Il terremoto di Messina del 1908 nei giornali italiani di New York

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Focus: Sicilia e migrazioni

Il terremoto di Messina del 1908 nei giornali
italiani di New York
Claudio Staiti
Università di Messina

Il terremoto di Messina e l’intervento americano
Il devastante terremoto che il 28 dicembre 1908 colpì le città di Messina, Reg-
gio Calabria e numerosi paesi limitrofi produsse una grande eco, suscitando
commozione e partecipazione a livello internazionale1. All’estero, l’evento
catastrofico ebbe subito un forte impatto sugli Stati Uniti che, a conti fatti,
sarebbero stati il paese straniero che più di tutti avrebbe contribuito in termini
economici ai soccorsi e alla ricostruzione2.

Figura 1. L’Italia piange sulle macerie di Messina

Fonte: «Il Progresso Italo-Americano», xxx, 3, 3 gennaio 1909

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Dall’altra parte dell’oceano, il tragico avvenimento fu subito seguito con partico-
lare attenzione dal governo. Theodore Roosevelt, ancora in carica nel dicembre
1908 (nel marzo 1909 si sarebbe insediato alla Casa Bianca William Howard
Taft), annunciò che gli Stati Uniti si sarebbero impegnati in una grande azione
di aiuti umanitari a vantaggio dei centri colpiti. Del resto, si trattava di una
preziosa occasione per l’America di suggellare la sua nuova politica estera anti
isolazionista e il suo ruolo da leader nello scacchiere internazionale, impegno
che si sarebbe accentuato definitivamente sotto la presidenza Wilson nella fase
finale della Grande Guerra3.
    Solo due anni prima, gli Stati Uniti erano stati teatro di un analogo terribile,
sebbene meno catastrofico, sisma, il terremoto di San Francisco del 18 aprile
1906, e forse questo contribuiva a definire un forte sentimento di partecipa-
zione emotiva all’evento che colpiva un paese così lontano. Nei primi mesi
del 1909, la Croce Rossa americana organizzò numerose raccolte fondi a cui
si aggiunse lo stanziamento di 800.000 dollari da parte del Congresso Federale
che, su impulso del presidente Roosevelt, nel mese di gennaio, aveva approvato
una legge riguardante l’assistenza e la ricostruzione delle città di Messina e
Reggio Calabria4. In quest’occasione, Roosevelt rivolgendosi al Congresso
aveva affermato:

         L’immenso debito di civilizzazione che abbiamo verso l’Italia, la calda amicizia
    tra i nostri due paesi, l’affetto per la loro terra che prova un grande numero di cittadini
    americani che sono emigrati dall’Italia, l’abbondanza con cui Dio ci ha benedetto
    donandoci sicurezza, tutto ciò ci spinge a dare un immediato ed effettivo aiuto5.

Il contributo dell’America nei confronti dei luoghi colpiti fu indubbiamente
enorme e si concretizzò, in primo luogo, col fitto impiego degli uomini della
Marina militare e con la costruzione di alcuni centri abitativi destinati ai so-
pravvissuti6. Il sostegno fornito all’estero non poteva però non dipendere e
non avere ripercussioni anche all’interno. Come messo in luce dalle parole di
Roosevelt, tra i motivi che spingevano gli Stati Uniti a un solerte intervento
c’era la presenza, in tutto il paese, di diverse e numerose comunità di italiani e
il cui ruolo in questa gara benefica non va sottovalutato. Si trattava di immigrati
che avevano già ottenuto la cittadinanza americana o che erano in procinto di
ottenerla e che però non potevano dimenticare il paese di origine, magari per-
ché una parte della propria famiglia viveva ancora lì. Si comprese subito che
un’accorta politica umanitaria, da un lato, avrebbe potuto aiutare gli immigrati
italiani a sentirsi maggiormente accolti negli Stati Uniti, la loro nuova patria,
e, dall’altro, il resto della popolazione ad avvicinarsi senza pregiudizi ai nuovi
arrivati. Si spiegano così tutte le espressioni di concordia come quella per cui,
come in quei giorni ebbe a scrivere, sebbene con una punta di retorica, uno fra

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i più importanti giornali in lingua italiana d’America, «tra americani ed italiani,
d’un tratto, è scomparsa ogni ombra di diffidenza, e cementando il nuovo patto
di solidarietà umana – nel dolore e nella commiserazione – si sono da un lato
e l’altro duplicate le forze per la nobilissima fatica del soccorso»7.

Il ruolo delle comunità immigrate e i giornali italiani
In questi ultimi anni, soprattutto in occasione del primo centenario del sisma,
si è riflettuto parecchio sui rapporti intercorsi tra America e Italia nei giorni
del terremoto e sull’aiuto fornito dal governo degli Stati Uniti in quella triste
occasione8. Tuttavia, di non secondaria importanza e meritevole di un’attenta
analisi, è proprio il ruolo ricoperto dagli italiani presenti sul territorio ameri-
cano. Quella del 1908 fu, infatti, la prima grande mobilitazione delle comunità
italiane a sostegno della madrepatria, sia perché per il giovane Stato italiano si
trattava della più grave calamità naturale mai accaduta sino a quel momento, sia
perché soltanto allora la diffusione della stampa in lingua italiana in America
(e con essa il tentativo di formare un’opinione pubblica) stava giungendo a
piena maturazione. Non è forse esagerato affermare che la mobilitazione delle
comunità italiane in occasione del sisma di Messina rinsaldò il legame con la
madrepatria e gettò le basi perché esso non si rompesse ma, anzi, si rafforzasse
in occasione della guerra italo-turca nel 1911-1912 e, soprattutto, all’ingresso
dell’Italia nella Prima guerra mondiale nel maggio 19159.
     Sfogliando le pagine del resoconto sulla raccolta fondi curato dalla Croce
Rossa Italiana e pubblicato nel 1911 (la sezione relativa alle città degli States
copre ben 62 pagine), si scorge, del resto, l’impegno profuso dai comitati, circoli,
società, sodalizi laici e cattolici italoamericani. Questa massiccia partecipazio-
ne non deve però essere data per scontata: durante la grande depressione che
aveva colpito l’America nell’autunno del 1907 (la prima crisi sistemica della
storia finanziaria contemporanea), decine di migliaia di uomini avevano perso il
proprio posto di lavoro e fra questi molti italiani. Ciononostante, gli immigrati
del «Bel Paese» fecero la loro parte, aiutando gli Stati Uniti a raccogliere, alla
fine, quasi 4 milioni di lire10. Di questi, 1.066.485,15 lire provenivano dallo
Stato di New York che, dopo quello della Columbia (che raccolse 1.774.890,87
lire), fu il più generoso11.
     Non è forse un caso che la comunità italiana di New York fosse la più
numerosa e vivace d’America. In base al censimento del 1900, erano presenti
in città 145.433 italiani (il gruppo etnico straniero più consistente dopo quel-
lo tedesco e irlandese). Una cifra immensa se pensiamo che in tutti gli Stati
Uniti erano conteggiati, in quell’anno, 484.703 italiani e che le due città che
venivano subito dopo New York, in relazione al numero di immigrati italiani
residenti, erano Philadelphia e Chicago, con rispettivamente «solo» 17.000 e

