Il tempo e la luce nella teoria della relatività.
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Il tempo e la luce nella teoria della relatività. (autore F.Piperno) 1. Introduzione La questione del tempo, del comune concetto di tempo come flusso continuo, ordinato e irreversibile è certamente la questione focale dell’epistemologia contemporanea. Ma essa non è solo una questione accademica o un rompicapo per esperti. Ad un altro livello, a livello della vita quotidiana, nelle grandi metropoli occidentali il tema del tempo sembra essere il tema comune a una larga serie di questioni sociali che sono di tipo paradossale dal momento che sono, per così dire, razionalmente insolubili a causa della convenzione temporale comunemente accettata e della mentalità sociale che la convenzione stessa contribuisce a promuovere. Così vi sono problemi sociali creati dal tempo e che letteralmente si dileguano mutando la convenzione temporale. Nell’epistemologia come nel senso comune un mutamento di significato del tempo, della parola tempo, sembra delinearsi. Una trasformazione semantica sembra essere la porta stretta attraverso la quale passare per potere percepire altri fenomeni della natura e realizzare altri significati del vivere urbano. Va da se che nell’epistemologia come nella vita quotidiana questo mutamento è faticoso, incontra ostacoli nel suo compiersi e rischia di risolversi in un altro aborto. Ciò che è in gioco non è poco. Si tratta del calendario, istituzione autorevole quanti altri mai. In questo saggio viene analizzata una delle difficoltà epistemologiche che incontra la posizione di pensiero che pone la natura del tempo nella convenzione semantica, nel linguaggio. Questa difficoltà è il tempo fisico, cioè il tempo come grandezza fisica, il tempo che permette di descrivere le leggi fondamentali della natura. Certo, il tempo di cui parlano oggi i fisici non è il tempo di cui parlava Newton. Per Newton il tempo è assoluto, scorre uniforme nell’universo: ora è ora qui e dovunque. Nella fisica contemporanea, grazie sopratutto allo sforzo di pensiero di Einstein, il tempo ha lo statuto di una grandezza relativa all’osservatore. Questa relatività del tempo non contraddice la natura reale del tempo, al contrario, essa dona al tempo la stessa concretezza dello spazio o dell'energia. La teoria della relatività sembra quindi costituire un ostacolo epistemologico nell’argomentare la natura convenzionale del tempo. In particolare, essa afferma che l’ordine causale tra due eventi, cioè il “prima” ed il “poi” rispettivamente come causa ed effetto, è una grandezza assoluta, mentre la simultaneità tra due eventi è relativa. Il lavoro di Einstein sembra quindi concludersi nella relativizzazione dell’unica certezza: il presente; e nella sostanzializzazione del tempo come flusso che dal passato si muove verso il futuro. In questo saggio si sostiene che la definizione einsteniana del tempo prima di essere relativistica è convenzionale in senso non-triviale. Di conseguenza essa nulla può dire sulla natura fisica del tempo che non sia già implicito nella convenzione arbitrariamente scelta. 1
2. Il sogno del piccolo Albert. Racconta Einstein che da piccolo sognava più e più volte lo stesso sogno: volare su un raggio di luce e guardare il mondo con gli occhi chiari della luce 1. Questo sogno bizzarro è l’immagine autentica del tempo come definito dalla teoria della relatività. Nella relatività infatti la luce gioca il ruolo di misura assoluta del tempo. La velocità della luce è posta, per definizione, uguale a una costante universale, indipendente dall'osservatore, assoluta appunto2. Per comprendere il significato del tempo relativo introdotto da Einstein vale la pena di ricordare al lettore che, quando Albert era adolescente ed errava per l'Europa, un grande dibattito animava l’intellighentia tecnico-scientifica dell’epoca, un dibattito sulla natura della luce3. Questo dibattito accumulava paradosso su paradosso; e due discipline fisiche di gran prestigio come la meccanica newtoniana e l’ottica elettromagnetica di Maxwell prevedevano, attraverso il calcolo, una fenomenologia della luce che era in evidente contraddizione con le osservazioni sperimentali. La teoria di Maxwell ampliata da Lorentz, affermava che la luce è un’onda elettromagnetica che viaggia a velocità costante attraverso l’etere (mezzo assolutamente immobile che pervade l’universo intero). Questo comporta, tra l’altro, che un osservatore sulla Terra può in principio, misurando la velocità della luce rispetto alla Terra, determinare la velocità della Terra rispetto all’etere. Ora questa