IN PIAZZA A ROMA PER JULIAN ASSANGE

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IN PIAZZA A ROMA PER JULIAN ASSANGE
IN PIAZZA A ROMA PER JULIAN
ASSANGE
                               IN DIFESA DI JULIAN ASSANGE
                               IN DIFESA DELLA LIBERTÀ DI
                               STAMPA

Programma 101 aderisce al flashmob che si svolgerà Domenica 23
febbraio a Roma in Piazza del Popolo dalle ore 16:00 alle ore
19:00 promosso dal Gruppo Italiani per Assange

Qui sotto il testo di convocazione…

«Per sensibilizzare i cittadini sulla richiesta che si alza da
tutto il mondo per la liberazione del giornalista Julian
Assange e l’opposizione totale alla sua estradizione negli
Stati Uniti. L’evento prevede una sedia vuota, che si ispira
all’opera dell’artista Davide Dormino “Anything to say?” sulla
quale si alterneranno coloro tra i presenti che vorranno far
sentire la loro voce a favore di Assange. Il giornalista
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australiano, che dopo essersi
                            rifugiato per 7 anni all’interno
                            dell’ambasciata dell’Ecuador a
                            Londra e rinchiuso da quasi un
                            anno in isolamento nella prigione
                            di massima sicurezza a Belmarsh,
                            con l’estradizione rischia 175
                            anni di reclusione per aver
                            diffuso attraverso la piattaforma
                            WikiLeaks, di cui è fondatore,
                            numerosi crimini dei governi di
                            tutto il mondo. Il prossimo 25
                            febbraio a Londra inizierà il
                            processo per l’estradizione che
                            oltre a mettere in pericolo la sua
                             vita, rappresenta un attacco alla
libertà di stampa e di informazione.

Il Gruppo Italiani per Assange è nato spontaneamente, tra
cittadini informati e consapevoli a sostegno di questo
valorare fondante della democrazia».

ADERITE E PARTECIPATE !

BERGOGLIO, L’IMMIGRAZIONE E
FREUD di Moreno Pasquinelli
IN PIAZZA A ROMA PER JULIAN ASSANGE
Papa    Francesco,    a
                                      conferma         della
                                      posizione a favore
                                      dell’accoglienza degli
                                      immigrati senza sé e
                                      senza ma,   concludendo
                                      in San Pietro la sua
                                      catechesi nell’udienza
                                      generale, il 7 gennaio
                                      scorso [2]

«Chiediamo oggi al Signore di aiutarci a vivere ogni prova
sostenuti dall’energia della fede; e ad essere sensibili ai
tanti naufraghi della storia che
approdano esausti sulle nostre coste, perché anche noi
sappiamo accoglierli con quell’amore fraterno che viene
dall’incontro con Gesù. È questo che salva dal gelo
dell’indifferenza e della disumanità».

Bergoglio non fa qui che riproporci come prescrittivi gli
obblighi morali che discendono dalla fede in Cristo, fondati
sulla pietas — il credente deve non solo amare con affetto
filiale Dio, ma anche ogni essere umano in quanto sua
prediletta creatura —, e sulla caritas; dove caritas sta per
il radicale superamento dell’amor proprio in quanto esso solo
consente    l’identificazione      verticale    con   Cristo.
Identificazione spirituale con Cristo (vero Dio e vero uomo),
quindi specialmente con le figure di chi “ha fame, sete, è
malato” [3], la quale soltanto apre la strada all’amore
orizzontale e incondizionato verso tutto il genere umano. La
caritas, l’amore fraterno e disinteressato verso gli altri —
“Amerai il prossimo tuo come te stesso” [4] —, in quanto
immagine di quello misericordioso di Dio verso l’uomo, è
dunque un vero e proprio “nuovo comandamento” [5], che per la
precisione fonda la stessa cristologia che contraddistingue la
fede cattolica.
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Siamo, com’è evidente, ben al di là della filantropia già nota
alla cultura e all’ethos greci:

«E’ come un fratello lo straniero e colui che chiede
protezione. (…) Sono sotto la protezione di Zeus tutti gli
stranieri ed i mendicanti». [6]

E’ tuttavia su queste basi meta-politiche e trascendenti,
quindi improbabili, che Papa Bergoglio invoca “porti aperti” e
prescrive l’accoglienza incondizionata degli immigrati. Una
prescrizione che ha valore assoluto, malgrado Bergoglio sappia
e denunci lo sradicamento che l’immigrazione implica e
l’ingistizia sociale che la provoca,[7] nonostante sappia che
la gran parte degli immigrati che giungono in Italia siano
condannati all’esclusione sociale, all’illegalità, ad una vita
da paria ove non al vero e proprio schiavismo.

Il discorso sull’immigrazione andrebbe riportato sul terreno
della politica, più precisamente del realismo politico. La
qual cosa il Papa, e con lui le sinistre immigrazioniste, non
fanno, e si rifiutano di fare, brandendo come anatema l’accusa
di razzismo. Ma su certe nequizie abbiamo scritto più volte.
Qui dobbiamo chiederci se l’antropologia che avanza Bergoglio
sia plausibile. Secondo chi scrive non lo è affatto. Il
comandamento cristiano non chiede infatti all’uomo solo
benevolenza e solidarietà disinteressata verso il prossimo;
chiede uno sforzo spirituale e materiale che sfiora il divino,
un’illimitatezza che evidentemente chiede l’implicazione di un
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dono supremo, quello della grazia. La qual cosa, appunto,
appartiene solo a quegli esseri che Dio premia investendoli
della Sua santità.

Bergoglio risponde spesso tirando in ballo la bontà, la
compassione, il cuore, la fede prima della ragione. In una
parola i sentimenti. Hegel, bestia nera di certo
cattolicesimo, fu spietato nel demolire quest’approccio, per
lui

«… il pensiero è ciò che l’uomo ha di più propriamente suo,
ciò che lo differenzia dai bruti, mentre il sentire lo
accumuna a questi».[8]

Ancor più correttamente ebbe a dire che l’etica, alias il
Politico, è una cosa seria e non può “dissolversi nella pappa
del cuore, dell’amicizia e dell’entusiasmo”. [9] Per questo, a
sua difesa, Hegel citava proprio i vangeli:

«Dal cuore, infatti, provengono i propositi malvagi, gli
omicidi, gli adulteri, le prostituzioni, le false
testimonianze, le bestemmie», [10]

Non ci si può chiedere assoluta benevolenza, totale empatia,
addirittura amore verso chiunque, verso chi non si conosce,
verso chi non fa parte della mia famiglia, della mia cerchia
di amici, nemmeno della mia comunità politica e nazionale. E
non lo si può chiedere non solo perché fattivamente
impossibile. Non lo si deve chiedere perché sarebbe, in barba
alle più pie intenzioni, letale per la comunità medesima di
cui faccio parte. Il “prossimo” implica infatti prossimità:
che vincolo di solidarietà avrei mai verso chi mi è davvero
prossimo, se lo considerassi alla pari di chi non conosco
nemmeno? Come potrei “sentire” un vincolo sincero e forte di
solidarietà verso chi, oltre a non parlare la mia lingua, non
ha le mie stesse consuetudini, che vuole anzi preservare,
opponendomele, le sue proprie tradizioni e la sua propria
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cultura?

