LE VITTIME DELLA MAFIA - IC San Giovanni Bosco

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L E V I T T I M E D E L L A M AF I A
                                          1861
Giuseppe Montalbano è un medico, fervente mazziniano, e partecipa alla rivoluzione
palermitana del 1848. Dopo lo sbarco a Marsala di Giuseppe Garibaldi, si unisce ai
Mille, e per questo verrà poi eletto consigliere comunale e poi provinciale. Viene
ucciso la sera del 3 marzo 1861 davanti casa sua, a Santa Margherita Belice (Ag),
con tre fucilate alle spalle. Montalbano paga così l’aver guidato i contadini che
rivendicano tre feudi che dovrebbero essere del Comune, usurpati invece dalla
principessa Giovanna Filangieri. Alla sua morte esplode la rabbia popolare e viene
preso d’assalto il Circolo dei Civili e messo sotto assedio per 2 giorni il municipio della
città. La rivolta viene infine sedata e sull’omicidio Montalbano non si fanno indagini.

                                          1863
Giovanni Corrao è un operaio del porto di Palermo, un calafataro, cioè colui che con
il catrame rende impermeabili le imbarcazioni di legno. Ma Corrao è soprattutto un
antiborbonico. Nel 1860 si unisce ai Mille e nel corso della campagna viene nominato
generale dallo stesso Garibaldi. Finita l’impresa dei Mille, Corrao entra a far parte
dell’esercito sabaudo con il grado di colonnello, ma nel 1862 lascia tutto per seguire
nuovamente Garibaldi nell’impresa della conquista di Roma, fino alla sconfitta
sull’Aspromonte. Quando torna a Palermo, viene assassinato dalla mafia il 3 agosto
1863. Il delitto resta impunito, ma negli atti dell’indagine si usa per la prima volta il
termine “mafia”.
                                          1874
Emanuele Attardi è un bambino quando, l’8 novembre 1874, viene ucciso da un
colpo di fucile che lo raggiunge mentre passeggia in compagnia del padre, Gaspare
Attardi, il vero obiettivo dell’agguato. Gaspare Attardi è cancelliere della Pretura e ha
contribuito a individuare e far arrestare un mafioso.

                                          1876
Giuseppe Aguglia è un caporale delle guardie campestri di Bagheria. Viene ucciso
il 15 giugno 1876 perché si oppone ai soprusi dei mafiosi locali.

                                          1878
Anna Nocera è una ragazza di 17 anni e lavora come domestica in casa degli
Amoroso, una famiglia mafiosa. Viene sedotta dal rampollo del la famiglia, Leonardo,
che quando apprende che Anna è rimasta incinta la uccide e fa sparire il corpo. Il
padre di Anna, non avendo più notizie della figlia, affronta Amoroso, che reagisce
insultandolo e minacciandolo di morte qualora avesse osato rivolger si alla giustizia.
Cinque anni più tardi, grazie alle dichiarazioni di alcuni mafiosi diventati collaboratori
di giustizia, Leonardo Amoroso assieme a un fratello e ad altri mafiosi finisce
comunque alla sbarra, accusato di nove omicidi. Tra le vittime, oltre ad Anna Nocera,
figura anche un altro fratello degli Amoroso, Gaspare, assassinato perché aveva
prestato servizio militare nei carabinieri, contravvenendo al codice mafioso. Leonardo
Amoroso viene difeso da due deputati, Valentino Caminneci e Raffaele Palizzolo.
Quest’ultimo verrà coinvolto anni dopo nell’omicidio di Emanuele Notarbartolo. Il
processo si conclude con nove condanne a morte.

