Il Natale che verrà - L'editoriale di Ivan Zorico - Smart Marketing

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Il Natale che verrà - L'editoriale di Ivan Zorico - Smart Marketing
Il Natale che verrà - L'editoriale di Ivan
Zorico
Che natale sarà?
Difficile dirlo o anche solo immaginarlo.

Quando proviamo a farlo, interrogando l’oracolo del XXI secolo – Google –, ci ritornano delle
informazioni che, come consultanti contemporanei, dobbiamo fare lo sforzo di interpretare. Ahinoi,
di vere certezze ce ne son poche.

Zero previsioni
In attesa del nuovo DPCM, del cambio dei colori delle regioni e dei vari “imperdibili” dibattiti, non ci
resta che attendere, smettere di alimentare le aspettative e aspettare lo scorrere degli eventi. So
che questa è forse una delle cose più difficili da accettare: l’incertezza non la sappiamo gestire (o
almeno stiamo imparando a farlo, con alterne fortune) e forse, ancor meno, accettiamo di non poter
agire per cambiare le cose. O meglio, quello che sarebbe opportuno fare – agire – non ci viene
congeniale: dovremmo stare fermi. E nell’epoca della (alta) velocità sembra quasi un ossimoro.
Intendiamoci non fermi tout court (possiamo e dobbiamo fare qualcosa, ne ho parlato qui), ma
francamente alla luce di quello che è accaduto e sta accadendo (oltre 50 mila persone decedute in
Italia per Covid-19 da inizio pandemia), parlare di andare a sciare o dibattere su altri scenari (cfr.
spostamenti tra regioni per il Natale) non dettati da evidenze scientifiche, non ha un granché senso.
Ovvio, vorremmo più libertà, ma il virus non lo consente. Semplice, tutto qui.

                Scopri il nuovo numero: Il Natale che verrà
      Che natale sarà? Difficile dirlo o anche solo immaginarlo. Per tanti sarà un Natale senza un
    parente o un amico, per altri un Natale segnato dall’incertezza economica e la paura del futuro,
   per tutti (crediamo) sarà un Natale dove riscoprire un contatto intimo con se stessi e con gli altri.

Riscopriamo l’avvento.
Anche se letteralmente “avvento” significa “venuta”, è ormai di uso comune utilizzare questo
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termine per indicare “attesa”. L’attesa, in sostanza, che ci separa dal Natale. Un tempo nel
quale ci si dovrebbe raccogliere intimamente e prepararsi a santificare il Natale. Anche se si è atei o
agnostici, in questi giorni potremmo cercare di recuperare un po’ di energie mentali e
psichiche; rimettere insieme i pezzi di un anno eccezionale. L’ho detto in più di una occasione
nei mesi precedenti (e non sono di certo il solo): questo tempo ci hanno davvero provato sotto questo
aspetto.

E quindi che Natale sarà?
Un Natale particolare, unico. Per tanti sarà un Natale senza un parente o un amico, per altri un
Natale segnato dall’incertezza economica e dalla paura del futuro, per tutti (credo) sarà un Natale
dove riscoprire un contatto intimo con se stessi e con gli altri. Come sempre, dobbiamo
cercare di cogliere le opportunità che ci vengono offerte. Recuperare le energie e ritrovare un
equilibrio interiore sarà utile per poter affrontare i prossimi tempi nel miglior modo possibile.
Questo è il mio augurio.

Buona lettura,

                                                                                           Ivan Zorico

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Il Natale che verrà - L'editoriale di Ivan Zorico - Smart Marketing
Recovery round - L'editoriale di Ivan
Zorico
Essere lucidi non è operazione facile. Essere ancorati al
presente non è un compito semplice. Avere visione non è
esercizio agevole. Queste tre espressioni sono vere sempre
e lo sono ancor di più in un momento, e in un mondo,
completamente stravolto da una pandemia, iniziata mesi fa,
e la cui fine si fatica a vedere.

Sentirsi destabilizzati è la più ragionevole delle reazioni. Vale sia per chi un lavoro ce l’ha (i
timori per una recrudescenza della crisi, o in generale per un futuro incerto, hanno fatto crescere i
depositi bancari durante il lockdown e non solo, sia per i privati che per le imprese) e, neanche a
dirlo, per chi un lavoro l’ha perso o è messo fortemente a rischio. Per non parlare poi delle
ripercussioni psicologiche che gli effetti della pandemia porta inevitabilmente con sé.

Quella che stiamo vivendo è una partita – un round – tra le più difficili che abbiamo mai
vissuto. Sono ormai decenni che noi occidentali non dobbiamo preoccuparci di malattie capaci di
causare milioni di morti, che non dobbiamo fare troppi sforzi per procurarci del cibo e che non
abbiamo a che vedere con le guerre.

Eppure, se quello che abbiamo detto è vero – e lo è – dobbiamo riuscire a fare della lucidità, del
“qui e ora” e della visione i nostri punti fermi.

Lucidità.
Vivere pensando che il Covid-19 faccia le valigie e tolga presto il disturbo è un’utopia. Come lo è, o
lo è stato, immaginare che dopo l’estate questo virus non facesse quello per cui è nato: propagarsi.
Molta dell’insoddisfazione e della frustrazione che stiamo vivendo oggi è proprio figlia di questa
falsa aspettativa. Per cui restiamo lucidi, prendiamone atto ed accogliamo la situazione che stiamo
vivendo.

                   Scopri il nuovo numero: Recovery round
    Quella che stiamo vivendo è una partita – un round – tra le più difficili che abbiamo mai vissuto
    sotto tutti i punti di vista: economico, sanitario e sociale. In questo contesto i progetti relativi ai
    fondi europei del recovery fund potranno e dovranno essere un volano di crescita e di rinnovato
                                                  benessere.
Il Natale che verrà - L'editoriale di Ivan Zorico - Smart Marketing
Qui e ora.
Cosa posso fare oggi per migliorare la mia giornata lavorativa e personale? Quale abitudine
potenziante (anche piccola) posso inserire da subito nella mia vita? Cosa mi può rendere migliore del
giorno precedente? Poche chiacchiere: in un momento come quello che stiamo vivendo, bisogna
essere pratici. Non impiegare le energie in pensieri logoranti: “se le cose fossero andate
diversamente”; “se non ci fosse stato questo virus, allora avrei potuto…”. I movimenti sono limitati
ed il contesto intorno a noi è cambiato; ricordiamoci che il digitale ci offre opportunità incredibili.
Cogliamole: formazione e opportunità di crescita sono a portata di click.

