Il segreto della longevità di Janine KIEVITS
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Il segreto della longevità di Janine KIEVITS «Le nostre api invecchiano? La questione, a priori, sembra assurda. Così tanti pericoli attendono le bottinatrici, ch’esse non hanno di certo il tempo di incanutire nel mestiere! Tuttavia, non tutte le api muoiono di morte violenta, ma muoiono ciononostante; e la loro aspettativa di vita è limitata dalla degradazione progressiva delle proprie funzioni vitali. Le api in effetti invecchiano, e i processi di senescenza che sono loro propri costituiscono l’oggetto di studi di grande interesse per i gerontologi. Questi studi dovrebbero interessare anche noi apicoltori, poiché la durata di vita delle api condiziona largamente lo sviluppo delle nostre colonie». Dal punto di vista dell’esperienza di vita, l’ape presenta una propria singolarità che la rende un ottimo oggetto di studio. Non solamente la regina vive ben più a lungo delle operaie, ma all’interno della stessa casta delle operaie esiste una differenza considerevole tra le api dell’estate, la cui vita non supera di molto un mese, e le api che passano l’inverno e che vivono allegramente sette o otto mesi. È comprensibile che tutto ciò abbia posto delle domande al mondo scientifico. La prima ipotesi che viene alla mente e che i ricercatori non hanno mancato di indagare, concerne l’attività di bottinamento. In effetti, le api invernali ne sono private, essendo confinate nelle arnie nella formazione del glomere. Le sperimentazioni confermano questa ipotesi. Marcando le api, è possibile determinare esattamente per ciascuna di esse l’età di bottinamento e quella della morte. E le due sono strettamente correlate: le api che precocemente intraprendono i voli muoiono altrettanto precocemente; la durata di vita delle api è intimamente legata al periodo dei primi voli di raccolta (Neukirch 1982). Il medesimo studio ha analizzato il metabolismo degli zuccheri marcati con il 4C1 nell’organismo delle bottinatrici di tutte le età. Risulta che l’organismo delle giovani bottinatrici utilizza lo zucchero per costituire delle riserve energetiche, sotto forma di glicogeno, a livello dei muscoli del volo. Questa attitudine è fortemente ridotta nelle api vecchie. Costoro consumano dunque le proprie riserve muscolari che l’alimentazione zuccherina non basta a ricostituire; e una volta che il glicogeno è esaurito non possono più riprendere il volo e muoiono. Nello studio in questione, questa morte per sfinimento sopravviene all’incirca dopo 800 km di volo (ibid.). 1 4 Il C, o carbonio 14, è un atomo di carbonio leggermente radioattivo. La maggior parte delle sostanze organiche, che compongono gli esseri viventi, contengono del carbonio. Fornendo degli alimenti contrassegnati da questo tipo di carbonio, o iniettando a degli animali delle sostanze così marcate, è possibile seguirne lo sviluppo nell’organismo, così come è stato fatto in questo studio e in un altro che verrà citato più avanti nel nostro articolo.
Quando l’ape diventa bottinatrice… Tuttavia la riserva energetica non spiega tutto. Le api che diventano bottinatrici in tarda età vivono più a lungo di quelle che iniziano più precocemente, e questo indipendentemente dal numero di voli che effettuano. L’aspettativa di vita non è quindi legata unicamente alla riserva energetica di volo più di quanto non lo sia ai pericoli che il bottinamento comporta: le api che si sviluppano più velocemente invecchiano altrettanto velocemente (Guzmán-Novoa 1994 in Page & Peng 2001). In un tale schema la durata della vita totale di un’ape è dunque direttamente collegata al periodo che trascorre nell’arnia. Di fatto, un’ape nata in estate può vivere 130 giorni se si mantiene costantemente sui favi di covata in un’arnia in cui viene costantemente prelevata la covata opercolata, evitando l’emergere di giovani api (Haydak 1963 in Amdam et al. 2004) e ritardando l’inizio di attività delle bottinatrici. La durata di vita delle api all’interno dell’arnia non è ciononostante illimitata! Anche in assenza dell’attività di bottinamento, le nostre api invecchiano: con il tempo, esse diventano meno resistenti ai differenti stress, come ad esempio una temperatura troppo elevata, la fame o ancora lo stress ossidativo2, cambiamenti questi che presso gli insetti sono segni di invecchiamento (Remolina et al. 2007). Ma in condizioni normali questo invecchiamento non costituisce il fattore limitante della longevità; e chiaramente