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16.000 italiani12. Nel censimento successivo, quello del 1910, gli italiani con-
teggiati negli Stati Uniti salirono a 1.343.125 (rappresentando il 9,9 per cento
degli stranieri e l’1,5 per cento dell’intera popolazione americana). Di questi,
ben 340.770 risiedevano nella sola città di New York, numero che sale a quasi
mezzo milione se si comprende anche l’intero stato13. New York, perciò,
può rappresentare un interessante case study per valutare la percezione degli
Italians dinnanzi al sisma calabro-siculo14.
    Le modalità attraverso cui gli Italiani di New York risposero al grave even-
to e si attivarono a favore dei terremotati possono essere rilevate attraverso
lo spoglio dei giornali italiani pubblicati in quei mesi in città15. Per capire
quale fosse il ruolo del giornalismo in lingua italiana in terra d’America è
opportuno, intanto, operare un confronto con quanto avveniva in Italia. È noto
che i giornali pubblicati in Italia nei giorni del sisma costituiscono delle fonti
indispensabili per riuscire a raccontare oggi, a distanza di oltre un secolo, quei
tragici avvenimenti16. Il ruolo della stampa nei primi decenni del Novecento
iniziava infatti ad essere, anche nel nostro paese, sempre più preponderante
ed era essenziale per influenzare l’opinione pubblica e, di conseguenza,
anche le scelte politiche dei governi. Non a caso, è stato evidenziato come,
molto probabilmente, fu proprio l’onda della grande attenzione creata dai
giornali attorno alla ricostruzione del post 1908 a spingere il governo italia-
no ad approvare la prima normativa in materia antisismica17. Sui quotidiani
italiani, le cronache e i resoconti sul terremoto, specialmente nella prima
fase, prediligeranno, tuttavia, uno stile più letterario che giornalistico, molto
lontano dal parlato e privo di quel distacco emotivo necessario per raccon-
tare in modo oggettivo una tragedia di tali proporzioni18. La posizione del
giornalismo italiano in terra americana sembra, invece, essere a metà strada
fra «giornalismo-letteratura» e giornalismo moderno. Da una parte, si avverte
l’influenza dei modelli editoriali di casa, dall’altra, l’esempio americano,
improntato su uno stile linguistico e comunicativo più asciutto (ma, talvolta,
anche rivolto al sensazionalismo), è talmente pervasivo ed efficace che non
può non essere seguito.
    La stampa italiana negli Stati Uniti riflette, per certi versi, la storia stessa
dell’immigrazione italiana. Settimanali, bisettimanali e mensili, monolingue
o bilingue, erano iniziati a circolare sin da metà Ottocento, in risposta alle
esigenze degli italoamericani. I giornali monolingue, in particolare, non solo
fornivano ai nuovi immigrati notizie dettagliate e altrimenti inaccessibili
provenienti dalla madre patria ma servivano anche a facilitare la loro fase
di transizione e il loro processo di acculturazione e integrazione nel nuovo
paese19. Accanto al ruolo svolto da istituzioni come sindacati, associazioni e
Chiesa Cattolica, la stampa contribuiva a elaborare una coscienza nazionale,
creando un forte collante tra i gruppi di immigrati, collettività che potevano

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così «cercare di trascendere campanilismo e individualismo per raggiungere una
maggiore coesione interna e per acquistare peso e visibilità presso le società
ospitanti»20. A partire soprattutto dall’inizio del Novecento, invece di coltivare
il senso di appartenenza regionalistico, la stampa etnica cercò di incoraggiare
un’identità nazionale, perché

   rendere più compatte le Little Italies cancellando i fattori di disgregazione interna
   per linee regionali serviva anche a conferire maggiore prestigio e autorevolezza
   alla loro leadership, al cui interno un posto di rilievo spettava proprio agli editori
   dei giornali in lingua italiana, che si trovavano così a guidare un unico gruppo
   nazionale consistente21.

Si stima che, solo dal 1850 al 1930, siano stati pubblicati negli Stati Uniti
oltre mille periodici in lingua italiana, anche se molti di essi ebbero un’esi-
stenza piuttosto breve22. L’Eco d’Italia, fondato nel 1849 a New York come
settimanale, era stato il primo giornale a essere pubblicato negli Stati Uniti.
Seguiva La Voce del Popolo, nato a San Francisco nel 1859 col titolo di Eco
della patria. Nel 1880 era uscito a New York il primo quotidiano, «Il Progresso
Italo-Americano», seguito nel 1883 dal periodico La Colonia italiana. Altri
fogli esistevano a Chicago (Il Ficcanaso, L’Italia), a New Orleans, dove nel
1885 era uscito il primo numero de L’Italo Americano, e a Philadelphia, dove
nel 1886 era apparso Il Vesuvio23. Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Nove-
cento, si erano aggiunte alla lista altre testate, mentre alcune avevano cessato la
pubblicazione. A New York, nel 1892, era nato il settimanale letterario satirico
La Follia di New York, nel 1893 «L’Araldo Italiano», nel 1897 il «Bollettino
della Sera», nel 1900 i quotidiani «Il Telegrafo» e «Il Movimento» e nel 1909
sarebbe sorto «Il Giornale Italiano»24. Come si può notare, questi giornali si
richiamavano esplicitamente, già nel titolo, all’Italia, rappresentando, per certi
versi, un avamposto politico, culturale e linguistico in terra straniera.
     Sebbene anche alcuni quotidiani americani, come, ad esempio, il «New York
Herald», abbiano pubblicato, in occasione del sisma calabro-siculo, intere pagine
in italiano25 e si siano adoperati attivamente per la causa promuovendo raccolte
fondi26, dobbiamo supporre che la maggior parte degli immigrati (o, meglio, di
quella parte di loro parzialmente o totalmente alfabetizzata), verosimilmente,
preferì, dato che si trattava di «fatti di casa», leggere cosa dicevano i fogli
stampati interamente nella propria lingua e contribuire così alle sottoscrizioni
aperte da quei giornali.
     Quello che segue è un parziale resoconto di ciò che i giornali italiani di New
York pubblicarono da quando venne data la notizia del tragico evento sino ai
primi mesi del 1909 e di come essi si attivarono a favore dei luoghi terremotati.

