investimenti sull’auto- imprenditorialità: finanziamenti (a fondo perduto e non) per lo start-up d’impresa, micro-credito, incubatori sono stati considerati validi strumenti di job creation in grado di aggirare la crisi del lavoro dipendente. Come si avrà modo di valutare più avanti attraverso i dati statistici, la crescita del lavoro autonomo ha parzialmente compensato la caduta dell’occupazione dipendente. Il modello di riferimento implicito proveniva dai paesi anglosassoni, nei quali perdere il lavoro è molto facile, ma allo stesso tempo le possibilità di trovarne un altro sono molto elevate. Si trattava di mettere in moto anche un cambio di mentalità: l’enfasi delle politiche pubbliche sulla formazione lungo l’arco della vita e sull’orientamento professionale erano il naturale complemento di una concezione del lavoro nella quale mantenere la stessa occupazione per tutta la vita non sarebbe stato più possibile e nemmeno auspicabile. Poi però è arrivata la crisi economica, i cui effetti sull’economia reale e sull’occupazione non hanno tardato a manifestarsi, con un generalizzato aumento delle sofferenze aziendali e della disoccupazione. Nel caso italiano, la flessibilizzazione del mercato del lavoro e la crisi economica hanno scatenato la “tempesta perfetta”, anche perché le caratteristiche del nostro sistema occupazionale combinate a un peculiare funzionamento del sistema dell’education ne hanno aumentato l’impatto, rendendo di fatto inapplicabili su larga scala gli schemi di flessicurezza. La conseguenza più macroscopica è che le politiche passive, sussidi e indennità, hanno assorbito la maggior parte delle risorse, inizialmente salvaguardando soprattutto i 5 lavoratori delle aziende medio-grandi poi, grazie all’estensione dei fondi “in deroga” e all’uso di risorse comunitarie, platee sempre più ampie di lavoratori. E i giovani? Hanno pagato il conto un po’ per tutti. Spesso sono stati i primi a saltare in virtù di legami contrattuali poco vincolanti. La crescita della disoccupazione è il dato più macroscopico: tra i 15 e i 24 anni il tasso di disoccupazione registrato a fine 2006 era del 20,3%, dieci anni dopo il dato arriva al 43,3%, così come è raddoppiata l’incidenza dei disoccupati all’interno della fascia di età dal 6,3% al 12,3%3. Per quanto possa apparire asettico, è interessante leggere il destino occupazionale dei giovani nel dopo crisi a partire dalle classificazioni statistiche. La normativa italiana, come è noto, prevede il lavoro para- subordinato, assimilato al lavoro dipendente per alcuni aspetti, ma per sua natura autonomo. Negli anni, gli analisti hanno speso molte energie per definirne lo statuto: sono dipendenti o lavoratori in proprio? Leggendo i Rapporti annuali dell’ISTAT di inizio decennio, si inizia a notare una crescente attenzione alla categoria dei parasubordinati poiché è al loro interno si notano significativi effetti di ricomposizione occupazionale. L’ISFOL [2012a: 75-80] dal canto suo ha perfezionato nel tempo un metodo di riclassificazione dell’occupazione non standard, avendo come obiettivo il fare ordine nell’intreccio tra posizione contrattuale e condizioni lavorative. Ancor più di recente, sempre l’Istituto nazionale di Statistica ha inserito nel suo Rapporto annuale [ISTAT 2016], una nuova categoria “autonomi parasubordinati” quasi a voler prendere atto che questa condizione non è assimilabile ad altre. Questo interesse per una componente tutto sommato non maggioritaria del mercato del lavoro è dovuto a un solo motivo: l’abnorme presenza di giovani all’interno. La categoria dei para-subordinati è peraltro esemplare anche delle dinamiche tipiche del mercato del lavoro italiano degli anni ‘10. Due le direttrici: (i) dal lavoro parasubordinato al lavoro autonomo in senso proprio; 3. Si ricorda che il tasso di disoccupazione è dato dal rapporto tra coloro che ricercano lavoro rispetto al totale delle forze di lavoro.