la storia della vita della nostra ape cambia il giorno in cui inizia a bottinare. L’inizio del bottinamento segna un profondo cambiamento, sia nel comportamento dell’ape che nella sua fisiologia. Uno degli ormoni essenziali degli insetti, l’ormone giovanile (neotenina), non viene che debolmente prodotto nelle api che svolgono attività all’interno dell’arnia, ma la sua produzione aumenta in modo folgorante presso le bottinatrici. Anche il sistema immunitario viene profondamente modificato. Per lottare contro i germi patogeni, la giovane ape dispone, grosso modo, di due strumenti: di proteine del sangue e di cellule specializzate, anche in questo caso ematiche, che possiamo equiparare ai globuli bianchi3. Allorché le api diventano bottinatrici, queste cellule ematiche immunitarie muoiono rapidamente. Si tratta di un processo naturale che comporta il risparmio delle risorse naturali della colonia evitando che nelle bottinatrici, che presumibilmente non vivranno a lungo, vi sia un costoso mantenimento di questa forma d’immunità (Amdam et al. 2005). Oltre a questi mutamenti fisiologici, l’ape evolve anche sul piano cognitivo. Nella testolina di una giovane bottinatrice determinati centri cerebrali si sviluppano contemporaneamente all’accrescimento della sua capacità di raccolta: è questa la 2 Vedi appendice 1. 3 Cfr. l’appendice alla pag. 559 di LSA n° 252 novembre-dicembre 2012.
conseguenza dell’apprendistato intensivo che è necessario si realizzi affinché l’ape sia capace di ritrovare nello spazio e memorizzare le fonti alimentari che visita. Ma con il tempo la nostra bottinatrice va perdendo alcune facoltà. Uno studio basato sul riflesso di estensione della ligula4 ha mostrato che un’anziana bottinatrice impiega più tempo ad acquisire la memoria di un odore floreale rispetto ad una giovane; al contrario, però, l’anziana riconosce in modo più preciso gli odori (Behrends et al. 2007). Il bottinamento conduce quindi immancabilmente l’ape alla sua fine, benché una proroga sia possibile: ciò è collegato a quel che viene chiamata reversione, processo attraverso il quale una bottinatrice può ridivenire nutrice. È possibile imporre sperimentalmente la reversione alle api: da una colonia normale, estraiamo due telai di covata non opercolata e la regina che andiamo ad inserire in una nuova arnia, insieme ad altri favi di cera lavorati. Questa nuova arnia prenderà il posto dell’arnia d’origine, la quale viene posizionata al di sopra della nuova, con l’ingresso rivolto verso il lato posteriore. Le due arnie sono separate tra di loro da una griglia che lascia passare gli odori ma non le api. Le nutrici si troverebbero pertanto nella cassa superiore, mentre tutte le bottinatrici rientrerebbero nell’arnia inferiore dove si trova la covata non opercolata e la regina. A quel punto, le bottinatrici sarebbero le uniche operaie poste dinnanzi ad una covata fresca da accudire. Tra di loro, alcune riprenderebbero allora biberon e bavaglini e ritornerebbero al loro vecchio mestiere di nutrici. E ne sarebbero ricompensate. Dagli studi condotti su due gruppi di api di età nota, si evince che le bottinatrici ridivenute nutrici ritrovano con i loro antichi lavori una autentica giovinezza. Le ghiandole ipofaringee riprendono il volume che avevano perduto; il tasso di ormone giovanile cala e, contemporaneamente, le cellule immunitarie, che abbiamo visto spariscono nelle bottinatrici, riappaiono (Amdam et al. 2005). E di più ancora, queste api ringiovanite mantengono, almeno parzialmente, le proprie competenze legate alla memoria: le loro performances al test del riflesso di estensione della ligula sono nettamente migliori di quelle delle sorelle della stessa età rimaste bottinatrici (Baker et al. 2012). La pista delle proteine Come spiegare questo stato di cose? Il mestiere di nutrice sarebbe per le nostre api una garanzia di vita se non eterna almeno abbondantemente 4 L’ape a cui abbiamo fornito dello zucchero mentre veniva le veniva offerto anche un odore corrispondente, continua in seguito ad estendere la ligula quando avverte questo odoro, anche nel caso in cui non venga più fornito lo zucchero. Questo riflesso, sovente designato con il suo acronimo inglese (PER Proboscis Extension Reflex), viene utilizzato in numerose ricerche per misurare la capacità di memorizzazione di un odore da parte dell’ape. Dei brevi filmanti, che mostrano il funzionamento, sono visibili su YouTube (inserire nel motore di ricerca YouTube Proboscis Extension Reflex).
