IN QUARANTENA DOBBIAMO RICONOSCERE I NOSTRI PRIVILEGI - in data 27 marzo 2020 Scritto da Lucia Liberti Articolo apparso per la prima volta su ...

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IN QUARANTENA
DOBBIAMO RICONOSCERE
     I NOSTRI PRIVILEGI

   Articolo apparso per la prima volta su
  Parte del discorso (partedeldiscorso.it)
           in data 27 marzo 2020
          Scritto da Lucia Liberti
 Immagine in copertina: Il balcone (1868),
           di Édouard Manet
Nota: l'articolo che segue è piuttosto lungo, poiché tante sono le
     condizioni di fragilità che è doveroso ricordare e menzionare, a
maggior ragione in questo momento. Reputiamo quindi necessario
  l'inserimento qui di seguito di un breve indice, per rendere più a-
 gevole la navigazione all'interno della pagina. In fondo, sono con-
 sultabili i contatti (telefonici e non) delle linee che offrono aiuto e
supporto a distanza, utili a non restare sol* in questi giorni in cui è
 più difficile scappare dai propri problemi, anche solo per un breve
                                           ma salvifico lasso di tempo.

 Ringrazio il dottor Paolo Cotrufo (Professore associato di psicolo-
     gia clinica presso l'Università degli Studi della Campania Luigi
  Vanvitelli e psicoanalista) per la supervisione dei contenuti legati
  ai disturbi dell'alimentazione e a Margherita Fioruzzi e la dotto-
ressa Flavia Risari dell'associazione Mama Chat per aver risposto
alle mie domande. Ringrazio, inoltre, M. e V. per avermi racconta-
                                                      to le loro storie.
Indice
Donne, persone LGBT+ e minori vittime di violenza ................................................................................................ 4
Persone affette da disturbi alimentari ........................................................................................................................ 6
Persone che soffrono di ansia e depressione ............................................................................................................ 8
Lavoratori non tutelati ................................................................................................................................................ 11
Senzatetto e migranti ................................................................................................................................................. 13
Nella parte sbagliata del mondo ................................................................................................................................ 14
Contatti e iniziative...................................................................................................................................................... 15
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Per molte e molti, la quarantena non è poi così male: lavoro da casa, spesa a domicilio, tappetino da yoga
e intrattenimento gratuito. I tempi si dilatano – possiamo finire la colazione seduti a tavola, invece che te-
nere stretta tra i denti l'ultima fetta biscottata mentre corriamo a prende il bus che ci porta tutte le matti-
ne a lavoro. Se proprio abbiamo bisogno di un po' di sole e d'aria fresca, possiamo sempre uscire sul balco-
ne e, col giusto tempismo, per non rinunciare anche al senso di comunità, trovarci nel bel mezzo di un fla-
shmob.
Questo, però, accade solo ai soggetti privilegiati.
Per molti altri, forse a ben vedere la maggioranza, la quarantena non è sinonimo di sicurezza, di tutela;
piuttosto, fa rima con pericolo, instabilità. Parliamo di persone che, già prima della pandemia, portavano
sempre con sé il carico ingombrante dell'assenza di diritti o dello stigma sociale e che oggi vedono questo
peso occupare tanto spazio da soffocarli. Come se questi problemi pre-esistenti, costretti anche loro tra le
quattro mura di casa, avessero preso la forma di un'enorme palla rimbalzante, come quelle che da piccol*
compravamo nei distributori, ma molto più grande. Immaginate che questa palla inizi a saltare ovunque e
pericolosamente, incontrollabile, acquistando sempre più energia. Se prima era certamente scomodo e dif-
ficoltoso trascinarsela dietro ovunque, ora – in questo ambiente chiuso e privo di vie di fuga – c'è
il rischio che ci finisca addosso, con molta forza e facendoci ancora più male.