(ii) dal para-subordinato all’inattività o al lavoro irregolare. Il “popolo delle partite IVA” – così viene definito nel dibattito pubblico quel composito insieme di free lance, consulenti, lavoratori autonomi senza dipendenti che popola il mercato del lavoro italiano – si è ingrossato a seguito della ricomposizione occupazionale avviata nel lungo dopo-crisi. La linea di sviluppo appare ben chiara: sfibrare il legame tra datore di lavoro e lavoratore, rendere i destini dell’uno indipendenti dall’altro. La confluenza, spesso non voluta, nell’alveo del lavoro autonomo ha prodotto una grossa confusione, costringendo a convivere lavoratori genuinamente autonomi con dei dipendenti mascherati4. La rilevanza del lavoro autonomo è un elemento rilevante non solo in Italia. Il periodo post-crisi ha visto una crescita generalizzata degli iPros (Indipendent Professionals), lavoratori autonomi, quasi sempre senza dipendenti, attivi nel terziario avanzato con un elevato livello di specializzazione Questa componente nell’Europa a 27, dal 2004, è aumentata del 45% passando poco più di 6 milioni a quasi 9 milioni [Leighton 2014: 1]. In settori come la comunicazione, le pubbliche relazioni e in tutte le attività legate ad internet, l’iPro è una figura lavorativa tipica: web designer, grafici, traduttori, video maker, progettisti, consulenti sono quasi sempre professionisti indipendenti, lavoratori ai quali le aziende si rivolgono per avere servizi, senza che si crei alcuni legame o vincolo. La situazione dei professionisti indipendenti è ambivalente perché al loro interno si possono riscontrare delle forme di “uberizzazione” del lavoro o un autentico esercizio di libera professione. In termini più generali, è evidente la tendenza a privilegiare forme contrattuali che mescolano subordinazione effettiva e indipendenza formale come le collaborazioni occasionali, le prestazioni a partita Iva, la cessione di diritti d’autore, lo stage. Se poi si guarda anche alla dinamica delle micro-imprese negli ultimi anni si nota un fortissimo turnover: molte aperture compensate da altrettante chiusure. Nelle imprese di piccolissime dimensioni il titolare è sia lavoratore sia imprenditore il che avvicina molto la sua condizione a quella del free lance, anche a fronte di una diversa configurazione giuridica [Fumagalli 2015]. A ben vedere, le stesse Srls, società a responsabilità limitata semplificata, pur essendo società di capitali sono spesso usate per dare forma a un progetto di auto-impiego. 6 Ricapitolando. La crisi ha messo ha prodotto un movimento e un contro movimento: i giovani (ma non solo) hanno avuto una drastica riduzione delle opportunità lavorative sperimentando periodi di disoccupazione anche molto lunghi. Il lavoro autonomo nelle sue diverse forme è stata la via di fuga dal lavoro dipendente. Dalla ricostruzione offerta sinora si potrebbe concludere che la disoccupazione giovanile è di tipo essenzialmente ciclico e che i tassi torneranno a scendere una volta invertitosi il ciclo economico. Una congiuntura economica negativa certamente non favorisce l’occupazione (soprattutto quella giovanile), tuttavia non si tratta dell’unico fattore in gioco. Lasciando da parte il fatto che i segnali di ripresa sono alquanto timidi. 1.3 Perché i giovani non lavorano? Peter Vogel [2015: 21-25] sintetizza le spiegazioni della disoccupazione giovanile secondo uno schema domanda/offerta. Sul lato della domanda, le spiegazioni sono tre: i. Sviluppo macro-economico insufficiente: si è scritto della dell’effetto congiunturale per il quale la scarsa crescita deprime il tasso di occupazione giovanile. In un contesto di crisi economica le aziende non assumono o si privano innanzitutto dei lavoratori con meno esperienza. ii. Prevalenza degli impieghi a termine: anche questa spiegazione è stata già menzionata. La flessibilità introdotta da metà anni ’90 in poi ha fatto sì che i giovani ottenessero in prevalenza dei lavori a 4. InItalia la diffusione delle partite IVA in monocommittenza (ossia con un solo cliente ricorrente) è un unicum nel panorama europeo. Tuttavia anche in questo caso, come fa rilevare l’Associazione Consulenti Terziario Avanzato la monocommittenza può nasconde una pluralità di committenti, poiché ad esempio chi è socio di una società di professionisti fattura esclusivamente alla propria società.
termine. In passato, cambiare lavoro di frequente era una situazione tipica della fase iniziale della carriera – che gli economisti definiscono job shopping stage, facendo riferimento a un fisiologico periodo di auto orientamento nel quale il giovane lavoratore decide “cosa vuole fare da grande” – oggi da trampolino di lancio il lavoro a termine si è trasformato in una trappola. Le “occupazioni ponte” quelle tipiche dell’inizio carriera sono sempre più spesso delle gabbie di precarietà dalle quali è difficile uscire [MacDonald 2009]. iii. Aspettative dei datori di lavoro sulle competenze dei giovani: la terza spiegazione sul lato della domanda richiama invece le esigenze del sistema produttivo in termini di qualificazione dei giovani candidati. Nel contesto dell’università di massa, si è creato un circolo vizioso tra le aspettative delle aziende sui titoli di studio e l’accumulazione di credenziali formative. Le imprese ricercano giovani molto qualificati e specializzati, ciò porta gli studenti a prolungare la permanenza del sistema formativo. Il proliferare di master post-laurea, corsi di specializzazione e perfezionamento ha aumentato il ritardo con il quale i giovani si affacciano per la prima volta sul mercato del lavoro. Sul lato dell’offerta, le spiegazioni proposte da Vogel sono quattro: i. Cambiamento demografico: le migrazioni internazionali hanno profondamente cambiato la demografia dei paesi a sviluppo avanzato. Una componente significativa delle generazioni più giovani è data dagli immigrati e dai loro figli, ragazzi che hanno prospettive occupazionali diverse da quelle dei giovani “nazionali”. Sono disposti ad accettare lavori meno retribuiti e ambiti. Ciò genera una competizione al ribasso dalla quale alcuni giovani preferiscono tirarsi fuori perché non sono disponibili a compromessi di alcun genere. ii. Scarsa esperienza lavorativa: stante la scarsa propensione soprattutto in Italia, a combinare studio e lavoro, durante il percorso formativo sono troppo pochi i ragazzi che fanno esperienze lavorative, anche minime. Il profilo tipico, almeno in Italia, è quello di ragazzi e ragazze alla soglia dei trent’anni, 7 iper-specializzati ma senza alcuna esperienza lavorativa. Questa tendenza non viene considerata