possibilità era esplicitamente esclusa dalla fisica newtoniana secondo la quale è impossibile con una misura fisica stabilire se la Terra si muove o è forma rispetto all’etere perchè le stesse leggi fisiche sono valide nei due casi. Inoltre, ed è quel che più conta, una serie di esperimenti molto raffinati che segnano tra l’altro l’atto di nascita della fisica nord-americana, smentiscono le previsioni della teoria elettromagnetica della luce e conducono all’impossibilità di misurare la velocità della Terra rispetto allo standard di riposo assoluto o etere. Michelson e Morley, i due americani che avevano realizzato gli esperimenti, non avevano osservato, infatti, alcuna variazione della velocità del raggio luminoso proveniente da una stella tra quando la Terra si avvicina o si allontana dalla stella. La misura è talmente raffinata che il risultato si può ritenere sperimentalmente certo. Ma questo risultato getta nella costernazione i fisici. Michelson stesso confessa che se avesse potuto prevedere questo risultato non avrebbe mai tentato la misura. Con l’esperimento di Michelson e Morley la comunità dei fisici è posta davanti alla natura paradossale della luce quale risulta dall’insieme delle teorie fisiche accettate. L’impossibilità di osservare il vento d’etere provocato dal movimento della Terra pone un dubbio legittimo sull’esistenza stessa dell’etere, e quindi sulla teoria dell’onda luminosa, perché un’onda abbisogna sempre di un mezzo in cui propagarsi. D’altro canto buttare alle ortiche la teoria delle onde elettromagnetiche sembrava (e lo era) un po’ suicida dal momento che essa aveva permesso di unificare la spiegazione dei fenomeni elettrici conosciuti e, sopratutto, scoprire una qualità nascosta del reale, le onde hertziane, fenomeno fisico di cui nessuno aveva mai sospettato l’esistenza. Nel dibattito tra i fisici le diverse posizioni erano tutte riferite a un solo dilemma: abbandonare l’etere come un pregiudizio metafisico rinunciando così alla sola teoria scientifica-tecnica della luce; tenere l’etere come sostanza non- 2
osservabile in principio abbandonando il carattere sperimentale, propriamente moderno, della fisica di Galileo e di Newton. Del resto un’interpretazione dell’esperimento Michelson-Morley in termini tolemaici è assolutamente legittima: l’immobilità assoluta della Terra nell’etere spiega perfettamente il risultato negativo della misura4. La genialità di Einstein consiste nell’aver compreso che il dilemma dell’etere non riguardava, come pure sembrava, la natura della luce ma piuttosto la definizione del tempo. Ciò che bisognava decidere nella comunità scientifica non era un giudizio di verità su un fatto fisico ma un giudizio d’opportunità su una convenzione semantica. Così, secondo Einstein, una nuova definizione di tempo permette di sfuggire al dilemma dell’etere, permette cioè di abbandonare l’etere senza rinunciare alla teoria dell’onda luminosa. Una nuova definizione del tempo opportunamente scelta permette una definizione di velocità della luce senza alcun bisogno di un mezzo materiale o etere attraverso cui propagarsi; la luce infatti, come risulta dalla nuova definizione, non si propaga più, essa è propriamente immobile. Il contributo scientifico di Einstein è questa pura critica dei concetti di tempo e di luce. Concetti esaminati per così dire con carta e matita, nell’autonomia del pensare, senza alcuna dipendenza da ulteriori informazioni di origine sperimentale. Concetti trattati come cose da smontare per trovarne l’articolazione. Con Einstein entra nella fisica un altro significato della parola tempo e quindi un altro modo di ragionare, un’altra mentalità temporale. Ciò si è svolto non senza dolori, perchè era la prima volta, nell’epoca moderna, che il tempo uniforme e continuo di Newton, ritenuto assoluto da scienziati e profani per più di due secoli, si rivelava essere un’ipotesi senza fondamento empirico. Il punto dal quale parte la critica di Einstein è la decomposizione del tempo in due tempi epistemologicamente distinti: il tempo locale, cioè il tempo degli eventi che avvengono attorno a noi, che sono sotto i nostri occhi, e il tempo non-locale, cioè la datazione degli eventi lontani, dell’esistenza dei quali ci accorgiamo solo quando ne riceviamo notizia, quando per così dire un messaggero ci informa; come per esempio accade quando di notte osservando il cielo ci accorgiamo che è nata una nuova stella. La luce ci informa sugli eventi distanti, messaggero veloce quanti altri mai, essa colpisce i nostri occhi dopo che l’evento astrale è accaduto. La distinzione tra tempo locale e tempo non-locale