Parliamo di chi è costretto a convivenze non rassicuranti

Lo stupro (1868-1869), di Edgar Degas
In quarantena, c'è chi condivide felicemente lo spazio domestico con qualcuno, chi si trova da sol* e chi
preferirebbe starci, da sol*. Faccio riferimento a tre categorie in particolare. Le prima sono le donne vitti-
me di violenza di genere. Negazionismo a parte, si tratta di una realtà tristemente diffusa e che merita
una riflessione ad hoc in questo periodo di quarantena. Immaginate che cosa significhi vivere con un com-
pagno abusivo. Nella vita di tutti i giorni, alcune (e neppure tutte) riuscirebbero a trovare delle brevi e loca-
lizzate vie di fuga: le visite ai familiari, le ore di lavoro, le commissioni quotidiane. Boccate d'aria fonda-
mentali, prima di tornare all'asfissia domestica.
Bene, ora immaginate di non poter uscire, che in questi casi significa non poter scappare. Vuol dire non
solo essere costantemente vessate dal partner onnipresente, ma anche non poter trovare conforto all'e-
sterno. Che fare?
E dove pensate possa scappare, invece, un ragazzo gay, una ragazza lesbica, una perso-
na bisessuale o pansessuale, trans o non binaria che vive insieme a una famiglia che non perde tempo per
denigrarl*? O che convive suo malgrado con coinquilin* omobitransfobic*? Inoltre, anche in questo caso,
sono più diffuse di quanto si pensa le violenze all'interno della coppia. Le persone LGBT+, prima della qua-
rantena, denunciavano difficilmente questo genere di abuso, per svariati motivi: l'essere non dichiarat* e
la possibilità di avere a che fare con agenti omobitransfobici sono i principali. La «clausura» non fa altro
che condannare le persone non-cishet a una spirale di silenzio e violenza da cui diventa difficile uscire.

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La pubertà (1894-95), di Edvard Munch
A proposito di fughe: molti in questi giorni hanno stilato elenchi di libri per «evadere», in questo momento
difficile. Ecco, allora partiamo proprio da un libro di recente uscita, per parlare della terza categoria.
In Per il mio bene, la celebre DJ Ema Stokholma racconta della sua infanzia. Di quando, come tant* bam-
bin*, aveva paura che un mostro potesse nascondersi sotto il suo letto. Solo che, a differenza di molt* di
noi, il suo mostro esisteva, aveva un volto e per lei rispondeva al nome di «Mamma». L'abstract del libro
fornito dall'editore HarperCollins Italia lo dice esplicitamente: «“Non sei mai al sicuro in nessun posto”,
questo ha imparato Morwenn, una bambina di cinque anni».
Il libro parla anche di questo: anche in condizioni normali, è difficile che a un minore venga concesso sem-
plicemente di allontanarsi in maniera spontanea dal nucleo familiare. Chi sa, poi, preferisce voltarsi e finge-
re di non vedere. A tant* bambin* e ragazz*, in questi giorni, viene costantemente ricordato qualcosa che

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avevano già appreso prima della pandemia: che casa non significa salvezza. Che le persone che vi abitano
possono fare più paura del virus.

Parliamo di chi ha un disturbo alimentare

Sole di Mattina (1952), di Edward Hopper
C'è poi chi trova problematica la convivenza per una ragione che proviene, però, da se stess*. Pensiamo a
chi soffre di disturbi alimentari, ad esempio. A seconda del disturbo specifico (e da più prospettive, andan-
do da quella medica a quella sociale), per loro la quarantena può portare a un aggravarsi della patologia.
I rapporti con chi vive in casa con noi si fanno costanti, quindi costante è l'esposizione al loro giudizio. Lad-
dove familiari e coinquilin* siano al corrente della situazione, infatti, non è difficile che questi assuma-
no atteggiamenti critici verso la persona anoressica o bulimica; atteggiamenti che, quest’ultima,
già vulnerabile, percepisce come un ostacolo per la propria guarigione. Non sono infatti rare le liti aventi
come oggetto le abitudini irregolari – alimentari e non – connesse alla malattia, così come lo stesso sogget-
to affetto da disturbo alimentare può risultare essere più irascibile e lunatico del comune (gli sbalzi di u-
more sono tra le conseguenze di questo genere di disturbo).

         Un aspetto poco noto di anoressia e bulimia è l'iperattività dei soggetti
           che ne sono affetti. Ma in quarantena lo stile di vita è sedentario,
              le possibilità di fare esercizio fisico sono molto più limitate e
                   il lavoro si svolge in condizioni di assoluta staticità.