                                         1893
Emanuele Notarbartolo, il primo febbraio 1893, sul treno che da Termini Imerese
porta a Trabia, viene assassinato con 27 pugnalate da due sicari mafiosi. Pochi giorni
dopo avrebbe compiuto 59 anni. Gli assassini, Matteo Filippello e Giuseppe Fontana,
della cosca mafiosa di Villabate, nonostante qualche tentativo di depistaggio,
vengono presto individuati, ma le indagini arrivano ben presto a svelare anche il
movente e il mandante dell’omicidio. Di famiglia aristocratica, il marchese
Notarbartolo si avvicina molto giovane alle idee liberali e nel 1860 si unisce alla
spedizione dei Mille di Giuseppe Garibaldi partecipando alla battaglia di Milazzo.
Tornato alla vita civile, si impegna in politica e tra il 1873 al 1876 diventa sindaco di
Palermo (a lui si deve la costruzione del Massimo, uno dei più grandi teatri lirici
d’Europa). Ma è proprio nel 1876 che ottiene l’incarico più difficile: direttore generale
del Banco di Sicilia. Notarbartolo si impegna a salvare la banca che è sull’orlo del
fallimento e combatte gli interessi che avevano portato l’istituto alla rovina e che
vedevano un intreccio tra aristocratici, politici e mafiosi. L’opera di risanamento di
Notarbartolo diventa ancor più difficile quando il governo Depretris gli affianca due
personaggi a lui ostili, tra cui il deputato Raffaele Palizzolo. Quest’ultimo, legato alla
mafia da molti anni, si era già scontrato duramente con Notarbartolo che aveva
bloccato diverse sue spericolate speculazioni. Alla fine è Notarbartolo a soccombere,
e nel 1890 viene destituito da direttore generale del Banco. Due anni più tardi, però,
Giovanni Giolitti, divenuto presidente del Consiglio, fa capire che intende intervenire
per “rimettere in ordine le cose” al Banco di Sicilia, e immediatamente circola la voce
che Notarbartolo potrebbe ritornare alla guida dell’istituto e questo mette in allarme
tutti quelli che erano stati danneggiati dalla sua precedente gestione.
È a partire da questo quadro della situazione che i sospetti degli inquirenti si
concentrano su Palizzolo come mandante dell’omicidio. Passano sei anni prima che
la Camera autorizzi il processo, ma due anni dopo, nel 1901, Palizzolo viene
condannato come mandante dell’omicidio a 30 anni di carcere. Sentenza che viene
però incredibilmente ribaltata in appello, nel 1905: Palizzolo, probabilmente grazie
agli appoggi politici di cui gode, viene assolto per insufficienza d i prove dalla Corte
d’Assise di Firenze e può quindi tornare a Palermo, dove viene accolto da una folla
festante.
Quello di Notarbartolo è considerato il primo “omicidio eccellente” nella storia
di Cosa Nostra.

                                        1896
Emanuela Sansone, ha diciassette anni quando viene assassinata. Il delitto è
compiuto da uomini di Cosa Nostra per ritorsione nei confronti della madre della
ragazza, sospettata di averli denunciati per fabbricazione di banconote false. La
donna, che gestisce una bettola, collabora attivamente con gli inquirenti nel tentativo
di individuare gli assassini della figlia. Non è questo l’ultimo caso che vede una donna
infrangere la legge dell’omertà per avere giustizia.

                                        1905
Luciano Nicoletti è un bracciante che si mostra tra i più decisi nel grande sciopero
del 1893 per l’applicazione dei “Patti di Corleone”: una lotta durissima che vede i
lavoratori, esaurite le scorte messe da parte in vista dello sciopero, costretti con le
loro famiglie a cibarsi di fichi d’india. I braccianti tuttavia non si arrendono e
proseguono lo sciopero, e alla fine sono i padroni terrieri a doversi piegare. Nicoletti
è di nuovo alla testa dei lavoratori anche nelle successive lotte per le “affittanze
collettive”, apparendo così il maggior pericolo per gli agrari e per i mafiosi che
lavoravano per loro. Il 14 ottobre, mentre torna a piedi a Corleone dopo una giornata
di lavoro nei campi, viene ucciso con due colpi di lupara. Ha 54 anni.

                                        1906
Andrea Orlando è un medico di Corleone. Socialista, è tra i principali sostenitori delle
lotte contadine per le “affittanze collettive” e contribuisce alla costituzione della
cooperativa “Unione agricola”. Eletto consigliere comunale, Orlando si impegna per
la moralizzazione di quella amministrazione, in particolare contrastando l’uso di
esonerare dal pagamento delle tasse amici e parenti, a tutto danno delle famiglie più
povere. Diventa così un personaggio ingombrante e pericoloso. La sera del 13
gennaio 1906, all’età di 42 anni, viene assassinato con due colpi di lupara a Rianciale,
una località vicino a Corleone, dove possiede un appezzamento di terreno.