prolungata? Assolutamente no. Al contrario, il fatto di avere più larve da allevare contribuisce ad accorciare la vita delle api. Uno studio (Adam et al. 2009) ha confrontato l’aspettativa di vita di api che vivevano sia in colonie con covata, sia in colonie in cui la covata veniva prelevata mano a mano, in modo commisurato alla deposizione. In queste ultime, in cui le nutrici non avevano alcuna larva da allevare, le operai sono diventate bottinatrici più in ritardo rispetto alle prime; e come corollario sono vissute più a lungo. La differenza non è grande (si tratta in media di un solo giorno) ma è significativa; così come colpisce il fatto che il dilazionamento supplementare precedente l’attività di bottinamento, nelle arnie prive di covata, è equivalente ad un aumento della durata della vita, dato questo che corrobora una constatazione già fatta in precedenza: l’ape decreta la propria morte il giorno in cui inizia a bottinare. Cosa ha fatto l’ape che ha vissuto più a lungo? Ha nutrito meno larve, ha prodotto meno pappa reale; quindi ha dispensato meno proteine. Valeva dunque la pena di approfondire la pista che portava a ritenere che l’aspettativa di vita dell’ape fosse collegata alle sue risorse proteiche. È ciò che hanno fatto alcuni ricercatori norvegesi, autori o coautori della maggior parte delle ricerche da cui è ricavato questo articolo. La nutrice, è noto, consuma polline in abbondanza. Tuttavia l’assunzione di polline non compensa il consumo considerevole che comporta l’alimentazione degli altri membri della colonia, cioè della regina e delle larve, come è noto, ma anche dei fuchi e delle altre operaie, comprese le bottinatrici (Crailsheim 1992). L’ape si costruisce dunque, durante i primi giorni successivi allo sfarfallamento, delle riserve che riduce poco a poco nel corso della sua carriera di nutrice. È a questo punto che entra in campo una sostanza di cui si farà tanto parlare: la vitellogenina. Questa lipoproteina5 deve il suo nome dal fatto d’essere, presso gli ovipari, il precursore del vitello6, questa sostanza di riserva (il giallo dell’uovo presso gli uccelli), che permette lo sviluppo dell’embrione fino alla schiusa. Anche nelle api la vitellogenina ricopre la stessa funzione. La troviamo per questa ragione in abbondanza all’altezza degli ovari della regina, ma anche, più sorprendentemente, in quelli delle operaie: in estate, fino al 70% di queste ultime può presentare degli ovari gonfiati dallo stoccaggio delle riserve proteiche. La vitellogenina è una «proteina magazzino»: essa è la risultante delle riserve proteiche alle quali l’organismo attinge mano a mano ed in misura dei propri bisogni. Come per altre proteine di riserva, essa è sintetizzata ed accumulata nei corpi grassi7. Si è potuto dimostrare utilizzando delle molecole segnate con 14C 5 Una lipoproteina è una sostanza che, alle proprietà delle proteine, aggiunge alcune proprietà dei corpi grassi (lipidi). Queste molecole sono delle sostanze di riserva ma anche di trasposto; la parte proteica permette il trasporto dei lipidi nel sangue (o nell’emolinfa), sostanze acquose nelle quali i corpi grassi non solo solubili. 6 In embriologia, l’insieme dei materiali di riserva contenuti nel citoplasma della cellula dell’uovo che vengono utilizzati per la costruzione dell’embrione e metabolizzati da questo anche in periodi inoltrati dello sviluppo; è detto anche tuorlo e deutoplasma (N.d.T.) 7 Vedi Appendice 2
che essa viene utilizzata direttamente per sintetizzare la pappa reale (Amdam et al. 2003); la si ritrova nelle ghiandole ipofaringee, soprattutto nelle nutrici e nelle api svernanti, in cui queste ghiandole sono ipertrofiche. Infine, circolando tra le zone di riserva e quelle in cui è utilizzata, la vitellogenina è la proteina più abbondante nell’emolinfa di cui rappresenta dal 30 al 50% delle proteine totali (Amdam et al. 2003). La produzione di vitellogenina comincia dal secondo/terzo giorno dopo lo sfarfallamento e raggiunge generalmente il suo massimo livello quando l’ape svolge la funzione di nutrice, con un picco verso il 12 giorno (Amdam & Omholt 2002). Tra le operaie, sono quindi le nutrici che ne detengono di più, alla pari tuttavia con le api invernate, presso le quali questa proteina ha una particolare importanza, come vedremo. Quanto alla regina, ne sintetizza ancora venti volte di più di non importa quale categoria di operaie (ibid.). Le bottinatrici, invece, ne sono praticamente sprovviste. I loro bisogni proteici, che sono lontani dall’essere pari a zero, sono garantiti dalle nutrici che le alimentano a pappa reale (Crailsheim 1992)8. L’Elisir di giovinezza La vitellogenina è quindi utilizzata dalle api in un modo particolare rispetto alle altre specie: si tratta di un materiale di base, non solamente per la formazione delle uova (cosa