Solo una concezione individualistica, atomistica e anarco-
liberista della società può concepire l’orrore di una comunità
come addizione sgangherata di singole monadi — concezione alla
quale fa da contraltare la visione di certi comunitaristi che
la immaginano come conglomerato meticcio di etnie e/o di sette
confessionali.

Una comunità politica non si regge se non grazie a legami di
solidarietà che si costruiscono e si consolidano in
quell’opificio che è la storia, ovvero in quel processo
spietato che spesso ha chiesto che ogni comunità risolvesse
allo stesso proprio interno, nel conflitto e anche ricorrendo
alla lotta fratricida, cosa essa volesse diventare, quale
identità scegliesse di assumere. Così che, quando la comunità,
dopo tanti tormenti, è riuscita a stabilire cosa davvero sia,
essa tenderà a difendere da ogni intrusione ciò che è
diventata.

Si può perdonare il Papa, a cui non si può chiedere di violare
uno dei comandamenti della sua fede, non si può perdonare una
sinistra transgenica che scimmiotta il Pontefice ma sulla base
di un cosmopolitismo senza fede, verniciato con una
sconclusionata visione antropologica dell’uomo.

Proprio perché ci occorre credere nell’essere umano, si deve
capire di che materiale esso sia affettivamente fatto. Per
quanto si possa dissentire dalla visione pessimistica della
sua ultima fase di ricerca, ci giunge in soccorso Sigmund
Freud, che vogliamo citare:
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«Ce ne può indicare la traccia una delle cosiddette
pretenzioni ideali della società civilizzata, quella che
dice: “amerai il prossimo tuo come te stesso”. E’ una pretesa
nota in tutto il mondo, certamente più antica del
cristianesimo, che la ostenta come la sua più grandiosa
dichiarazione, ma certamente non antichissima; sono esistite
perfino epoche storiche in cui era ancora estranea al genere
umano. Proponiamoci di adottare verso di essa un
atteggiamento ingenuo, come se ne sentissimo parlare per la
prima volta. Impossibile in tal caso reprimere un senso di
sorpresa e disappunto.

Perché mai dovremmo far ciò? Che vantaggio ce ne può
derivare? Ma soprattutto, come arrivarci? Come ne saremo
capaci?

Il mio amore è una cosa preziosa, che non ho il diritto di
gettar via sconsideratamente. Mi impone degli obblighi e devo
essere pronto a fare dei sacrifici per adempierli. Se amo
qualcuno, in qualche modo egli se lo deve meritare. (trascuro
i vantaggi che egli mi può arrecare e anche il suo eventuale
significato come mio oggetto sessuale; relazioni di questi
due tipi non hanno nulla a che vedere col precetto di amare
il prossimo). Costui merita il mio amore se mi assomiglia in
certi aspetti importanti talché in lui io possa amare me
stesso; lo merita se è tanto più perfetto di me da poter io
amare in lui l’ideale di me stesso; devo amarlo se è figlio
del mio amico, poiché il dolore del mio amico se gli
accadesse qualcosa sarebbe anche il mio dolore, un dolore che
dovrei condividere. Ma se per me è un estraneo e non può
attrarmi per alcun suo merito personale o per alcun
significato da lui già acquisito nella mia vita emotiva,
amarlo mi sarà difficile. E se ci riuscissi, sarei ingiusto,
perché il mio amore è stimato da tutti i miei cari un segno
di predilezione; sarebbe un’ingiustizia verso di loro mettere
un estraneo sullo stesso piano. Ma se debbo amarlo di
quell’amore universale, semplicemente perché anche lui è un
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abitante di questa terra, al pari di un insetto, di un verme,
 di una biscia, allora temo che gli toccherà una porzione
 d’amore ben piccola e mi sarà impossibile dargli tutto quello
 che secondo il giudizio della ragione sono autorizzato a
 serbare per me stesso.

 A che pro un precetto enunciato tanto solennemente, se il suo
 adempimento non si raccomanda da se stesso come razionale.

 Se osservo le cose più da vicino, le difficoltà aumentano.
 Non solo questo estraneo generalmente non è degno d’amore, ma
 onestamente devo confessare che avrebbe piuttosto diritto
 alla mia ostilità e persino al mio odio. Sembra non avere il
 minimo amore per me, non mi mostra la minima considerazione.
 Se gli fa comodo, non esita a danneggiarmi, senza nemmeno
 domandarsi se il vantaggio che ricava sia proporzionato alla
 gravità del danno che mi procura. (…)

 Se si comportasse diversamente, se verso di me estraneo
 mostrasse rispetto e indulgenza, io a buon conto, a parte
 qualsiasi precetto, sarei disposto a trattarlo nella stessa
 maniera. Se quel grandioso comandamento avesse ordinato: “ama
 il prossimo tuo come il prossimo tuo ama te”, non avrei
 niente in contrario.

 C’è un secondo comandamento che mi sembra ancora più
 incomprensibile e che solleva in me un’opposizione ancora più
 violenta. E’: “ama i tuoi nemici”. Riflettendoci, ho torto a
 considerarlo una pretesa ancora più assurda. In fondo è la
 medesima cosa». [11]

Marx ebbe modo di scrivere che «Se si vuole essere un bue,
naturalmente si può voltare la schiena ai tormenti
dell’umanità e badare solo alla propria pelle».[12]

Proprio perché non siamo buoi ma “animali politici”, proprio
perché non voltiamo “la schiena ai tormenti dell’umanità”,
sappiamo che non è con il cuore e i buoni sentimenti che si
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porrà fine a quei tormenti, ma con la lotta pratica, la quale
chiede una teoria politica adeguata, che non nasce se non da
uno sforzo teorico, da quella che Hegel chiamava la “fatica
del concetto”. [13]

NOTE

[2] La prolusione era dedicata al libro degli Atti degli
Apostoli e alla figura di San Paolo. Molte sarebbero le cose
da dire al riguardo, ovvero sulla distanza siderale che separa
la Chiesa cattolica (come del resto Protestanti e Ortodossi)
dalle prime comunità cristiane. Diverso sarebbe il giudizio
sulla concordanza o meno con la teologia paolina.