positivamente dai potenziali datori di lavoro, i quali scartano le candidature di persone prive di precedenti esperienze lavorative. iii. Eccessiva “accademizzazione”: la preferenza per percorsi di studio prevalentemente teorici non permette ai giovani di costruire quel sapere pratico richiesto nella quasi totalità delle occupazioni5. Ovviamente l’accademizzazione è anche una conseguenza dell’offerta di istruzione soprattutto terziaria6. iv. Supporto familiare: la permanenza prolungata nel nucleo familiare di origine ha come conseguenza una scarsa attitudine ad accettare un lavoro che non sia ottimale. Il confort familiare (anche in termini di supporto economico diretto) influisce positivamente sulla durata della disoccupazione, ad esempio, portando i giovani a rifiutare lavori che implicano una qualche forma di mobilità geografica. I sette fattori appena proposti si possono combinare in modo differente, originando delle configurazioni specifiche a seconda del contesto. Tuttavia ciò che importa è che la disoccupazione giovanile non può essere spiegata facendo ricorso a un solo elemento. Un esempio negativo di richiamo a una singola causa proviene purtroppo dal mondo politico italiano: evidenziare il ruolo negativo del supporto familiare (i “bamboccioni” di Padoa Schioppa o i “giovani choosy” di Fornero), senza articolare il discorso e contemplare altre concause, produce una visione distorta e sostanzialmente errata della disoccupazione giovanile. 5. Secondo l’ISTAT [2016: 218] per coloro che hanno avuto esperienze lavorative prima della laurea l’inserimento professionale è più facile. 6. La controparte dell’accademizzazione è il “professionalismo” (vocationalism) ossia la subordinazione del sistema educativo ai supposti bisogni del sistema economico [Bills 2009]
Un altro modo per spiegare la disoccupazione giovanile e più in generale il disagio occupazionale è considerare le asimmetrie tra domanda e offerta di lavoro7. In inglese, si usa il termine mismatch (cattivo accoppiamento). Per capire cosa si intende, si pensi al gioco del basket e alla situazione nella quale un giocatore molto più basso è costretto a marcare un avversario molto più alto. I mismatch tra domanda e offerta di lavoro riguardano le competenze e le qualifiche possedute dal lavoratore e quelle invece richieste e necessarie per una specifica posizione lavorativa. Se si considera il cattivo accoppiamento in termini di qualifiche si possono originare due forme di mismatch: (i) si ha sovra-qualificazione quando un soggetto svolge un lavoro per il quale è richiesto un titolo di studio inferiore a quello posseduto; (i) si ha sotto- qualificazione quando, invece, avviene il contrario, cioè il titolo di studio posseduto è inferiore a quello richiesto. I due fenomeni si verificano con più frequenza in momenti diversi della vita lavorativa. La sovra- qualificazione, ad esempio, è più frequente in fase di primo inserimento quando pur di trovare un’occupazione si è disposti ad accettare posizioni lavorative inferiori a quelle cui si potrebbe aspirare con il proprio titolo di studio. In Italia, il caso tipico è quello dei concorsi pubblici, nei quali per posizioni da impiegato con diploma si presenta un gran numero di candidati provvisti di laurea. In generale, la sovra- qualificazione è una condizione frequente poiché anche i datori di lavoro vista la grande disponibilità di candidati tendono a scegliere i più titolati anche per lavori a bassa qualifica. Una conseguenza dei mismatch educativi e la bassa soddisfazione per il lavoro (nel caso della sovra-qualifica) e lo scoraggiamento (nel caso della sotto-qualifica). Considerando, invece i cattivi accoppiamenti in termini di competenze (skills), si ha una situazione di over-skilling, quando il lavoro che si svolge richiede l’uso di una parte limitata delle proprie competenze; viceversa, l’under-skilling si riferisce al caso nel quale il lavoratore non possiede tutte le competenze richieste allo svolgimento del lavoro. Nel complesso, i giovani esperiscono in prevalenza situazione di sovra- qualificazione poiché le posizioni lavorative a cui hanno accesso sono spesso inferiori a quelle che potrebbero ricoprire. Un’ultima forma di cattivo accoppiamento è il mismatch orizzontale, una situazione nella quale il livello 8 educativo e le competenze sono adeguate alla posizione ricoperta o ricercata, ma il settore nel quale si ricerca o si trova lavoro non è quello per il quale si è studiato o si posseggono le competenze. Gli esempi potrebbero essere molti, tanti quanti le biografie occupazionali dei giovani italiani: psicologi del lavoro che si occupano di logistica; laureati in lettere che fanno gli agricoltori, avvocati che lavorano come cuochi o camerieri. Spesso un cattivo accoppiamento orizzontale si combina a una qualche forma over-skilling. Un altro fenomeno rilevante per l’inserimento lavorativo dei giovani è la sotto-occupazione, intesa come la situazione di chi, per mancanza o scarsezza di lavoro, presta la sua opera per un numero di ore o di giornate lavorative inferiore a quello normale (in questa accezione è sinonimo di disoccupazione parziale8). Nel complesso i giovani più di altri soggetti fanno esperienza del fatto che il mercato del lavoro ha un funzionamento imperfetto [Boeri, van Ours 2008], non sempre premia le competenze e non offre le stesse opportunità a tutti. Tuttavia l’economia del lavoro, tramite il concetto di “cattivo accoppiamento” tra qualifiche/competenze e posizioni lavorative disponibili, suggerisce che l’occupazione/disoccupazione di un soggetto dipende anche da altri due fattori: l’informazione e l’orientamento. Avere informazioni sulle vacancy (i posti di lavoro disponibili) è una risorsa fondamentale per uscire da una condizione di inoccupazione. Allo stesso tempo, la capacità di (auto)orientamento nel mercato del lavoro permette a un individuo di cercare posizioni lavorative per le quali ha maggiori possibilità di successo. Il ruolo dell’orientamento (o anche solo dell’informazione orientativa) è cruciale anche nelle scelte scolastiche, anzi andrebbe tenuto in primo piano lungo tutta la transizione scuola-lavoro, per far sì che le azioni di job searching siano il più possibile efficaci9. 7. La classificazione è una rielaborazione di quanto proposto in Cedefop 2010: 13, Table 1. 8. Il part-time involontario è un’altra forma di sotto-occupazione che riguarda soprattutto le donne. 9. L’orientamento al lavoro è la precondizione di qualsiasi politica attiva, per una quadro complessivo della domanda e dell’offerta di orientamento si veda ISFOL 2012b.