Si accennava ad abitudini irregolari, di natura però non alimentare, connesse alla malattia. C'è un aspetto
poco noto di questo genere di patologie: l'iperattività. Le persone anoressiche o bulimiche, infatti, si dedi-
cano spesso a un'attività fisica eccessiva – e svolta prevalentemente in solitudine – finalizzata proprio a
bruciare le calorie assunte durante i pasti. Ciò non si sposa bene col fatto che, in questa situazione, si è co-
stretti a uno stile di vita sedentario. Le possibilità di fare esercizio fisico sono molto più limitate e, in gene-
rale, anche il lavoro si svolge in condizioni di assoluta staticità. Certo, non per tutt* questo aspetto costi-
tuisce un problema: c'è chi reputa più che sufficiente l'esercizio svolto comodamente da casa con tappeti-
no e manubri, chi si è dotato di attrezzature come i tapis roulant. Qualcun*, però, potrebbe
non accontentarsi o ancora, per restare in tema di relazioni, potrebbe trovare stressante dover nascondere
l'anormale frequenza e intensità dei propri allenamenti a chi convive con loro.
Non tutti i disturbi legati all'alimentazione sono uguali e uno stesso disturbo non si presenta allo stesso
modo in tutti i soggetti che ne soffrono. Determinanti sono infatti sia i fattori scatenanti sia il contesto. A
seconda dei casi specifici, allora, i problemi che la quarantena aggiunge a una condizione già di per sé com-
plessa possono essere non solo l'ansia generata dalla maggiore difficoltà a nascondere il disturbo e/o le

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azioni compensative a familiari o coinquilin*, o al contrario la maggiore esposizione ai loro commenti criti-
ci, ora che la convivenza si fa più «stretta», ma anche – o in alternativa – lo stress conseguente al fatto di
dover limitare le condotte compensative o dal non avere in assoluto modo di metterle in atto, implicando
dunque un radicale ricalcolo delle proprie, compulsive, abitudini, e/o il senso di colpa che deriva dall'as-
sente o (secondo il soggetto) insufficiente compensazione.

Benefits Supervisor Sleeping (1995), di Lucian Freud
C'è un comportamento patologico che viene solitamente definito binge eating e che si manifesta in ricor-
renti abbuffate, durante le quali il soggetto percepisce un senso di totale perdita di controllo rispetto a
quanto sta facendo. Il cibo, in questi casi, viene ingurgitato compulsivamente, senza il vero gusto di farlo,
ma per la sola volontà di mangiare fine a se stessa. Chi soffre di un disturbo alimentare, infatti, tende
a rifiutare inviti a pranzo o a cena, temendo di perdere il controllo in pubblico e incarnando nel – supposto
– sguardo altrui il proprio severo giudizio su se stess*. Più in generale, il soggetto preferisce trascurare le
amicizie, a favore di attività solitarie.
Questi episodi capitano non solo a chi soffre nello specifico di disturbo da alimentazione incontrollata o
da alimentazione notturna, ma anche ai bulimici, che tendono a percepire un forte senso di colpa a causa
di questa mancanza di disciplina e trovano quindi rifugio in azioni compensative, che vanno dall'induzione
al vomito al praticare un'eccessiva attività fisica.
C'è quindi anche chi, grazie all'isolamento della quarantena, prova in questi giorni un senso di sollievo. Per
molti soggetti affetti da disturbi alimentari, infatti, risulta più facile compiacere lo sguardo altrui ed evitar-
ne il giudizio dall'inizio della quarantena, dal momento che l'unico mezzo di cui disponiamo per instaurare
relazioni all'esterno dell'ambiente domestico sono i social network. E, si sa, su Internet si può mostrare
tanto, ma si può anche facilmente nascondere quello che non ci va di rendere pubblico (o anche solo ma-
nipolarlo, migliorarlo).

          Con hashtag come #AndràTuttoStretto e post su quanto saremo tutt*
           più grass* alla fine della pandemia, stiamo trasformando lo scrolling
                in un processo spietato, destinato a emettere una condanna
          all'isolamento, all'insoddisfazione, alla disistima nei propri confronti.

A questo punto, soffermiamoci sul concetto di senso di colpa, sul ruolo dei social e, soprattutto, torniamo
a noi. Noi che non siamo anoressici né bulimici né obesi e che sui nostri profili – senza malignità, sia chiaro,
ma comunque colpevolmente – facciamo ironia con hashtag come #AndràTuttoStretto e post su quan-
to saremo tutt* più grass* alla fine della pandemia. Questo è shaming e resta tale anche se non lo sappia-
mo, anche se non era nostra intenzione puntare il dito su nessuno. Non volevamo, ma stiamo alimentando
il senso di colpa (appunto) provato da molte persone grasse e lo stigma sociale a cui queste vengono sot-
toposte.