[3] Mt 25, 30-40

[4] Mc 12, 28-34

[5] Gv, 13,34

[6] Odissea, (VIII, 546 e VI, 207)

[7] Ha afffermato Bergoglio«Siamo di fronte ad un’altra morte
causata dall’ingiustizia. Già, perché è l’ingiustizia che
costringe molti migranti a lasciare le loro terre. È
l’ingiustizia che li obbliga ad attraversare deserti e a
subire abusi e torture nei campi di detenzione. È
l’ingiustizia che li respinge e li fa morire in mare». ANSA,
19 dicembre 2019

[8]    G.W.F.Hegel, Fenomenologia dello spirito, UTET, p.145

[9] «Con il     semplice rimedio casalingo dí basare sul
sentimento ciò che è l’opera, invero piú che millenaria, della
ragione e dell’intellezione di essa, ci si risparmia
certamente tutta la fatica dell’intendimento razionale e della
conoscenza guidati dal concetto pensante [ … ] . Ma il marchio
peculiare che [questa retorica] porta in fronte è l’odio
contro la legge. Che il diritto e l’eticità, e il mondo reale
del diritto e dell’etico, comprendano se stessi con il
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pensiero,e mediante concetti diano a sé la forma della
razionalità, ossia universalità e determinatezza, tale fatto,
ossia la legge, è ciò che quel sentimento che riserva a se
medesimo il libito, quella coscienza che ripone il diritto
nella convinzione soggettiva, considerano fondatamente come
l’elemento a loro piú ostile. La forma del diritto come un
dovere e una legge viene avvertita da quel sentimento e da
quella coscienza come una lettera morta e fredda e come una
catena […]». G.W.F.Hegel, Lineamenti della filosofia del
diritto, Prefazione, 1820, Laterza 199, pp.104-105

[10] Mt, 15,19

[11] Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, In Opere, vol.
II, pp.519-520, RBA

[12] K. Marx a S.Meyer, 30 aprile 1867

[8]   G.W.F.Hegel, Fenomenologia dello spirito, ibidem

CHE STA ACCADENDO IN AMERICA
LATINA? di W. I. Robinson*
                                    È opportuno ogni tanto
                                    dare un’occhiata non
                                    distratta a quanto
                                    accade    in   America
                                    latina, dove una destra
                                    rampante è tornata al
                                    potere ma dove le
                                    proteste      popolari
                                    stanno in compenso
dilagando (Haiti, Honduras, Cile, Ecuador, Colombia …). Un
caso un po’ più complesso quello boliviano, dove una destra
perversa ha approfittato di alcuni errori madornali
dell’ultimo paese dove esisteva l’ultimo dei governi della
‘decade progressista’.

Opportuno non solo per ragioni di solidarietà ma anche per
alcune similitudini di situazione con L’Europa: lo
scavalcamento dei partiti di sinistra da parte dei movimenti
in lotta (decisamente in numero minore in Europa rispetto
all’A.L.) che hanno assunto in prima persona l’iniziativa e la
crescente brutalità della repressione. Mi pare che in questa
complessivamente condivisibile analisi del sociologo
statunitense W.I. Robinson questo richiamo alla nostra
situazione sia ben presente, per cui mi fa piacere segnalarla.
Aldo Zanchetta

          NUVOLONI NERI SULL’AMERICA LATINA

                 UNA PANORAMICA GENERALE
                  William I. Robinson*

Le lotte popolari contro un risorgente neoliberismo e le
aggressioni dell’ultra-destra che negli ultimi mesi hanno
preso d’assalto l’America Latina si presentano alla Sinistra
globale con un peculiare paradosso: esse avvengono in un
momento in cui la Sinistra istituzionale e partitica ha perso
l’egemonia che aveva precedentemente conquistato e che ora si
trova logorata. Qualsiasi tentativo di spiegare questo
paradosso deve inquadrare l’attuale ribellione popolare nel
contesto più ampio delle dinamiche politiche dell’espansione
capitalista globale e delle crisi nella regione degli anni
recenti.
Nelle attuali circostanze il capitalismo globale affronta una
crisi organica che è ad un tempo strutturale e politica. Dal
punto di vista strutturale il sistema si trova in una crisi di
sovra-accumulazione e in tutto il mondo si è indirizzato verso
un nuovo ciclo di espansione violenta e molto spesso
militarizzata, alla ricerca di nuove opportunità di impiego
dell’eccedenza di capitale accumulata e prevenire la
stagnazione. Politicamente il sistema si trova di fronte a una
decomposizione dell’egemonia capitalista e una crisi di
legittimità dello Stato. Mentre il malcontento popolare va
estendendosi, i gruppi dominanti sono ricorsi in tutto il
mondo a modi di dominazione sempre più coercitivi e repressivi
per contenere questo malcontento e ad un tempo per aprire con
la forza nuove opportunità di accumulazione mediante
l’intensificazione delle politiche neoliberiste.

Questa duplice crisi è visibile con totale chiarezza in
America Latina. Il colpo di Stato del novembre scorso in
Bolivia e la tenace resistenza alla conquista fascista del
potere, la sollevazione all’inizio ottobre in Ecuador contro
la restaurazione liberista, le ribellioni verificatesi a Haiti
e in Cile (quest’ultimo vera culla del capitalismo), e ora in
Colombia, il ritorno al potere dei Peronisti in Argentina
seguito poche settimane appresso dalla sconfitta del Frente
Amplio in Uruguay, convergono tutti, assieme ad altri
avvenimenti recenti, verso una stagione di grande movimento e
incertezza nella regione. Però gli sconvolgimenti attuali
devono essere analizzati nel contesto delle dinamiche
politiche della globalizzazione capitalista.

Il post-mortem della ‘Marea Rosata’?
L’America Latina dalla decade degli anni ’80 in poi si è
trovata coinvolta nella globalizzazione capitalista, processo
che ha causato una grande trasformazione della sua economia
politica e della sua trasformazione sociale. E’ nata una nuova
generazione di elite e di capitalisti orientati
transnazionalmente a causa della sconfitta dei movimenti
rivoluzionari nelle decadi degli anni ’60 e ’70. Questi gruppi
transnazionali dominanti condussero la regione verso la nuova
epoca globale, caratterizzata dall’accumulazione come una
serra calda, la speculazione finanziaria, la valorizzazione
creditizia, internet, le comunità chiuse, le catene del cibo
spazzatura diffuse ovunque, e i centri commerciali e i mega-
negozi che dominano i mercati locali nelle nascenti mega-
città. Queste elite e questi capitalisti transnazionali nella
decade dei ’90 hanno forgiato un’egemonia neoliberista
realizzando un vastissimo programma di privatizzazioni,
liberalizzazioni, deregolamentazioni e austerità. Pertanto, la
globalizzazione capitalista finì per aggravare la povertà e la
disuguaglianza, facendo spostare decine di milioni dalle
classi popolari e generando vastissimo sotto-impiego e
disoccupazione. Gli impoverimenti scatenarono un’ondata di
emigrazioni da paese a paese e nuove ondate di mobilitazione
di massa fra coloro che erano rimasti.
I governi di sinistra o della cosiddetta ‘Marea Rosata’
giunsero al potere nei primi anni del nuovo secolo sulla
spinta della ribellione delle masse contro questo mostro della
globalizzazione capitalista. Il giro verso Sinistra in America
Latina suscitò grandi attese e ispirò le lotte popolari nel
mondo. L’appello che Hugo Chávez fece per un Socialismo del
XXI secolo risvegliò le speranze che la regione avrebbe
indicato il percorso verso l’alternativa a un capitalismo
globale. I governi della Marea Rosata sfidarono e fecero anche
retrocedere gli aspetti più noti del programma neoliberista,
ridistribuirono la ricchezza verso il basso e ridussero la
povertà e la penuria. Tuttavia, gli sforzi degli Stati e dei
movimenti sociali per completare le trasformazioni si
scontrarono con l’enorme potere strutturale del capitale
transnazionale, e soprattutto dei mercati finanziari globali.
Questo potere strutturale spinse gli Stati della Marea Rosata
verso un accordo con questi mercati.