                                         1909
Giuseppe (Joe) Petrosino, nato a Padula, in provincia di Salerno, ed emigrato negli
Usa da piccolo con i suoi genitori, da giovane entra nella polizia di New York e diventa
ben presto tenente alla guida di una squadra di italo-americani considerati i più adatti
a combattere la mafia americana, nota all’epoca col nome di “Mano Nera”. Stimato
dal presidente Theodor Roosevelt, riuscì a infliggere molti colpi alla mafia americana,
assicurando alla giustizia diversi boss di grosso calibro. Per questi successi diventa
molto famoso in tutti gli Stati Uniti. Intuisce l’esistenza dei forti legami che uniscono
la mafia americana con Cosa Nostra siciliana e decide di recarsi in Italia con l’obiettivo
di infliggere un colpo mortale all’organizzazione mafiosa. La missione è segreta, ma
un’indiscrezione fa sì che sul New York Herald vengono pubblicati tutti i dettagli
dell’operazione ancor prima della partenza. Petrosino non demorde e parte
comunque, probabilmente contando che anche a Palermo, come negli Usa, la mafia
non avrebbe mai osato uccidere un poliziotto. Invece, uscito dall’albergo, l’Hotel de
France, per un misterioso incontro nella sottostante piazza Marina, viene assassinato
da due sicari con tre colpi di pistola sparati a raffica, più un quarto, alla testa. Sono
le 20,45 del 12 marzo 1909. Così muore, a 48 anni, Joe Petrosino. Da notare che
sempre quell’anno, prima della sua partenza per la Sicilia, il tenente ha modo di
conoscere Raffaele Palizzolo, recatosi a New York per incontrare la comunità italiana.
Non si sa cosa si sono detti. Quel che è certo è che Petrosino aveva già fatto arrestare
uomini vicini al deputato italiano e che questi subito dopo l’incontro si è affrettato a
tornare in Italia.

                                         1911
Lorenzo Panepinto, maestro elementare, socialista, fonda nel suo paese, Santo
Stefano Quisquina, in provincia di Agrigento, il Fascio siciliano e dirige il giornale La
Plebe. Viene eletto consigliere comunale, sconfiggendo i moderati. La reazione è
furibonda, il comune viene commissariato, ma questo non impedisce che la lista
progressista vinca anche le nuove elezioni. E il governo del marchese di Rudinì
commissaria una seconda volta il Comune. Panepinto si dimette per protesta.
All’inizio del secolo collabora con Bernardino Verro, di Corleone, e Nicola Alongi, di
Prizzi, per la realizzazione di cooperative agricole e di Casse agrarie per emarginare
i gabelloti dei feudi. Nel 1907 si trasferisce in America, ma appena un anno dopo
torna nel suo paese. Il 16 maggio 1911, all’età di 46 anni, viene assassinato davanti
alla porta di casa con due colpi di fucile al petto.

                                          1914
Mariano Barbato è un attivista socialista, braccio destro nonché cugino di Mariano
Barbato, uno dei più importanti dirigenti socialisti siciliani. Nel 1882 viene arrestato
per “istigazione all’ammutinamento dal lavoro durante uno sciopero contadino”. Altri
processi li subisce nel 1894 e nel 1898. Nel 1914 si impegna nella campagna
elettorale per il comune di Piana degli Albanesi. Ma il 20 maggio viene assassinato
mentre è intento a costruire un muro in un terreno fuori paese. Con lui viene ucciso
anche il cognato, Giorgio Pecoraro. Nicola Barbato non ha dubbi sui responsabili del
duplice delitto e accusa il sindaco, Paolo Sirchia, e due assessori comunali di aver
istigato i mafiosi a uccidere Mariano Barbato nella speranza di impedire la vittoria
elettorale dei socialisti. L’inchiesta viene archiviata. Alle elezion i, comunque, i
socialisti conquistano il comune.

                                          1915
Bernardino Verro a 26 anni, nel 1892, fonda nella sua Corleone uno dei primi Fasci
siciliani e ne diventa presidente. Si reca anche nei paesi vicini, girando a dorso di un
mulo, per fondare altri Fasci, e così spiega ai contadini l’importanza di darsi
un’organizzazione per contrastare gli agrari: “Se voi prendete una verga sola la
spezzate facilmente, se ne prendete due le spezzate con maggiore difficoltà. Ma se
fate un fascio di verghe è impossibile spezzarle. Così, se il lavoratore è solo può
essere piegato dal padrone, se invece si unisce in un fascio, in un’organizzazione,
diventa invincibile”. Nel 1910, tiene un comizio in piazza e attacca così il sindaco, gli
assessori comunali e la mafia: “Siete riusciti a rendere Corleone il più disgraziato dei
comuni della Sicilia, lasciandogli solo il triste vanto di essere la sede della Cassazione
della mafia siciliana”. Solo sei giorni dopo, mentre è seduto nella farmacia del paese,
gli vengono sparati contro due fucilate, che però lo feriscono soltanto. Passano
quattro anni e i socialisti vincono le elezioni comunali e Verro diventa sindaco di
Corleone. Non era mai accaduto prima, e per la mafia e gli agrari è un fatto
intollerabile. Nel primo pomeriggio del 3 novembre 1915, Bernardino Verro, uscito dal
municipio, si sta dirigendo a casa; ha appena licenziato i due vigili urbani che lo
scortano, quando viene colpito da numerosi colpi di pistola (undici, di cui quattro
sparatigli a bruciapelo al capo), che lo uccidono a 49 anni.