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Stiamo trasformando, per molt*, lo scrolling in un processo spietato, destinato a emettere una condanna
all'isolamento, all'insoddisfazione, alla disistima nei propri confronti. Stiamo ricalcando i soliti standard
grassofobici e legittimando il fatto che si possa deridere – dunque considerare ridicol* – chi a quegli stan-
dard non è allineat*.

Parliamo di chi soffre di ansia e depressione

Donna malinconica (1902-03), di Pablo Picasso

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È proprio lo stigma che il soggetto affetto da disturbi alimentari subisce, da se stesso e dall'esterno, a ren-
dere frequente la connessione tra queste condizioni e altre patologie come l'ansia e la depressione. Anche
per chi soffre nello specifico di simili condizioni, la quarantena non è certamente facile.
Ho voluto parlarne con Margherita Fioruzzi, presidente di Mama Chat, e la dottoressa Flavia Risari, psico-
loga. È in particolare quest'ultima a raccontarmi quanto segue: «Facendo riferimento alla casistica clinica
dei pazienti che seguo e di quelli seguiti dai miei colleghi, posso affermare che esiste un peggioramento
dei sintomi di ansia e depressione nelle persone che già soffrivano di tali disturbi prima dell’emergenza in
atto. È altresì possibile che un soggetto che non presentava difficoltà a livello psicologico, quantomeno e-
clatanti, fino a qualche settimana fa, riporti una sintomatologia ansiosa o un umore più basso da quando
siamo chiusi a casa».

Ricordo di un dolore (1889), ritratto di Santina Negri, di Giuseppe Pellizza Da Volpedo

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Non è difficile immaginare quali siano i fattori propri dell'isolamento che possono portare al manifestarsi o
all'aggravarsi di ansia e depressione, fino all'insorgenza di attacchi di panico. La dottoressa Risari ne men-
ziona alcuni, partendo dall’«impossibilità di uscire anche solo per fare una passeggiata». La sensazione che
ne deriva è quella di un loop continuo, in cui le attività si alternano – tra esercizio fisico, studio, lavoro, pa-
sti, pulizie... – ma l'ambiente resta lo stesso. L'impressione è di esserne soffocati, di venirne schiacciati.
Abbiamo dovuto rinunciare alle nostre già rodate routine; viviamo a ritmi e tempi nuovi e non dobbiamo
sentirci inadeguati se non siamo ancora riuscit* a trovare un equilibrio all'interno di questo setting inedito.
Certo, abbiamo anche più tempo a disposizione: tutto quello che risparmiamo non dovendo recarci fisica-
mente a scuola o in ufficio, ad esempio, o non potendo svolgere alcun tipo di attività d'intrattenimento
fuori casa. Non è detto, però, che si riescano a rimpiazzare cinema, teatro, concerti e presentazioni con
le offerte online alternative. Per molte e molti, questo tempo è dedicato piuttosto a pensare e rimuginare,
non sempre con esiti positivi sull'umore e la salute mentale. È più facile che siano i pensieri negativi a «oc-
cupanreo la testa in maniera troppo invasiva».

        L'equazione non è, però, così diretta: non si tratta semplicemente di un
       «fonte di pericolo + isolamento = panico». Bisogna infatti tenere a mente
      che esiste una moltitudine di possibili fattori scatenanti l'ansia, a cui corri-
                              spondono altrettante reazioni.