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La notizia del sisma e le prime sottoscrizioni
La nostra analisi inizia dal 28 dicembre 1908. A New York, i fogli della sera
forniscono notizie ancora confuse. Si parla di numerosi morti e centinaia di
feriti tra Sicilia e Calabria con un numero imprecisato di edifici crollati. Le
notizie telegrafiche che arrivano dall’Italia sono ancora scarse e spesso con-
traddittorie. Dato che Reggio e Messina, i centri più colpiti dal sisma, sono
totalmente isolate e non ci sono comunicazioni dirette da quei luoghi, molti
dei giornali parlano genericamente di «terremoto in Calabria», riferendo, come
farà anche l’indomani il giornale italiano «Il Movimento», che «si sono avute
delle violentissime scosse di terremoto nella provincia di Catanzaro che hanno
seriamente danneggiato otto villaggi», che «si annunziano finora sette vittime
umane oltre gran numero di feriti gravi» ma che «si ritiene però che le disgrazie
siano assai superiori»27.
    In realtà, già nella serata del 28 si comprende che il sisma sembra avere
interessato una regione molto più estesa, tanto che «The Evening Post» parla
di «Life and property destroyed in Calabria and Sicily» e dà conto dell’onda
anomala che si dice abbia colpito la città di Catania, dei danni registrati anche
a Caltanissetta e a Vittoria e dei tanti villaggi calabresi distrutti28.
    Le comunità di siciliani e calabresi (tra le più nutrite fra quelle italiane a
New York) sono in apprensione per i loro cari rimasti in patria e, non avendo
altro modo di conoscere che sorte sia toccata alla loro famiglia, alla loro casa
o al loro paese, si riversano nelle redazioni dei giornali italiani.

         Come ieri si sparsero per la città le prime notizie del terremoto, date dagli
     «extras» dei fogli metropolitani, fu un affluire in ufficio di Calabresi e Siciliani,
     desiderosi di saper confermate o meno le dolorose nuove delle loro provincie. Intanto
     giungevano i nostri cablogrammi particolari che mettemmo subito a disposizione di
     coloro che ce li chiedevano. […] Sappiamo che molti hanno telegrafato in Italia ai
     rispettivi paesi per accertarsi dello stato dei congiunti. Diversi ci hanno promesso
     di comunicarci le risposte per tranquillizzare anche i rispettivi concittadini e noi ci
     affretteremo, naturalmente, a pubblicarle29.

Il 29 dicembre l’apertura di tutti i giornali è naturalmente sul tremendo sisma.
«Il Telegrafo» titola a sette colonne «100.000 MORTI. La distruzione di Reggio
confermata. La legge Marziale Proclamata» (Figura 2).
    «Il terremoto flagella nuovamente la Calabria. Violento maremoto in Sici-
lia. Numerosi morti, centinaia di feriti. Danni incalcolabili. Il Re si reca sui
luoghi del disastro. I primi soccorsi del governo» è il titolo de «Il Progresso
Italo-Americano» (Figura 3).

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Figura 2. «Il Telegrafo», viii, 311, 29 dicembre 1908

Figura 3. «Il Progresso Italo-Americano», xxix, 313, 29 dicembre 1908

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Il «Progresso Italo-Americano» scrive:

          Le furie non ancora si placano: il flagello continua a percuotere la Calabria
     desolata! La catastrofe di oggi ci riconduce al dolore del 1905 e del 1907. Questa
     volta la stretta al cuore è più acuta, più straziante. Qual jattura pende sul capo della
     generosa e nobile gente di quella contrada? Perché il destino semina nuovamente quei
     paesi di rovine e perché la falce della morte vi passa di nuovo a tagliare le vite che
     le sfuggirono tre anni, un anno fa? Anche la Sicilia è stata colpita dalla sciagura30.

«Il Progresso» è già al tempo il principale giornale italiano negli Stati Uniti.
Fondato nel 1880 dal cavaliere Carlo Barsotti, un banchiere naturalizzato
americano che ne sarebbe stato anche il direttore sino al 1928, anno della sua
morte (quando assunse la direzione Generoso Pope)31, si era imposto come il
più pervasivo e battagliero foglio in lingua italiana32. All’indomani del terribile
cataclisma, il giornale apre una sottoscrizione pubblica e invita tutti gli italiani
del nord America a contribuirvi «con certezza di rivolgersi a cuori ben fatti, a
connazionali pieni di virtù generose e patriottiche»33. Non è la prima volta che
il giornale si avventura in tali iniziative: nel 1905 «Il Progresso» aveva spedito
più di 100.000 lire in Calabria, regione colpita da un altro terremoto34 e, in
precedenza, altre sottoscrizioni di beneficenza erano state aperte in occasione
del sisma di Ischia e di Casamicciola nel 1883, dell’epidemia di colera a Paler-
mo e Napoli nel 1885, del terremoto in Liguria nel 1887 e anche in successivi
episodi a carattere locale35.
    Come funzionavano queste sottoscrizioni? Uno spazio in prima pagina
riportava una scheda vuota: il lettore era invitato a ritagliarla, riempirla di
nomi di amici e conoscenti e spedirla con l’importo dell’offerta alla direzione
del giornale, al numero 42 di Duane Street. Le offerte venicano poi mandate
al senatore Rinaldo Taverna, presidente della Croce Rossa Italiana. «Qualsiasi
offerta giova: quella di 5 cents fatta da un modesto operaio varrà quanto quella
di cento, di cinquanta, di venti dollari inviata da una persona facoltosa»36. Di
tutte le offerte si avrebbe dato conto sul giornale dove sarebbero comparsi i
nomi dei donatori. Fu lo stesso giornale ad aprire la lista di sottoscrizione con
200 dollari.
    Le lettere indirizzate al cavaliere Barsotti che accompagnano le offerte
inviate al «Progresso» e che il giornale pubblica ogni giorno e pubblicherà
senza sosta quotidianamente per tutta la durata della sottoscrizione («man
mano tutte vedranno la luce, poiché non un nome sarà omesso e non un
«cents» non comparirà nel totale delle somme»37) ci danno un’ulteriore prova
di quanto capillare sia stata la diffusione di questo giornale e, soprattutto, ci
dimostra che tutte le classi sociali sono coinvolte nella raccolta fondi. «Sono
un povero lavoratore e mando $ 2 per i poveri fratelli sventurati» scrive Matteo

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Tamburo da Brooklyn. Insieme a lui, partecipa anche «una povera cucitrice»,
Vita Laferra, che «toglie 20 soldi di pane dalla bocca dai suoi figli e li unisce
a miei». Antonio Musorofiti, sempre da Brooklyn, acclude un «check di $ 20»
e, scusandosi dell’umiltà della sua offerta, spera che «valga l’immenso mio
dolore a confortare i pochi superstiti della mia cara Reggio». La stessa cifra
viene versata da Antonino Quattrocchi «per la sventura toccata alla mia diletta
Sicilia»38. Il dottor Giovanni Grimaldi della Società Medica Italiana di New
York contribuisce con 25 dollari convinto che «nessuno può essere sordo al
terribile grido di dolore e di strazio che viene a noi da quelle due nobili e forti
regioni»39. Il 2 gennaio si presentano al giornale due ragazzini: sono Pietro Aiello
e Francesco Calivà e consegnano «una scatola di latta pesante di «pennies»».
Dentro ci sono un dollaro e 68 centesimi, quello che sono riusciti a raccogliere
a favore delle vittime del terremoto. «Fu così commovente la scena – riporterà
il giornale l’indomani – che noi presenti ne piangemmo, ed anche in questo
momento sentiamo che l’emozione ci fa lagrimare»40.