                                          1916
Don Giorgio Gennaro è un sacerdote che ha l’ardire di denunciare pubblicamente le
ingerenze mafiose nell’amministrazione delle rendite ecclesiastiche. Ciò gli basta per
essere condannato a morte da due importantissimi boss mafiosi di Ciaculli: Salvatore
e Giuseppe Greco. Viene assassinato a Ciaculli, alle porte di Palermo, all’età di 50
anni.

                                        1919
Giovanni Zangara, socialista, di mestiere cordaro, diventa consigliere comunale e
assessore di Corleone con il sindaco Bernardino Verro. Rimane assessore anche
dopo l’uccisione di Verro. Viene assassinato il 29 gennaio 1919, all’età di 42 anni, da
tre sicari su ordine del capomafia di Corleone, Michelangelo Gennaro. Il pretesto è il
rifiuto opposto da Zangara a dare ai mafiosi il petrolio destinato a essere distribuito
gratuitamente ai poveri. L’obiettivo è comunque quello di impedire che i socialisti
restino alla guida far cessare la gestione socialista del Comune.
Don Costantino Stella, arciprete, parroco di Resuttano, in provincia di Caltanissetta,
impegnato in diverse attività e per il miglioramento delle condizioni delle campagne e
degli abitanti della zona e fondatore della Cassa rurale e artigiana, viene accoltellato
sulla porta di casa il 22 settembre 1919. Muore, a 46 anni, dopo u n’agonia di diciotto
giorni.
Giuseppe Rumore, di Prizzi, in provincia di Palermo, partecipa alle rivolte nelle
campagne dei primi anni del 1900 fino a diventare segretario della Lega dei contadini,
collaborando con il collega Nicola Alongi. Organizza l’occupazione dei latifondi
durante uno sciopero, indetto insieme ad Alongi il 31 agosto del 1919, conosciuto
ancor oggi come lo sciopero delle campagne prizzesi. Gira quindi a fare comizi nei
comuni della zona, suscitando la reazione dei latifondisti e dei maf iosi. La notte del
22 settembre 1919, Giuseppe Rumore, all’età di 25 anni, viene ucciso sotto casa con
due colpi di fucile.
Giuseppe Monticciolo, socialista, presidente della Lega per il miglioramento agricolo
a difesa dei contadini contro agrari e mafiosi. Viene ucciso a Trapani, all’età di 42
anni, il 27 ottobre 1919.
Alfonso Canzio, di Barrafranca, in provincia di Enna, fonda nel suo paese la Lega di
Miglioramento dei Contadini, e diventa il leader dei socialisti locali. Dopo la Prima
Guerra Mondiale, Canzio guida le lotte contadine riuscendo a conquistare contratti
favorevoli ai lavoratori. Questo lo espone agli occhi dei latifondisti e dei mafiosi, e
anche lui resta vittima dell’ondata di omicidi che in quei mesi semina tanti morti tra i
sindacalisti siciliani. Gli viene così teso un agguato davanti casa: gli sparano,
ferendolo gravemente, con pallettoni unti nell’aglio che gli provocano la cancrena.
Muore il 13 dicembre 1919 a 47 anni.