è una distinzione epistemologica. Il primo è un’operazione di misura, la lettura dell’orologio in simultaneità con l’accadere dell’evento; il secondo è una coordinata, cioè un valore numerico che si ottiene correggendo il tempo dell’orologio secondo un fattore che tiene conto della distanza dell’evento dall’orologio nonché della velocità con la quale la luce emessa dall’evento compie il suo viaggio verso l’orologio. Per Einstein datare un evento ha due significati secondo che l’evento sia locale o non-locale; e ciò con ragione perché la lettura di un orologio e il tempo assegnato per calcolo a questa lettura sono due concetti distinti: il primo è una misura sperimentale; il secondo un valore convenzionale che dipende dal mezzo di comunicazione che lega l’osservatore all’evento distante. Secondo Einstein il tempo locale, possedendo un qualche orologio, è ben definito attraverso la lettura dell’orologio; il tempo a distanza invece, il tempo al quale accade un evento distante non è automaticamente definito dalla lettura dell’orologio. Esso è propriamente senza definizione, constata Einstein, tanto tra i fisici quanto nel senso comune. Il giovane Albert si cimenta attorno alla 3
difficoltà di definire la simultaneità a distanza. E nel 1905 pubblica un corto scritto5 in cui offre la sua definizione di tempo a distanza, una definizione straordinariamente semplice. Due eventi tra loro non-locali sono simultanei se e solamente se i due raggi di luce emessi al loro accadere raggiungono simultaneamente l’occhio di un osservatore posto a metà della loro distanza. È questa una definizione semplice e adeguata; semplice perchè riconduce dal concetto di tempo a distanza al concetto chiaro di tempo locale; adeguata perché fornisce un criterio empirico per decidere, ogni volta che l’occasione si presenta, se c’è o non c’è la simultaneità a distanza. Su questa definizione di simultaneità a distanza riposa tutta la teoria della relatività, cioè la concezione del tempo come grandezza fisica che dipende dal movimento relativo degli orologi che lo misurano, la concezione del tempo relativo. Perfino gli esiti paradossali della teoria, volgarizzati nella letteratura fantascientifica come la previsione di un rallentamento del tempo biologico per un astronauta che viaggia ad una velocità prossima a quella della luce, si fondano su quella semplice definizione di simultaneità a distanza. Il piccolo Albert, cavalcando nel sogno un raggio luminoso aveva guardato il mondo con gli occhi della luce e l’aveva visto chiaro e senza tempo. 3. Convenzione semantica ed osservazione nella relatività einsteniana Einstein non ha scoperto il vero tempo, piuttosto,dopo aver constatato la natura linguistica del concetto di tempo a distanza, ha esplicitato una definizione operativa che da al concetto la forma di una grandezza fisica. Questa definizione si articola in due passaggi: prima si definisce arbitrariamente il concetto di simultaneità tra due eventi non-locali; dopo si definisce, con l’ausilio delle leggi fisiche, un tempo relativo all’osservatore in moto uniforme. La relatività del tempo si fonda sulla natura propriamente convenzionale, linguistica, del concetto di simultaneità a distanza6. La vera scoperta di Einstein è una scoperta sul linguaggio umano, sul carattere irriducibilmente semantico della temporalità. Vediamo la cosa più da vicino. Quando Einstein afferma che la definizione di simultaneità è una convenzione liberamente scelta vuol dire che la simultaneità a distanza non è osservabile in principio, non può essere conosciuta attraverso l’esperienza. Essa non è un fatto fisico, una qualche proprietà della natura, ma un nome come Dio o i numeri; possiamo liberamente sceglierla proprio perché essa non ci dice nulla delle qualità del mondo, piuttosto ci parla del modo linguistico di rappresentare il mondo, ci parla delle proprietà del linguaggio. Nella definizione di simultaneità suggerita da Einstein, la natura propriamente linguistica del concetto risulta particolarmente evidente. La possibilità di misurare la simultaneità a distanza con i raggi di luce, implica che la velocità dei raggi sia misurabile e ovunque costante. Ma per misurare la velocità dei raggi di luce, occorre conoscere la simultaneità a distanza. Nell’analisi einsteniana il tempo di un evento a distanza si rivela un concetto legato circolarmente al concetto di velocità del messaggio che informa sull’evento. La simultaneità a distanza così come la velocità istantanea non sono quindi conoscibili in linea di principio. Essi sono dei concetti che legano altri concetti, dei concetti relazionali. Proprio perché in sé indefiniti, proprio 4