Figura 4. «Il Progresso Italo-Americano», xxx, 10, 10 gennaio 1909

La lista di sottoscrizione aperta dal «Progresso» funziona come un grande
«incubatore» di beneficenza: c’è chi si limita a spedire la propria offerta e chi
si spende in ulteriori collette, tutte a vantaggio di quella principale aperta dal

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giornale (Figura 4). Giuseppe Loyacono, originario di Camporeale (Palermo)
ma residente a Greenville, nel Mississippi, si attiva per una raccolta di denaro:

         Appena appresa la triste notizia dell’immane sciagura che colpì il mio suolo
     natìo pensai che sarebbe stato mio santo dovere, come italiano, di fare una sotto-
     scrizione qui in Greenville. Gli italiani in questo paese sono in pochi, ma essendo
     conosciutissimo fra gli americani cominciai il mio lavoro ed eccone il frutto»41.

In un’altra lista di sottoscrizione arrivata al quotidiano sono segnati i nomi di
«quattro bambini di cui il più grande non ha che 3 anni e mezzo.
     «Ho voluto – scrive il padre, il commendatore Louis Fugazy – che al posto
dell’albero di Natale, mandassero il loro piccolo obolo ai nostri derelitti fratelli
di Sicilia e Calabria»42. Era stato lo stesso Fugazy, giorni prima, a sostenere
anche che «Sarebbe poi cosa consigliabile e prudente che la Colonia intera si
astenesse, almeno per un mese, di dare banchetti e balli, onde essere solidali
nel dolore dei nostri fratelli lontani»43.
     Un invito alla sobrietà arriverà anche da un altro giornale italiano molto
popolare in città, La Follia di New York. Fondato da Marziale e Alessandro Sisca
nel 1893, al tempo si vanta di essere il «primo ed unico giornale umoristico
italiano» ed è famoso soprattutto perché è l’unico foglio al mondo che ospita
le vignette caricaturali di Enrico Caruso, che, oltre a essere al tempo un celebre
tenore, è un acuto illustratore. Il giornale fa notare come

         Un ballo, un banchetto con accompagnamento dei soliti discorsi brodosamente
     imbecilli, una parata ecc. in quest’ora di lutto supremo costituirebbero un’indecenza
     bell’buona. [...] Non cascherà il mondo se la parata, il banchetto, il ballo ecc si
     rimanderanno a tempo migliore, anzi meno peggiore; […] E quel che si dice delle
     feste profane e civili calza, come un paio di guanti nuovi, alle feste cosiddette reli-
     giose e sacre, di cui certi quartieri italiani della metropoli hanno la non invidiabile
     e non laudabile specialità.

La Follia si riferisce al culto verso la Vergine Maria e i santi patroni che, al di
fuori della famiglia, costituiva per gli immigrati il vincolo emotivo più forte.
All’interno di ogni Little Italy, e quella di New York è in questo senso il caso
più emblematico, avevano luogo, soprattutto durante i mesi estivi, diverse feste
che cercavano di ricreare l’ambiente di casa e dove gli addobbi e le bancarelle
si mescolavano ai nuovi usi e costumi propri del paese ospitante44. Il giornale
ricorda ironicamente come «tutte le Madonne del Calendario e tutti i Santi
patroni di città e di villaggi, anche i più Carneadi del Paradiso» siano

     pretesto per una processione, per un altarino eretto o in mezzo alla strada o nel cortile
     di una «Tenement House» o da canto a una ignobile e puzzolenta tavernaccia, per una

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   sparatoria e uno spettacolo pirotecnico, per concerti di bande musicali raccogliticce e
   scordate, per la pompa di bandiere, di stendardi e di «badges». Nessuno è mai troppo
   povero quando si tratta della Madonna del Carmine o del miracoloso Sant’Omobo-
   no e molti che lasciano le loro mogli andar fuori in ciabatte sgangherate e sottane
   bisunte o i loro marmocchi coi piedi fuori delle scarpe e il resto in proporzione, si
   crederebbero gli ultimi esseri della terra se non contribuissero generosamente alla
   festa della società, del quartiere, della parrocchia ecc.

Il giornale, in modo spudoratamente esplicito e provocatorio, si chiede perciò ora

   quanti di quegli uomini che, il dì della processione, pagano perfino cinquanta dollari
   per portare il pallio della Confraternita; quante di quelle donne, che in torcie e can-
   delotti, in orribili «ex voto» di cera e in altri simboli della più cieca superstizione
   spendono i risparmi di un anno […] quanti di codesti maschi e di codeste femmine
   sentiranno il dovere di offrir dieci cents alla Croce Rossa o alle sottoscrizioni aperte
   dai giornali in sollievo della catastrofe di Calabria e Sicilia?45

I siciliani e calabresi immigrati a New York si sentono dei «miracolati» perché
la sorte ha voluto che, al momento del sisma, essi, a differenza di parenti e
amici lasciati a casa, fossero in un altro paese alla ricerca di una vita migliore.
L’evento irrompe di colpo nella vita di ogni giorno, ne stravolge i ritmi46 e
detta una nuova agenda, fatta di dolore e di pianto. Il dramma vissuto nelle
case degli italiani viene così tratteggiato dal «Progresso»:

        Non sappiamo come descrivere lo stato d’animo dei connazionali. In migliaia
   e migliaia di case si piange: dovunque il dolore si appalesa sui volti. Quale triste
   fine d’anno per noi! Non si possono raccontare le scene strazianti che accadono
   dovunque. A centinaia vengono Siciliani e Calabresi in ufficio per domandare
   conferme o smentite di notizie. Il telefono è in moto continuo: da tutti i punti della
   città, da molti Stati ci interrogano per sapere le ultime notizie. Si comprano giornali
   di ora in ora e si scorrono febbrilmente con le lagrime agli occhi. È commovente lo
   slancio con cui tutti rispondono alle sottoscrizioni aperte da italiani e da americani.
   La partecipazione degli stranieri al nostro cordoglio ci commuove estremamente.
   Sentiamo di non essere soli in questa immensa sciagura nostra, e benediciamo alla
   mano che fraternamente ci viene porta. […] Migliaia di cablogrammi sono stati
   spediti in Sicilia e in Calabria, con i quali gli emigrati domandano alle famiglie
   notizie dei loro cari. Ma nessuna risposta giunge! E si spiega. In questi momenti è
   assolutamente impossibile poter rintracciare i destinatari dei dispacci. […] Ciò che
   è a raccomandarsi è la calma, la massima calma47.

E anche un altro giornale, «Il Telegrafo», racconta le impressioni che ha regi-
strato dopo un giro presso i quartieri italiani della città:

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          Abbiamo visitato i quartieri italiani quelli specialmente dove vivono i calabresi
     e i siciliani e ne abbiamo riportata un’impressione che non si cancellerà mai dalla
     nostra mente. Il lutto è in tutte le case e il dolore in tutti i cuori. Sono centinaia
     quelli che hanno dei parenti nei luoghi colpiti dal disastro ed è facile immaginare in
     quale stato essi si trovino. Le donne non fanno che piangere e pregare, gli uomini
     sono restati come instupiditi e molti ieri non si recarono al lavoro. Delle povere
     famiglie hanno speso fino all’ultimo soldo per telegrafare al loro paese ma la gran-
     de maggioranza non ha ottenuta risposta, quel silenzio aumenta i timori. […] Le
     edizioni speciali del nostro giornale che quasi ogni due ore portano in mezzo agli
     italiani le ultime notizie, vengono lette avidamente. Coloro che non sanno leggere
     pregano i loro amici di leggere quello che nei giornali è scritto. Nei pubblici locali
     il giornale è letto ad alta voce, in mezzo ad esclamazioni di dolore, a segni di scon-
     forto grande, indescrivibile48.