Lasciando da parte la retorica, i governi della Marea Rosata
basarono la loro strategia sulla forte espansione della
produzione di materie prime in collaborazione con i
contingenti nazionali e locali della classe capitalista
transnazionale.

Ad eccezione del Venezuela nel periodo di auge della
Rivoluzione Bolivariana, si evidenziò l’assenza di qualunque
cambiamento sostanziale nelle relazioni fra classi e nella
proprietà, nonostante i cambiamenti generati nei blocchi di
potere politico, un discorso a favore delle classi popolari e
una espansione dei programmi di benestare sociale finanziati
dalle imposte sulle industrie estrattive delle corporation.
L’accrescimento delle attività minerarie e dell’agroindustria
transnazionale di loro proprietà ebbe come risultato una
maggiore concentrazione delle terre e del capitale e rafforzò
il potere strutturale dei mercati globali sugli Stati con
orientamento a sinistra. Come risultato, i paesi della Marea
Rosata si trovarono sempre più integrati nei circuiti
transnazionali del capitalismo globale e dipendenti dai
mercati globali delle commodity e del capitale.

Le masse popolari reclamavano trasformazioni più sostanziali.
Il giro verso la Sinistra aprì di fatto spazi perché queste
masse facessero avanzare le loro lotte. Tuttavia, nel loro
impegno per attrarre l’investimento delle corporation
transnazionali e espandere l’accumulazione estrattivista, gli
Stati compressero molte volte le richieste di quelli in basso
verso maggiori trasformazioni. Questi Stati smobilitarono i
movimenti sociali, risucchiandone i loro dirigenti nel governo
e nello Stato capitalista e subordinarono i movimenti delle
masse all’elettoralismo dei partiti della Sinistra. Data
l’assenza di più ampie trasformazioni strutturali che
potessero rispondere alle cause profonde della povertà e della
disuguaglianza, i programmi sociali furono subordinati ai
viavai dei mercati globali sui quali gli stati della Marea
Rosata non esercitavano alcun controllo.

Allorché a partire dal 2008 esplose la crisi finanziaria
globale, questi Stati cozzarono con i limiti di una riforma
redistributiva ingabbiata nella logica del capitalismo
globale. L’estrema dipendenza dei paesi della Marea Rosata
dalle esportazioni di materie prime, allorché i mercati
globali delle commodity nel 2012 collassarono, li immerse
nell’agitazione economica. Questi paesi ebbero alti livelli di
crescita finché l’economia globale proseguì il suo ritmo di
espansione e finché i prezzi delle commodity restarono elevati
grazie al vorace appetito della Cina verso le esportazioni
delle materie prime. La recessione economica erose la capacità
dei governi di sostenere i programmi sociali, indicendoli a
negoziare concessioni e austerità con le elite finanziarie e
le agenzie multilaterali, come è accaduto in Brasile,
Argentina, Ecuador e Nicaragua, oltre ad altri paesi. Le
tensioni che ne derivarono fecero crescere le proteste e
aprirono lo spazio al risorgere della Destra. Sebbene non si
possano fare affermazioni generalizzate applicandole
uniformemente ai vari paesi, in tutto questo ci sono gli
elementi essenziali per analizzare il quadro del recente colpo
di Stato in Bolivia, la destituzione del Partito del Lavoro in
Brasile e degli altri rovesci della Marea Rosata.

Il ritorno della destra
Le classi dominanti tradizionali all’inizio del processo della
Marea Rosata si videro obbligate a cercare un modus vivendi
con i governi di sinistra dato il bilancio delle forze sociali
e di classe. Però appena l’economia e i sommovimenti politici
offrirono alla Destra uno spazio di manovra, questa passò
all’offensiva, spesso violenta, al fine di recuperare il
potere politico diretto. La svolta costituzionale e extra-
costituzionale verso Destra ebbe inizio nel 2009 con il colpo
di Stato in Honduras, seguito nel 2012 dal golpe suave in
Paraguay contro il governo di sinistra di Fernando Lugo; la
sconfitta elettorale dei peronisti in Argentina nel 2015; il
colpo di Stato parlamentare in Brasile contro il Partito dei
Lavoratori nel 2016; il ritorno della destra in Cile con
l’elezione nel 2017 del Presidente Sebastián Piñera e la sua
coalizione Chile Vamos in Cile nel 2017, l’elezione nel 2018
in Colombia del presidente di estrema destra Iván Duque, che
non è altro che la faccia rappresentativa del progetto
fascista dell’uribismo, e la sconfitta elettorale all’inizio
del 2019 del Frente Farabundo Martí de Liberación Nacional in
El Salvador (L’elezione di Andrés Manuel López Obrador e del
suo partito Morena in Messico costituisce l’eccezione a questa
virata verso destra).
Questa forte virata a destra ha comportato un’ondata di
repressione in tutta la regione e una mobilitazione dei
partiti e delle organizzazioni imprenditoriali dell’estrema-
destra, culminando più recentemente nel colpo di Stato a
ottobre in Bolivia, per cui la regione sembra tornare
all’epoca delle dittature e dei regimi autoritari. L’America
Latina torna ad essere un focolaio di violenza statale e
privata incentrata sulla repressione della rivolta popolare e
un’apertura del continente verso il saccheggio corporativo. La
Destra nel suo impegno nel consolidare e espandere il potere
transnazionale delle corporation si orienta verso il razzismo,
l’autoritarismo e il militarismo. Da questo punto di vista la
regione è lo specchio di dove si sta dirigendo il mondo. Se il
continente è emblematico dello Stato di polizia globale, lo è
anche dell’ondata di resistenza dal basso attraverso il mondo.

Ma la sorte era segnata già prima che la destra recuperasse il
potere politico diretto. Gli eserciti latinoamericani negli
ultimi anni sono accresciuti rapidamente allo stesso ritmo
della nuova ondata di espansione corporativa e finanziaria
transnazionale nella regione. Spazi territoriali che fino a
pochissimo tempo fa godevano ancora di un certo spazio di
autonomia, come ad es. gli altipiani indigeni del Guatemala e
del Perù, aree dell’Amazzonia e della costa pacifica della
Colombia, sono in fase di invasione violenta e le loro
abbondanti risorse naturali e di forza lavoro vengono messi a
disposizione del capitale transnazionale. In accordo con il
rapporto “Security for sale” (Sicurezza in vendita),
pubblicato nel 1918 dall’ Inter-American Dialogue, centro di
ricerca situato a Washington, D.C., nel 2017 in America Latina
erano presenti oltre 16.000 società private che offrivano
servizi militari e di sicurezza che impiegavano 2,4 milioni di
persone che frequentemente collaborano con le forze militari e
di polizia dello Stato. Praticamente si cancella di fatto la
distinzione fra personale militare e polizia in servizio e in
pensione da un lato, e dall’altro i dipendenti di queste
società private, come ha concluso l’informativa, poiché esiste
“una rete interconnessa fra i militari in servizio, i militari
in pensione, gli agenti della sicurezza privata, le elite
imprenditoriali e i funzionari del governo”. Il numero dei
militari è raddoppiato in Brasile, Bolivia, Messico, e negli
anni recenti in Venezuela, mentre l’esercito colombiano si è
quadruplicato e le forze armate nel resto della regione sono
aumentate in media del 35%. I militari sono stati dispiegati
nelle mega-città della regione e molte volte collaborano con i
cupi squadroni della morte nella ‘pulizia sociale’ dei poveri
e nella repressione della dissidenza politica.