Visione.
La pandemia ha accelerato trend e dinamiche che in condizioni normali ci avrebbero messo anni a
vedere la luce. L’Europa si è ricompattata e, nel mezzo della crisi, ha mostrato quel lato del volto
“sociale” che troppo spesso è stato oscurato da quello “burocratico”. È stato varato il cosiddetto
recovery fund, un piano d’aiuti di 750 miliardi di euro dei quali oltre 200 sono destinati al nostro
Paese. A partire dai prossimi mesi arriveranno i primi fondi che saranno destinati a progetti relativi
a sanità, ambiente, formazione, digitale e infrastrutture. C’è chi l’ha paragonato al Piano Marshall e
c’è chi invece ne ha sottolineato le differenze, fatto sta che gli anni a venire saranno fortemente
interessati da cambiamenti del modo di fare business e di vivere.

Non stiamo a guardare.
A guardare le risorse a disposizione e i cluster nei quali saranno impiegate, c’è quindi da poter
scorgere quantomeno un barlume di speranza. Ma attenzione, non dobbiamo stare alla finestra ed
aspettare che ci arrivi l’aiuto salvifico dell’Europa o del Governo. Non funziona così. Quelle potranno
essere al massimo delle opportunità per fare impresa o per decidere di lavorare in settori in crescita.

Quello che dobbiamo fare è essere consapevoli, vivere il presente e costruire passo dopo passo il
nostro prossimo futuro. Non attendiamo tempi migliori per fare la prima mossa. Il momento, come
sempre, è adesso.

Buona lettura,

                                                                                           Ivan Zorico

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Recovery round - L’editoriale di Raffaello
Castellano

  Ed alla fine è tornato, più forte ed aggressivo di prima,
  più capillare e diffuso, ma, se ci pensiamo bene, forse
  non se ne è mai andato, ha infettato molti, tanti, quasi
  tutti: semplici cittadini, imprenditori, associazioni,
  imprese, istituzioni, perfino alcuni vip e politici.

  No, non sto parlando del Coronavirus, ma del prestito e della sua mutazione cattiva: il
  debito.

  Come diceva Gordon Gekko nella celebre lezione all’università nello splendido film “Wall
  Street – Il denaro non dorme mai” di Oliver Stone del 2010: “…il vero nemico è il
  prestito, è ora di riconoscere che è un biglietto sicuro per la bancarotta, senza ritorno, è
  sistemico, maligno ed è globale, come il cancro. È una malattia e noi dobbiamo
  combatterla!”.

Chissà se il premier Giuseppe Conte, vedendo questo film, si sia fatto suggestionare dal monologo
dell’attore Michael Douglas, e, memore della sentenza, abbia deciso di non accedere ai soldi, i
tanti soldi, che l’Europa ha messo immediatamente a disposizione con lo strumento del MES
(Meccanismo Europeo di Stabilità), detto anche Fondo Salva Stati, che abbiamo imparato a
conoscere qualche anno fa, quando salvò dalla bancarotta stati UE come Cipro, Grecia e Spagna.

Questo è uno strumento che mette a disposizione degli stati membri un capitale di oltre 700 miliardi
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di euro e che, come molti sanno, pone rigide condizioni ai paesi che ne fanno richiesta, condizioni
che fino ad ora, 30 ottobre 2020, mentre scrivo questo editoriale, hanno fatto desistere molti paesi
dal richiederlo.

Eppure con la seconda ondata di contagi (o la recrudescenza della prima, visto che il Coronavirus
non è mai sparito durante l’estate, ma ha continuato a circolare), con i Paesi membri costretti a
chiudere interi comparti produttivi, ad istituire lockdown e quarantene e, quindi, a promuovere una
serie di pacchetti e proposte di “ristoro finanziario” per milioni di persone, diventati da un giorno
all’altro inattivi, cassaintegrati o peggio disoccupati, prima o poi i vari stati vi dovranno fare
comunque ricorso, affinché questa guerra contro il coronavirus non uccida, alla fine, molte più
persone di quelle effettivamente già morte.

Scelta combattuta, quella del ricorso al MES, resa ancora più inesorabile, visto che il secondo
strumento messo in campo dall’Europa per aiutare i Paesi membri, il cosiddetto Recovery Fund,
stenta ancora, benché approvato, a diventare pienamente operativo, almeno in tempi brevi.

https://youtu.be/571FOQGvZjk

Il Recovery Fund, o Next Generation EU, come lo ha chiamato la Commissione Europea, è un
nuovo strumento, approvato il 21 luglio scorso, che mette a disposizione 750 miliardi di euro
ripartiti in quote diverse per ogni Paese membro. All’Italia spetterebbero 209 miliardi, di cui 81,4
di sussidi e 127,4 di prestiti, che dovranno essere impegnati attraverso un preciso piano strategico,
il cosiddetto PNRR (Piano Nazionale per la Ripresa e la Resilienza), che fra le altre cose dovrà
contenere una quota di investimenti, il 20% almeno, nella transizione digitale ed altre
importanti quote dedicate alle politiche green, all’istruzione e alla sanità.

Insomma, se volessimo gettare uno sguardo disincantato e cinico su alcuni effetti che il Covid-19 ha
Il Natale che verrà - L'editoriale di Ivan Zorico - Smart Marketing
innescato, peraltro già abbastanza evidenti durante il lockdown della primavera scorsa, dovremmo
concludere che non tutto il male viene per nuocere, e che, così come l’Italia, anche molti altri Paesi
hanno visto incrementare notevolmente lo smart working, la didattica a distanza, la digitalizzazione
delle famiglie e la semplificazione burocratica di alcune istituzioni; certo, con molti problemi ancora
da risolvere, ma con qualcosa che finalmente si muove nella giusta direzione.

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Certo, sono pure aumentate, come in ogni grande crisi, le diseguaglianze sociali, il divario fra ricchi
e poveri, fra chi ha opportunità e possibilità di cambiare e fra chi non può farlo perché non sa come
mettere insieme il pranzo con la cena. È aumentato il debito, nostro e soprattutto quello delle
generazioni future, problemi atavici e sottovalutati, come il cosiddetto “inverno demografico”
dell’Europa, in particolare del nostro Paese, saranno ancora più acuti e drammatici in futuro. Con
un’Europa che diventa sempre più vecchia e che non fa figli, sarà difficile mantenere attive, già nei
prossimi 20/30 anni, le politiche di welfare e gli attuali standard di vita.

Ma oggi siamo qui a fare i conti con la recrudescenza dei contagi che, mentre scrivo, sono impietosi:
il nostro Paese ha sfondato la soglia dei 30mila casi, sono 31.084 i nuovi positivi a fronte di
215.000 tamponi con 199 decessi nelle ultime 24 ore, con il famigerato indice Rt a 1.7, mentre
in Francia sono 49.215 ed in Germania oltre 19.367 in un solo giorno, mentre nel mondo ci sono
più di 45 milioni di contagi ed oltre 1,18 milioni di morti dall’inizio della pandemia.