«Il Telegrafo» non è nato da molto, appena otto anni prima. Ciononostante,
sembra essere il perfetto «contraltare» alla macchina organizzativa e finanziaria
del «Progresso» di Barsotti. All’indomani del sisma, il giornale specifica di non
avere intenzione di aprire nessuna sottoscrizione perché «non c’è bisogno di
dover andare dai nostri amici a chiedere l’obolo per i fratelli colpiti dalla sven-
tura, quasi si volesse ricordar loro qual è il dovere che essi debbono compiere
in questi tristi momenti». «Il Telegrafo», infatti, si limiterà a ricevere le offerte
che saranno spontaneamente inviate dai lettori e le rimetterà immediatamente
al rappresentante della Croce Rossa a New York. «Esortazioni, fervorini, pre-
ghiere non ne facciamo; comprenda ognuno il suo dovere e a quel dovere si
ispiri»49. Più avanti, il giornale si farà promotore della diffusione delle «Charity
Postcards» della Croce Rossa Italiana, cioè delle cartoline postali illustrate in
vendita a favore delle vittime50. A New York, un’altra sottoscrizione è aperta
dal «Bollettino della Sera» e anche in altre città americane avviene lo stesso,
come nel caso di Philadelphia dove centro propulsore della raccolta fondi sono
i fogli La Voce del Popolo e L’opinione51.
    Mentre le dimensioni della catastrofe appaiono via via più gravi, tanto che
già il 30 dicembre si parla di «sventura nazionale» e di «centomila morti»52 e il
giorno seguente di «duecentomila morti», «Il Progresso» prosegue le sottoscri-
zioni e può contare anche su donatori eccellenti come il tenore Enrico Caruso,
che, avendo appreso durante una sua rappresentazione del tragico evento, non
esita a offrire 2000 dollari53. Inoltre, il quotidiano si impegna a donare «tre
medaglie d’oro ai tre capilista che raccoglieranno e invieranno al giornale la
somma maggiore nel corso della sottoscrizione» e «agli altri capilista, tanto di
Nuova York, quanto di fuori […] un artistico diploma di benemerenza finemente
litografato»54. Viene poi prevista anche una medaglia d’argento per coloro i
quali «avranno raccolto venti dollari e più e una medaglia di bronzo per coloro

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i quali «avranno raccolto dieci dollari e più». Tutte le medaglie recheranno gli
emblemi della Croce Rossa.
     L’anno si chiude carico di mestizia e l’alba del 1909 ritrova la comunità
italiana «col cuore gonfio di pianto, con le lagrime più cocenti sul viso».

       Più le ore passano e più la crudele istoria della sventura nostra fa rabbrividire.
   Sembra un sogno, un sogno tutto incubi, dal quale le edizioni dei giornali, la lettura
   dei dispacci che riceviamo ed apriamo con mano tremante e con cuore agitato, ci
   risveglia, per squarciar più acerbe ferite nel petto lacerato già da tante lagrime. Ed
   oggi è Capodanno! Iersera non volemmo festeggiare il trapasso dell’annata. La
   coscienza non reggeva a tanto. […] Iersera chiudemmo la nostra giornata di lavoro
   con una silenziosa stretta di mano. Ma voleva pur dire tanto quella stretta! […] Il
   Capodanno di pianto sia il Capodanno della nostra Carità. La scheda di sottoscrizione
   è a portata di mano. Cominciamo l’anno con una azione meritoria. I fratelli lontano
   invocano aiuto in questo fatale Capodanno di lagrime!55.

Quando, il 3 gennaio, La Follia riprende le pubblicazioni, dopo le festività nata-
lizie, vengono messi da parte i consueti toni scherzosi e si decide di sospendere
la tradizionale rubrica satirica che cura un redattore celato sotto lo pseudonimo
di «Pin» nella quale si mettono alla berlina alcuni personaggi della «Colonia»
e vengono raccontati episodi buffi.

       Se anche lo potessi oggi getterei la penna prima di scrivere una parola allegra,
   mi sembrerebbe di commettere un insulto verso le vittime del più grande disastro che
   abbia mai funestata l’umanità, un insulto verso quanti per questo disastro gemono e
   dolorano. No, oggi il sorriso non aleggia sulle nostre labbra e le lagrime gonfiano i
   nostri occhi. Quando dovunque si piange chi vorrebbe scherzare? In tanti anni è la
   prima volta che questa rubrica viene soppressa. Quando gli animi saranno più sollevati,
   quando il dolore sarà cessato, la riprenderò. Andando attraverso la Colonia non ho
   visto che gente desolata, atterrita, commossa. Ansia è in tutti i cuori, una sola cosa
   domina la generalità degli italiani, il tristissimo evento che ha portato la desolazione
   nelle forti terre di Calabria, nell’Isola bella e sventurata, in Italia, nel mondo56.

Lo stesso giorno, «Il Progresso» pubblica di nuovo in quattro pagine tutti i ca-
blogrammi ricevuti e pubblicati «fin dall’ora in cui giunse in America il primo
annuncio»57 con foto di Messina e di Reggio prima del disastro. Fioriscono
poi le storie delle città colpite, i resoconti tratti dai giornali italiani, i dispacci
di agenzia e vengono inseriti i racconti che celebri corrispondenti avevano
fatto dei luoghi adesso colpiti del sisma: fra quest’ultimi, risulta di particolare
efficacia e commozione quello in cui Ugo Ojetti descriveva la traversata dello
Stretto di Messina (tanto che viene riproposto più volte)58.