perché non rappresentano dei fatti di natura, c’è un irriducibile elemento di scelta nella loro definizione. In questo senso sono concetti originari, hanno la loro origine in sé tessi, sono autoreferenziali7. La teoria della relatività si costituisce quindi a partire dall’impossibilità di principio di misurare la velocità della luce e sulla conseguente possibilità di assegnarle un valore numerico arbitrario. Nella relatività la velocità della luce è fissata per definizione. Variando la definizione variano gli eventi possibili a distanza che però restano inosservabili; e per quanto riguarda i fenomeni locali o osservabili tutto avviene come prima salvo la spiegazione cioè la relazione di causalità tra i fenomeni osservati . Vale la pena sottolineare che, secondo Einstein, questa definizione arbitraria della velocità della luce è del tutto indifferente alla natura fisica della luce8. La luce resta misteriosa nella relatività come nella fisica classica. La differenza sta nella circostanza che la seconda s’illude di poterne misurare la velocità; laddove la relatività fa dell’inconoscibilità della velocità della luce un principio di conoscenza della natura. Insomma, nella fisica relativista, il mistero della luce gioca lo stesso ruolo che il mistero dell’etere nella fisica prerelativistica. La differenza sta nella circostanza che la relatività ammette il carattere convenzionale, propriamente linguistico del concetto di velocità della luce ed usa questo limite come l’occasione di una libertà, la libertà di darne un’adeguata definizione. A ben guardare, la genialità di Einstein è in quel suo riflettere sul linguaggio, sui limiti della conoscenza linguistica della natura. Perché conoscere i limiti del linguaggio vuol dire possedere pienamente il linguaggio, sapere ciò che si può e ciò che non si può dire sulla natura. I limiti del linguaggio che la fisica adopera c’informano sul legame tra la coscienza linguistica e la natura. Il tempo a distanza, il prima ed il dopo per gli eventi non locali, non sono misure fisiche ma accordi convenzionali. Einstein ha scoperto che la velocità della luce non è il risultato di una misura ma una scelta che caratterizza il linguaggio che scegliamo per descrivere i fenomeni luminosi. Dal momento che la luce è il messaggero più veloce, il valore numerico della sua velocità non può essere determinato attraverso un esperimento fisico. Esso è arbitrariamente fissato. Un’altra scelta del valore della velocità della luce comporta un’altra definizione del tempo a distanza. Tutti i valori della velocità della luce sono a priori compatibili con i risultati degli esperimenti fisici perché la variazione della velocità della luce ha conseguenze fisiche solo sugli eventi distanti, non locali ed un esperimento fisico ha sempre luogo tra eventi locali. La relatività definisce arbitrariamente il tempo a distanza a partire dal tempo locale. L’esistenza di un tempo locale, cioè degli orologi, è un presupposto fisico su cui la teoria non si interroga. Nella fisica classica il tempo di un evento distante ha un valore unico, indipendente dalla posizione e dalla velocità dell’osservatore. Ogni unità temporale, ogni secondo corrisponde ad uno ed uno solo stato dell’universo. Ora significa ora non solo qui ma dovunque nell’universo. La fisica classica, pur senza porsi la questione di come misurare il tempo a distanza, si fonda sulla certezza dell’esistenza di un solo tempo nell’universo, sicché c'è identità tra tempo locale e tempo non-locale. Il fluire uniforme del tempo è una proprietà universale del cosmo. Nella fisica relativistica, il tempo a distanza che è simultaneo con il momento presente di un osservatore dipende dalle velocità dell’osservatore. Così due osservatori in moto relativo tra loro possono, in certe condizioni, datare due 5
eventi in ordine invertito. Il “prima” e il “dopo” tra eventi distanti non è più una relazione assoluta propria agli eventi, bensì una relazione tra gli eventi e il moto dell’osservatore. Il tempo al quale accade un evento distante diviene un concetto via via più indefinito al crescere della distanza, sicché il tempo a distanza è intimamente associato alla distanza spaziale degli eventi. Nella teoria della relatività non solo il tempo ma anche la distanza di un evento non-locale muta al mutare del movimento dell’osservatore. Tuttavia il cambiamento del tempo è legato al cambiamento della distanza spaziale in modo tale che un’opportuna somma dei due cambiamenti ha un valore che è assoluto, indipendente dal movimento dell’osservatore. Questa particolare somma di distanze e di tempi è chiamata, nella fisica relativistica, posizione dell’evento nello spazio-tempo. Questa rappresentazione spazio-temporale degli eventi distanti è, a sua volta, all’origine dell’illusione secondo la quale il tempo e lo spazio non sono che aspetti di una realtà naturale più complessa costituita dalla loro opportuna unione: lo spazio-tempo. 