                                          1920
Nicolò Alongi, di Prizzi, in provincia di Palermo, a trent’anni entra nel movimento dei
Fasci siciliani facendo sue le idee di Bernerdino Verro. Lo sciopero contadino che si
protrae dall’agosto al dicembre del 1901 lo consacra dirigente sindacale. A Prizzi si
tiene il congresso delle Leghe socialiste e Alongi viene nominato presidente della
Lega prizzese che vanta duecento militanti socialisti. Alongi si batte per la conquista
della proprietà delle terre da parte dei contadini poveri e, andando oltre le posizioni
di Verro, lavora per l’alleanza tra operai e contadini. Nel ’19, con il Decreto Visocchi
si ottengono affitti delle terre convenienti per le cooperative di contadini, esautorando
i gabelloti, per arrivare successivamente all’assegnazione delle terre incolte.
Conquiste a cui la mafia risponde con una serie di omicidi di sindacalisti. Il turno di
Alongi arriva la sera del 29 febbraio 1920: mentre stava andando alla sede della Lega
di Prizzi per partecipare ad una riunione, Alongi viene colpito da tre fucilate e muore.
Ha 57 anni.
Paolo Li Puma e Croce Di Gangi, contadini di Petralia Soprana, in provincia di
Palermo, entrambi militanti socialisti, vengono uccisi mentre tornano a casa dopo una
riunione della Lega Contadina.
Paolo Mirmina, contadino di Noto, in provincia di Siracusa. Di lui si sa poco, trann e
che si tratta della figura di un sindacalista molto attivo nelle lotte per la terra. Pochi
altri dettagli sono rintracciabili: di figura minuta, Mirmina si distingue per il fatto che
sa leggere e scrivere, una vera rarità tra i braccianti dell’epoca. Vie ne assassinato il
3 ottobre 1920. Solo recentemente è stata individuata la sua tomba nel cimitero di
Noto e gli è stata dedicata una piazza.
Giovanni Orcel, tipografo palermitano, si iscrive giovanissimo al Psi, organizza la
Lega dei lavoratori e aderisce al gruppo rivoluzionario formatosi intorno ai giornali Il
Germe e La Fiaccola. Nello scontro interno al partito socialista tra riformisti e
rivoluzionari, Orcel si schiera con i secondi, guidati da Nicola Barbato e Nicola Alongi.
Finita la Grande Guerra, nel 1919 viene eletto segretario della Fiom e si impegna
nella lotta al carovita, per le otto ore di lavoro, per gli aumenti salariali, per il
riconoscimento del ruolo del sindacato e per la costituzione di commissioni interne.
Intanto parte la violenta controffensiva degli agrari e dei mafiosi con l’uccisione di
diversi sindacalisti, mentre l’8 ottobre le forze dell’ordine di Riesi uccidono undici
contadini che protestavano per la riforma agraria. Nel 1920 Orcel si impegna con
Nicolò Alongi per una collaborazione nelle lotte tra operai e contadini e a Palermo si
arriva all’occupazione dei cantieri navali e delle fabbriche annesse. E questo è
probabilmente il fattore che fa decidere alla mafia di eliminarlo. Il 14 ottobre, Orcel
viene assassinato all’età di 33 anni da un sicario agli ordini del capo -mandamento di
Prizzi, Sisì Gristina.
Don Stefano Caronia è un arciprete, uno di quelli che vengono definiti “preti sociali”,
sulla base dell’insegnamento di Papa Leone XIII, e diventa esponente di punta del
Partito Popolare di Don Sturzo. Si schiera nella lotta contro le usurpazioni di stampo
feudale e chiede a Roma l’esproprio dei feudi della zona di Gibellina (Trapani) in
favore della Cooperativa Agricola. Il pomeriggio del 17 novembre 1920, a 44 anni,
viene assassinato con tre colpi di pistola nel pieno centro di Gibellina, vicino alla
Cooperativa di Consumo che aveva contribuito a far crescere.

                                        1921
Giuseppe Compagna, contadino, consigliere comunale socialista di Vittoria, in
provincia di Ragusa, viene ucciso il 29 gennaio del ’21 nel corso di un raid di
nazionalisti, fascisti e mafiosi locali che irrompono nella sede del circolo socialista
sparando all’impazzata.
Pietro Ponzo, contadino, presidente della Cooperativa agricola di Salemi, dedica la
sua vita alle lotte contadine dai tempi dei Fasci fino alle occupazioni delle terre del
biennio 1919-1920. Viene assassinato a Salemi, all’età di 70 anni, il 19 febbraio del
1921. I sicari sono individuati e condannati, mentre restano ignoti i nomi dei mandanti.
Vito Stassi, dirigente socialista e presidente della Lega dei contadini di Piana degli
Albanesi, che viene indicata come “Piana la Rossa”. La sera del 28 aprile 1921 cade
in un’imboscata tesagli da tre mafiosi che gli sparano uccidendolo all’età di 45 anni.
Giuseppe Cassarà e Vito Cassarà sono due dirigenti socialisti di Piana degli
Abanesi, assassinati dalla criminalità locale il 5 maggio 1921.

                                        1922
Domenico, Mario e Pietro Paolo Spatola. Domenico è il fratello, Mario e Pietro
Paola i figli di Giacomo Spatola, dirigente socialista e presidente della Società
Agricola Cooperativa, impegnato nelle lotte contadine fin dai tempi dei Fasci.
Vengono uccisi dai mafiosi il 16 gennaio del 1922 a Paceco, in provincia di Trapani.
Sebastiano Bonfiglio, sindacalista e politico socialista, sindaco di Erice, allora
Monte San Giuliano (TP) per quasi due anni, fino al suo omicidio, avvenuto per mano
mafiosa, nel contesto dell’opposizione delle organizzazioni criminali alle lotte
contadine ed all’espansione del socialismo. Bonfiglio viene ucciso il 10 giugno del
1922 mentre sta tornando a casa dopo una riunione della Giunta municipale.
Antonio Scuderi, contadino e consigliere comunale socialista, viene assassin ato il
16 febbraio del 1922, poco dopo la sua elezione a segretario della cooperativa
agricola di Paceco, in provincia di Trapani. Per la sua attività a difesa dei contadini
viene condannato a morte e ucciso mentre in bicicletta sta rientrando a Dattilo. I l suo
omicidio resta impunito e non vengono fatte neanche vere e proprie indagini.
Antonio Ciolino è l’ultimo dirigente delle lotte contadine ad essere ucciso dalla mafia
di Piana degli Albanesi. Per il suo omicidio non viene individuato nessun colpevole.