La destra ora si impegna a utilizzare il potere politico
diretto che ha recuperato per imporre con violenza la piena
restaurazione del neoliberismo come parte dell’espansione
militarizzata del saccheggio delle corporation transnazionali.
La scintilla che ha fatto esplodere le più recenti proteste di
massa è stato un nuovo giro di misure neoliberiste. La
sollevazione in Nicaragua fra l’aprile e l’agosto del 2018 è
stata la risposta alla decisione del governo Ortega di imporre
riforme al sistema pensionistico. In Ecuador indigeni,
contadini e lavoratori si sono sollevati nell’ottobre del 2019
contro gli accordi negoziati dal governo con l’FMI per
eliminare i sussidi ai combustibili. La ribellione in Cile
contro la struttura totalmente neoliberista si è scatenata per
la decisione del governo di aumentare le tariffe del trasporto
pubblico. In Argentina il fattore che finalmente l’ottobre
scorso ha portato alla sconfitta elettorale il governo Macri è
stato il suo forte programma neoliberista. E in Colombia le
proteste di massa sono state originate dalla promulgazione da
parte del governo di nuove misure di austerità.

L’egemonia contesa
Le crisi strutturali del capitalismo mondiale costituiscono
storicamente momenti in cui si producono prolungati disordini
sociali e più grandi cambiamenti, quali abbiamo visto
recentemente in America Latina. A livello mondiale la spirale
della crisi dell’egemonia sembra sfociare in una crisi
generale del dominio capitalista. A prima vista, questa
affermazione appare come contro-intuitiva poiché la classe
capitalista transnazionale e i suoi agenti sono passati
ovunque all’offensiva contro le classi popolari. Tuttavia, la
rinascita aggressiva della destra, in America Latina e nel
mondo, è una risposta alla crisi che è poggiata su un terreno
instabile.

A livello strutturale, le crisi sono dovute appunto
all’esistenza di ostacoli alla continua accumulazione del
capitale, e pertanto alla tendenza alla stagnazione e al basso
livello degli utili. Data una disuguaglianza senza precedenti
a livello mondiale, il mercato globale non può assorbire la
crescente produzione dell’economia globale, che sta toccando i
limiti della sua espansione. La crescita economica in anni
recenti è stata basata su un consumo insostenibile basato
sull’indebitamento, la frenetica speculazione finanziaria nel
casinò globale, e la militarizzazione promossa dallo Stato
–cosa che definisco accumulazione militarizzata- mentre il
mondo entra in una economia globale di guerra e le tensioni
internazionali si intensificano.

Mentre   l’economia   globale   è   prossima   alla   recessione,
l’economia latinoamericana è già caduta nella recessione nel
2015 che prosegue fino ad oggi affrontando la stagnazione
(perfino in Bolivia, paese che ha registrato gli indici più
alti di crescita negli ultimi anni, il tasso della crescita
iniziò a contrarsi, cosa che obbligò il governo del MAS a
ricorrere alle riserve valutarie). La classe capitalista
transnazionale e le sue componenti locali ora tendono a
trasferire il peso della crisi sui settori popolari tramite
una rinnovata austerità neoliberista nel suo affanno per
ristabilire la redditività capitalista. Ma è poco probabile
che la destra abbia successo. Il presidente brasiliano Jair
Bolsonaro affronta una caduta vertiginosa nei sondaggi, mentre
il neoliberista Maurizio Macri ha subito un rovescio nelle
recenti elezioni e i governi di Ecuador, Cile e Colombia hanno
dovuto fare marcia indietro nelle loro misure di austerità.

L’incapacità della destra a stabilizzare il proprio progetto
avviene in momenti in cui la Sinistra istituzionale/partitica
ha perso la maggior parte del potere e l’influenza che aveva
guadagnato. Vi è un evidente sfasamento in America Latina
–sintomatico di una situazione della Sinistra a livello
mondiale- fra i movimenti di massa che attualmente fioriscono
e una sinistra partitica che ha perso la capacità di mediare
con un proprio progetto realistico fra le masse e lo Stato. Lo
scenario più probabile è un pareggio momentaneo, mentre i
nuvoloni neri si addensano.

Sebbene sia il momento della solidarietà con le masse
delle/dei latinoamericani che sono in piena lotta contro la
presa di potere della destra, deve essere anche un momento di
riflessione sulle lezioni che l’America Latina offre alla
sinistra globale.

La Marea rosata –dobbiamo ricordarlo- giunse al potere non per
il crollo dello Stato capitalista ma per la via
costituzionale, vale a dire tramite processi elettorali grazie
ai quali i governi di sinistra assunsero la gestione degli
Stati capitalisti. Semplicemente, schiacciare lo Stato
capitalista non era in agenda. Non basta ricordare
l’esortazione di Marx che le classi lavoratrici non possono
limitarsi a impadronirsi dello Stato capitalista e gestirlo
per i propri scopi. Dato il violento ritorno dell’estrema
Destra, non sarebbe difficile cadere nella tentazione di
considerare come un punto di possibile discussione se i
governi della sinistra avrebbero potuto fare di più per
realizzare maggiori trasformazioni strutturali anche quando
non esistesse la possibilità di rompere col capitalismo
mondiale.

Ma sono lezioni fondamentali per la sinistra globale. Si
tratta della capacità dei movimenti sociali autonomi di massa
di obbligare dal basso gli Stati a intraprendere tali
trasformazioni. In alternativa, questo comporta la necessità
di ripensare la relazione triangolare fra gli Stati, i partiti
della Sinistra e i movimenti sociali di massa. Il modello di
governance della sinistra basato sull’assorbimento dei
movimenti sociali e subordinare l’agenda popolare
all’elettoralismo e alle esigenze della stabilità capitalista
ci conduce in un vicolo cieco – o peggio ci porta al ritorno
della Destra. È solo la mobilitazione di massa autonoma dal
basso che può imporre un contrappeso al controllo esercitato
dal capitale transnazionale e dal mercato globale dall’alto
sugli Stati capitalisti in America Latina, che essi siano
governati dalla Sinistra o dalla Destra.

