Il gioco delle perle di vetro - Il Manifesto

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Il gioco delle perle di vetro
- Raffaele K. Salinari, 09.01.2016

Ultraoltre. Avere immaginazione per il giocatore significa rivedere il mondo nella sua totalità per
rigenerarlo, giacché le Immagini mostrano la trama invisibile che tutto connette e sostiene

«La musica del mondo e dei sapienti siam pronti ad ascoltare riverenti, e ad evocare a festa i
venerati spiriti di periodi più beati. Siam tutti compresi dei misteri della scrittura magica che in veri
simboli chiari e formule ha serrato il fervor della vita sconfinato. Tintinnano come astri di cristallo
dobbiamo ad essi se la vita ha senso; nessuno uscire può dal loro vallo se non cadendo verso il sacro
centro». Questi sono i versi della poesia che Herman Hesse dedica al Gioco delle perle di vetro, la
forma perfetta del gioco totale al centro dell’omonimo romanzo, l’ultimo dell’autore, in cui le
immagini che scaturiscono da questo particolarissimo Gioco ci conducono via via attraverso tutte le
suggestioni ideali che troviamo descritte nei suoi precedenti racconti, da Demian, del 1919,
passando per Siddarta sino a Der Steppenwolf, Narciso e Boccadoro e, non meno importante,
L’ultima estate di Klingsor. Come ci ricorda Marco Dotti nel suo Il calcolo dei dadi, il gioco è libero
dal vincolo del tempo ma, al contrario degli altri fenomeni fondamentali in cui si articola la vita
umana lavoro, lotta, morte e amore non gode di uno spazio autonomo. Il gioco pervade la vita e,
osservava già nel suo Grundphänomene des menschlichen Daseins (1955) Eugen Fink, proprio
perché mischiato con l’amore, la morte, il dominio ed il lavoro, li abbraccia tutti. E allora, come dice
Hesse commentando la sua opera: «Non basta disprezzare la guerra, la tecnica, la febbre del denaro,
il nazionalismo. Bisogna sostituire agli idoli del nostro tempo un credo. È quel che ho sempre fatto».
Entrare nel gioco significa entrare in un sistema di obblighi rituali, e la sua intensità deriva da
questa forma iniziatica, ci ricorda Jean Braudillard nel sul saggio Della seduzione. E così questo
romanzo-testamento, il cui protagonista è il Magister Ludi Josef Knecht, è l’ultima e più completa
espressione del nuovo «credo» da lui descritto e profetizzato per tutta la vita e che, come tutte le
credenze che aspirano ad affermarsi e sostanziarsi nel tempo, ha la sua ritualità: i gesti del Gioco
delle perle di vetro, di cui l’autore ci racconta del come e del perché la sua pratica, di evidenti
ascendenze neoplatoniche, sia stata perfezionata nella utopica terra di Castalia, creando infine un
gioco misterioso, dalle regole esoteriche, che i suoi officianti, i Magister Ludi, apprendono durante
lunghi anni di studio e meditazione. E così, attraverso una mistica disciplina, ispirata da una visione
trascendentale, vive il Gioco delle perle, il Glasperlenspiel, riproduzione microcosmica del fatale
movimento delle sfere celesti: un’epitome del campo l’universo stesso – in cui i giocatori si
cimentano.
Il gioco fantastico
Ma se le «perle di vetro» sono un gioco, a che tipologia ludica appartengono? Certo a quella dei
giochi fantastici. Questa corrispondenza ideale tra il microcosmo del Gioco ed il macrocosmo del
«sacro centro» rende infatti compossibili, nel suo svolgimento, tutte le quattro tipologie ludiche già
individuate da Roger Caillois ne Il gioco e gli uomini: Agon, Alea, Mimicry e Ilinx (il termine greco
per vertigine). L’attività con le perle, infatti, assomma al suo interno sia le caratteristiche dell’Agon,
del gioco che contrappone due o più persone, sia dell’Alea, la sfida del giocatore contro il Destino,
riproduzione della sfida cosmologica giocata da Ananke, la necessità, contro Kaos, il non ordinato,
l’informe. Il Magister, infatti, non gioca solo contro un altro giocatore ma, contemporaneamente,
contro il Caos, il «non manifestato» a cui tutto potrebbe tornare se la sua mano fallisse. A questa
dissoluzione potenziale egli oppone dunque se stesso e la sua Necessità, l’ordine costituito dalla
civilizzazione che egli rappresenta e sancisce. Così facendo il Magister si fa carico, per così dire, di
quel ruolo di difensore della realtà fenomenica che Rilke, nelle sue Elegie Duinesi, attribuisce alla
figura archetipica della Madre quando ne descrive la potenza di contrastare il Nulla sempre in
agguato: «Ah, dove mai sono gli anni, quando tu soltanto con la snella figura sbarravi il ribollente
caos?».