4. Il tempo questa illusione della coscienza La teoria della relatività non ha niente da dire sul tempo locale, sugli orologi, siano essi macchine o esseri viventi9. Il significato della parola tempo come esperienza vissuta, come tempo locale, come giudizio sul “prima” e sul “dopo”, non è l’oggetto della teoria ma un suo presupposto epistemologico. La teoria presuppone che esista l’orologio e che il suo funzionamento sia localmente perfetto. L’orologio fissa l’ordine temporale degli avvenimenti locali, indipendentemente dalla percezione del “prima” e del “poi” da parte dell’osservatore. L’orologio testimonia con la sua nuda esistenza che l’ordine delle percezioni personali degli eventi è inaffidabile, non è un ordine comune. Così la relazione temporale tra due fenomeni istituita dall’osservatore per via acustica può essere diversa e perfino contraria di quella istituita per via oculare dallo stesso osservatore. L’orologio quindi definisce un “prima” e un “dopo”comune a tutti gli osservatori che lo impiegano. La teoria della relatività non si occupa dello statuto epistemologico dell’orologio, non si interroga sulla natura illusoria o non illusoria dell’ordine temporale definito, localmente, dall’orologio. Essa si interroga solo sullo statuto epistemologico del tempo a distanza, cioè sul giudizio del “prima” e del “dopo” di eventi distanti; e conclude che, in questo caso, la relazione temporale è illusoria nel senso che il significato del “prima” e del “dopo” non è autoevidente ma richiede una definizione semantica senza alcuna corrispondenza empirica. Sicché datare un evento distante è arbitrario quanto dare dei nomi alle stelle, o dividere il mondo tra destra e sinistra. Il tempo a distanza è una convenzione semantica, un comune significato attribuito per convenzione linguistica e solo per convenzione linguistica, al “prima” e al “dopo”. Così la relatività ci informa sui limiti della parola “tempo”, sulla natura propriamente linguistica di questo concetto e, in conseguenza, sulla scelta assolutamente libera che compiamo quando decidiamo di dare un significato non-locale al “prima” ed al “dopo”. La relatività scopre che datare gli eventi lontani è un artificio umano a cui non corrisponde alcuna qualità fisica degli eventi stessi. Ed è proprio l’indifferenza della natura al tempo che permette una molteplicità di convenzioni temporali che dona una pluralità di significati al concetto di tempo. 6
Insomma la relatività mostra che tutte le definizioni possibili di tempo a distanza sono fisicamente equivalenti il che vuol dire, appunto, che il tempo ha il suo fondamento nell’accordo umano e non nella natura. Nei manuali universitari come nella letteratura di volgarizzazione, la teoria della relatività è presentata come una teoria che riposa su fatti sperimentali, su misure. La contrazione del tempo per esempio è considerata non un’ipotesi di calcolo ma un fenomeno osservabile, qualche volta addirittura misurabile. Questa interpretazione della relatività è erronea secondo l’opinione dello stesso artefice della teoria, secondo Albert Einstein. Infatti una definizione non è una misura. Una definizione non può essere provata o smentita dall’esperienza perché essa non rappresenta alcun fenomeno osservabile, bensì una relazione concettuale tra i fenomeni. In altri termini il tempo relativo è una relazione tra i fenomeni elettromagnetici così come sono descritti dalla teoria elettromagnetica di Maxwell-Lorentz. Sicché questa definizione è adeguata per tutti e soli quei fenomeni previsti dall’unica teoria che possediamo per costruire artificialmente fenomeni elettromagnetici, la teoria di Maxwell-Lorentz. Così se contrariamente a quanto la relatività suppone scoprissimo sulla Terra l’esistenza di messaggeri più veloci della luce, la definizione di tempo relativo data attraverso il raggio luminoso non sarebbe per questo “falsa”. Una definizione convenzionale non è né vera né falsa. Essa è adeguata o inadeguata. La definizione del tempo relativo attraverso la luce è adeguata ai fenomeni elettromagnetici, e questa adeguazione resta tale anche se, per avventura, scoprissimo che ci sono segnali superluminosi nel cosmo per i quali essa è logicamente inadeguata. Così la teoria della relatività come tutte