                                          1944
Santi Milissena, segretario della federazione del Pci di Enna, viene ucciso il 27
maggio nel corso di tumulti legati ad un raduno di separatisti a Regalbuto. In quel
periodo, socialisti e comunisti vengono visti come i nemici da battere, mentre i ma fiosi
come potenziali alleati. Sull’uccisione di Milissena non vengono fatte vere e proprie
indagini.
Andrea Raia, militante comunista, si batte per i diritti dei contadini e si oppone
pubblicamente allo strapotere mafioso. Viene assassinato il 6 agosto ’4 4 a
Casteldaccia, in provincia di Palermo.

                                          1945
Calogero Comaianni, guardia giurata, responsabile dell’arresto del boss Luciano
Liggio e per questo assassinato a Corleone il 28 marzo ’45.
Nunzio Passafiume, sindacalista delle Cgil, è noto per la sua capacità di illustrare
così bene le sue idee da essere ascoltato e seguito non solo dai contadini nella
occupazione delle terre incolte, ma anche da molti giovani e professionisti. Viene
ucciso da sicari mafiosi il 7 giugno ’45 a Trabia, in provincia di Pa lermo, e la sua
morte resterà impunita.
Filippo Scimone, maresciallo dei carabinieri, partecipa alle operazioni di repressione
del banditismo. Viene ucciso a San Giuseppe Jato il 20 giugno ’45, all’età di 46 anni,
da due uomini della banda Giuliano come ritorsione per la morte di un comandante
dell’Evis, l’ala militare del movimento indipendentista siciliano, nel corso di un conflitto
a fuoco vicino a Randazzo.
Calcedonio Catalano è un ragazzino di 13 anni che, il 18 agosto ’45, viene ucciso
da dei banditi mentre passa per la contrada di San Filippo di Roccapalumba (PA) e si
trova in mezzo a un conflitto a fuoco con i carabinieri. I banditi sospettano che il
ragazzo sia una spia e non esitano a ucciderlo.
Agostino D’Alessandro di mestiere è guardiano dei pozzi ed è segretario della
Camera del Lavoro di Ficarazzi (PA). Conduce una battaglia contro il controllo
mafioso   sulla   gestione   dell’acqua   per   l’irrigazione   degli   agrumeti.   Subisce
intimidazioni, ma non cede. Viene quindi assassinato l’11 settembre del ’4 5.
Calogero Cicero e Fedele De Francisca, entrambi carabinieri, vengono uccisi il 14
settembre ’45, a Favara, in provincia di Agrigento, durante un conflitto a fuoco con
alcuni banditi di Palma di Montechiaro.
Michele Di Miceli, Rosario Pagano e Mario Paoletti, carabinieri, vengono uccisi in
contrada Apa a Niscemi (CL) nel corso di un agguato. Questo è stato ordito da una
banda criminale operante a Niscemi dal 1943 ed inizialmente alleata del Movimento
Separatista Siciliano, salvo poi esserne ripudiata per l’efferatezza dei propri crimini.
L’attentato del 16 ottobre 1945, con fucili e bombe a mano, è uno dei più sanguinosi.
Giuseppe Scalia, sindacalista socialista, tra i fondatori della cooperativa La
Proletaria, dopo la guerra, con altri contadini, è alla guida del movimento bracciantile.
Il suo impegno non diminuisce neanche dopo essere stato minacciato e per il suo
atteggiamento deciso e coraggioso viene eletto segretario della Camera del Lavoro
locale. Il 18 novembre 1945 resta vittima, con il vice -sindaco socialista Aurelio
Bentivegna, di un attentato a bombe a mano da parte di un gruppo di sicari mafiosi.
Muore una settimana dopo in seguito alle ferite riportate.
Giorgio Comparetto, contadino, viene ucciso a Caccamo (Pa) il 5 novembre del 1945
mentre è sulla mula insieme al figlioletto di 5 anni. Per il suo omicidio, grazie alla
collaborazione di un testimone, finisce sul banco degli imputati Salvatore La Corte,
poi condannato all’ergastolo nel 1969, che si difende sostenendo di aver ucciso il
contadino dopo averlo sorpreso a rubare del frumento. In realtà questi sono gli anni
delle lotte per la terra e la mafia ha tempo deciso di fermare i contadini.
Giuseppe Puntarello, conducente di autobus sulla linea Ventimiglia di Sicilia –
Palermo. È anche dirigente della Camera del lavoro di Ventimiglia e si impegna nelle
lotte contadine. Viene ucciso a colpi di lupara la mattina del 4 dicembre ’45 mentre si
reca all’autorimessa per il suo lavoro.