Ma il Gioco delle perle di vetro va ben oltre questo dualismo per inoltrarsi, con le sue possibilità
indefinite, sin dentro il dominio della Mimicry cioè dell’imitazione, del travestimento: si parte da
qualcosa, materiale o immaginale, che dunque sia o possa essere un concetto, una sonata, un
oggetto, un’immagine poetica per farla poi evolvere, renderla progressivamente sempre più distante
da se stessa in una teoria di trasmutazioni continue, di infiniti rimandi analogici, di «come se» che
celebrano una sorta di laico carnevale dello spirito. Avere immaginazione significa godere di
ricchezza interiore, di un flusso ininterrotto e spontaneo di immagini. Spontaneità, però, per il
Magister Ludi impegnato nel Gioco delle perle, non significa invenzione arbitraria: le regole del
gioco sono ferree. Come per la disposizione delle note su di un pentagramma o del metro per i versi
poetici; solo dal rispetto delle regole nascerà l’immaginazione propria del Gioco. Sul piano
etimologico, «immaginazione», infatti, è solidale con imago, «rappresentazione, imitazione» e con
imitor, «imitare, riprodurre». Ecco che allora il Gioco delle perle di vetro, e per una volta
l’etimologia riecheggia sia le realtà psicologiche che le verità spirituali, imita dei modelli esemplari –
le immagini archetipiche del Cosmo tratto dal Caos – e così li riproduce, li riattualizza, li ripete
incessantemente. Avere immaginazione, per il giocatore delle perle di vetro, significa dunque
rivedere il mondo nella sua totalità per rigenerarlo, giacché è potere e missione delle Immagini
mostrare la trama invisibile che tutto connette e sostiene, quel velo di Maya che rimane refrattario
al concetto pur sostanziando i fenomeni del Mondo: uno stato di grazia concesso a pochi eletti. Ci si
spiega, allora, come dice Mircea Eliade, anche «la disgrazia e la rovina di chi è privo di
immaginazione»: un tale individuo è tagliato fuori dalla realtà profonda della vita e della sua stessa
anima. Finalmente, allora, il Gioco delle perle di vetro, vero o virtuale che sia, ha come compito,
come tutti i giochi, quello di attivare l’Imaginatio vera, quel noûs poetikos di cui ci parla Aristotele
nel terzo libro del De anima: si tratta di un’Immaginazione poetica che non serve assolutamente ad
«inventare» mondi; non è un esercizio che produce erratica fantasticheria bensì, al contrario, oltre a
riconoscere il materiale poetico, le Immagini attraverso le quali possiamo cogliere la «realtà in atto»
del Mondo, le rigenera. Teofrasto ci dice che per Parmenide l’anima e il noûs sono la stessa cosa, e
che quindi: «Noûs non indica affatto la pura attività raziocinante, ma altresì volontà, sentimento,
l’anima umana intera».