2. LA MARGINALIZZAZIONE DEI GIOVANI NEL MERCATO DEL LAVORO: COSA DICONO I DATI La disoccupazione giovanile è un tema complesso che chiama in causa gli assetti macro-economici, la struttura del sistema educativo, così come le scelte dei datori di lavoro, delle famiglie e degli studenti. Una complessità che però necessita di essere semplificata perché dopo aver presentato alcune chiavi di lettura utili a comprenderne le dinamiche è necessario quantificare anche il fenomeno, entrando nel merito dei principali indicatori statistici disponibili. 2.1 I grandi numeri della disoccupazione giovanile In poco più di un decennio la disoccupazione giovanile è raddoppiata. Sia guardando alla componente dei giovanissimi (15-24 anni) sia tra i giovani adulti 25-34 anni si nota un trend crescita continuo, al netto delle oscillazioni dovute al lavoro stagionale (in estate la disoccupazione scende per poi risalire in autunno. L’ordine di grandezza è consistente (graf. 1 e 2). Tra i 15-24 anni si è passati dal 24% di inizio 2004 al 43% di fine 2016, nella coorte anagrafica successiva (graf. 2) si è avuto un salto dal 10% al 20%. Come è noto il tasso di disoccupazione è riferito all’incidenza delle persone in cerca di lavoro sul totale delle forze di lavoro (occupati + persone in cerca). Grafico 1 – Tasso di disoccupazione e incidenza dei disoccupati 15-24 anni (2004-2016) (Dati mensili destagionalizzati) Tasso di disoccupazione Incidenza dei disoccupati Lineare (Tasso di disoccupazione ) 50,0 9 40,0 30,0 20,0 10,0 0,0 200 200 200 200 200 200 201 201 201 201 201 201 201 4 5 6 7 8 9 0 1 2 3 4 5 6 Fonte: elaborazioni IREF su dati ISTAT, Rilevazione Continua Forze di Lavoro (serie storiche armonizzate) Se si vuole avere una misura della diffusione della disoccupazione all’interno dell’intera popolazione giovanile occorre considerare una secondo indicatore: la percentuale di disoccupati sul totale dei pari età. Sotto questo profilo, il dato interessante non è tanto quello dei giovanissimi, all’interno dei quali l’incidenza dei disoccupati è rimasta sempre attorno al 10%, quanto quello dei giovani-adulti, sotto popolazione che vede il peso dei disoccupati passare dall’8,1% al 13,1%.
Grafico 2 – Tasso di disoccupazione e incidenza dei disoccupati 25-34 anni (2004-2016) (Dati mensili destagionalizzati) Tasso di disoccupazione Incidenza dei disoccupati Lineare (Tasso di disoccupazione) 25,0 20,0 15,0 10,0 5,0 0,0 200 200 200 200 200 200 201 201 201 201 201 201 201 4 5 6 7 8 9 0 1 2 3 4 5 6 Fonte: elaborazioni IREF su dati ISTAT, Rilevazione Continua Forze di Lavoro (serie storiche armonizzate) Per comprendere meglio cosa è accaduto nel periodo post-crisi economica è utile considerare gli stock che compongono le forze di lavoro (graf. 3), ossia gli occupati e le persone in cerca di occupazione. La flessione dei giovani che lavorano è molto evidente: in cinque anni, tra gli under35 sono andati persi poco 10 meno di un milione di posti di lavoro. Grafico 3 – Occupati e persone in cerca di occupazione 15-34 anni (2012-2016) (Dati mensili destagionalizzati) Occupati Persone in cerca di occupazione 6.000 2000 1600 5.600 1200 5.200 800 4.800 400 4.400 0 2012 2013 2014 2015 2016 Fonte: elaborazioni IREF su dati ISTAT, Rilevazione Continua Forze di Lavoro (serie storiche armonizzate) Non altrettanto evidente è l’andamento delle persone in cerca di occupazione (coloro che hanno fatto almeno un’azione formale di ricerca di lavoro): la tendenza è verso l’aumento ma la portata non è così
consistente come lascerebbe supporre il calo della componente occupata: la differenza tra i due estremi del periodo considerato è pari a poco più di 250mila unità. Cosa è successo? La risposta è preoccupante: chi ha perso il lavoro non ne ha cercato un altro. Il grafico 4 mostra come si sono ricomposte le forze di lavoro e gli inattivi. Grafico 4 – Forze di lavoro e inattivi 15-34 anni (2012-2016) (Dati mensili destagionalizzati) Forze di lavoro Inattivi 7.200 6.400 6.300 6.800 6.200 6.100 6.400 6.000 5.900 6.000 5.800 2012 2013 2014 2015 2016 Fonte: elaborazioni IREF su dati ISTAT, Rilevazione Continua Forze di Lavoro (serie storiche armonizzate) 11 Dal 2012 al 2016, le forze di lavoro hanno subito un calo abbastanza regolare, mentre gli inattivi hanno seguito un andamento ondivago: in una prima fase sono aumentati in modo significativo per poi calare, aumentare e nuovamente diminuire nel 2016. Ciò significa che i giovani hanno sperimentato una partecipazione intermittente al mercato del lavoro, entrando e uscendo dalle forze di lavoro. Il fenomeno dello scoraggiamento occupazionale è una caratteristica ben nota del mercato del lavoro italiano. Di solito però è legato a particolari profili di persone: tipicamente le donne in età adulta che, dopo un periodo di non lavoro (quasi sempre dipendente da carichi familiari), tentano di trovare un nuovo lavoro e di fronte ai primi fallimenti decidono di non cercare più convinte che per loro non ci sia posto. Verificare un atteggiamento scoraggiato tra i giovani è un elemento preoccupante poiché evidenzia una sfiducia precoce rispetto alle proprie opportunità lavorative. 2.2 Vorrei lavorare, ma … Gli indicatori complementari di disoccupazione Lo scoraggiamento occupazionale, in Europa così come in Italia, ha assunto proporzioni tali che le statistiche sul lavoro hanno iniziato a considerare un nuovo agglomerato: le forze di lavoro potenziali, composte da gli individui che non cercano attivamente un lavoro, ma sono disponibili a lavorare e dalle persone che cercano lavoro ma non sono subito disponibili. Tra gli under35 le forze di lavoro potenziali sono una componente molto consistente, nel 2004 pari a 1,1 milioni di giovani (graf. 5).