Da una parte lo scenario nefasto e drammatico di un nuovo lockdown generalizzato, ed europeo
questa volta, con molte imprese piccole e medie che non riusciranno più a riaprire, dall’altro il virus,
che ha condizionato tutto il nostro ultimo anno, costringendoci al cambiamento repentino dei nostri
comportamenti, dei nostri lavori, delle nostre vite.
Il Natale che verrà - L'editoriale di Ivan Zorico - Smart Marketing
Insomma, la scelta è restare aperti, contagiarsi e rischiare di morire o chiudersi in casa, fermarsi,
indebitarsi oltre ogni possibilità di ripresa e morire di inedia.

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    Quella che stiamo vivendo è una partita – un round – tra le più difficili che abbiamo mai vissuto
    sotto tutti i punti di vista: economico, sanitario e sociale. In questo contesto i progetti relativi ai
    fondi europei del recovery fund potranno e dovranno essere un volano di crescita e di rinnovato
                                                  benessere.

Sinceramente i due scenari sono alquanto foschi, non saprei quale scegliere, ed onestamente le
rivolte, la tensione e la lacerazione del tessuto sociale non mi fanno ben sperare per il futuro. Oggi
non riesco proprio a pensare che “tutto andrà bene”!

L’unica cosa che possiamo fare è adeguarci, imparare la fondamentale lezione dell’evoluzione, che ci
insegna che in natura non vince chi è più forte, ma chi si adatta meglio al mutare delle condizioni,
chi è flessibile, pratico, mentalmente elastico; in una parola, spesso abusata, ma a noi di questo
magazine molto cara, a chi è “smart”, in tutti i principali significati che questa parola rappresenta.

Mai come ora dobbiamo sforzarci di diventare smart, ne va della nostra sopravvivenza e del nostro
futuro.

Buona lettura e buona fortuna a tutti voi.

                                                                                    Raffaello Castellano

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#ripartItalia - L'editoriale di Ivan Zorico
Come stai?

Dimmi un po’ di te, come stai? No, non rispondere frettolosamente con un “ma sì dai, bene”… dico
davvero, come stai?

Mai come in questo momento storico c’è da chiederlo e chiederselo. C’è da ascoltare ed ascoltarsi.

Abbiamo vissuto un lockdown duro, durissimo. Abbiamo fatto i conti con parole “nuove” come
pandemia, infodemia, smart working, ma anche con quelle perdute. Abbiamo purtroppo fatto
letteralmente i conti (e non è ancora finita) delle persone contagiate e di quelle che non ce l’hanno
fatta. Abbiamo visto immagini che non vorremmo più rivedere (cfr. i furgoni dell’esercito che
trasportavano le bare) e abbiamo dovuto ascoltare anche le tesi dei complottisti. Abbiamo vissuto
un’estate diversa dal solito, per quanto mi riguarda non meno bella, ma certamente diversa.

E ora? Ora ci sentiamo intimamente frastornati.
Da un lato c’è la spinta della società verso un ritorno alla normalità (quale normalità?) e dall’altro ci
siamo noi che cerchiamo di rimettere insieme i pensieri, le emozioni ed anche le paure. Dovremmo
essere razionali e freddi, quando invece siamo umani, ossia emotivi e istintivi. Non facile.

Si parla tanto delle conseguenze a livello sanitario ed economico di quello che è successo, meno di
quelle che abbiamo vissuto e stiamo vivendo a livello psicologico. Forse ne prenderemo davvero
coscienza tra qualche tempo. Per cui, come stai?
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Guardiamoci dentro.
La pandemia ancora in corso ed il lockdown appena passato hanno riscritto completamente molte
delle nostre consuetudini ed hanno accelerato processi che, se pur già in atto, erano ancora agli
albori. Siamo stati catapultati dalla sera alla mattina in un nuovo mondo e dobbiamo riprendere le
coordinate. È giusto che sia così e non sentirti l’unico o in difficoltà per questo. Prendiamoci
il tempo per capire, senza farci troppo trascinare dal flusso. Attenzione, non rimanendoci fuori, ma
cercando di avere la giusta posizione per osservare e valutare. Questo non è il momento delle
decisioni avventate e neanche quello di stare completamente fermi; è il tempo della
consapevolezza e del lavoro interiore. Lavorando su noi stessi saremo in grado di prepararci alle
nuove sfide. Non solo dal punto di vista lavorativo, ma per certi versi anche da quello
evoluzionistico.

                      Scopri il nuovo numero: #ripartItalia
   Mai come ora, in questo settembre 2020, un numero come #ripartItalia sembra utile e necessario
   perché, mai come adesso, in questo nefasto anno bisestile, abbiamo bisogno di fare il punto sulle
                      cose, su noi stessi, sui nostri obbiettivi e sulle nostre vite.

Guardiamo oltre.
Se ci segui ed hai imparato a conoscerci, sai che il nostro numero di settembre è sempre dedicato
alle idee per far ripartire l’Italia, #ripartItalia appunto.

Non un numero alto o sui massimi sistemi, ma un numero con un obiettivo specifico. Ecco quello che
scrivevo nell’editoriale del settembre 2014:

  Questo numero di Smart Marketing (#ripartItalia) è dedicato proprio a loro. A tutte quelle
  persone che pensano che nel nostro Paese non ci sia più futuro. A tutte quelle persone che non
  hanno più la forza di credere in un cambio di rotta. A tutte quelle persone che, magari dopo averci
  provato più volte, hanno deciso di gettare la spugna.

In quell’editoriale facevo riferimento all’alto numero di disoccupati in Italia e all’altrettanto alto (e se
non più grave) numero di scoraggiati.

Da allora la situazione è molto cambiata, tutto ha preso una velocità enorme. Il digitale e la
rivoluzione tecnologia sono ormai una ovvietà e non temi a cui si guardava come qualcosa di
nuovo (per molti ahimè è ancora così), la sostenibilità ha fatto presa sull’opinione pubblica e
quindi anche sul mondo produttivo e, ora, la sanità è diventata giustamente centrale, per non dire
vitale.

Questi tre macro temi, uniti a quelli relativi alle infrastrutture e all’istruzione e alla formazione,
saranno al centro degli investimenti basati sulle risorse messe a disposizione dal recovery fund.
Un’occasione unica per rilanciare davvero l’Italia ed il suo sistema economico-produttivo;
un’occasione unica per aprire finalmente una nuova stagione di riforme e crescita. Saranno quindi
questi i settori che più cresceranno nel prossimo futuro e che si spera riusciranno a trainare anche
tutti gli altri. In pratica, se vuoi un consiglio neanche troppo illuminato, strutturati per salire (anche
in corsa) su uno di questi vagoni e per agganciare questo treno. Noi, da far nostro, ci prendiamo
l’impegno di seguirli e di parlarne per tenerti aggiornato. Per cui continua a seguirci.