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I messinesi di New York
I messinesi residenti a New York vivono con particolare disperazione quanto
accaduto. Il silenzio assordante che proviene dallo Stretto, l’impossibilità di
mettersi in contatto con i propri parenti e amici, lascia presagire il peggio.
Eppure, pochi giorni dopo il sisma, quando nella città peloritana si continua a
scavare tra le macerie e si spera di trovare ancora qualcuno in vita, i messinesi
di New York incominciano una volenterosa opera di raccolta fondi a sostegno
della propria città d’origine. È il caso della Società Messinese «Francesco Mau-
rolico» che decide di destinare l’intero fondo cassa ai superstiti della calamità
senza confronti che ha colpito il sud Italia. «Non abbiamo parole per lodare
l’atto di fratellanza compiuto dai soci del benemerito sodalizio» commenta
«Il Progresso» . In realtà, gli emigrati messinesi non hanno soltanto riversato
il loro fondo nella più ampia sottoscrizione del giornale ma hanno anche co-
stituito un comitato con l’obiettivo di raccogliere ulteriore denaro. «Ieri – si
legge il 4 gennaio – il presidente della «Maurolico», signor Antonino Rigano,
accompagnato dal segretario Mario Augliera, dal curatore Eugenio Scattareggia
e dal socio Antonio Curcio, vennero nei nostri Uffici a consegnare dollari 500
del fondo sociale e dollari 88.65 della sottoscrizione»59.
     Anche la Società «Messina», riunita in seduta straordinaria il 3 gennaio,
delibera di prelevare tutto il fondo sussidio disponibile e di erogarlo a favore dei
superstiti dell’immane sciagura per la sottoscrizione del «Progresso». «Come
non dovevano i Messinesi di Nuova York soffrire sgraziatamente nell’apprendere
la sorte della loro splendida amatissima città? Poteva mai la Società Messina
di Nuova York – formata da emigrati di quella sventuratissima terra – non dare
quanto possedeva ai fratelli lontani?» scrive il giornale il 9 gennaio.
     Ai messinesi già residenti si aggiungono i nuovi arrivati. A bordo del piroscafo
«Italia» che giunge sabato 2 gennaio 1909 a New York ci sono 462 immigrati:
di questi 150 sono siciliani. Diversi avevano lasciato i loro parenti a Messina
e nulla sapevano della sorte toccata alla loro città natale.

          Quando il piroscafo approdò al dock dell’Anchor Line sulla spiaggia di Brooklyn,
     i giornalai salirono a bordo portando agli ufficiali marinai un fascio di giornali della
     città. Uno capitò nelle mani di un immigrante il quale, sebbene non comprendesse
     l’inglese, dalle incisioni e dal numero delle vittime comprese che qualche cosa di
     grave era avvenuto in Italia. Uno tra gl’immigranti comprendeva in certo modo
     l’inglese e quando poté avere tra le mani il giornale annunziò la sciagura ai suoi
     compagni di viaggio. Parecchi erano messinesi, altri calabresi e si abbandonarono
     a scene di dolore straziante. Uno diceva piangendo che aveva lasciato la moglie e
     sei figlioletti a Messina; un altro aveva lasciato il padre, la madre ed otto fratelli e
     sorelle; una donna, venuta in America a raggiungere il marito, aveva lasciato due
     figli. [...] Quando il piroscafo «Italia» partì da Messina, nessuno poteva pensare che
     quello sarebbe stato l’ultimo piroscafo portante emigranti da quella città!60

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Il 14 gennaio «Il Telegrafo» e «L’Araldo» racconteranno, invece, il curioso
caso del primo superstite della catastrofe arrivato a New York a bordo della
nave «Re d’Italia».

       La gara, fra i giornalisti americani per abbordare il «Re d’Italia» nel Lloyd
   Sabaudo, giunto a Sandy Hook alle 2.35 p.m. di ieri, è stata febbrile. […] Tutti
   volevano raccogliere notizie ed interviste prima degli altri. Io dell’«Araldo», però,
   avevo il privilegio del campo incontestato nella stampa italo-americana: ero solo.
   Si seppe subito che nessun passeggiero di prima classe, fra i 100 circa portati dal
   «Re d’Italia», proveniva dai luoghi devastati. Vi erano però circa 40 messinesi fra
   i 1300 viaggiatori di terza classe, i quali erano stati imbarcati a Palermo due giorni
   dopo il flagello. Essi, fu detto dagli ufficiali di bordo, erano sforniti di passaporto e,
   per essere in grado di partire, ebbero il biglietto vidimato dal Console Americano.

Mentre la frotta dei reporter corre lungo il vapore in lungo e in largo per cercare
dei «superstiti autentici», o delle notizie «nuove ed emozionanti», il giornalista
dell’«Araldo» raccoglie le impressioni del comandante: partito il 28 dicembre
da Genova, aveva appreso della sciagura a Napoli all’arrivo dei primi feriti.
A Palermo aveva imbarcato alcuni messinesi ma tra questi soltanto uno aveva
assistito alla catastrofe e si era salvato miracolosamente.

        I giornalisti americani correvano affannosamente in coperta pei ponti, nei corridoi,
   dappertutto, cercando l’uomo che avea visto coi suoi occhi lo storico terremoto, che
   era riuscito a sfuggire e che era arrivato in America, ma come? con quali impressioni?
   dopo quali vicende? […] Ad ogni passeggero domandavo: «Siete di Messina». «No.
   Quello è di Messina». «Eravate lì al momento del terremoto?». «Nossignore. Ero
   partito il 27 per Palermo». Quasi tutti i 40 messinesi dicevano così. In un angolo
   vedo dei reporter che fotografavano un uomo ed una donna. «Cosa fate?». «She is
   a lady from the earthquake…». Gli americani volevano assolutamente delle donne,
   delle fanciulle scampate. Domando ai due: «Donde venite?». «Da Napule Signurì…».
   «Siete mai stati a Messina?». «No, mai…».

Alla fine, il cronista riesce a giungere al cospetto dell’uomo tanto ricercato.

       Lo vedo, ossia mi è indicato, in un cantuccio, seduto melanconicamente, con un
   paltò sulle ginocchia e le braccia incrociate. Mi pare un uomo sui 35 anni, bruno,
   con gli occhi rossi dal pianto, la barba un po’ lunga, vestito di nero. Mi fa la sua
   narrazione. «Sissignore, io sono Giuseppe Cutruneo. Come mi sono salvato? È un
   miracolo della Madonna. Ma avrei piuttosto voluto morire coi miei figli e la mia
   moglie… Oh! sì, ho perduto tutti! ... Tre figli e la povera mia moglie era incinta di
   sette mesi…». «Ma narratemi con ordine, ditemi tutto». «Ecco. Quella mattina, lunedì,
   io dovevo andare a Milazzo per comperare delle bestie, giacché sono macellaio. Il
   treno partiva alle 5.20 secondo l’orario. Mi levai alle 4.30 e andai alla stazione. […]
   Ero già nel vagone quando sentimmo il finimondo. Un rumore di inferno. Tutto cadde