le teorie del tempo fisico, si sottrae all’esperienza nel senso che la definizione del tempo è una precondizione dell’esperienza. In qualche modo la relatività ha costruito un concetto di tempo adeguato ai fenomeni elettromagnetici e questo concetto sarà sempre adeguato ai fenomeni elettromagnetici indipendentemente dalle future scoperte, perché il tempo relativo è la scelta dell’onda elettromagnetica come orologio, e questa scelta è sempre possibile, anche quando per avventura, si scoprisse un messaggero più veloce della luce. D’altro canto il tempo relativo di Einstein non è più vero che il tempo assoluto di Newton. La luce non batte meglio il tempo che il pendolo: si tratta solo di due orologi diversi che definiscono quindi tempi diversi. Insomma: la rivoluzione relativistica, cioè la modificazione del concetto di tempo non consiste tanto nella definizione del tempo attraverso la luce, quanto nella scoperta linguistica che il tempo può essere arbitrariamente definito. Einstein ci ha liberati dal feticismo del tempo, cioè ci ha restituito la libertà di formare il concetto di tempo, d’inventare altri orologi o anche di dimenticare gli orologi e il tempo. A guisa di conclusione, ci piace citare, a conforto della nostra tesi, le parole con cui il vecchio Albert chiude una lettera di condoglianze in occasione della morte di un amico, il fisico Michele Besso. Scrive Einstein: “Michele ha lasciato prima di me questo mondo misterioso. Ma ciò è senza alcuna importanza. Per noi che crediamo nella fisica, la distinzione tra passato, presente e futuro è solo un’illusione della coscienza, anche se tenace.”10. 7
Note. 1. A. Einstein, “Autobiographical Notes” in Albert Einstein: Philosopher- Scientist v.7, The Library of Living Philosophers, ed. Paul Schilp, Evaston,1949, p.81. 2. Bisogna distinguere tra velocità media della luce in un viaggio di andata e ritorno del raggio luminoso, e velocità della luce lungo una direzione. La prima velocità è una misura empirica, un’ipotesi fattuale. La costanza della velocità media della luce è stabilita tramite misure. Essa è osservabile, il suo valore è circa trecentomila chilometri al secondo. Al contrario la velocità della luce lungo una direzione non è una grandezza misurabile, il suo valore è indefinito. Sicché l’uguaglianza tra velocità e velocità media è una definizione e non una proprietà della luce: una definizione senza alcun fondamento empirico. 3. Bernard Maitte, “La Lumière”, Seuil, 1991, pp.273-298. Una ricostruzione tecnicamente rigorosa di questa discussione appassionata si trova in “The Voices of Time”, ed. J.J.Fraser, The University of Mass. Press Amherst, 1981, pp. 417-472. Il dibattito sulla natura della luce è molto antico, risale alla fisica ionica. Nell’epoca moderna si è cristallizzato nell’alternativa tra la teoria corpuscolare di Newton – la luce in grani – e la teoria vibratoria di Huygens – la luce come onda che attraversa l’etere. Per etere luminoso s’intende una sostanza fisica che è dappertutto nell’Universo anche la dove non c'è apparentemente niente. L’etere si presenta come un riferimento naturale per i movimenti di tutti i corpi dell’universo, ivi compreso il nostro pianeta, la Terra. Le due teorie della luce hanno rivaleggiato tra loro per più di un secolo fino a che un esperimento cruciale realizzato da Fizeau nel 1349 esclude la teoria corpuscolare dalla comunità scientifica. L’esperimento di Fizeau mostra che la velocità della luce è inversamente proporzionale all’indice di rifrazione del mezzo attraversato, secondo le previsioni della teoria vibratoria e contro l’autorità di Newton. All’inizio del secolo trascorso Thomas Young, assertore convinto della teoria ondulatoria, sollevò la questione della velocità relativa della Terra rispetto all’etere luminoso. Nel 1818, a Parigi, Arago progetta una misura della velocità della Terra rispetto all’etere tramite una misura ottica, una misura di rifrazione della luce. Infatti secondo la teoria, l’indice di rifrazione di un mezzo dipende dalla velocità della luce nel mezzo; sicché un confronto tra la rifrazione della luce stellare quando la Terra viaggia verso la stella e la rifrazione quando la Terra si allontana dalla stella permette di risalire alla velocità della Terra rispetto all’etere. Il risultato dell’esperimento fu negativo: la rifrazione è la stessa nei due casi. Augustin Fresnel, un altro partigiano della teoria ondulatoria della luce, elaborò una nuova teoria dell’etere capace di spiegare il risultato negativo dell’esperimento d’Arago. Fresnel suppone che la capacità di rifrazione di un corpo dipende dalla concentrazione d’etere presente nel corpo. Egli postula inoltre il “vento d’etere”: un corpo che si muove nell’etere trascina con sé una parte dell’etere che lo circonda. 8