questa che spiega la sua abbondanza nelle regine) ma anche per la produzione di pappa reale, questo alimento concentrato, sintetizzato e raffinato da una certa categoria di membri della colonia (le nutrici) a vantaggio di tutte le altre. Le larve ne sono le prime beneficiarie, essendo «allattate» dalle loro sorelle come i giovani mammiferi lo sono dalle madri; ma non sono le sole, e nella colonia tutti hanno diritto al proprio bicchiere di latte (pardon, di pappa reale) quotidiano… Ritroviamo qui, giocato dalle nutrici, il ruolo di «organo digerente» del super-organismo. I corpi delle nutrici possono immagazzinare un numero considerevole di risorse nutrizionali della colonia sotto forma di corpi grassi o di proteine di riserva9. Ma queste riserve hanno dei limiti che le nostre nutrici finiscono per raggiungere a forza di attingere per gli altri. È quando le riserve sono esaurite, o quasi, che le api divengono bottinatrici: colpisce la magrezza dei loro corpi grassi a confronto con gli stessi corpi grassi delle più giovani sorelle. Da una parte, gli 8 Il modalità con le quali si organizza il flusso di pappa reale in una colonia è stupefacente. K. Crailsheim spiega, nella pubblicazione citata, che una molecola utilizzata nella sintesi della pappa reale, preventivamente segnata con il carbonio 14 e iniettata a 100 api, si ritrova al termine di una notte in diverse migliaia di individui (2.409 e 3.756 nelle colonie studiate), tra cui numerose operaie adulte, bottinatrici comprese. 9 Questo ruolo è stato già indicato in un precedente articolo: Faux bourdons, l’indispensable luxe, LSA n° 255.
insetti che vivono nel nido e dispongono d’importanti riserve proteiche; dall’altro, coloro che si consacrano al pericoloso mestiere della raccolta, con riserve interne al proprio corpo nulle o quasi: questo contrasto che riscontriamo nelle nostre api si incontra anche in altri insetti sociali, come le formiche e le vespe. Viene interpretato come un meccanismo di risparmio delle riserve della colonia: gli individui che hanno maggiori possibilità di morire nell’ambiente circostante sono coloro che possiedono il minimo di elementi vitali, essendo la maggioranza di questi detenuti dai membri che vivono protetti in seno al nido e sono incaricati di allevare le nuove generazioni che ne rappresentano l’avvenire (Amdam et al. 2003). In questo meccanismo, il ruolo della vitellogenina è primordiale: è allorché le riserve di vitellogenina svaniscono che l’ape abbandona il suo ruolo di nutrice e diventa bottinatrice; e lo stesso risultato può avvenire inibendo il gene che la produce. Ma non si fermano qui le funzioni di questa proteina decisamente centrale. La vitellogenina è capace di legarsi allo zinco, un metallo presente nelle api (come in noi, d’altri parte), nelle quali è uno dei principali agenti di contrasto rispetto allo stress ossidativo. Gli atomi di zinco catturano i radicali liberi, opponendosi così all’invecchiamento dei tessuti. La vitellogenina aiuterebbe in questo modo a superare gli effetti di un’esposizione ai pesticidi: una ricerca ha dimostrato che le api che naturalmente ne sintetizzano in abbondanza sopravvivono ad un’iniezione di Paraquat (Seehus et al. 2006)10 meglio delle consorelle che ne sintetizzano in minore quantità. Questa sostanza costituisce pertanto, per l’ape, una fonte di giovinezza: tanto più il suo livello è alto nell’organismo, quanto più quest’ultimo è protetto dalle offese del tempo. Ma quando questo livello cala, ciò non si verifica più e il processo di invecchiamento ha inizio. E il livello diminuisce all’inizio dell’attività di bottinatrice… Si comprende quindi perché l’ape comincia ad invecchiare nel momento in cui inizia a raccogliere. Ma sui benefici della nostra proteina miracolosa non abbiamo ancora detto tutto: essa contribuisce inoltre al buon funzionamento del sistema immunitario. Questo è un altro effetto del suo ruolo di trasportatore dello zinco: quest’ultimo elemento è infatti necessario alla produzione delle cellule immunitarie funzionali nell’emolinfa. Non è quindi sorprendente che il livello di cellule ematiche immunitarie segua quello della vitellogenina: è elevato nelle nutrici , nullo o quasi nelle bottinatrici; e nelle bottinatrici ridivenute nutrici, l’inversione si traduce per prima cosa in una risalita del tasso della proteina nell’emolinfa (Amdam et al. 2005). Infine, e non si tratta del minore dei suoi ruoli, la vitellogenina è l’elemento centrale nella produzione delle api che dovranno trascorrere l’inverno. Quando la deposizione della regina si interrompe per l’avanzamento della stagione fredda, le giovani api hanno sempre meno api a disposizione da nutrire fino a non averne 10 Il paraquat è un erbicida conosciuto per la capacità di generare stress ossidativo nei tessuti che contamina.