                                          1946
Vitangelo Cinquepalmi, Vittorio Epifani, Imerio Piccini e Angelo Lombardi,
militari, rimangono uccisi in contrada Donnastura- San Cataldo di Terrasini (PA) nel
corso di uno scontro a fuoco con uomini della banda Giuliano che avevano teso un
agguato ad un automezzo delle forze armate. L’attentato rientra nel quadro di
tensione del secondo dopoguerra, in cui la mafia fa accordi con il banditismo, ed in
particolare con la banda Giuliano, per difendere i propri interessi agrari.
Vincenzo Ameduni, Vittorio Levico, Emanuele Greco, Pietro Loria, Mario
Boscone, Mario Spanpinato, Fiorentino Bonfiglio e Giovanni La Brocca. Tutti
carabinieri della caserma “Feudo Nobile” di Gela. Ameduni, Levico, Greco, Loria e
Boscone, mentre sono di pattuglia, vengono assaliti e sequestrati da alcuni briganti
ben armati legati alle bande criminali della zona di Niscemi (CL), che nel frattempo
attaccano la caserma di Gela, riuscendo a sopraffare, dopo un violento scontro a
fuoco, i carabinieri Spampinato, Bonfiglio e La Brocca. Tutti e otto i militari vengono
nascosti per utilizzarli come ostaggi nelle trattative in corso tra i banditi e lo Stato.
Quando appare chiaro che nessun bandito incarcerato sarà rilasciato in cambio degli
otto carabinieri, i banditi conducono gli ostaggi in una cava e, dopo averli denudati, li
uccidono a colpi di fucile e moschetto.
Masina Perricone Spinelli, di 33 anni, sposata da poco, rimane uccisa per sbaglio il
7 marzo del 1946 nel corso di un agguato al candidato sindaco di Burgio Antonio
Guarisco, che invece si salva, riportando solo una ferita al braccio. Guarisco
continuerà la sua campagna elettorale e verrà eletto sindaco.
Gaetano Guarino si impegna nelle lotte contro i grandi proprietari terrieri che
sfruttano i contadini e per l’applicazione delle leggi Gullo-Segni per l’attribuzione delle
terre incolte dei latifondi alle cooperative agricole e fonda una cooperativa, attirandosi
le inimicizie degli agrari. Il 10 marzo 1946 viene eletto sindaco di Favara (AG) con il
59% dei voti, sostenuto da socialisti, comunisti e Partito d’Azione. Ma la sua politica
e le sue prese di posizione non sono gradite alla mafia dei latifondi e, appena 65
giorni dopo l’investitura, il 10 marzo ’46, viene ucciso con un colpo di lupara alla nuca.
Francesco Sassano è un carabiniere convito di essere in grado di far arrestare il
capo bandito Giuliano e lo dice pubblicamente. Durante una licenza a Pioppo (PA), il
25 marzo del ’46, tre uomini armati di mitra fanno irruzione in casa sua e, sotto gli
occhi delle sorelle Anna e Francesca, lo trascinarono fuori di casa e lo uccidono,
lasciando sul corpo un foglio su cui si leggeva: “Questa è la fine delle spie. Giuliano”.
Pino Camilleri è un socialista, a capo delle lotte contadine nell’area tra le province
di Agrigento e di Caltanissetta, e sindaco di Naro (AG). Viene ucciso il 28 giugno ’46
da sicari mafiosi con un colpo di lupara all’età di soli 27 anni, mentre da Riesi (CL) si
sta recando al feudo di Deliella, teatro di una contesa particolarmente aspra tra agrari
e contadini.
Girolamo Scaccia e Giovanni Castiglione sono due contadini, impegnati nelle lotte
per le terre del secondo dopoguerra in Sicilia. Il 22 settembre 1946, in casa del
segretario della Camera del Lavoro di Alia (PA) si tiene una riunione per discutere
della possibile attribuzione dei feudi “Raciura” e “Vacco” a cooperative contadine, in
seguito ai decreti Gullo sull’attribuzione delle terre incolte ai contadini. Delle bombe
a mano vengono lanciate nella stanza, seguite da colpi di lupara. Castiglione e
Scaccia rimangono uccisi, mentre altri 13 restano feriti. La riunione era stata
convocata per organizzare l’occupazione di feudi gestiti dai gabelloti mafiosi.
Giuseppe Biondo è un mezzadro iscritto alla Federterra e impegnato nella lotta per