Questi due postulati trattati secondo la matematica ondulatoria, permettono a Fresnel di calcolare una formula per cui gli effetti del primo ordine (nel rapporto tra velocità del corpo e velocità della luce rispetto all’etere) si annullano vicendevolmente. Il vento d’etere, per Fresnel, esiste ma i suoi effetti sono tali almeno al primo ordine di grandezza da nasconderne la presenza. Il risultato negativo di Arago è quindi spiegato. La teoria dell’etere di Fresnel ha l’andamento claudicante di tutte le ipotesi ad hoc: essa spiega l’impossibilità di osservare gli effetti di una causa di cui si postula la presenza. Nel 1845 sir G.G. Stokes propose una modificazione del postulato del vento d’etere di Fresnel che comporta effetti del secondo ordine diversi da quelli previsti dalla formula di Fresnel. Dal 1871 al 1887 Michelson, un fisico nordamericano, il primo dopo Franklin, costruisce una serie di apparecchi chiamati interferometri tali da permettere l’osservazione di variazioni del secondo ordine nel rapporto tra velocità orbitale della Terra e velocità siderale della luce. Michelson intende realizzare gli esperimenti proprio per decidere tra le due teorie dell’etere rivali, quella di Fresnel e quella di Stokes. Nel corso di sedici anni Michelson migliora la precisione dei suoi interferometri, fino a costruire, insieme al suo compatriota Morley, nel 1884 uno strumento che è un capolavoro della tecnica ottica. Tutte le misure di Michelson, solo o con Morley, danno esito negativo: non vi sono effetti del secondo ordine: non v’è alcuna variazione apparente della velocità della luce stellare quando la Terra s’avvicina o s’allontana dalla stella. Particolare patetico: Michelson credeva all’etere di Stokes. 4. La discussione è molto vivace; le interpretazioni dell’esperienza si moltiplicano. Michelson immagina che tutto l’etere sia trascinato dalla Terra. Altri suggerisce l’immobilità della Terra nell’etere. Tre sono tuttavia le interpretazioni che all’inizio del nostro secolo polarizzano il dibattito: la teoria della contrazione di Lorentz, la teoria della relatività di Einstein e la teoria di Ritz. Lorentz spiega il risultato negativo di Michelson con la contrazione delle distanze nel senso del movimento. Lorentz elabora un’ipotesi ad hoc, analoga a quella suggerita da Fresnel per spiegare un altro risultato negativo, l’esperimento di Arago. Tanto Lorentz che Fresnel messi di fronte alle contraddizioni tra previsioni e misure, scelgono le previsioni cioè la teoria e affermano che sono gli strumenti che sbagliano. Infatti, l’ipotesi di Lorentz di una generale contrazione delle distanze se spiega l’esperimento di Michelson implica tuttavia che questa contrazione pur rigorosamente calcolata non è osservabile dal momento che anche gli strumenti di misura si contraggono nella stessa proporzione; e questo equivale ad affermare l’esistenza dell’etere attraverso l’impossibilità di osservarlo. Insomma, per Lorentz, l’etere c'è e la prova sta nel fatto che si nasconde. Oltre la relatività einsteniana, una terza interpretazione delle misura di Michelson domina il dibattito. È il postulato della costanza della velocità della luce non già rispetto all’etere ma rispetto all’ultima sorgente che l’ha emessa. Si tratta del postulato di Ritz, detto anche ipotesi balistica sulla natura della luce. Secondo Ritz infatti la luce partecipa della velocità 9
della sorgente che la emette così come fa un proiettile con il moto della pistola che lo spara. Il postulato di Ritz permette una spiegazione particolarmente semplice e intuitiva dell’esperimento di Michelson. Esso tuttavia comporta il rifiuto della teoria elettromagnetica di Maxwell- Lorentz; in questa teoria infatti è necessario che la velocità della luce dipenda solo dallo stato dell’etere e non dal movimento della sorgente. Il postulato di Ritz apre quindi la delicata questione di una teoria elettromagnetica diversa dalla teoria corrente. Alla costruzione di una simile teoria lavorava Ritz quando una morte, forse opportuna, lo sorprese. 