più del tutto. Esse accumulano la vitellogenina, che fa di loro quelle «api grasse» necessarie alla colonia per il superamento collettivo dell’inverno (Amdam et al. 2003). Non avendo covata da nutrire, le nutrici non consumano quasi affatto le proprie riserve proteiche, peraltro considerevoli, che restano in tale maniera conservate nel nido. Non è che dopo aver nutrito la prima generazione primaverile, avendo così esaurito le riserve accumulate, che diventeranno bottinatrici; morendo nei giorni o settimane successivi. Si è osservato inoltre che le api invernate non perdono le loro facoltà relative alla memoria e le loro cellule non rivelano che pochi segni di invecchiamento, nonostante la loro età cronologica sia elevata. Ma è possibile accelerare questo invecchiamento ponendole in una camera illuminata e riscaldata artificialmente, interrompendo in questo modo artificialmente l’invernamento ed inducendole a bottinare. Inversamente, se queste api sopravvissute all’inverno, giunta la primavera, non avessero covata da allevare, vedrebbero allungarsi la propria aspettativa di vita nel tempo. Tutte queste constatazioni, tratte da uno studio recente, (Münch et al. 2013) convalidano il meccanismo descritto più sopra. Due sostanze in equilibrio Noi adesso sappiamo che la vitellogenina gioca un ruolo cardine nella storia della vita dell’ape: le fluttuazioni del suo livello spiegano numerose caratteristiche fisiologiche delle nutrici e delle bottinatrici, ed il collasso del suo livello, allorché inizia l’attività di bottinamento, marca l’inizio della fine della nostra ape. Ma perché e come fluttua questo tasso della proteina? La risposta a questa questione implica uno degli ormoni maggiori dell’ape e degli insetti in generale: l’ormone giovanile. Il tasso nell’emolinfa di questo ormone, molto basso all’inizio della vita dell’ape, si innalza bruscamente quando l’ape diventa bottinatrice. L’ormone giovanile contribuisce alla regolazione dell’età nella quale l’ape effettua questo passaggio chiave: le api che ricevono l’ormone in questione artificialmente, attraverso iniezioni, divengono bottinatrici molto presto. La secrezione di quest’ormone è repressa da fattori esterni, quale ad esempio il feromone emesso dalle bottinatrici e preesistente nell’arnia, e questo spiega perché la presenza di queste api più anziane ha per effetto di ritardare l’inizio di attività di raccolta delle generazioni successive (Leoncini et al. 2004; Amdam et al. 2012). Ma un’ape totalmente privata di ormone diventerà immediatamente bottinatrice, come possiamo verificare asportando chirurgicamente le ghiandole endocrine che lo producono (i corpora allata). La mutazione sarà solamente più tardiva. L’ormone giovanile determina dunque la velocità di evoluzione comportamentale dell’ape, ma non è indispensabile affinché l’ape inizi a bottinare (Sullivan et al. 2000).