L'equazione non è, però, così diretta: non si tratta semplicemente di un «fonte di pericolo + isolamento =
panico». Bisogna infatti tenere a mente che esiste una moltitudine di possibili fattori scatenanti l'ansia, a
cui corrispondono altrettante reazioni. Se, ad esempio, è meno angosciante la condizione di un soggetto
che soffre di «forte ansia legata a contesti sociali o pubblici» – e che, anzi, «troverà giovamento nello stare
a casa perché si sente più sicura» –, lo stesso non si può dire di chi, al contrario, vede la sua ansia legata «a
vissuti di solitudine». Per loro, non vedere altre persone e vivere, eventualmente, questa «reclusione» da
sol* può essere o rivelarsi il più arduo degli ostacoli.
Ma non si tratta solo dell'isolamento. Ricordiamoci, infatti, perché siamo in quarantena. Stiamo viven-
do un momento di pericolo e, come mi spiegano Fioruzzi e Risari, «la prima reazione che l’essere umano
prova davanti a una situazione di pericolo è la paura. E meno male che sappiamo provarla: una dose ade-
guata di paura ci protegge dal pericolo e ci permette di non fare azioni che sarebbero nocive per noi e per
gli altri». Se la paura, allora, può spingerci a comportamenti virtuosi (evitare di uscire senza una motivazio-
ne valida potrebbe essere un esempio!), è il suo eccesso a generare ansia e attacchi di panico. In un perio-
do tanto particolare, questo può accadere «sia in persone che già ne soffrivano prima del coronavirus, sia
in coloro che non ne hanno mai sofferto».

       La nostra salute è a rischio e il virus è un nemico invisibile, da cui ci si può
       difendere con le dovute precauzioni, ma che non si può domare del tutto.

La nostra salute è a rischio e il senso di minaccia provocato dalla diffusione del virus – un nemico invisibile,
da cui ci si può difendere con le dovute precauzioni, ma che non si può domare del tutto – nella percezione
di un soggetto ansioso viene amplificato. Le intervistate Fioruzzi e Risari confermano, infatti, quanto sia
difficile restare lucidi, in questa situazione, se si soffre di ansia da controllo: questo perché, lo ribadiamo,
«abbiamo poco controllo su ciò che accade. Possiamo solo “controllare” noi stessi e ciò che facciamo».
C'è poi chi soffre di un tipo di ansia legata a «una grande attenzione per la salute». Per quanto ben nota
sia l'ipocondria, infatti, molto spesso ci si dimentica che questo disturbo è qualcosa di più di una buffa os-
sessione: strettamente connessa ai disturbi d'ansia e alla depressione, è anzi preferibile farvi riferimento
come disturbo d'ansia da malattia.

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Parliamo dei lavoratori non tutelati

La bevitrice (1887-1889), ritratto di Suzanne Valadon, di Henri de Toulouse-Lautrec
C'è poi una correlazione anche tra l'ansia e il lavoro cosiddetto «freelance». Le e i freelance (il termine vie-
ne solitamente tradotto con «liber* professionista») non sono esattamente una categoria professionale
tra le più tutelate.
Chi lavora da freelance conosce bene la sensazione che sto per descrivere: a una più o meno costante im-
pressione di vivere in un perpetuo tempo libero subentrano continue interruzioni, sottoforma di (legittime,
intendiamoci) richieste lavorative, che possono arrivare in ogni momento e a dispetto di qualunque altra
attività si stesse intanto svolgendo. Presa coscienza dell'assenza di orari e turni e del fatto di dove-
re ottemperare alle richieste ricevute, che queste fossero attese o meno, la/il freelance inizia a domandarsi
se il suo sia più un lavorare mai o un lavorare sempre. L'ultima volta che ho invitato una perso-
na freelance al cinema, al suo rifiuto è seguita una motivazione che potrebbe suonare più o meno così: «E
se mi chiamassero per un lavoro urgente a metà film?».
Non è un caso che si parli nello specifico di freelance anxiety (ansia da lavoro autonomo), che si manifesta
sottoforma di depressione, disturbi del sonno, ansia, insicurezza. Perché si tratta a tutti gli effetti di una
condizione lavorativa precaria.

            Per queste persone, ogni minuto a casa è un minuto in più speso a
                ricordarsi della propria inattività professionale; ogni ora in
                       quarantena è un'ora in meno di retribuzione.

Certo, in quanto autonomi per definizione, godono di una maggiore libertà e – rimanendo in tema di qua-
rantena – alcun* tra loro sono sicuramente tra le persone che hanno percepito come meno traumatico il
passaggio al lavoro smart, da casa, perché erano già abituat* a svolgerlo: pensiamo a chi lavora nei settori
di web design, grafica, comunicazione, traduzione, ma anche giornalismo, scrittura, editing e via discorren-
do. Questa medaglia ha però un rovescio non da poco. Ci sono infatti altre categorie di freelance che, da un
momento all'altro, si sono trovate semplicemente a non poter più accettare lavori – o a doverne accettare
molti di meno e a condizioni più restrittive. Parliamo nel primo caso, ad esempio, di chi si occupa di foto-

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grafia, estetica e cura della persona, organizzazione di eventi o spettacolo, personal training; nel secondo,
tra i tanti tipi, mi riferisco a chi fa ripetizioni o insegna privatamente, a tassist* e autist*.