E di questa stessa «disciplina» parla Gregory Bateson, nel suo tentativo di creare una nuova
epistemologia per svelare la «struttura che connette» il vivente»; egli propone l’identità essenziale
tra tutte le manifestazioni del Mondo come definizione stessa di ecologia: «Ciò che noi crediamo di
essere, dovrebbe essere compatibile con ciò che crediamo del Mondo intorno a noi». L’accesso alla
realtà immaginale prodotta dalle perle di vetro allora, come ci ricorda Henry Corbin nel suo Corpo
spirituale e terra celeste, sui neoplatonici di Oriente, ci viene aperto da quella ermeneutica per
eccellenza indicata dalla parola ta’wil, che in farsi letteralmente significa «ricondurre una cosa alla
sua fonte», al suo archetipo, alla sua realtà vera. Per il Magister Ludi, dunque, il senso figurato del
Gioco non è allora che una metafora (majas), mentre il senso vero (haqiqat) è l’accadimento creativo
che tale metafora costruisce. Attraverso questa tonalità immaginale, il Gioco delle perle di vetro
esprime infine la sua peculiare essenza di Ilinx, cioè di Vertigine, cioè di quelle tipologie di giochi
che, secondo la teoria «evoluzionista» di Huizinga nel suo Homo ludens, si situano all’inizio della
storia, quando una combinazione di dispositivi vertiginogeni l’altalena, la taurocatapsia, l’acrobazia,
la danza trasportava l’uomo dinanzi alle Potenze primordiali, attraverso l’estasi generata dal vortice
e/o dalla paura suggestionante della maschera, sino alla visione mistica, l’epopteia dei Misteri
eleusini. Nel Gioco delle perle di vetro la vertigine estatica si genera naturalmente: il giocatore
proietta la sua mente in quelle zone rarefatte della speculazione teoretica in cui manca un appiglio
immediato alla realtà fenomenica e l’anima avverte come un baratro nel quale è naturale precipitare:
operare nel senso di una discesa vorticosa attraverso un abisso che produce la sua stessa caduta.
L’intento del Gioco
E così, anche se nulla sappiamo delle regole di Gioco, per effetto del suo restare nell’ambito
dell’esoterico, cioè della trasmissione orale da Maestro a discepolo, possiamo cogliere qualcosa del
suo «intento». I suoi effetti sulla Storia ed i singoli giocatori lo configurano, infatti, come ibrido tra
una raffinatissima Ars Combinatoria l’Ars magna di Raimondo Lullo, una sorta di catasto universale
dei concetti affine alla «matematica totale» preconizzata da Leibnitz nella quale viveva la possibilità
di simboleggiare tutti i concetti in segni geometrici o algebrici e la Filosofia alchemica, con la quale
il Gioco ha in comune la ricerca dell’essenza universale attraverso la ricombinazione degli elementi,
il ricongiungimento delle polarità opposte, il Rebis filosofico, mercé la gestione sapienziale delle
perle di vetro. La pratica di queste affinità intime tra concetti, teorie, motivi musicali e artistici,
questa necessità di riconoscerne le connessioni segrete per ricomporre tutte le signatura rerum in
un quadro armonico, risponde ad un «intento» di equilibrio profondo; Hesse attribuisce la nascita
del Gioco alle conseguenze degenerative sullo psichismo umano di un periodo di decadenza dello
spirito, l’età della «terza pagina», in cui dominava, secondo il racconto che ce ne fanno le cronache
di Castalia: «Un largo individualismo di stampo borghese», che diede vita però, con la nascita del
Gioco, come direbbe Bataille ne Lesperienza interiore, ad un sussulto di spiritualità poiché: «Luomo
è una particella inserita in insiemi instabili e aggrovigliati un punto di arresto propizio a uno sgorgo
uno zampillo infiammato, eccedente, libero persino dalla propria convulsione. Un carattere di danza
e di leggerezza scomponente». Ogni epoca, questo è l’arcano e la morale, coltiva segretamente il
seme dionisiaco del suo contrario, della sua dissoluzione e rinascita. Per questo nel Gioco il
momento di avvio non è dato a priori: si tratta di cogliere un’opportunità, attendere l’arrivo di kairos,
l’ispirazione sottile che trasporta con i suoi talari verso il momento perfetto, la coincidenza del gesto
col fine, e dunque con la fine della partita: quando la vertigine che nasce dalla visione dell’abisso in
cui può cadere l’anima del mondo sospinge ad oltrepassare ciò che separa da «quelle cose» per
giungere pericolosamente al cospetto del Sacro, quella sorta di Aleph borghesiano in cui gorgogliano