L’inizio dell’attività delle bottinatrici non dipende dunque solamente dall’ordine impartito dall’ormone giovanile, come si è a lungo ritenuto. L’ipotesi attuale è che quella di un doppio ordine combinato della vitellogenina e dell’ormone giovanile, che interagiscono reprimendosi reciprocamente: la vitellogenina reprime la secrezione dell’ormone giovanile e l’ormone giovanile, allorché il suo tasso aumenta nell’emolinfa, inibisce la produzione di vitellogenina. Nelle giovani api le riserve di vitellogenina, accumulate nei primi giorni successivi lo sfarfallamento, mantengono più basso il livello di ormone giovanile. Ma mano a mano ed in misura dell’alimentazione fornita dalla nutrice, in particolare rispetto alle larve le cui necessità sono notevoli, queste riserve diminuiscono. Quando il livello di vitellogenina scende al di sotto di una certa soglia, il tasso di ormone giovanile inizia a crescere rapidamente, cosa questa che comporta una caduta drastica delle vitellogenina; è allora che l’ape diviene bottinatrice, con tutte le modificazioni fisiologiche e comportamentali che implica questa nuova condizione. Priva di vitellogenina, l’ape diventa sensibile allo stress ossidativo derivato dal suo metabolismo, e comincia allora il processo di invecchiamento. Tutto ciò costituisce un modello scientifico, cioè a dire un’architettura d’ipotesi ispirata dai dati che gli scienziati hanno a loro disposizione o suscitata da loro attraverso le sperimentazioni. Tuttavia questo modello spiega in modo eccezionale le peculiarità dell’ape in materia di invecchiamento e aspettativa di vita. Potrebbe spiegare inoltre anche come la varroa ed i pesticidi agiscano congiuntamente causando le mortalità invernali che sopraffanno il mondo apistico. La varroa consuma le riserve nutrizionali delle api non mature e questo comporta un quadro proteico alterato. Per altre ragioni, lo stress ossidativo provocato dall’esposizione ai pesticidi ha, anch’esso, un effetto repressivo sulla vitellogenina (Amdam et al. 2012). Se questi due fattori negativi si sommano, la nostra ape svernante si troverà privata molto prima del previsto della sostanza che assicura la sua longevità nel corso della stagione fredda. Queste api scomparse sarebbero dunque delle «bottinatrici anormali», precipitate prematuramente in una condizione fisiologica che non avrebbe dovuto raggiungere che a primavera venuta? Non è che un’ipotesi, ma merita di essere approfondita. [Articolo apparso nel n°256 luglio-agosto 2013 della rivista francese La Santé de l’Abeille] (Traduzione in italiano a cura di Luca Tufano) Appendice 1 : Stress ossidativo e invecchiamento
Lo stress ossidativo è dovuto all’azione di sostanze nocive che possono essere esterne ma anche interne all’organismo. Il metabolismo, questo insieme di reazioni chimiche che fa sì che l’organismo funzioni, produce accessoriamente delle sostanze ossidanti, capaci di aggredire alcuni elementi dei tessuti viventi. Vi è il caso noto del metabolismo che produce energia estraendola dallo zucchero, «bruciandolo» con l’aiuto di ossigeno. Questi ossidanti sono i famosi «radicali liberi» che, come spiegano nelle pubblicità, dobbiamo combattere per contrastare l’invecchiamento. L’organismo animale, insetto o vertebrato, produce naturalmente delle molecole che catturano i radicali ossidanti e permette quindi di evitarne i danni. Ma questa capacità diminuisce con l’età, con la conseguenza che i radicali restano attivi ed attaccano i tessuti. Lo stress ossidativo che ne risulta sarebbe una delle maggiori cause di invecchiamento: noi invecchiamo perché abbiamo sempre maggiori difficoltà, nel corso del tempo, a fabbricare le sostanze capaci di rendere i radicali liberi impossibilitati a nuocere (Sahal et Weindruch, 1996). L’esposizione agli xenobiotici (insieme delle sostanze estranee all’organismo), i pesticidi per esempio, o i medicinali, sono un’altra causa possibile di stress ossidativo, cosa questa che spiegherebbe una parte della loro tossicità. Appendice 2: I corpi grassi I corpi grassi sono dei sottili strati di cellule organizzate in lobi che tappezzano l’addome dell’ape, appena sotto la cuticola. Il loro nome è fuorviante: essi non sono in effetti delle semplici riserve di grassi, ma sono degli organi la cui funzione è fondamentale nell’organismo dell’insetto. Oltre ad accumulare delle riserve energetiche (glicogeno, lipidi), sono il luogo in cui avviene la sintesi di numerose proteine, in particolare la vitellogenina. Effettuano anche il metabolismo degli zuccheri e dei lipidi. Il loro ruolo è dunque comparabile a quello del nostro fegato (Münch et Amdam 2010).
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