Qualunque nuovo progetto di sinistra in America Latina, come
anche altrove nel mondo, dovrà vedersela con il problema delle
elezioni e dello Stato capitalista. Abbiamo imparato che la
subordinazione dell’agenda popolare a vincere elezioni ci
porta al fallimento, anche quando dobbiamo partecipare a
processi elettorali, quando ciò sia possibile, e anche
considerando che l’agone elettorale può essere uno spazio
strategico. Dal mio punto di vista, affrontare l’attuale
assalto della Destra passa urgentemente attraverso il
rinnovamento di un progetto rivoluzionario e un piano per la
rifondazione dello Stato. Le recenti esperienze del partito
Syriza in Grecia e dei governi della Marea Rosata in America
Latina, come i partiti social-democratici che in altre parti
del mondo arrivarono al potere negli ultimi anni del XX
secolo, ci insegnano che qualunque forza di sinistra, una
volta salita al governo, si vede obbligata ad amministrare lo
Stato capitalista e le sue crisi. Questi governi –nonostante
il loro colore di sinistra- si vedono spinti a difendere tale
Stato e la sua dipendenza dal capitale transnazionale per la
sua riproduzione, ciò che li porta in conflitto con le stesse
classi popolari e gli stessi movimenti sociali che li hanno
portati al potere.

*William I. Robinson. Professore di Sociologia, Università
della California di Santa Barbara.
** Fonte: https://twitter.com › w_i_robinson
*** Traduzione a cura di camminar domandando

FOIBE      E      IPOCRISIA
NAZIONALISTA di Sandokan
                                       Da quando, con la legge
                                       30 marzo 2004 n. 92, è
                                       stato istituito, sulla
                                       falsa riga del “Giorno
                                       della memoria”, quello
                                       del “ricordo” — per
                                       «conservare e rinnovare
                                       la    memoria     della
                                       tragedia degli italiani
                                       e di tutte le vittime
                                       delle foibe, dell’esodo
dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo
dopoguerra e della più complessa vicenda del confine
orientale» — abbiamo parlato di foibe alcune volte su questo
blog. La prima il 16 febbraio 2010. L’ultima l’anno scorso.

Abbiamo detto l’essenziale, ma data l’insopportabile ipocrisia
nazionalistica — gli stessi che inneggiano all’orgoglio
italiota sono gli stessi che svendono la sovranità italiana e
inneggiano all’Unione europea— sento che debbo tornarci su.

Politici e pennivendoli di regime accusano chiunque osi
sfidare la vulgata pseudo-patriottica sulle foibe, di
“negazionismo” — ancora una volta sulla falsa riga della
shoah.
A scanso di equivoci: non nego un bel niente. I partigiani
titoisti iugoslavi effettivamente gettarono nelle foibe, in
una prima ondata nel 1943 e poi nella seconda del 1945, i
corpi di centinaia di italiani precedentemente fucilati. Fu
una barbarie? Sì, lo fu.

MA QUI CERTE “COSETTE” VANNO DETTE…

Come gli storici di ogni tendenza hanno confermato, si
trattava nel 90% dei casi di italiani che svolgevano funzioni
apicali (militari e civili) nell’occupazione italiana e (dopo
il 1943) nazi-fascista, e che furono direttamente e/o
indirettamente responsabili di eccidi di massa ai danni delle
popolazioni slave. Eccidi, crimini e repressione sistematici,
che vennero avanti sin dalla fine della prima guerra mondiale.

Dopo la Grande Guerra, si ritrovarono entro i confini del
Regno d’Italia 490mila tra croati e sloveni, ed anche serbi
abitanti in Venezia Giulia, Istria e Dalmazia. Lo Stato
italiano, lungi dal rispettare i loro diritti, diede avvio ad
una politica imperialistica di assimilazione forzata di questi
gruppi slavi. Con l’avvento al potere del partito nazionale
fascista, questa politica di assimilazione divenne brutale,
anzi criminale.

 – tutti gli slavi vennero esclusi dagli impegni pubblici,
 assegnato solo ad italiani;
 – Con l’adozione della riforma scolastica gentile (1 ottobre
 1923) fu abolito nelle scuole l’insegnamento delle lingue
croata e slovena. Tutte le scuole slovene e croate vennero
 chiuse, e la lingua italiana la sola ammessa;
 – furono imposti (Decreto regio del 29 marzo 1923) nomi
 italiani a tutte le centinaia di località, comprese quelle
 abitate solo da slavi;
 – con Decreto regio del 7 aprile 1926 vennero imposti cognomi
 italiani a decine di migliaia di croati e sloveni,
 – con legge del 1928 a parroci e uffici anagrafici venne
 fatto divieto di iscrivere nomi slavi nei registri delle
 nascite.

Dite un po’? voi non vi sareste incazzati per questa “bonifica
etnica”? Io sì, e se fossi stato sloveno o croato, da
patriota, avrei raggiunto la resistenza, che infatti subito
sorse.

E se provo vergogna per quello che l’Italia fece allora, sono
forse un “negazionista”?

                                      Non è finita qui…

Con l’invasione della Iugoslavia (aprile 1941) da parte degli
eserciti tedesco e italiano, il Paese venne smembrato e i suoi
territori anessi alla Germania e all’Italia. I crimini
compiuti da occupanti fascisti e nazisti furono inenarrabili.
Furono compiuti (e ampiamente documentati) dalle truppe
fasciste e naziste svariati massacri per debellare la
resistenza titoista.
«Si procede ad arresti, ad incendi (…) fucilazioni in massa
fatte a casaccio e incendi dei paesi fatti solo per il solo
gusto di distruggere (…) la frase “gli italiani sono diventati
peggiori dei tedeschi” che si sente mormorare dappertutto,
compendia i sentimenti degli sloveni verso di noi». [1] Se
foste stati sloveni o croati voi che avreste fatto?

Contro la Resistenza iugoslava le autorità fasciste si diedero
alla deportazione sistematica nei campi di concentramento e a
ulteriori massacri indiscriminati:

«. . . Si informano le popolazioni dei territori annessi che
con provvedimento odierno sono stati internati i componenti
delle suddette famiglie, sono state rase al suolo le loro
case, confiscati i beni e fucilati 20 componenti di dette
famiglie estratti a sorte, per rappresaglia contro gli atti
criminali da parte dei ribelli che turbano le laboriose
popolazioni di questi territori . . .» . [2]

                                   Il    12   luglio   1942,   nel
                                   villaggio di Podhum, per
                                   rappresaglia furono fucilati da
                                   reparti militari italiani, su
                                   ordine del Prefetto della
                                   Provincia di Fiume Temistocle
                                   Testa, tutti gli uomini del
                                   villaggio di età compresa tra i
                                   16 e i 64 anni. Il resto della
                                   popolazione fu deportata nei
                                   campi di internamento italiani
                                   e   le   abitazioni     furono
incendiate.

Cartina a sinistra: Dopo l’8 settembre del 1943 i nazisti
prendono il controllo della Venezia Giulia e dell’Istria,
sottraendolo alla Repubblica Sociale Italiana

Dopo   l’8   settembre,   quando   i    tedeschi   rimpiazzarono   i
fascisti, le cose non migliorarono. L’esercito nazista,
sostenuto dalle autorità locali italiane e dagli Ustascia
croati, continuò la politica di sterminio già adottata verso
le altre popolazioni slave sotto occupazioni. Vale la pena
ricordare che rispetto agli abitanti, i popoli iugoslavi
subirono nella seconda guerra mondiale le maggiori perdite in
vite umane (1milione e 200mila).