Buona lettura,

                                                                                              Ivan Zorico

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#Ripartitalia - L’editoriale di Raffaello
Castellano
Fin dalla sua nascita nell’ormai lontano
  2014, il numero di settembre del nostro
  magazine è stato un numero speciale.

  Questo per una serie di fattori: innanzitutto fu il primo numero a
  tematica fissa (che da allora si è chiamato sempre così), ma anche
  perché ci sembrava che a settembre, con la scuola che riapre, la
  aziende che ripartono, la fine delle ferie e delle vacanze, ci fosse il
  bisogno di fare il punto sullo stato dell’arte, su come siamo messi, su
  cosa possiamo fare per migliorare noi, le nostre vite, le nostre aziende
  ed il nostro Paese.

  Fu per questo motivo che io e l’amico Ivan Zorico, in quel lontano
  mese di settembre del 2014, decidemmo di chiamare questo
  importante uscita #Ripartitalia.

Un titolo breve, tondo ed esaustivo che racchiude in 13 caratteri tutti i nostri intenti, la nostra
mission, i nostri obbiettivi e, soprattutto, tutta la nostra filosofia editoriale.
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italia uscito nel settembre 2014.

Certo non potevamo sapere allora, in quel cruciale settembre di 6 anni fa, che il 2020 ci avrebbe
portato la pandemia di Coronavirus, che da febbraio di quest’anno avremmo sperimentato prima la
paura, poi il lockdown, poi la Fase 2, poi la Fase 3 e che, mentre scrivo quest’editoriale, dopo
un’estate “incerta” ed atipica, sul Mondo e sull’Europa si sarebbero addensate le nubi della
famigerata e tanto temuta “seconda ondata” di contagi.

Mai come ora, in questo settembre 2020, un numero come #Ripartitalia sembra utile e necessario,
perché mai come adesso, in questo nefasto anno bisestile, abbiamo bisogno di fare il punto sulle
cose, su noi stessi, sui nostri obbiettivi e sulle nostre vite.

Da dove dovremmo ripartire?
In questi ultimi mesi, certo, si sono delineate delle direttrici, prima fra tutte quella dello
smartworking, che durante i mesi più duri del lockdown ci ha consentito di non fermare del tutto il
nostro sistema produttivo. Indietro non si torna, anche se qualcuno lo spera, la strada ormai è
imboccata, possiamo solo percorrerla, stando attenti alle curve, ai dossi ed agli ostacoli, ma con la
consapevolezza che il lavoro, almeno gran parte di esso, può e deve cambiare modalità, tempi e
strumenti di applicazione.

Legato allo smartworking c’è il tema della digitalizzazione del Paese, che non ha saputo reagire
dappertutto alla stessa maniera: il nord, come al solito, ha risposto meglio del sud, dove la banda
larga, la fibra ottica e le stesse competenze digitali sono, secondo gli studi e i sondaggi, distribuite a
macchia di leopardo.

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Poi c’è la direttrice scuola, che, è bene ricordarlo, non si è fermata del tutto, più per la buona
volontà di alcuni eroici professori che per una reale capacità del Ministero della Pubblica
Istruzione di migrare lezioni, esami e corsi su piattaforme digitali, che magari esistevano, ma si
sono mostrate spesso inadeguate o non utilizzabili dalla stragrande maggioranza del personale
docente italiano che non brilla, a livello europeo, per competenze informatiche e digitali.

Poi c’è la sempre attuale questione ambientale ed ecologica: se c’è una cosa che il Coronavirus ci
ha insegnato, è che non possiamo più invadere e depredare gli spazi della Natura. Questo spillover,
questa zoonosi, partita molto probabilmente da un pipistrello e passata attraverso un pangolino,
prima di arrivare all’uomo, deve essere un campanello d’allarme che dobbiamo ascoltare e non
possiamo permetterci di ignorare. Rispettare e proteggere la natura e l’ambiente sono priorità che
non possiamo più trascurare e/o rimandare.

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   perché, mai come adesso, in questo nefasto anno bisestile, abbiamo bisogno di fare il punto sulle
                      cose, su noi stessi, sui nostri obbiettivi e sulle nostre vite.

Altra cosa che il Coronavirus ci ha insegnato è l’importanza della sanità pubblica: medici,
infermieri ed ospedali non sono cose a cui possiamo tagliare fondi e risorse, come se nulla fosse, un
sistema sanitario efficiente e pronto a tutto, anche ad una pandemia globale, è la prima cosa di cui
un Paese moderno e civile deve dotarsi.

Infine ci sarebbe il tema della scienza e degli esperti: mai come durante questa pandemia
abbiamo sentito il bisogno di essere rassicurati da scienziati, epidemiologi e virologi, eppure,
nonostante molti di noi si siano rivolti alla scienza, molti altri, ancora troppi, sono caduti vittima di
complotti, bufale e fakenews, che hanno aggiunto alla paura per il coronavirus l’incertezza e l’ansia
che ci assale quando non sappiamo a chi prestare fiducia.

Ci sarebbero altre “direttrici”, ma queste mi sembrano le più importanti, sono le stesse su cui si
basano gran parte delle linee guida che l’Unione Europea ha stabilito per il Recovery Fund, un
importante strumento finanziario per far ripartire l’economia del vecchio continente, messa in
ginocchio dal Covid19.
Noi di Smart Marketing cercheremo di fare la nostra parte, con l’aiuto dei nostri collaboratori,
attraverso i nostri articoli, le nostre interviste, le nostre rubriche e tutti quegli strumenti che
abbiamo messo e metteremo in campo, che ci aiuteranno ad approfondire le nostre conoscenze,
ampliare le nostre capacità, stimolare la nostra curiosità e, in particolare, sviluppare quelle
“competenze trasversali”, che, mai come quest’anno, hanno fatto la differenza fra chi si è fermato e
chi è andato avanti.

Noi saremo al vostro fianco, per aiutare a far ripartire i nostri lavori, le nostre vite ed il
nostro Paese.

È una promessa, noi non vi abbandoneremo, non fatelo neanche voi!

Buona lettura e buona ripartenza a tutti.

                                                                            Raffaello Castellano

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Turista per Covid - L'editoriale di Ivan
Zorico
Strana estate questa.