I piallatori di parquet (1875), di Gustave Caillebotte
Per queste persone, ogni minuto a casa è un minuto in più speso a ricordarsi della propria inattività profes-
sionale; ogni ora in quarantena è un'ora in meno di retribuzione. E non c'è decreto che curi davve-
ro questo stato: scadenze fiscali, mutui e affitti sono sospesi, non cancellati. Alla fine della quarantena, bi-
sognerà lavorare anche più di prima per fare fronte ai debiti accumulati in questo periodo e un'indennità di
€ 600,00 non basta a coprirli. Ogni liber* professionista si trova in questi giorni a preventivare quanto avrà
perso da qui al 3 aprile e quanto drastiche debbano essere le proprie rinunce. Tanto che la prospettiva di
restare nella propria casa, e che questa resti propria, appare perfino rosea.

            M. è costretta a recarsi ogni giorno a lavoro, da pendolare, perché il
             suo datore di lavoro non le concede lo smart working. Ridurrebbe
                         la produttività, dice; la renderebbe pigra.

Ma la quarantena non è un dramma tutto freelance: ci sono anche quei lavoratori che a casa ci vorrebbero
stare, che potrebbero, ma a cui non è permesso da datrici e datori incoscienti.
È il caso di M., campana, 45 anni. Laureata in Giurisprudenza, è impiegata nel'ufficio amministrativo di
un consorzio. Ha due figli a carico e questo è il suo primo lavoro stabile: ha decisamente bisogno di non
perderlo, a costo di vedere calpestati i propri diritti. È costretta a recarsi ogni giorno a lavoro, da pendola-
re, perché il suo datore di lavoro non le concede lo smart working. Ridurrebbe la produttività, dice; la ren-
derebbe pigra.
Ma c'è anche V., che lavora in un settore – il restauro – che la pandemia ha immobilizzato. Eppure il suo
datore ritiene che si debba continuare a lavorare, senza alcun rallentamento. Solo dopo l'ennesimo decre-
to (quello di lunedì 16 marzo) e l'inasprimento delle misure di tutela ha deciso di concedere dei turni «a ro-
tazione», mettendo cioè le e i dipendenti in cassa integrazione. Veronica ha allora pensato di usufruire dei
suoi 20 giorni di ferie retribuiti: perché anche a orario ridotto c'è poco da fare, perché è necessario restare
a casa, perché «le muffe possono aspettare».

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Parliamo di chi una casa in cui restare non ce l'ha

Il venditore di fiammiferi (1921), di Otto Dix
A chi la casa rischia di perderla e a chi vorrebbe vedere riconosciuto il proprio diritto a restarci, si aggiun-
gono anche le persone che una casa non ce l'hanno. Vivono in strada, in condizioni igieniche non in linea
con quelle imposte dai decreti in tema di Covid-19, e non hanno la possibilità economica di acquistare ma-
scherine e guanti. Non possono, di conseguenza, rispettare le regole imposte per contenere il contagio e
sono inevitabilmente esposte al rischio di contrarre il virus. Per questa ragione, c'è anche chi pensa di de-
nunciarle, come segnala ad AGI l'Associaizone Avvocato di strada.
La cooperativa Binario 95 lancia allora #VorreiRestareACasa, una campagna «per richiamare l’attenzione»,
si legge su Redattore Sociale, «anche sulle difficili condizioni che le persone senza dimora e i servizi di ac-
coglienza sono chiamati a fronteggiare». La stessa associazione sottolinea come il problema non si limiti
all'assenza di una casa in cui andare in quarantena, ma alla necessità di frequentare luoghi co-
me mense e centri di accoglienza, per mangiare e dormire al sicuro, che però difficilmente garantiscono
il rispetto delle distanze minime.
Simili le condizioni nei centri di accoglienza (Cas o Siproimi) e nei centri per il rimpatrio (Cpr): Eleonora
Camilli, su Redattore Sociale, parla infatti di «sovraffollamento, prossimità forzata, scarso accesso alle cu-
re e ai servizi igienici». Tutte condizioni che non permettono ai migranti di prevenire eventuali contagi.
Non solo: per molte e molti, è la permanenza stessa in Italia a essere a rischio, a causa della chiusura stra-
ordinaria delle questure. Impossibile, in questo momento, ottenere dei documenti, così come fare richie-
sta d'accoglienza o asilo.