Grafico 5 – Forze di lavoro potenziali e tasso di mancata partecipazione al mercato del lavoro dei giovani 15-34 anni (2004-2015) Forze di lavoro potenziali (15-34 anni - K - Asse DX) Tasso di mancata partecipazione al MdL (15-34 anni - % - Asse SX) 36,7 36,1 1600 35,1 40,0 31,4 1400 28,5 35,0 27,6 1200 25,5 30,0 22,6 22,9 22,4 23,1 21,8 1000 25,0 800 20,0 600 15,0 400 10,0 1364 1100 1092 1120 1243 1260 1239 1260 1309 1238 1291 1342 200 5,0 0 0,0 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 Fonte: elaborazioni IREF su dati ISTAT, Rilevazione Continua Forze di Lavoro (serie storiche armonizzate) Nell’ultimo decennio, si è avuta una crescita che ha portato l’indicatore alla ragguardevole quota di un 1,3 milioni di giovani. Il dato che però desta la maggiore preoccupazione è il tasso di mancata partecipazione al mercato del lavoro10: dopo una crescita costante nel periodo 2004-2012, nei tre anni successivi il dato ha superato il 35% arrivando al picco del 36,7% nel 2014. Fuori dal dettaglio statistico, tra gli under35 uno su tre vorrebbe lavorare ma non fa nulla per trovare un lavoro. La distribuzione territoriale 12 dell’indicatore evidenzia che la mancata partecipazione al mercato del lavoro (cartogramma 1) è più diffusa nelle provincie del Meridione, dove tra gli under35 si raggiungono picchi del 60% a Napoli, Foggia e in quasi tutte le provincie della Calabria. Se invece si considera la variazione percentuale tra il 2011 e il 2015 (cartogramma 2) il fenomeno si presenta più distribuito e interessa anche ampie zone del Nord Italia e del Centro. 10. Il tasso di mancata partecipazione rappresenta un indicatore particolarmente importante per quei paesi, come l’Italia, caratterizzati da una quota elevata di persone che non cercano lavoro attivamente e, pertanto, non rientrano nel computo statistico della disoccupazione. L’indicatore offre una misura più ampia della quota di persone potenzialmente impiegabili nel sistema produttivo poiché tiene conto anche di una parte delle forze lavoro potenziali, vale a dire coloro che si dichiarano disponibili a lavorare pur non cercando attivamente lavoro.
Cartogramma 1 – Tasso di mancata partecipazione al mercato del Cartogramma 2 – Tasso di mancata partecipazione al mercato del lavoro giovani 15-34 anni (% – 2015) lavoro giovani 15-34 anni (differenza % 2015-2011) Fonte: elaborazioni IREF su dati ISTAT, Rilevazione Continua Forze di Lavoro (serie storiche armonizzate) Sin qui si sono descritte le dinamiche della disoccupazione, il cui segno è ampiamente negativo con l’aggravante dello scoraggiamento e della conseguente autoesclusione dal mercato del lavoro. Lo scenario del disagio lavorativo giovanile va completato prendendo un esame due indicatori di sotto-occupazione. Il primo (grafico 6) riguarda il numero di lavoratori under35 impiegato a 40 ore settimanali, ovvero l’orario 13 standard per un impiego a tempo pieno. Grafico 6 – Occupati 15-34 anni a 40 ore settimanali (2004-2015 - K) 3.500 3.001 2.890 2.896 3.000 2.881 2.774 2.657 2.612 2.653 2.500 2.371 2.140 2.009 1.984 2.000 1.500 1.000 500 - 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 Fonte: elaborazioni IREF su dati ISTAT, Rilevazione Continua Forze di Lavoro (serie storiche armonizzate) Se si confronta la serie storica 2004-2015 si nota una perdita netta di quasi 900mila lavoratori: gli occupati a tempo pieno a inizio periodo erano 2 milioni e 800 mila nel 2015 sono appena 1 milione e 900 mila. Il calo è abbastanza regolare dal 2004 al 2011, accelera invece dal 2012 in poi. In pratica, negli ultimi cinque anni i giovani occupati con orario standard sono diminuiti di circa un terzo. Un riscontro più preciso è dato da un secondo indicatore (grafico 7) riferito al part-time involontario all’interno degli occupati con meno di 35 anni: in dodici anni la percentuale di sotto-occupati e part-timers