Sembra passato un secolo ma, come ricorderete, a maggio dibattevamo sull’opportunità di mettere
il plexiglas in spiaggia o tra i tavoli dei ristoranti per rispettare il distanziamento sociale.
Per fortuna niente di tutto ciò è avvenuto e, con le dovute cautele e precauzioni, abbiamo comunque
avuto la possibilità di vivere un’estate tutto sommato serena.

Certo quella del 2020 non è un’estate come le altre (e per tutta una serie di ragioni anche
molto serie), ma non significa per forza che debba essere meno bella. Certo tutti avevamo tanti
progetti e cose da voler fare, ma abbiamo avuto anche tempo e modo per rivederli e per trovare
nuove soluzioni. Come sempre, stare lì a pensare a quello che avrebbe potuto essere non porta a
nulla, più conveniente è invece applicarci per cogliere il meglio che abbiamo a disposizione. Ed è
personalmente quello che ho fatto.

  Io non vivo né nel mio passato, né nel mio futuro. Possiedo soltanto il presente, ed è il presente
  che mi interessa. Paulo Coelho

Non so voi, ma dopo quei mesi chiusi in casa, avevo bisogno di aria aperta, di sport aerobico, di
spazio e di luce. Tutte cose per le quali non servono capitali da investire. L’estate, soprattutto
nella nostra Italia, ce le mette puntualmente e gratuitamente a disposizione.
Dite la verità: ce ne siamo mai davvero accorti?

Ho assaporato il piacere dell’essenza, della gratitudine per un tramonto sul mare, dell’emozione
per familiari e amici rivisti dopo tanto tempo.
Dite la verità: avete provato le medesime sensazioni anche nelle scorse estati?

                 Scopri il nuovo numero: Turista per Covid
   Com’è cambiato il turismo al tempo del Covid? E soprattutto, come sono cambiate le abitudini dei
turisti?

Ho corso all’alba, ho camminato (P.S. se passate dalla Puglia vi consiglio questo percorso:
Cammino del Salento), ho ascoltato il respiro, ho riso di cuore e con il cuore.
Dite la verità: avete mai vissuto queste esperienze?

Dico la verità: no, no e ancora no. O meglio, mai con
l’intensità di questa estate.
Avevo progetti diversi per questa estate; nei programmi questa era l’estate delle isole greche. Dico
ancora la verità, non mi dispiace neanche un po’ non esserci andato. Se è vero che un turista
viaggia per scoprire cose nuove, posso essere più che soddisfatto: ne ho scoperte di bellissime.

Buona lettura,

                                                                                        Ivan Zorico

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Turista per Covid - L’editoriale di Raffaello
Castellano
Mentre sto scrivendo questo editoriale, 29 agosto, il bollettino
dei contagi ci dice che in Italia ci sono 1444 nuovi contagi a
fronte di una cifra record di tamponi effettuati, quasi 100 mila,
99.108 per la precisione. Molti di questi casi sono riconducibili
a persone che rientrano da zone a rischio come la Spagna, la
Francia, ma pure la Sardegna, dimostrando ancora una volta
che il virus continua a circolare sia dentro che fuori le nostre
mura.

Questa strana estate italiana, spaccata in due sia dal meteo che dai contagi, si appresta a finire, fra
oggi e domani ci saranno la maggior parte dei rientri dalle vacanze e questo weekend di fine agosto
sarà l’ultimo da bollino rosso.

Ma che estate è stata, o sarà per chi andrà in vacanza a settembre???
Difficile dirlo, come al solito la politica italiana si è distinta per la confusione normativa, complicata
dal rischio per la salute da una parte e dalle esigenze economiche dall’altra, gettando gran parte
degli Italiani nell’incertezza più totale sulle norme da rispettare.
Stato centrale, Regioni e Comuni hanno litigato quasi su tutto, cercando con le elezioni regionali ed
il referendum alle porte di “accontentare” tutti, ma, come sappiamo bene, questo non è possibile,
men che meno in un regime di emergenza come quello in cui viviamo.

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Insomma, Covid-19 a parte, potremmo dire che è la solita Italia???
Beh, forse no, questa per me è stata un’estate di lavoro “atipica”, e voglio dirvi perché: con
l’associazione di cui faccio parte abbiamo vinto un bando comunale per la gestione ed
organizzazione dei campi scuola estivi, per bambini e ragazzi dai 3 ai 14 anni. La qual cosa mi ha
costretto, oltre che a lavorare tutta l’estate, ad analisi preliminari, test sierologici, triage sanitario
quotidiano e al rispetto delle norme anti-contagio più restrittive. Eppure, nonostante tutte queste
limitazioni, il campo scuola è stato un successo, innanzitutto per i bambini che vi hanno partecipato,
costretti a mesi di internamento forzato durante il lockdown, e desiderosi di divertimento ed attività,
ma lo è stato anche per i genitori, anch’essi reduci da mesi di confinamento obbligato e stress
dovuto alla mole di lavoro che la presenza dei bambini, sempre a casa, richiedevano, fra lezioni,
compiti, cure e attenzioni continue.

Il campo scuola a cui ho partecipato e che finirà entro metà settembre è stata l’occasione di vedere
in azione quella che sarà la nuova normalità di cui tutti parlano, quella capacità di convivere e
sopravvivere con il virus onde evitare altri lockdown, che sarebbero devastanti per la nostra
economia. La mia particolare esperienza, con soggetti delicati e a rischio per definizione, mi insegna
che è sempre possibile mutare rotta, imparare nuove abitudini, acquisire nuove competenze, in una
parola “cambiare”.
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Perché è inutile, che ce lo diciamo o meno, l’unica maniera per continuare le nostre vite post-
Covid19 sarà quella di imparare a rispettare le norme anti-contagio, perché questo spillover del
Coronavirus, ci dicono gli esperti, sarà solo il primo di una lunga serie di casi che in futuro potranno
accadere.

Quindi le vacanze appena trascorse, quelle che alcuni faranno a settembre, o la ripartenza del lavoro
e della scuola saranno possibili solo e unicamente se saremo disposti tutti quanti a fare dei sacrifici,
rispettando le regole e imparando giocoforza a convivere con il virus.

Ce lo dice anche un famoso proverbio: “Se non puoi batterli, alleati con loro”, e lo ribadisce, in
un certo senso, una bellissima massima di Nietzsche: “Ciò che non ci uccide ci rende più forti”,
due suggerimenti, o auspici se volete, con cui vi voglio augurare buon rientro, buone vacanze o
buona scuola a seconda dei casi.

                                                                              Raffaello Castellano

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Just Working - L'editoriale di Ivan Zorico
Il 21 febbraio di quest’anno abbiamo riportato un forte
shock. Non tutti in quella data lo hanno davvero avvertito,
ma nelle settimane successive tutti ci abbiamo fatto i conti.