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© Parte del discorso                            27 marzo 2020                                 Lucia Liberti

Parliamo di chi una casa ce l'ha, ma nella parte sbagliata del
mondo

Il bambino malato (1886), di Arturo Michelena
Infine, c'è chi non è mai partito. C'è chi questa pandemia la vive in Paesi non europei, più precisamente da
una parte di mondo svantaggiata. Perché di fronte a una crisi di questa portata, in cui sono essenziali il cor-
retto funzionamento e il potenziamento del sistema sanitaro e delle politiche di welfare, se la propria ca-
sa, prigione o rifugio che la si consideri, si trova in Italia si è comunque molto più fortunati di chi invece vive
questo momento storico entro i confini di Stati come il Venezuela.
Ve lo avevamo raccontato in passato, in due diverse occasioni, servendoci di alcune testimonianze dirette:
prima quella di Carola, studentessa, poi quella della migrante Elena, che attualmente vive in Germania. Nel
Venezuela di Maduro, già prima che il coronavirus sconvolgesse le nostre vite, era diventato difficile, talvol-
ta impossibile, reperire beni di prima necessità come cibo, acqua e medicinali. Inoltre la normale erogazio-
ne del servizio sanitario è resa problematica dai frequenti e prolungati blackout.
Al momento, l'emergenza in Venezuela è contenuta, ma se – come ci si aspetta – dovesse aumentare il
numero delle persone positive al Covid-19 la situazione, per un Paese già fragile, diventerebbe ancora più
drammatica. Leggiamo su la Repubblica che l'intero Paese conta «appena 206 letti di terapia intensiva» e
che vi è anche una carenza di personale medico, poiché molti di questi professionisti sono emigrati, inten-
zionati a lasciarsi «alle spalle il regime di Maduro per trovare riparo al'estero».

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Non siete sol*! Ecco a chi chiedere aiuto

Identità (1968), di Ben Shahn
Fortunatamente la solidarietà degli italiani si manifesta anche nelle direzioni fino a qui indicate.
Se sei una donna vittima di violenza di genere, puoi contattare il numero dei centri antiviolenza (1522), at-
tivo in italiano, inglese, francesce, spagnolo e arabo.
Se sei una persona lesbica, bisessuale o trans e sei costrett* a convivere con una famiglia lesbobitransfobi-
ca o con una compagna violenta, puoi metterti in contatto con l'associazione Lesbiche Bologna, sia via te-
lefono (linea lesbica, 391 335 9732; linea lesbica antiviolenza, 391 333 3405) o – se non puoi telefonare! –