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     sulle nostre teste. Tutto precipitava. Tutto ballava, la terra si apriva, si richiudeva.
     La Stazione precipitò a fianco del treno. I vagoni dove eravamo si rovesciarono sul
     fianco sinistro. Non mi ricordo precisamente ciò che provai in quel momento. Mi
     parve di sognare cose orrende, terribili, spaventose. Quando e come mi riebbi non
     lo so. Di certo mi disbrigai da sotto al vagone e mi misi a correre. Tutti correvano,
     tutti urlavano. […] Istintivamente mi diressi là dove era la mia casa, ove avevo
     lasciato i bambini e la moglie dormenti. Non potevo arrivare mai, tanto era la folla
     dei fuggenti e le pietre che ingombravano le vie. Dove abitavo? in Via Casa Pia 181.
     Quando giunsi in quei pressi non vidi che un mucchio di rovine. Tutto era crollato,
     ed i miei figli la mia famiglia era perita lì sotto. Che fare? Volli morire. Poi mi
     soccorse il pensiero dei miei vecchi genitori. Sì, ho il padre e la madre che abitano
     qui a New York al n. 111 Union Street, Brooklyn. […] Pensai di venire in America,
     di cercare conforto fra le braccia della mamma mia, ora che il destino mi ha tolto
     tutti i figli.» […] Ed ecco giungere esasperata la coorte dei giornalisti americani che
     ancora non avevano trovato l’uomo. Mi domandarono: «Did you see him?» «No»
     risposi, mentre Cutroneo mi era alle spalle, senza arrossire della egoistica menzogna
     professionale. Venne l’ordine pei passeggieri di terza di scendere nel Dock. Qui non
     ci potrà scappare, dissero gli americani. Sapevano già un particolare importante:
     Cutroneo ha una larga cicatrice sulla guancia destra. […] I reporters correvano su e
     giù armati di Kodak alla ricerca del «survivor» dalla cicatrice. Dopo lunghe ricer-
     che, alfine fu rinvenuto dietro una colonna, solo e silenzioso in attitudine ritrosa e
     stanca. «At least!» esclamarono e quasi di forza trascinarono sopra coperta, in un
     salotto di classe, il buon uomo che resisteva alle loro esortazioni: «Lasciatemi stare.
     Non so nulla. Sono scampato per miracolo. Non voglio fotografie…» Poi cedette, e
     docilmente si lasciò fotografare, rispose a tutte le interrogazioni con pazienza, con
     cortesia, con i maggiori dettagli che poteva. I «reporters» scrivevano, scrivevano
     raccogliendo avidamente la parola viva del disastro, la narrazione del superstite in
     carne ed ossea, del primo eroe inconscio di questa storica tragedia umana61.

Le liste dei feriti e dei superstiti e le altre raccolte fondi
A partire dal 6 gennaio, «Il Progresso» riproduce «per comodo dei lettori
siciliani e calabresi»62 e «per tranquillizzare tanti emigrati sospirosi e trepidi
della sorte dei parenti e degli amici»63 le liste dei feriti di Reggio e Messina
ricevute dall’Italia e, nei giorni seguenti, inizia a pubblicare anche quelle dei
morti e dei superstiti.
    A febbraio, il presidente della Croce Rossa, Taverna, manderà al giornale
tre volumi a stampa contenenti l’elenco nominativo dei profughi dai luoghi
colpiti del terremoto arrivati nelle diverse provincie del Regno secondo le
notizie comunicate dai prefetti al Ministero dell’Interno fino al 25 gennaio. Si
tratta di centinaia di pagine con numerosissimi nomi e indicazioni. In prima
battuta, «Il Progresso», che «già ha dato assai largo spazio agli elenchi delle
vittime e dei superstiti del terremoto ricevuti direttamente per telegrafo, con

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precedenza assoluta su gli altri giornali», si dichiara «nella impossibilità di
riprodurre quelli delle pubblicazioni ufficiali che or ora pervengono; anche
perché, in buona parte, ripeterebbe nomi già dati» e invita i lettori «cui interessi
ancora di ricevere nuove dei loro congiunti o amici» a «venire a sfogliare in
Redazione i volumi che teniamo a completa disposizione del pubblico»64. Nei
giorni successivi, tuttavia, vinto dalle insistenze e forse anche come «prova di
forza» nei confronti dei giornali concorrenti (specialmente «Il Telegrafo» che
pubblica l’elenco alfabetico dei profughi già dal 9 febbraio), inizia a pubblicare
degli inserti con tutti gli elenchi dei superstiti (Figura 5), ricordando al lettore
che è stato «l’unico giornale in America che abbia ricevuto per telegrafo i nomi
dei superstiti del terremoto appena noti alle autorità italiane, fin dal 7 gennaio»
e che «agli altri giornali non restò altra risorsa che riprodurre, il 9 gennaio, i
nomi da noi pubblicati nei giorni precedenti»65.

Figura 5. «Il Progresso Italo-Americano», xxx, 52, 21 febbraio 1909, p. 2

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«Il Progresso», nel corso delle successive pubblicazioni, si impegnerà a incen-
tivare le donazioni con altre iniziative come l’omaggio di «tre orologi d’oro a
quelle tre signore o signorine che avranno inviate al giornale le sottoscrizioni
più elevate»66 e gli appelli a tutte le «Associazioni Italiane delle Colonie» del
nord America a partecipare alla sottoscrizione («è il momento di dimostrare che
le cento e cento associazioni delle Colonie non vivono per mantenere divise
le Colonie stesse, come molti erroneamente credono, ma, nell’ora opportuna,
sanno sentire l’obbligo della più sacra solidarietà»), ai sarti italiani affinché
«ottengano dai loro padroni che una parte dei fondi di magazzino sia destinata ai
superstiti della calamità italiana»67, a «tutti coloro che hanno dipendenti ai loro
ordini» affinché «aprano sottoscrizioni fra i loro impiegati»68, a tutti gli operai
italiani a destinare il guadagno della loro mezza giornata di sabato «a beneficio
degli sventurati italiani»69, e ai barbieri affinché i loro padroni «destinino una o
due giornate d’introito a beneficio delle vittime italiane»70. È possibile inoltre
comprare nel supplemento della domenica uno spazio pubblicitario «a totale
beneficio della nostra sottoscrizione» o acquistare un «abbonamento mensile
straordinario di beneficenza» a 25 soldi71. Vengono anche collocate in diversi
locali pubblici, come alberghi, negozi e ristoranti, delle «cassette del «Progres-
so»» per raccogliere ulteriori offerte72.
     Sono poi predisposte delle «passeggiate di beneficenza» nei quartieri ita-
liani, come quella fissata per domenica 9 gennaio che frutta 2095 dollari e 56
centesimi e duecento casse di effetti di vestiario. Il giornale ne magnificherà il
valore in un lungo articolo in cui si sottolineerà che

     la gara di beneficenza a cui si assistette non ha riscontri nella storia della bontà uma-
     na. Le donne vuotando dei pennies le loro tasche, piangevano. Non un proprietario
     di negozio mancò di dare il suo obolo. […] I bimbi si avanzavano timidi ad offrire
     i loro cinque soldi. Una vecchietta trasse di tasca una monetina d’oro di cinque
     dollari e la diede, scoppiando in dirotte lagrime: Tenete: per l’anima benedetta dei
     poveri morti miei! Era una povera Siciliana. Una giovane di nazionalità israelitica
     non aveva moneta in tasca ma vestiva però un cappotto signorile messo forse da
     pochi giorni solamente. Richiesto di dare il suo obolo disse: Non ho soldi in tasca,
     ora. Prendetevi questo coat - e così dicendo se lo tolse di dosso e lo gettò su una
     carrozza. […] Una prova di generosità fu data in diversi caffè e negozi appartenenti
     ad emigrati greci. […] In Mulberry, in Grand, in Spring street e strade vicine le
     carrozze procedevano in mezzo ad una grande folla tutta commossa73.