Non voglio giustificare le rappresaglie compiute dalla
Resistenza iugoslava (dopo quelle del 1943, quelle dopo la
ritirata dei nazisti della fine del 1944), ma esse vanno
contestualizzate, altrimenti si fa demagogia da quattro soldi.
Una demagogia che serve ai satrapi dell’Unione europea per
salvarsi la faccia dandosi una patina di retorico patriottismo
— si inneggia all’italianità dei dalmati e degli istriani
mentre si smantella la sovranità nazionale. Per la cronaca:
l’esercito partigiano iugoslavo (di cui facevano parte anche
italiani, vedi Porzus), una volta occupati la Venezia Giulia,
Trieste, l’Istria ecc., eliminò anche diversi esponenti del
CLN italiano. C’era in queste ritorsioni un’odio
nazionalistico? Si, c’era, ma c’era anche quella che gli
storici hanno chiamato “vendetta sociale e di classe”, visto
che contrariamente a Togliatti, Tito congiungeva lotta di
liberazione nazionale e passaggio al socialismo.

Inutile continuare. Il tutto serve a dire che un Paese serio e
rispettoso davvero dei valori della pace e della fratellanza
tra i popoli, se proprio deve istituire il “giorno del
ricordo”, non dovrebbe ricordare solo i propri morti (e dire
la verità su chi fossero e cosa avessero fatto) ma pure quelli
altrui, quelli caduti proprio per mano fascista italiana.
PS
Mi chiederete: e dell’esodo degli italiani che hai da dire?
Segnalo soltanto che esso ebbe enormi proporzioni (una
minoranza restò entro i confini della nuova Iugoslavia) solo
dopo   il febbraio 1947, come conseguenza del “Trattato di
Parigi” fra l’Italia e le potenze alleate. Il Trattato incluse
non solo la rinuncia ai possedimenti coloniali in Africa ma
anche lo scambio tra Italia e Iugoslavia di diverse aree.
Scambio provvisoriamente sancito dal “Memorandum di Londra”
del 1954 [vedi Cartina a destra: zona A amministrata dagli
Alleati e quella B dalla Iugoslavia], definitivamente
formalizzato dal “Trattato di Osimo” del novembre 1975. Le
responsabilità per questo esodo non sono solo delle autorità
titine, ma pure di quelle italiane le quali a Parigi
accettarono la clausola che dava la facoltà allo Stato, al
quale il territorio era ceduto, di esigere il trasferimento in
Italia dei cittadini che avessero esercitato questa opzione.
Domandatevi: Non è forse vero che esso incoraggiò l’esodo?
Perché il governo italiano accettò questa clausola e avallò
l’esodo quando poteva impugnare un’altra clausola del
“Trattato di Parigi” che stabiliva il pieno rispetto dei
diritti delle minoranze?NOTE
[1] Riportato da due riservatissime personali del 30 luglio e
del 31 agosto 1942, indirizzate all’Alto Commissario per la
Provincia di Lubiana Emilio Grazioli, dal Commissario Civile
del Distretto di Longanatico (in sloveno: Logatec) Umberto
Rosin.
[2] Dalla copia del proclama prot. 2796, emesso in data 30
maggio 1942 dal Prefetto della Provincia di Fiume Temistocle
Testa, riportata a pagina 327 del libro di Boris Gombač,
Atlante storico dell’Adriatico orientale.

DOPO LA BREXIT, LA RUSSIA
COME ALTERNATIVA? di Manolo
Monereo

Manolo Monereo

Enric Juliana è un giornalista unico e, per molti versi,
diverso. Il suo stile è quello di collocare storicamente il
fatto, i dati, le notizie; cercando di andare oltre il giorno
per giorno, inquadrando ciò che accade in un contesto più
ampio. Qualche giorno fa ha collegato la Brexit alla
geopolitica assumendo come riferimento Halford Mackinder. Non
ha detto molto di più. Mi aspettavo che sviluppasse questa
idea, ma non l’ha fatto. Quindi tiro questo filo sapendo che,
sicuramente, il noto giornalista catalano non sarà d’accordo
con molte delle cose che scrivo.
Sir Halford Mackinder (1861-1947) fu un notevole geografo
britannico e un politico molto influente. Questa doppia
condizione deve essere sempre presa in considerazione; egli ha
cercato di conoscere la realtà, sempre al servizio degli
interessi strategici del suo paese. Sebbene non abbia mai
usato il termine geopolitica, ha influenzato in modo decisivo
questa disciplina che alcuni considerano la scienza e altri
un’arte politica dello Stato. Nel 1904 pubblicò una noto
saggio dal titolo “Il perno geografico della storia”. Nel 1919
sviluppò queste idee in un libro molto importante ai suoi
tempi, chiamato “Idee e realtà democratica”. Non è facile
spiegare in un articolo come questo la complessità, la
profondità e le ipotesi di una concezione geografica che ha
segnato, per più di un secolo, i dibattiti strategici e
politici di un mondo in perpetuo cambiamento. Forse questo è
ciò che sorprende di più. Il “problematico Mackinder” ritorna
ancora e ancora, e ritorna — precisamente — quando i teorici
della globalizzazione ritengono che il territorio e la
geografia abbiano perso la loro rilevanza nelle relazioni
internazionali.

Per capire bene cosa Mackinder continua a dirci oggi, dobbiamo
partire da due idee centrali. La prima è l’opposizione
strutturale della geopolitica mondiale tra potere marittimo
(talassocrazia) e potere terrestre (tellurocrazia); Questa
opposizione è sostanziale e influisce sulle strategie
politiche e militari e ha conseguenze per la costruzione e lo
sviluppo degli Stati. La seconda, ampiamente sviluppata nel
saggio sopra citato di Mackinder, ha a che fare col
sopraggiungere di una nuova fase della geografia mondiale,
fase che potremmo chiamare post-colombiana. Le scoperte di
Cristoforo Colombo segnarono un’intera fase storico-sociale
delle potenze dell’Europa (che è una penisola dell’Eurasia)
che si espansero in tutto il mondo attraverso gli oceani
diventando vasti imperi in collisione permanente. Mackinder
crede che questo stadio si sia cocnluso. Il mondo si era
chiuso, essendo distribuito tra le grandi potenze, con una
chiara egemonia dell’impero britannico. La chiave — siamo così
in cuore del dibattito — è che i poteri talassocratici avevano
perso parte del loro vantaggio strategico e che il territorio
era ancora una volta un elemento centrale (tellurocrazia).

Il geografo britannico identifica un territorio fondamentale
che chiama l’isola del mondo composta da Europa, Asia e
Africa. Al suo centro, un perno geografico che, in seguito,
avrebbe chiamato Heartland o Cuore Continentale. Da questo
centro nascono due grandi linee, una interna e una esterna.
L’Heartland occuperebbe un ampio spazio di ciò che chiamiamo
Siberia e Asia centrale; cioè, dal Volga allo Yangtze e
dall’Himalaya all’Oceano Artico. La conclusione di Mackinder
segna un’intera era ed è ben nota.