Abbiamo scoperto che la normalità era un concetto fragile perché fragili eravamo noi che ne
facevamo parte. Ci siamo scoperti insicuri, impauriti e delicati; in una parola umani. Via le
certezze, via le abitudini, via il rumore. Bloccati come eravamo nelle nostre case, abbiamo avuto
tempo per pensare e per guardare, da spettatori, la nostra vita. C’è stato chi ha vissuto questo
tempo in maniera molto negativa, chi ha reagito prontamente e chi ha iniziato a lavorare su stesso.

Abbiamo cercato di replicare e portare avanti quegli aspetti
centrali della vita di tutti noi: le relazioni e il lavoro.
Come mai prima di allora ci siamo aggrappati alla tecnologia, un po’ per sentirci meno soli e un
po’ per cercare di continuare a fare quello che facevamo prima, ma in modo nuovo. Abbiamo quindi
mantenuto relazioni a distanza e abbiamo continuato a lavorare e a portare avanti progetti
grazie alle varie app di video chat e ai vari software di gestione e condivisione del lavoro. Certo non
tutti i lavori potevano e possono essere eseguiti in questa modalità, ma per quelli che lo
consentivano è stata una sorta di rivoluzione.

Come in tutte le cose, c’è chi è stato fortunato e chi no.
L’abbiamo impropriamente chiamato smart working, più verosimilmente era (ed è) remote
working o telelavoro che dir si voglia, ma la sostanza per certi versi non cambia: molte persone dalla
sera alla mattina si sono trovate a lavorare da casa piuttosto che dalla solita scrivania dell’ufficio.

Non tutte le aziende erano pronte a far fronte a questa nuova sfida: il lavoro in versione
smart/remote non significa meramente spostare un computer dalla scrivania dell’ufficio a quella di
casa, ma significa avere processi, organizzazione aziendale, strumentazioni, persone preparate,
consolidati valori aziendali, capacità manageriali, etc. etc.. Insomma è ben più complicato di quel
che possa apparire superficialmente.

                     Scopri il nuovo numero: Just Working
   La pandemia è stato un fortissimo shock che ha interessato tutti gli aspetti della nostra vita e il
  mondo del lavoro è certamente tra questi. Dal telelavoro allo smart working, passando per il south
              working, vedremo come sta velocemente cambiando il concetto di lavoro.

Talmente complicato che, dati alla mano, sul finire del 2019 solo il 58% delle grandi aziende aveva
aperto al lavoro a distanza, mentre i numeri riguardanti il mondo della Pubblica Amministrazione e
delle PMI erano ancora più infelici.

Poi, come detto, c’è stato questo forte shock – il lockdown – che ha velocizzato un processo di
rinnovamento che, seppur in atto, faticava a prendere davvero piede.

La rivoluzione del lavoro.
Tra le caratteristiche più spiccate che possono essere riconosciute alla tecnologia c’è quella di
amplificare le risorse, di creare nuove opportunità e, soprattutto, di rimodellare il mondo in cui
viviamo.

In questi anni tutti i settori sono stati intercorsi da cambiamenti sostanziali e trasversali. E
poteva il mondo del lavoro restarne fuori? Sicuramente no. E non si tratta solo del modo di lavorare
o di un singolo software. Si tratta di molto di più.

Quando si parla di rivoluzione digitale si usa il termine disruptive e lo si usa in quanto certe
innovazioni segnano nettamente un solco tra il prima e il dopo. Per natura siamo abituati a
concepire il cambiamento come qualcosa di lento e progressivo. Ma, appunto, quando ci si trova di
fronte ad un certo tipo di trasformazioni, la linea del cambiamento si impenna esponenzialmente. E
quando accade è impossibile tornare indietro.

In questi mesi abbiamo scoperto che si può lavorare proficuamente anche non recandoci in
ufficio. Le persone hanno riscoperto il valore del tempo e ripensato interamente alle proprie vite.
Sarà difficile, come qualcuno anche con una certa miopia afferma, far tornare indietro le lancette
dell’orologio a prima del 21 febbraio.

Il processo di rinnovamento è in atto e difficilmente lo si
potrà fermare. Magari si potrà tamponarlo per qualche
tempo, ma quando la marea sale non c’è diga che tenga.
D’altronde si parla solo di lavoro, su quello si viene misurati. Non si è lavoratori più produttivi
se si usa una scrivania in un luogo piuttosto che in un altro. Non si diventa professionisti migliori se
si lavora in una specifica città piuttosto che in un’altra. Quello che importa sono i risultati e le
connessioni e, come abbiamo visto, si possono raggiungere e mantenere anche online.

Chi non lo comprende oggi, sarà comunque superato dai tempi domani.

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Just Working - L’editoriale di Raffaello
Castellano
Non so se vi ricordate un episodio dei Simpson della 7
stagione, “Maxi Homer”, andato in onda in Italia per la prima
volta il 4 maggio 1996.

Ebbene, nell’episodio in questione Homer è stanco di andare a lavorare alla Centrale Nucleare a
causa degli esercizi ginnici che il il sig. Burns ha deciso di far fare ai suoi dipendenti ogni mattina;
allora con l’aiuto di suo figlio Bart decide di ingrassare fino a 130 chili per poter essere
dichiarato invalido e poter lavorare da casa in modalità remota con un video terminale.

A rivederlo oggi, questo episodio non dimostra affatto di avere 25 anni suonati, sembra anzi
attualismo e pensato e disegnato non più di 2 anni fa. Ma l’attualità dei Simpson, più volte rimarcata
da insigni studiosi e critici, è, se possibile, in questo caso ancora più significativa, visto che lo smart
working è, dall’inizio della pandemia di Coronavirus, a febbraio di quest’anno, uno degli argomenti
più caldi e dibattuti non solo dal circo mediatico e politico, ma anche dai comuni cittadini.

La domanda ineludibile è: “Lavorare da casa è solo un vantaggio, oppure
nasconde anche delle insidie?”
Come sapete, mi piace essere controcorrente e su questo tema ho già ampiamente discusso con
l’amico Ivan, che invece è pienamente a favore dello smart working; io voglio invitare voi lettori ad
una riflessione più ampia ed articolata.

Credo che per taluni lavori prettamente “impiegatizi” e che prevedano l’uso principale del computer
il lavoro a distanza, il tele lavoro, lo smart working, siano in effetti un grande vantaggio. Pensiamo
alle ore risparmiate per recarsi in ufficio, al traffico, ai mezzi pubblici, al problema del parcheggio,
all’inquinamento ed allo stress derivante dal dover essere sempre di corsa ed affannati.