involontari è quasi raddoppiata, stabilizzandosi poco sotto il 5%. Anche in questo caso l’anno spartiacque è il 2012. Al di là delle periodizzazioni, i dati parlano chiaro i giovani occupati lavorano sempre meno. Grafico 7 – Sottoccupati e part-time involontario (2004-2015 - %) Sottoccupati e part time involontario di 15-34 anni (%) 6,0 5,0 4,0 3,0 2,0 1,0 2,5 2,1 2,0 1,9 2,1 2,3 2,5 2,6 3,5 3,8 4,8 4,8 0,0 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 Fonte: elaborazioni IREF su dati ISTAT, Rilevazione Continua Forze di Lavoro (serie storiche armonizzate) Per continuare a esplorare il disagio lavorativo dei giovani italiani è necessario confrontare un dato solo all’apparenza in controtendenza. I collaboratori (co.co.co un tempo, co.co.pro. successivamente) sono una delle figure simbolo del precariato italiano. Ebbene tra il 2011 e il 2015 si sono quasi dimezzati: i collaboratori under 30 sono passati da 330mila a 177mila (tab. 1). Tabella 1 – Collaboratori per classe di età: confronto 2010-2015 (media annua) 14 Collaboratori Professionisti Anno Meno di 30 anni Diff. annua Totale Meno di 30 anni Diff. annua Totale N N % N N N % N 2011 334.860 - - 1.464.740 32.714 - - 281.259 2012 305.680 -29.180 -8,7 1.426.365 37.635 4.921 15,0 295.113 2013 233.933 -71.747 -23,5 1.261.302 40.268 2.633 7,0 301.330 2014 213.927 -20.006 -8,6 1.210.316 45.402 5.134 12,7 313.174 2015* 177.720 -36.207 -16,9 1.114.691 45.623 221 0,5 313.592 Fonte: elaborazioni IREF su dati INPS,Osservatorio sui lavoratori parasubordinati * Dati provvisori La diminuzione è dovuta a due fattori: la cessazione delle collaborazioni a causa della crisi economica e, più di recente, il Jobs act che introducendo il concetto di presunzione di subordinazione ha contribuito alla trasformazione delle collaborazioni in rapporti di lavoro dipendente. La tabella però evidenzia anche un altro dato: in cinque anni i collaboratori professionisti under30 sono cresciti di quasi il 50%, passando da 32mila a 45mila. Quest’ultimo dato è interessante perché la differenza tra collaboratore e collaboratore professionista è data dal pagamento dei contributi: nel primo caso, è il datore di lavoro a pagarli, nel secondo è invece il lavoratore stesso. La dinamica è ancor più evidente nel grafico 8.
Grafico 8 – % di under30 tra i collaboratori e i professionisti (2011-2015) Collaboratori (% under30) Professionisti (% under 30) 25,0 22,9 21,4 18,5 17,7 20,0 15,9 15,0 14,5 14,5 10,0 12,8 13,4 11,6 5,0 0,0 2011 2012 2013 2014 2015* Fonte: elaborazioni IREF su dati INPS,Osservatorio sui lavoratori parasubordinati La percentuale di collaboratori under30 è scesa di 7 punti percentuali; mentre il peso dei giovani con meno di 30 anni tra i professionisti è passato dall’11,6% al 14,5%. Ciò significa che oltre alla risoluzione del contratto, alla conversione in rapporto di lavoro dipendente alcuni giovani collaboratori sono stati messi nelle condizioni di percorrere una terza strada continuare a lavorare con l’azienda allentando però il vincolo contrattuale, tramite l’apertura di una partita IVA, rimanendo di fatto dei subordinati, ma formalmente dei lavoratori indipendenti. Sempre nella direzione dell’indebolimento del rapporto tra datore di lavoro e lavoratore è necessario confrontare i dati relativi al lavoro accessorio con la consapevolezza che l’uso dei voucher possa essere stata una delle alternative al non lavoro prospettate dai datori di lavoro ai giovani. Purtroppo, le informazioni 15 dell’Osservatorio INPS sul lavoro accessorio non permettono di quantificare la presenza dei giovani tra i “voucheristi” (graf. 9). Grafico 9 – Voucher lavoro venduti (2008-2016) Vocuher lavoro venduti (N) 2016 (I° semestre) 70.021.438 2015 115.079.713 2014 69.181.075 2013 40.787.817 2012 23.813.978 2011 15.347.163 2010 9.699.503 2009 2.747.768 2008 535.985 0 50.000.000 100.000.000 150.000.000 Fonte: INPS, Osservatorio sul lavoro occasionale accessorio Tuttavia è sufficiente guardare allo stock complessivo e metterlo in relazione con i dati discussi sinora: oltre 115 milioni di voucher venduti nel 2015 e 70 milioni nel primo trimestre del 2016, è facile supporre che tra coloro che hanno lavorato con questa modalità ci possano essere numerosi giovani.