sincronicamente tutti i tempi ed i luoghi della creazione; come dice Hesse: «Noi non nascondiamo il
pericolo che corre l’anima dell’umanità, l’abisso cui è vicina. Ma neppure possiamo nascondere che
crediamo alla sua immortalità». Bene lo aveva capito Gustav Jung il cui allievo, Joseph Lang, fu per
molti anni psicanalista di Hesse: «L’abbandonarsi del Maestro Eckart è diventato per me la chiave
che dischiude la porta verso la via: bisogna essere psichicamente in grado di lasciar accadere. Per
cominciare, esso consiste soltanto nell’osservare oggettivamente come si sviluppi un qualunque
frammento di fantasia. La via non è priva di pericoli. Ogni bene ha un prezzo, e lo sviluppo della
personalità è tra le cose più preziose. Si tratta di dire di si a se stessi, di porsi a se stessi come il
compito più grave, di essere sempre consapevoli di ogni azione, e di tenere ciò sempre ben davanti
agli occhi in tutti i suoi aspetti problematici: davvero un compito che richiede un impegno totale. Si
tronca qui bruscamente il flirt estetico o intellettuale con la vita ed il destino. L’accedere ad una
coscienza superiore ci priva di ogni copertura alle spalle e di ogni sicurezza. L’individuo deve
impegnarsi totalmente e solo la sua integrità può essergli garanzia che la sua via non si tramuti in
una assurda avventura». Questa definizione dell’intento come «disciplina» del «porsi a se stessi
come il compito più grave», Jung la articola nell’introduzione al Segreto del fiore d’oro, trattato di
alchimia taoista cinese; nella sua biografia dirà, al proposito, che è stata l’Opera ad introdurlo allo
studio dei simboli alchemici come descrizioni della totalità del Sé. L’enfasi posta da Jung nel
rapporto tra volontà, consapevolezza e azione e, ancor più, il particolare rapporto che ne descrive
l’intreccio con la percezione profonda, archetipica, delle cose che ritroveremo anche in Corbin
delinea non solo l’obiettivo da raggiungere, i suoi rischi ed opportunità, ma altresì l’inclinazione
necessaria per lasciarsi cogliere dall’Invisibile, lo scopo del Gioco delle perle di vetro. La parola
intento contiene dunque una segnatura etimologica: svela la tensione nella volontà di uno sguardo
che cerca il luogo della visione tra consapevolezza e inconscio, tra Io e Sé, tra Visibile ed Invisibile;
un ponte gettato dall’anima sulla necessità di cogliere la sua stessa «trama nascosta» per
ricongiungerla con «quella manifesta», secondo le parole di Eraclito. Un tragitto ardito e impervio,
che si tende tra Cosmo e Caos. Il Gioco si configura così come una forma esplicita ma al tempo
stesso esoterica di apocatastasi, di Salvezza universale che, mercé la casta dei giocatori, può
estendere la sua luce su tutta l’umanità oscurata dal ritiro dello Spirito. Il Gioco delle perle viene
allora descritto come una sorta di immagine speculare del destino del XX secolo; lo stesso nel quale
si riflette L’uomo senza qualità di Musil per il quale: «A poco a poco l’uomo probabile e la vita
probabile incominciavano ad occupare il posto dell’uomo vero e della vita vera che erano pura
immaginazione e illusione».
La morte del Magister Ludi
Il romanzo si chiude con la morte del Magister Ludi Josef Knecht nel lago di Belpunt. Il Magister
segue nel lago montano il suo giovane allievo, figlio dell’amico più caro, in una sfida che si rivela
esiziale per il vecchio maestro e fatale per il suo discepolo. Josef Knecht si presenta al suo destino
con uno spirito in apparenza opposto: non sembra voler morire, ma il contatto con l’acqua fredda,
glaciale, il tuffo pericoloso per lo stato della sua precaria salute fisica, ma soprattutto della sua
anima gravata dal sospetto che il Gioco si stia orami svuotando della sua essenza sacra per diventare
un banale passatempo intellettuale, trasformano il senso del gesto offrendogli l’ultima sfida
esistenziale, alla quale egli non si sottrarrà perché convinto, alla luce dell’istante, di star giocando
nella maniera più vera ed autentica se stesso come perla di vetro. Il Magister affronterà dunque la
lama gelata dell’acqua come in un duello: sarà la morte eroica il coronamento della sua carriera; una
morte acquatica che viene a porgli sul capo la corona di alloro della sfida impossibile, quella che
nessuno può vincere, ma che premia con la gloria eterna chi la affronta consapevolmente. Il
Magister, infatti, non si lascia andare alla morte, ma le resiste sino alla fine; né tantomeno le si