5. L'articolo originale fu pubblicato il 30 giugno del 1905, l’anno della prima rivoluzione russa, nella rivista tedesca Annalen der Physic, v.17. la traduzione inglese si può leggere in “The Principle of relativity”, Donver Pub., New York, p.40. Il primo paragrafo di questo articolo porta il titolo significativo: Definition of Simultaneity. Esso inizia con la questione preliminare, quella di sincronizzare tutti gli orologi fermi rispetto all’osservatore e sparsi un po’ dovunque nel sistema di riferimento. Questo problema deve essere risolto prima di trattare gli effetti propriamente relativistici, gli effetti cioè che si verificano in conseguenza del moto relativo di due o più osservatori tutti attrezzati con copie identiche dello stesso orologio. Il metodo di sincronizzazione proposto da Einstein è il seguente: dati due orologi collocati in due luoghi A e B tra di loro assai distanti “we establish by definition that the time requires to travel from B to A.” particolare rivelatore del testo originale l’espressione “by definition” è in italico. Ora se un raggio luminoso emesso da A verso B viene riflesso da uno specchio in B verso A, l’orologio in a può misurare la durata totale del viaggio d’andata e ritorno del raggio luminoso. Posto T1 il tempo al quale il raggio parte da A e t2 il tempo al quale ritorna in A allora, continua Einstein, “in agreement with experience we further assume the quantity: 2AB/t2-t1=C to be a universal constant – the velocità of light in empty space.” Così, nel primo paragrafo dell’articolo del 1905 Einstein annuncia non uno ma due principi. Il secondo principio è un’ipotesi fattuale. Se confermato dall’esperienza, descrive un fatto di natura e cioè che la velocità media della luce è costante lungo un tragitto di andata e ritorno. Si tratta di un principio empirico che può essere verificato o falsificato attraverso la misura. È possibile infatti misurare la velocità media della luce. Il primo principio al contrario non è un’ipotesi empirica ma una definizione. In alcun modo esso rappresenta un fatto di natura, un comportamento della luce perché la velocità della luce lungo una direzione non è misurabile in principio, essa come fatto di natura non esiste. In molte presentazioni anche universitarie della teoria della relatività i due principi sono fusi insieme sotto il nome di “principio della costanza della velocità della luce”. È infatti evidente che i due principi insieme implicano che la velocità della luce lungo una direzione sia una costante di valore c. I due principi hanno tuttavia uno statuto epistemologico diverso. Il primo è una convenzione linguistica, il secondo un fatto. Questa diversità, pur 10
così importante, scompare quando i due principi sono fusi nell’enunciato della costanza della velocità della luce. 6. In una lezione data nel 1921 a Princeton Einstein diceva: “The theory of relativity is often criticized for giving, without justification, a central theoretical role to the propagation of light, in that it founds the concept of time upon the law of propagation of light. The situation, however, is somewhat as follows. In order to give physical significance to the concept of time processes of some kind are required which enable relations to be established between different places. It is immaterial what kind of processes one chooses for such a definition of time. It is advantageous however for the theory, to choose only those processes concerning which we know something certain. This holds for the propagation of light in vacuo in a higher degree than for any other process which could be considered, thanks to the investigations of Maxwell and H.A.Lorentz” in The Meaning of Relativity, Donver, New York, 1955, p.28. 7. Stabilire la simultaneità tra eventi distanti equivale a sincronizzare due orologi distanti, dal momento che due orologi sono sincronizzati quando segnano simultaneamente lo stesso tempo. Cfr. H. Reichenbach, Philosophy of Space and Time, Denver Pub., 1957, New York, pp.125-127. 8. Cfr. A. Einstein, La theorie de la relativité restreinte et générale, trade par M. Solovine, Gauthiers-Villars Editeur, Paris, 1971, pp. 24-27. 9. Einstein ritiene che per misurare il tempo dobbiamo scegliere un qualche movimento empirico (la rotazione della Terra, la propagazione della luce, ecc.) proprio perché una costruzione teorica dell’orologio è impossibile. Cfr. A. Einstein, Sidelines on Relativity, Methuen, London, 1923, p.36. 10. Cfr. Correspondance Albert Einstein-Michele Besso, 1903-1955, Hermann, Paris, 1972. A proposito dell’opinione che Einstein nutriva sul tempo vedi anche il commento di Einstein al saggio di Kurt Godel sull’interpretazione parmenidea dello spazio-tempo relativistico. Cfr. K.Godel, “A Remark, about Relationship between Relativity Theory and Idealistic Philosophy” in Albert Einstein, Philosopher-Scientist, op. cit. p.557: A.Einstein “Remarks Concerning the essays Brought Together in this Cooperative Volume”, in op. cit. p.687. 11
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