Gli indicatori complementari, così come i dati INPS, permettono di specificare lo scenario occupazionale nel quale stanno vivendo i giovani italiani. Sintetizzando quanto esposto sin qui, le tendenze in atto sono almeno quattro e tutte vanno nella direzione di una precarizzazione della vita lavorativa. i. Riduzione della base occupazionale giovanile, ii. Aumento delle forme auto-esclusione dal mercato del lavoro, iii. Crescita delle occupazioni che non vincolano formalmente il datore di lavoro al lavoratore, iv. Diminuzione degli impieghi “a tempo pieno”. 2.3 Non studio, non lavoro: il caso NEET Quando allo scoraggiamento occupazionale si combina la mancata partecipazione al sistema formativo si ha una particolare forma di inattività. L’acronimo NEET (Not currently engaged in Education, Employment or Training) è stato coniato sul finire degli anni Ottanta nel Regno Unito, per identificare i giovani non occupati e fuoriusciti dal circuito formativo in modo prematuro. La preoccupazione era la presunta devianza di questi giovani: soprattutto nelle aree urbane si riscontrava una forte relazione tra NEET rate e micro-criminalità11. Ogni Paese dell’area OCSE ha poi connotato il tema in modo particolare12. Ad esempio, in Giappone il dibattito non è tanto incentrato sull’abbandono scolastico o sulla propensione alla devianza quanto sul fenomeno che vede giovani con titoli di studio superiori rifiutare volontariamente le carriere regolari per garantirsi maggior tempo libero, si tratta dei cosiddetti Freeter [Kosugi 2004; Toivonen 2012]13. In Australia, invece, si ragiona in termini di not fully engaged in education and/or employment (NFE), tenendo conto anche dei soggetti che sono impegnati a tempo parziale in attività lavorative o formative [Robinson, Lamb 2012]. In Italia, NEET ha finito per diventare sinonimo di disagio giovanile per cui la preoccupazione oltre che per l’esclusione dalla scuola e dal lavoro è per la condizione complessiva di vita di questi giovani. Da un’analisi 16 condotta sul sottogruppo dei NEET (15-29 anni), l’ISTAT [2011: 148] individua alcuni tratti ricorrenti: (i) Anche se hanno a disposizione più tempo libero, i NEET fruiscono meno degli altri di cinema, teatri, musei e mostre. Inoltre, leggono meno i quotidiani e usano meno il personal computer e internet. (ii) Partecipano alle attività delle associazioni di volontariato, dei partiti politici o di associazioni di altra natura meno degli altri giovani. (iii) Lo stile di vita dei giovani NEET rischia di non essere del tutto salutare: infatti, mentre chi lavora o studia fa sport in oltre il 50 per cento dei casi (quasi il 60 per cento tra gli studenti), tra gli inattivi neppure uno su quattro pratica abitualmente attività sportive. (iv) L’esclusione dal circuito formativo e lavorativo si associa a più bassi livelli di soddisfazione nelle relazioni familiari. Sotto il profilo quantitativo (tab. 2) si stanno considerando 3,5 milioni di giovani (stima all’anno 2013), un gruppo sociale che nei cinque anni precedenti all’ultimo dato disponibile è aumentato di 500mila unità. A livello territoriale le presenze maggiori si hanno in Campania (600mila); Sicilia (527mila), Puglia (354mila), Lombardia (368mila) e Lazio (298mila). 11. Secondo un rapporto del 2005, in Gran Bretagna: “An estimated 70,000 school-age offenders Enter the youth justice system each year. Keeping these young people engaged in education and learning is a critical part of helping them to stay away from crime and to thrive” [UK Home Office 2005: 11]. 12. Il differente modo di focalizzare il problema origina anche delle divergenze nell’operativizzazione statistica del concetto di NEET. Un rapporto di ItaliaLavoro [2011] contiene interessanti indicazioni sulle definizioni operative adottate a livello internazionale. 13. Il termine deriva dalla crasi tra l’inglese “free” (libero) e il tedesco “arbeiter” (lavoratore).
Tabella 2 – NEET per regione (2009-2013) REGIONE 2009 2010 2011 2012 2013 Piemonte 147.679 148.021 142.996 157.536 188.721 Valle d'Aosta 4.076 3.920 3.958 3.822 4.856 Liguria 45.496 46.709 43.716 50.716 59.931 Lombardia 301.409 315.864 313.313 331.802 368.021 Trentino Alto Adige 26.805 29.039 27.949 30.483 31.322 Veneto 141.605 165.188 162.129 177.067 191.743 Friuli-Venezia Giulia 32.817 34.545 38.442 41.125 40.705 Emilia-Romagna 111.007 134.710 128.807 134.484 154.627 Toscana 103.668 120.384 123.984 136.938 144.969 Umbria 27.803 31.226 31.447 33.842 35.711 Marche 59.636 52.509 56.351 59.686 64.963 Lazio 221.333 247.249 265.014 265.307 298.019 Abruzzo 62.643 61.343 60.881 60.892 71.238 Molise 17.232 17.284 18.253 19.270 22.368 Campania 572.883 587.143 585.022 580.563 602.131 Puglia 333.182 331.398 327.042 329.817 354.883 Basilicata 39.004 44.983 42.027 42.749 46.275 Calabria 166.768 178.412 178.569 181.828 196.285 Sicilia 452.483 472.081 479.918 494.910 527.127 Sardegna 108.371 106.240 107.380 110.310 122.962 ITALIA 2.975.900 3.128.248 3.137.198 3.243.147 3.526.857 Fonte: elaborazioni IREF su dati ISTAT, Rilevazione Continua Forze di Lavoro (serie storiche armonizzate) Per capire meglio il fenomeno, può essere utile comparare la diffusione dei NEET con altri indicatori, relativi a fenomeni che possono contribuire a spingere verso l’alto il NEET rate, ossia l’abbandono scolastico (gli early school leavers sono ragazzi tra i 18 e i 24 anni che hanno terminato la scuola media inferiore senza proseguire gli studi) e gli occupati irregolari (tab. 3). 