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via email (linealesbicabo@gmail.com; linealesbicaantiviolenzabo@gmail.com). Le persone LGBT+ possono
inoltre rivolgersi al Gay Help Line del Gay Center di Roma, il cui servizio è stato rimodulato durante il peri-
odo della quarantena, rendendosi operativo non più telefonicamente ma tramite chat sull'applicazio-
ne Speakly, scaricabile su Google Play e App Store Apple. È possibile usufruirne dal lunedì al sabato, dalle
16:00 alle 20:00.
Se sei un minore vittima di violenza o sei testimone di una violenza su minori, il numero Emergenza infan-
zia di Telefono Azzurro è 114. È attiva anche un'area del sito in cui è possibile chattare con un operatore
della linea o richiedere un contatto via SMS o WhatsApp. È inoltre disponibile un'app, su Google Play e App
Store     Apple.     Restano    poi    attivi   i  contatti    «generici»     di Telefono    Azzurro (19696
e letuedomande@azzurro.it), validi per chiunque – anche adult* – voglia porre domande o cercare confor-
to in merito a temi come bullismo, cyberbullismo, dipendenze, adescamenti online e ogni forma di evento
traumatico.
Se soffri di disturbi alimentari o temi che si stiano manifestando per la prima volta, puoi rivolgerti al nume-
ro verde SOS Disturbi alimentari (800 180 969). L'associazione Nutrimente offre inoltre consulenze sul
tema ai genitori di giovani persone affette da disturbo dell'alimentazione, tramite email (teenutri-
help@gmail.com) e telefono (333 560 0344). Inoltre, molte ASL forniscono servizi di consulenza e supporto
telefonico.
Hai bisogno di assistenza psicologica? SIPEM SoS Lombardia e la Società Italiana di Psicologia dell'Emer-
genza hanno inaugurato un servizio ad hoc per i giorni di quarantena. Si chiama Pronto Psy, è gratuito e
basta scrivere a sipemsoslombardia@gmail.com o via SMS o WhatsApp al numero 379 189 8986 per chie-
dere di essere ricontattati. Anche l'agenzia di stampa Dire Giovani mette 30 psicologi al servizio di «stu-
denti, docenti e famiglie durante l'emergenza coronavirus». Potete mettervi in contatto con loro via email
(esperti@diregiovani.it) o SMS e WhatsApp (333 411 8790). Ancora, la onlus Il Bandolo offre un servizio di
supporto psicologico telefonico al numero 011 230 2727, attivo tutti i giorni dalle 11:00 alle 21:00. È dedi-
cato poi esclusivamente alle donne Mama Chat, uno sportello online che funziona prevalentemente via
chat. Inoltre, il Consiglio Nazionale Ordine Psicologi ha lanciato l'iniziativa #PsicologiControLaPaura. Potete
scaricare dal sito un decalogo anti-panico, corredato da tre buone pratiche per affrontare il coronavirus.
Per lavoratrici e lavoratori che sono stat* licenziat* durante il periodo di quarantena o che devono subire i
comportamenti crminali di datrici e datori di lavoro, l'Ex OPG Je so' pazzo di Napoli ha istituito ha attivato
una linea di assistenza telefonica chiamata Telefono Rosso, per mezzo della quale chi chiama può essere
mess* in contatto diretto con avvocati competenti. È possibile telefonare dal lunedì al venerdì e ai numeri
che seguono, a seconda degli orari: 328 396 5965 (11:30 - 13:00); 320 871 9037 (13:00 - 15:00); 351 967
5727 (18:00 - 19:30); 327 297 9156 (19:00 - 20:30).
Se vuoi supportare l'associazione Binario 95, che opera a Roma a sostegno delle persone senza fissa dimo-
ra, puoi decidere di fare una donazione, donare mascherine, guanti in lattice e gel disinfettante alla sede
di via Marsala, 95 o anche di diventare volontario (volontari@binario95.it).
Temi che il tuo permesso di soggiorno sia a rischio di rinnovo? Il team legale di Pensare migrante ti forni-
sce tutte le informazioni utili in materia di permessi di soggiorno, ricorsi, istanze di protezione internazio-
nale, contenuti nei decreti relativi all'emergenza Covid-19. Oltre ad aver pubblicato un documento con
le FAQ in merito, è anche possibile contattere chi di competenza su WhatsApp (351 972 4253) e via email
(info@pensaremigrante.org) per rivolgere ulteriori domande o per richiedere una traduzione in verione
audio delle informazioni in bambara, mandinka, wolof oltre che in inglese, francese e arabo. Inoltre, la On-
lus A Buon Diritto, avendo dovuto sospendere le attività del suo sportello legale gratuito per migranti e ri-
chiedenti asilo, offre un servizio telematico analogo ai seguenti contatti: Legal Aid, dal martedì al giovedì,
dalle 17:20 alle 19:00 (351 972 4253); A Buon Diritto, dal lunedi al venerdi, dalle 14:00 alle 17:00 (351 944
3368); CIR, via email (legale@cir-onlus.org).
Per aiutare la popolazione venezuelana, puoi rivolgerti ai soggetti che offrono aiuti umanitari e sostenerle
con una donazione. Tra queste, c'è Caritas Italiana, ma anche UNHCR e la fondazione Banco Farmaceutico.

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Questo articolo è stato scritto da Lucia Liberti ed è apparso per
la prima volta su Parte del discorso (partedeldiscorso.it) in da-
ta 27 marzo 2020.
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rizzata a persone giovani e giovanissime, che si dedica al setto-
re artistico-culturale prestando sempre una particolare atten-
zione ai diritti umani e alla sostenibilità socio-ambientale.
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