 «Quando i nostri statisti stanno conversando con il nemico
 sconfitto, qualche angelo alato dovrebbe sussurrare loro di
 volta in volta: chiunque domini l’Europa orientale controlla
 il cuore continentale; chi domina il cuore continentale
 controlla l’isola del mondo; che domina l’isola del mondo,
 controlla il mondo».

Una piccola nota: ciò che si stava decidendo in quel momento
(1919) era il nuovo ordine concordato a Versailles.

Torniamo alla Brexit. Questo mese ho pubblicato su El Viejo
Topo un saggio sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione
europea. Mi riferisco ad esso per le altre considerazioni. Una
cosa vorrei sottolineare: la ferocia della classe dirigente e
dei media europei contro una decisione democratica e legittima
non ha una spiegazione facile. Insulti e disprezzo hanno
raggiunto limiti difficilmente sopportabili, al punto che la
secessione della Scozia è incoraggiata in un momento in cui la
questione territoriale è un grave problema in Spagna. A ciò
hanno partecipato sia la destra che la sinistra. Nessun leader
importante si è chiesto perché, dal 1992 (referendum
francese), nessuna consultazione sull’Europa abbia vinto. E’
accaduto solo in Spagna, il che non è un caso. La mancanza di
autocritica delle élite europee è allarmante. Il paradosso di
tutto questo dibattito è che per gli europei più federalisti
la partenza dalla Gran Bretagna avrebbe dovuto essere vissuta
come un’opportunità. La costruzione neoliberista dell’Europa è
stata giustificata, in larga misura, dalla presenza della Gran
Bretagna; l’involuzione sociale, la predominanza delle libertà
comunitarie e la deregolamentazione dei mercati sono state
tradizionalmente attribuite alla presenza di un’isola
percepita più come una quinta colonna che come costruttore
leale di un processo di integrazione unitaria.

Si può capire cosa sta succedendo negli Stati Uniti e in Gran
Bretagna sulla base del fatto che nel mondo stanno cambiando
le basi geopolitiche e che siamo (in questo mondo chiuso) di
fronte a una grande transizione che ha al suo centro una
grande ridistribuzione del potere. Per dirla in altro modo,
ciò che abbiamo chiamato globalizzazione è alò tramonto. Non
sarà facile capire le mutazioni che stiamo vivendo; non sarà
facile capirle e, tanto meno, avere una piattaforma ideo-
politica in grado di guidarci in un mondo in rapido
cambiamento. Ciò che sta accadendo lo abbiamo davanti ai
nostri occhi: un potere (USA) che rifiuta di accettare la sua
decadimenza, che non è disposto a condividere, in nuove
condizioni, la sua egemonia mondiale e che affronta un potere
emergente (Cina) che è destinato a cambiare l’ordine mondiale.
Lo dirò come lo disse Kaplan: gli Stati Uniti non accetteranno
il dominio di una grande potenza nell’emisfero orientale. Lo
combatterà con ogni mezzo e fino alla fine. La “trappola di
Tucidide” è ancora presente.

In questo mondo che cambia, le grandi potenze economiche
britanniche vogliono camminare da sole; mettono al centro i
loro interessi strategici e, dalla loro autonomia, cercheranno
alleanze con l’Europa; o meglio, con alcuni paesi europei.
Nessuno mette in discussione gli accordi sostanziali con gli
Stati Uniti, e il Regno Unito li perseguirà con la propria
voce e difendendo i propri interessi. L’altro lato della
questione dovrebbe sollevare qualche riflessione agli
europeisti che ci accerchiano. I dati più rilevanti per gli
uomini e le donne che si trovano nella UE è che maggiore è
l’integrazione, minore è la capacità europea di essere un
soggetto autonomo e differenziato nelle relazioni
internazionali in cui le grandi potenze definiscono interessi
e quadri d’azione.

Con Mackinder ritorna la Russia. Per gli Stati Uniti il ​
fronte europeo è secondario, ora sono occupati in
qualcos’altro: contrastare l’egemonia della Cina nel Pacifico.
La NATO ha questo scopo, subordinare una UE senza anima e
senza un progetto, dividerla e impedire un partenariato
duraturo con la Russia. La “casa comune europea” è stato un
progetto fallito delle élite russe che facevano affidamento su
un’alleanza con le democrazie occidentali. Putin è il figlio
di quel fallimento. Prese atto e trasse le opportune
conseguenze strategiche. Gli Stati Uniti hanno provato — e
continueranno a provare — a trasformare la Russia in un grande
potere avversario dei popoli europei. È la ricerca di un
nemico che giustifica l’esistenza della NATO, la corsa agli
armamenti e l’inimicizia tra Germania e Russia. L’espansione a
est della NATO, la rapida integrazione degli ex paesi
socialisti nella UE e il loro rigido allineamento con l’amico
americano è lo stesso processo, dobbiamo insistere, per
impedire qualsiasi associazione economica e politica con la
Russia; vale a dire, con il perno geografico mondiale o
Heartland continentale.

Più di 20 anni fa, Brzezinski, parlando dei futuri pericoli
per gli Stati Uniti, scrisse quanto segue:

 «Lo scenario potenzialmente più pericoloso sarebbe quello di
 una grande coalizione tra Cina, Russia e forse Iran, una
 coalizione” anti-egemonica “unita non da un’ideologia ma da
 torti complementari. Ricorderei, a causa delle sue dimensioni
 e portata, la minaccia rappresentata, ad un certo momento,
 dal blocco sino-sovietico, anche se questa volta la Cina
 sarebbe probabilmente il leader e la Russia il gregario.
 Evitare questa contingenza, per quanto remota possa essere,
 richiederà un dispiegamento simultaneo di abilità strategiche
 statunitensi nel perimetro occidentale, orientale e
 meridionale dell’Eurasia».

 Il noto analista geopolitico americano aveva ragione ed fu in
grado di intravedere il futuro. Quando si tratta di soluzioni,
riappare sempre Rimland o l”anello continentale” di Spykman.

Europa e Germania hanno geoeconomie complementari e potrebbero
avere strategie geopolitiche convergenti. Esistono conflitti
(come quello in Ucraina) ma sarebbero risolvibili nel quadro
di un accordo di partenariato economico, energetico e
politico. Il presupposto è che l’Europa abbia un suo progetto
autonomo nelle relazioni internazionali; cioè, di disimpegno
dalla NATO, definendo i suoi interessi strategici e cercando
il suo posto in un mondo che transita, con enormi difficoltà,
verso la multipolarità. Il mio vecchio insegnante Samir Amin
ha parlato fino al’ultimo di un asse Parigi-Berlino-Mosca-
Pechino.

Mackinder ritorna e, con lui, l’Eurasia. La storia, non solo
non è finita, ma ricomincia.

Madrid, 10 febbraio 2020
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