17 Tabella 3 – NEET, Occupati irregolari e giovani che abbandonano prematuramente gli studi per regione NEET Giovani che abbandonano prematuramente gli Occupati irregolari # Regione (% - 2013)* studi (% - 2014)* (% - 2013)** 1 Sicilia 39,7 24,0 20,0 2 Campania 36,4 19,7 21,4 3 Calabria 35,6 16,9 22,9 4 Puglia 34,1 16,9 17,0 5 Basilicata 31,8 12,3 13,5 6 Sardegna 31,8 23,5 14,1 7 Molise 29,2 12,1 15,2 8 Lazio 23,6 12,5 14,3 9 Abruzzo 23,4 9,6 15,5 10 Piemonte 22,7 12,7 10,6 11 Liguria 21,1 13,6 10,7 12 Marche 20,5 10,9 9,3 13 Toscana 19,6 13,8 10,6 14 Valle d'Aosta 19,3 16,2 9,3 15 Umbria 19,0 9,1 12,6 16 Emilia-Romagna 18,8 13,2 9,5 17 Lombardia 18,4 12,9 9,6 18 Veneto 18,1 8,4 8,5 19 Friuli-Venezia Giulia 17,2 11,1 10,0 20 Trentino-Alto Adige 13,3 10,9 9,1 * Fonte: ISTAT Rilevazione Continua Forze di Lavoro ** Fonte: ISTAT, Conti economici regionali Leggendo in termini comparati i valori dei tre indicatori considerati salta agli occhi la compresenza dei tre fenomeni considerati: in nelle regioni del Sud NEET, abbandono scolastico precoce e lavoro irregolare seguono lo stesso andamento. Al contrario nelle regioni dove la percentuale di NEET è più bassa lo sono anche quella degli altri due indicatori considerati. Difficile individuare dei legami causali senza disporre di dati
più puntuali, tuttavia non è improprio rilevare che tra i fenomeni considerati ci sia un qualche rapporto. In particolare, appare plausibile una catena di eventi che dall’abbandono scolastico, passa per il lavoro “in nero” e conduce alla condizione di NEET. I NEET in altre parole non sembrano essere altro che la manifestazione ultima di una situazione di disagio sociale più ampio: si tratta di giovani che vivono in contesti nei quali le opportunità sono poche e la scelta di tirarsi fuori dai giochi è purtroppo un’alternativa reale. 3. LE REAZIONI E I SEGNALI DI CAMBIAMENTO In questa sezione si prendono in esame le forme di adattamento dei giovani al nuovo corso del mercato del lavoro italiano. Lo scenario in questo caso è fluido e poco omogeneo: l’auto-impresa e le start-up, la riscoperta settori produttivi abbandonati e di antichi mestieri, il bricolage tra lavoro standard, volontariato e leisure, la propensione alla cooperazione e, in generale, la sharing economy sono manifestazioni che, in modo anche contraddittorio, mettono in evidenza la capacità dei giovani italiani di adattarsi, magari aggirandole, alle restrizioni di opportunità caratteristiche del mercato del lavoro italiano. Un primo elemento da porre in evidenza è offerto dalla propensione al lavoro autonomo. In precedenza si è evidenziato come tale tendenza potesse essere considerata una sorta di “via di fuga” dalla crisi del lavoro dipendente. Come altre dinamiche socio-economiche, l’auto-imprenditorialità presenta delle ambivalenze. In altre parole, esiste anche un versante positivo dell’auto-impiego, non tutto è precarizzazione, ma ci sono segnali di una nuova imprenditorialità giovanile che si muove fuori dal classico schema del capitalismo familiare italiano. A riguardo è sufficiente prendere in esame due settori economici agli opposti, ma che presentano dinamiche interne simili: le nuove tecnologie e l’agricoltura. Rispetto al settore agricolo occorre avvertire che il fenomeno del ritorno all’agricoltura avviene in un contesto di generale diminuzione del numero di aziende. Uno studio dell’INEA sui giovani agricoltori 18 evidenzia che: dei 161.716 agricoltori “under 40”, 108.870 sono i “veri” nuovi entrati, pari a circa il 60% . Questo dato, sebbene sia apparentemente alto, non può essere pienamente soddisfacente in quanto va letto contemporaneamente ai 220.336 usciti dalla fascia dei giovani. Ciò indica che appena il 50% di coloro che oltrepassano la fascia di età dei giovani sono stati “sostituiti” da nuovi entrati nel mondo agricolo. [INEA 2013: 38] Oltre al dato quantitativo è interessante notare che i “nuovi agricoltori” spesso sono laureati e diplomati in discipline non agrarie. Se da un lato l’assenza di preparazione tecnica può avere un ruolo negativo sulla conduzione di un’azienda agraria, dall’altro, la formazione in discipline non agrarie può essere un vettori di sviluppo in termini imprenditoriale e manageriali [INEA 2013: 44]. Il fenomeno è ancora statisticamente poco visibile, ma l’agricoltura italiano è interessata da un rinnovamento che vede “tornare ai campi” persone che non hanno necessariamente una tradizione familiare alle spalle: c’è una generazione di “contadini per scelta” che fa dell’agricoltura oltre che un mestiere, anche uno spazio di sperimentazione sociale ed economica. Un’inchiesta qualitativa sul tema evidenzia che le nuove aziende agricole: si reggono economicamente combinando in vario modo percorsi che fanno perno su una pluralità di soluzioni: l’autoproduzione di molti degli input (compresi talvolta quelli energetici), la multicoltura, la qualità del prodotto (non necessariamente certificato bio), il lavoro “ben fatto” e la dimensione artigianale delle produzioni (spesso afferente ad un sapere tacito, fortemente ancorato alla natura e ai luoghi), la multifunzionalità (agriturismo, fattorie didattiche, ecc.), l’incorporazione di tutta o parte della catena del valore (es. produzione su piccola scala di conserve, farine, pane, formaggi e quant’altro ), la cooperazione formale e informale tra produttori, l’integrazione nel reddito familiare di apporti esterni (spesso femminili), la ricomposizione di filiere di prodotto, e non ultimo il rapporto diretto con il consumatore (mercati contadini, gas, spacci, ecc.). [Ceriani, Canale 2013: 199] I tratti di contadinità si combinano con approcci imprenditoriali avanzati e scelte etico-politiche significative. I giovani contadini “per scelta” si dedicano alla terra con l’intenzione, oltre che di produrre
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