Un’ulteriore iniziativa, messa in campo dallo stesso «Progresso», è la Fiera di
Carità, cioè una grande fiera di beneficenza in cui ciascuno potrà donare «oggetti
di vestiario, casse di vino, di generi commestibili, di conserve, di olio, oggetti
d’arte, quadri, lavori femminili, mobilia, ecc.»74 che saranno messi in vendita in
un grande bazar a favore delle zone terremotate. Gli oggetti che arrivano sono

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dei più vari: dalla «cassa di Chianti», alla «scatola di acciughe», dalla «grande
bandiera americana» al «bellissimo binocolo da campagna», dalla «scatola di
sigari» a «due orecchini d’oro».
    Nei giorni seguenti il sisma, si organizzano spontaneamente tante altre
iniziative di sostegno e raccolta fondi a favore della popolazione terremotata75.
All’appello rispondono numerose società di fratellanza e di mutuo soccorso,
oltre che diverse logge e confraternite. E anche le chiese si sentono partico-
larmente chiamate in causa. «Mentre tutto il mondo civile si associa al nostro
lutto Nazionale e tutti indistintamente sottoscrivono contribuzioni a sollievo
dei superstiti del terribile flagello – scrive padre Bernardino Polizzo, parroco
della Chiesa italiana del Preziosissimo Sangue, sulle colonne del «Progresso»
– noi sacerdoti del Signore ci sentiamo in dovere di radunarci intorno all’al-
tare dell’Immacolato Agnello per innalzare pubbliche preci in sollievo di quei
disgraziati nostri fratelli che miseramente perirono, senza il bene dei conforti
religiosi e senza l’ultimo bacio dei loro cari»76. In queste funzioni religiose in
suffragio delle anime dei fratelli morti, le collette spesso sono riversate intera-
mente a beneficio delle vittime.
    Si predispongono serate di beneficenza e, su idea del «Progresso», anche
un grande concerto al Metropolitan Opera Theatre per domenica 10 gennaio
al quale partecipano i migliori artisti del teatro e i quattro maestri direttori:
Toscanini, Mahler, Herz e Spetrino77. Il concerto, al quale prende parte anche
il tenore Enrico Caruso, la «voce d’oro» come lo chiama in quegli anni il
«New York Herald», cantando il sestetto della «Lucia» e il mirabile Miserere
del «Trovatore», totalizza un incasso di oltre 12.000 dollari, cioè quasi 70.000
lire78. La Follia sarà l’unico giornale a far notare che «nel programma del Con-
certo si leggeva che il provento sarebbesi devoluto a vantaggio delle vittime del
terremoto in Italia e in Sicilia (!) quasi che la Sicilia non sia parte dell’Italia e
i siciliani non sieno italiani»79.
    Ma non è l’unico evento musicale di beneficenza. L’American Italian Gene-
ral Relief Committee organizza infatti per il 7 gennaio un concerto al Madison
Square Garden. Nonostante il poco pubblico accorso (l’evento è stato organizzato
in fretta e lo stesso giorno si svolgono altre due simili iniziative benefiche), la
serata si carica di un forte significato data la presenza del sindaco di New York
e del vicepresidente degli Stati Uniti. Accompagnate dalla musica, le immagini
proiettate di molti luoghi devastati dal terremoto destano parecchio interesse.
Sopra il palco delle autorità si vedono le bandiere abbrunate di alcune società e
nel mezzo spicca lo stendardo della Società «Messina», rosso con croce d’oro,
con una grande benda di lutto80. A febbraio, per Carnevale, si tengono diversi
«veglioni» «pro Calabria e Sicilia».
    Il 19 gennaio è già tempo di tirare le somme. In un lungo editoriale, «Il
Progresso» paragona lo slancio avuto dai cittadini di Milano, di Torino, di

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Venezia e di «tutte le provincie settentrionali» verso lo Stretto di Messina a
quello registrato «sotto questo cielo d’America», dove si assiste allo «stesso
spettacolo di fraternità». «Ci siamo sentiti – scrive il giornale – novellamente,
fortemente, tutti italiani, noi emigrati da tutte le terre settentrionali, centrali,
meridionali e insulari. Abbiamo tutti in un stesso momento sentito il bisogno
di abbracciarci nella sventura, abbracciarci nell’opera di conforto»81.

L’arrivo della salma del Console e una polemica giornalistica
Il 29 gennaio sbarca a New York la salma del Console americano di Messina,
Arthur Cheney e della sua consorte, periti durante il sisma. Ad accogliere il
feretro ci sono una trentina di associazioni italiane fra cui la «Risorgimento
Messina» e quella dei «Cittadini Messinesi»82. L’iniziativa è promossa dal-
l’«Araldo», giornale della stessa proprietà del «Telegrafo». «Il Progresso»
le dedica un piccolo spazio e questo induce gli altri giornali a polemizzare
nei confronti del foglio di Barsotti. Ciò che gli «avversari» del «Progresso»
non tollerano è lo stile di quel giornale in fatto di beneficenza, uno stile, che
stando alle accuse che muovono, si potrebbe definire «bellicista», quasi che la
macchina benefica segua le stesse strategie della macchina del consenso. Come
scrive «Il Telegrafo»

          A dispetto dei colpevoli silenzi dei giornali italiani nemici giurati di ogni iniziativa
     che non parta da essi, ad onta che molti prominenti, forse per ordine ricevuto dal quel
     padrone che dà loro per telefono delle istruzioni che bisogna seguire, non dessero
     all’iniziativa dell’Araldo Italiano nessuna importanza e cercassero di farla abortire
     dando anche notizie non esatte, le onoranze che gli italiani resero ieri alle salme del
     Console Cheney e della sposa sua, periti nella tragica notte del 28 dicembre a Messi-
     na, riuscirono imponenti destando nel popolo e nella stampa del paese che ci ospita
     un vivo sentimento di ammirazione e gratitudine verso gli italiani che supplirono
     alla dimenticanza delle autorità americane. […] Noi crediamo fermamente che le
     onoranze rese ieri dagli italiani al Console morto a Messina, abbiano fatto più bene
     alla nostra nazionalità che cento parate e cento inaugurazioni di monumenti. Per il
     successo ottenuto SENZA BISOGNO DI SPENDERE UN SOLDO, senza tormentare
     il telefono, senza inviare circolari, senza mobilizzare un esercito di galoppini, senza
     imposizioni o velate minacce, noi con L’Araldo Italiano, veramente ci rallegriamo,
     lieti di avere dato alla sua bella iniziativa il nostro appoggio. A quei che speravano,
     quanto è triste il mondo, che la dimostrazione si risolvesse in un fiasco, mandiamo
     le nostre condoglianze, lasciando alla Colonia di giudicare l’opera loro83.

I «prominenti» ai quali «Il Telegrafo» fa riferimento sono i notabili della colonia
e, in particolare, chi tra di essi dirige e/o possiede un giornale. Si tratta di per-
sone che, nella maggioranza dei casi, non avevano avuto carriere da giornalista
in Italia e che più che altro avevano trovato «un espediente per fuggire dalle

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