sottrae uscendo dall’acqua: capisce che la posta in gioco è il passaggio alla maturità del discepolo;
sente così di ripagare finalmente, e nel più estremo dei modi, quel legame con l’amico che, in
gioventù, gli aveva dato la possibilità di formarsi e diventare Magister. Qui il tuffo è realmente un
atto eroico, di una fisicità arcaica, come la sfida che rappresenta: il Magister non è preparato ma,
proprio per questo, la affronta: è l’azzardo del giocatore che pone in palio la sua vita. L’ultimo tuffo
porterà a compimento così la sua ricerca: questa è l’intuizione che l’altra mano della morte
trasmette alla consapevolezza oramai intorpidita dal gelo, risvegliando in lui l’antico giocatore che
tanto si era appassionato alle perle di vetro. «Quando era uscito di casa, Knecht non aveva avuto
nessuna intenzione di fare il bagno e di nuotare perché aveva troppo freddo e dopo il malessere
notturno non si sentiva molto bene. Ora, al tepore del sole, eccitato da ciò che aveva visto, invitato
amichevolmente dall’allievo, pensò che il rischio non era tanto grave. Soprattutto però temeva che,
quanto l’ora mattutina aveva avviato e promesso potesse svanire e andare perduto, se avesse
abbandonato il giovane e l’avesse deluso rifiutando con la fredda ragionevolezza dell’adulto un
saggio di energia. Lo sconsigliava, è vero, il senso di incertezza e di debolezza che gli aveva lasciato
il rapido viaggio in montagna, ma forse quel malessere lo si poteva rapidamente superare con un
atto di forza e con un gesto impetuoso». Il tuffo è qui più metaforico che mai; trapassa rapidamente
dal «gesto impetuoso» che scaccia il malessere, all’abbraccio della morte che compie un destino.
Questa Immagine di Hesse racchiude dunque, come ogni tuffo, un duplice significato. L’inizio del
gesto, la sua motivazione, il suo incipit, la sua stessa ragione, è raccogliere la sfida per non deludere
l’allievo. In altre parole la fine non può essere che il tuffo in questa acqua: «Toltosi il leggero
accappatoio respirò profondamente e si buttò in acqua nello stesso punto in cui si era tuffato
l’allievo. Il lago… lo agguantò col gelo di una tagliente ostilità. Egli si aspettava un gran brivido, ma
non quel freddo così glaciale che lo avvolse come un mare in fiamme e dopo una prima vampata
cominciò a penetrargli le ossa». Ecco che il Magister comincia subitaneamente ad intuire che quello
sarà il suo ultimo tuffo, il gesto attraverso il quale coronerà la sua carriera, non solo di supremo
maestro nel Gioco delle perle di vetro, ma soprattutto di precettore del ragazzo. Il tuffo finale nelle
acque in cui troverà la morte, per la dinamica stessa dell’episodio, altro non è che la lectio
magistralis impartita al giovane che riceve, dalla morte esemplare del suo mentore, l’iniziazione. «Di
fatto il tuffo fa rivivere, più di ogni altro avvenimento fisico, gli echi dell’iniziazione pericolosa, di
una iniziazione ostile. Rappresenta l’unica Immagine esatta, ragionevole, l’unica che si possa vivere,
del salto nell’ignoto. Non esistono altri salti reali che siano nell’ignoto. Il salto nell’ignoto è un salto
nell’acqua», ci ricorda Bachelard.
Il Gioco delle perle di vetro
Ma, forse, per comprendere, al di la delle sue oscure regole, il Gioco delle perle di vetro, dobbiamo
andare con la memora ai nostri infantili giochi con le perle di vetro, con quelle biglie colorate che
racchiudevano al loro interno una spirale multicolore che ci agitava la fantasia oltre ogni
immaginazione. Compresi nel gioco eravamo tutti Magister Ludi: il tempo cronologico scompariva
per essere assorbito da quelle spirali multicolori che ci proiettavano in unaltra dimensione, in una
realtà separata dove l’unica strada da seguire era quella tracciata dalla traiettoria delle biglie
opalescenti. Come pure vale la pena ricordare che, sino agli anni Cinquanta del secolo scorso,
esistevano in commercio alcune bottiglie di gazzosa che erano chiuse proprio da una biglia di vetro:
per aprire la bottiglia bisognava spingere la pallina verso il basso e far uscire così il gas che la
imprigionava contro il collo stretto. Quelle bollicine, liberate dallo sprofondamento della biglia erano
l’immagine stessa della creazione, del Big Bang; dopo non restava che liberare anche la sfera di
vetro, ed il gioco ricominciava.

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