Detto questo però, pensiamo all’altro lato della medaglia: da sempre il posto di lavoro e la nostra
abitazione sono stati due posti separati, gli antropologi ci hanno spiegato che sono state le battute di
caccia dell’uomo delle caverne ad essersi poi evolute nei vari lavori. Certo, potrete dirmi che questo
vale soprattutto per una società maschilista come la nostra: la donna delle caverne in effetti
rimaneva “a casa” per sistemare giaciglio e focolare, ma questa concezione è ovviamente
ampiamente superata, oggi le donne che lavorano sono tantissime e, benché non abbiano ancora i
diritti e gli stipendi dei colleghi maschi, molto si sta facendo per annullare queste differenze di
genere.

Ma il tema che ci interessa qui è quello del lavoro: per centinaia, migliaia di anni, il posto in cui esso
era svolto e la casa sono stati separati da distanze più o meno ampie, l’ufficio e la casa erano due
luoghi distinti e diversissimi fra loro.

Allora forse dovremmo chiederci: “Quali vantaggi offriva, ed offre, questa
separazione geografica?”
Innanzitutto i vantaggi sono di tipo psicologico e neurologico: il nostro cervello si è evoluto per
campionare ed interpretare una miriade di impulsi, la ripetività di un compito o di uno stimolo, alla
lunga annoia il nostro cervello e di conseguenza la nostra concentrazione. In pratica vedere sempre
lo stesso ambiente impigrisce la nostra attenzione, e cosa c’è di più noioso che lavorare sempre nello
stesso ambiente, che per giunta non ho fatto alcuna fatica a raggiungere?

Se il mio smart working si svolge nello studio o nella cucina di casa mia, e per raggiungerlo ho
dovuto fare solo pochi metri, quanto tempo ci metterà il mio cervello ad annoiarsi?

In secondo luogo, pensiamo alle interazioni che il lavoro in ufficio ci offre, il caffè e le chiacchiere
con i colleghi, le interazioni sociali, gli stimoli visuali, olfattivi ed uditivi sempre nuovi che il posto di
lavoro ci trasmette.

                      Scopri il nuovo numero: Just Working
   La pandemia è stato un fortissimo shock che ha interessato tutti gli aspetti della nostra vita e il
  mondo del lavoro è certamente tra questi. Dal telelavoro allo smart working, passando per il south
                working, vedremo come sta velocemente cambiando il concetto di lavoro.

A tal proposito mi viene in mente un’altra serie tv. Vi ricordate la sitcom Camera Cafè? Il suo
successo fu immediato e strepitoso, non solo perché Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu erano
bravissimi a circondarsi di attori e caratteristi strepitosi, ma perché le vicende che raccontavano,
benché esagerate e grottesche, erano vere o quantomeno verosimili. Camera Cafè metteva in scena
il micro-cosmo dell’ufficio, con le sue gelosie, cattiverie, ipocrisie, scherzi, amori e drammi,
concentrandoli e distillandoli in un piccolo e circoscritto “non luogo”, come appunto la camera che
ospita la macchinetta del caffè, il punto ristoro dell’ufficio.

https://youtu.be/M9TGSjaczF4

Ed ancora, uno dei problemi che anche i fedeli adepti dello smart working ammettono è che
lavorando a casa diviene molto difficile gestire gli orari del lavoro stesso. Molti dei lavoratori che
hanno optato per lo smart working hanno dichiarato, a più riprese, che le ore di attività erano molte
di più di quelle svolte in ufficio. Certo, questo ha aumentato la produttività, e le aziende ne sono più
che soddisfatte, ma la “qualità della vita” degli impiegati è molto peggiorata. Il riposo, lo svago, gli
orari certi e cadenzati del lavoro e del tempo libero sono anche questi molto radicati nel nostro
cervello, cambiare orari è difficile; pensate a quello che vi succede durante i primi giorni di ferie o al
ritorno dalle stesse. Cosa ancora più significativa, il maggior impegno lavorativo era messo in
pratica dagli impiegati stessi, senza imposizioni aziendali e in maniera quasi inconscia, il che
dimostra la necessità di divisione geografica, fisica e temporale che il posto di lavoro e la casa
dovrebbero mantenere.

Infine, ci sono da considerare il problema degli spazi condivisi, dei figli, delle connessioni e
dell’accesso ai videoterminali, non tutte le case infatti hanno abbastanza stanze, la banda larga o più
di un computer per lavorare; molte famiglie magari hanno uno o più figli che rivendicano spazi ed
attenzione. Lavorare da casa ha, quindi, anche i suoi lati negativi, come diversi analisti e giornalisti
hanno rilevato, tra i quali ci piace l’ironica sintesi di Francesco Specchia che ne parla in un
recente TgPOP (e che noi abbiamo intervistato nello scorso numero sulla comunicazione).

Allora, veniamo alla mia tesi, tra l’altro supportata dagli psicologi del lavoro: siamo sicuri che
rinunciare al micro-cosmo dell’ufficio, con le sue interazioni, anche quelle più frivole, sia dal punto di
vista della nostra “ecologia mentale” conveniente?

Beh, io penso proprio di no!
Ed ancora, lavorando da casa, non corriamo il rischio di aumentare eccessivamente i nostri orari di
lavoro, andando a scapito della nostra qualità della vita?

La risposta non può essere che si!
Ed infine, il lavoro da casa è facilmente realizzabile da tutti e non presenta limitazioni?

La risposta a questa domanda è negativa!
Va bene, qualcuno (e forse anche l’amico Ivan) obbietterà che la mia visione è troppo cupa, che i
vantaggi dello smart working in termini di traffico scongiurato, carburante risparmiato, spostamenti
azzerati, inquinamento evitato e stress contenuto siano molto più importanti e rilevanti dei problemi
che lo stesso comporta.

Allora, vi rispondo con una ricerca scientifica, commissionata dalla nota piattaforma di ricerca del
lavoro DirectlyApply, che ha creato una simulazione grafica dello smart worker del futuro. Lei si
chiama Susan ed è una figura davvero inquietante, che mostra gli effetti a lungo termine del lavoro
telematico da remoto. Ebbene, Susan è obesa, presenta una vistosa gobba, ha gli occhi arrossati per
le troppe ore passate davanti allo schermo del pc, i polsi sono doloranti a causa dell’utilizzo continuo
della tastiera, i capelli sono radi e sfibrati, a causa della mancata esposizione al sole che ha
diminuito l’assorbimento nel corpo della Vitamina D. Secondo gli esperti che hanno creato questa
simulazione computerizzata, se continuiamo a lavorare prettamente in modalità smart working
rispetto ad una modalità normale o mista, entro 25 anni rischiamo di diventare tutti come Susan o,
se vi piace di più, come il “Maxi” Homer Simpson.

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ica “Susan” realizzata dlla piattaforma DirectlyApply per illustrare i rischi dello smart working.

Ma allora che atteggiamento dobbiamo avere nei confronti dello smart working?
Certamente lo smart working presenta molti vantaggi se, ad esempio, ci fa evitare uno spostamento
di quattro ore in macchina o due in aereo per partecipare ad una riunione di un’oretta; in questo
caso le piattaforme tipo Zoom o Stream Yard sono una scelta più pratica, economica, ecologica,
conveniente e soprattutto intelligente (smart, appunto). Senza dubbio anche la formazione, non
tutta, ma quella ordinaria, si può giovare della modalità remota, ma per altre tipologie di formazione
come quelle delle convention, dei seminari aziendali, dei grossi eventi, la modalità smart non può
reggere il confronto con la modalità in presenza; infatti in questi grossi incontri la formazione pura è
solo una parte dell’evento, sono le interazioni sociali, al tavolo da buffet, durante la pausa caffè o a
cena che permettono di instaurare collaborazioni ed offrono nuove, ed autentiche, opportunità di
crescita professionale, e questo lo posso confermare anche io, da esperto di pubbliche relazioni con
20 anni di esperienza.

Inoltre, non andrebbero dimenticati i rischi per la salute di un ricorso massiccio allo smart working,
come gli esempi di Susan e Homer Simpson dimostrano.

Insomma, il mio parere è che una “modalità mista” fra lavoro tradizionale e smart working sia la
vera strada da percorrere, perché se è vero che il progresso non si può arrestare, è pur vero che le
esperienze positive e “funzionali” del passato non vanno semplicemente buttate alle ortiche.
Come sempre la parola magica è “equilibrio”: imparare a gestire modernità e tradizione, virtuale e
reale, lavoro in presenza e in remoto, formazione online e convention aziendale, spostamenti inutili e
spostamenti necessari, interazioni sociali dal vero e interazioni sociali virtuali, tutto questo
rappresenta la “competenza trasversale” che contraddistingue il vero manager da quello che si
atteggia solamente.

Perché “smart” nel suo significato più autentico e vero significa intelligente, e l’intelligenza, fra le
altre cose, è la capacità di un organismo di adattarsi ad una nuova condizione facendo leva, e tesoro,
sulle sue esperienze pregresse.

In parole povere essere intelligenti, smart, non vuol dire avere una sfilza di idee e/o essere solo
super creativi o iper-adattabili, ma significa pure imparare dai propri errori (leggi esperienze) a
superare le nuove sfide con quel mix esplosivo di tradizione ed innovazione che contraddistingue i
veri vincenti dai semplici fortunati.

Buona lettura e buon lavoro, di qualunque tipo esso sia, a tutti voi.

                                                                                 Raffaello Castellano

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Tutto è comunicazione - L’editoriale di
Raffaello Castellano

Dove eravamo rimasti???

Gli ultimi 4 mesi hanno visto l’Italia ed il Mondo intero sprofondare nell’incubo della pandemia da
SARS-CoV-2 che tra le altre cose ha monopolizzato e verticalizzato totalmente la comunicazione e
l’informazione. Ne è un esempio anche questo magazine, che, a partire dal numero di febbraio
“Virale” fino al numero di maggio “Upgrade”, ha dipanato un racconto del quotidiano che si è
concentrato interamente sulle problematiche, ma pure le opportunità che un cambio di paradigma
così radicale come una pandemia virale porta insite in sé.

L’agenda politica, sociale, economica e culturale ha visto l’adozione di un lessico nuovo, di nuovi
linguaggi e soprattutto di nuovi comunicatori.

Le parole nuove le conosciamo bene, sono: quarantena, lockdown, coronavirus, Covid-19,
emergenza sanitaria, zona rossa, contagio, infetti, terapia intensiva, etc..

Il linguaggio nuovo è stato quello dei bollettini della Protezione Civile, delle Conferenze
Stampa del Governo a tarda notte, delle dirette Facebook, delle stanze di Zoom, delle
videochat di Skipe, degli innumerevoli webinar, videoconferenze e corsi online che si sono
susseguiti senza soluzione di continuità.

I nuovi comunicatori sono stati un po’ a sorpresa gli scienziati, soprattutto epidemiologi, virologi,
biologi, medici, veterinari, esperti di statistica e giornalisti scientifici, che hanno spopolato su tutti i
media, soprattutto la televisione, che è passata con “estrema” naturalezza da prime serate animate
da Panzironi e il Mago Otelma direttamente a virologi di fama come Ilaria Capua e Roberto
Burioni.
I
v
i
r
o
l
o
g
h
i
R
o
b
e
r
t
o Burioni e Ilaria Capua

Insomma, la scienza, quella ufficiale e rigorosa, ha goduto di uno spazio e di un’attenzione mai viste
prima. Vuoi per paura, vuoi per disperazione, tutti noi, all’inizio della pandemia, perfino
terrapiattisti, no-vacs e complottisti vari, ci siamo rivolti alla scienza per avere una qualche
indicazione, una parola di speranza, un conforto, un’informazione sicura.

Ma tutto questo è durato poco, sono stati diversi i fattori che ci hanno piano piano allontanato dalla
scienza. Due su tutti, secondo chi scrive, i motivi principali: da una parte la diffusa ignoranza del
pubblico generalista sul funzionamento del metodo scientifico, e dall’altro gli scienziati stessi, che,
ubriacati dall’attenzione mediatica e abbagliati dalla luce dei riflettori, hanno per la maggior parte
sprecato questa occasione d’oro che il virus gli aveva offerto.

Ma analizziamo più approfonditamente entrambi i motivi.
Per quale motivo l’ignoranza su come funziona la scienza ha portato lentamente ma inesorabilmente
le persone a disaffezionarsi agli scienziati?

La scienza, al contrario di quello che pensa la gente comune, non fornisce certezze, ma anzi va
avanti per tentativi ed errori, teorie e confutazioni, successi e fallimenti. Fra i postulati
fondamentali del metodo scientifico ci sono: che una teoria possa essere falsificata, che un
esperimento possa essere replicato da un altro gruppo di scienziati, che un articolo
scientifico, prima della pubblicazione, debba essere validato da una comunità di pari.
Quindi la scienza, nelle migliori condizioni, propone teorie, ipotesi e studi che hanno una funzione
pratica, temporanea e possibile di verifiche future. Spingendo più in là il nostro ragionamento,
potremmo dire che se qualcuno propone una certezza inconfutabile, assoluta ed immutabile,
possiamo stare certi che non si tratta di scienza, ma di qualcos’altro.
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