l’applicazione della legge che prevede la divisione del prodotto al 60% per il mezzadr o
e 40% per il proprietario. Sfrattato abusivamente dal proprietario del terreno, Biondo
torna a lavorarvi. Viene assassinato a Santa Ninfa (TP) il 22 ottobre del ‘46.
Vincenzo, Giuseppe e Giovanni Santangelo, fratelli, fanno parte di una cooperativa
di contadini in attesa dell’assegnazione di un feudo. Vengono assassinati con un
colpo alla nuca da ben tredici banditi su ordine degli agrari a Belmonte Mezzagno
(PA) il 2 novembre 1946. Lo scopo del massacro è intimidire tutti gli altri contadini e
porre così fine alle rivendicazioni nella zona.
Giovanni Severino, contadino, segretario della Camera del Lavoro di Jappolo
Giancaxio (AG), viene assassinato a colpi di lupara il 25 novembre 1946. Il delitto
resterà impunito.
Filippo Forno e Giuseppe Pullara. Forno è un contadino e sindacalista di Comitini
(AG), Pullara un bracciante. Il giorno in cui cadono in un agguato, uccisi a colpi d’arma
da fuoco, 29 novembre ’46, stanno tornando dalla vicina Aragona, dove Forno,
accompagnato da Pullara, aveva avuto un incontro con un gruppo di contadini.
Nicolò Azoti, di mestiere ebanista, ma anche musicista per passione, è segretario
della Camera del Lavoro di Baucina. Fonda l’ufficio di collocamento, progetta la
fondazione di una cooperativa agricola e lotta per l’applicazio ne della legge sulla
mezzadria che prevede che il 60% spettasse al contadino e solo il 40% al proprietario
della terra. Prima viene lusingato con promesse dai mafiosi, poi minacciato, infine, il
23 dicembre del ’46, ucciso. Azoti, raggiunto da cinque colpi di pistola sparati alle
spalle, fa in tempo a dire alla moglie, che si è precipitata a soccorrerlo, il nome
dell’uomo che gli ha sparato: un certo Varisco, detto l’avvocato, noto mafioso
gabelloto che controlla il vicino Feudo Traversa dei Di Salvo. Azoti muore dopo due
giorni di agonia all’Ospedale Civico di Palermo. Nonostante la testimonianza della
moglie ai carabinieri, per la sua morte non viene istruito nemmeno un processo:
l’inchiesta viene archiviata in istruttoria, dopo che Varisco, resosi irreper ibile, si
presenta ai Carabinieri con un falso alibi di ferro.
1947
Accursio Miraglia è dirigente del Pci e fondatore della prima Camera del Lavoro in
Sicilia. Impegnato nella difesa dei diritti dei contadini, diventa anche presidente del
locale ospedale, proprietario di una piccola industria ittica, rappresentante e
commerciante di ferro e metalli, e amministratore del teatro “Rossi” di Sciacca.
Conscio di essere esposto, ogni sera Miraglia viene scortato fino a casa da due
compagni. La sera del 4 gennaio del ’47, però, si separa da chi lo scorta una trentina
di metri prima di giungere a casa, e quel piccolo tratto percorso in solitudine gli è
fatale. Davanti alla sua casa lo attendono i sicari che lo uccidono con una raffica di
mitra. Prima di spirare, Miraglia fa in tempo La storia di Miraglia ha ispirato Leonardo
Sciascia per il suo romanzo “Il giorno della civetta”.
Pietro Macchiarella è un dirigente sindacale e militante del Partito Comunista, molto
attivo nelle lotte contadine in Sicilia. Ha 41 anni quando viene ucciso a colpi di lupara
a Ficarazzi (PA) il 17 gennaio 1947. Si fa subito il nome, ripreso anche dai giornali,
di un noto mafioso del posto, Paolo Niosi, come mandante dell’omicidio, ma non si
riesce neppure ad aprire un processo a suo carico. Lo stesso giorno, a Palermo, un
gruppo di fuoco capeggiato dal boss del rione Acquasanta, Nicola D’Alessandro,
spara contro gli operai che protestano per la presenza della mafia nei cantieri navali
e chiedono l’allontanamento del direttore della mensa, Emilio Ducci, perché sostenuto
dalle cosche. Due operai vengono feriti: Francesco Paolo Di Fiore e Antonino Lo
Surdo.
Vincenzo Sansone, sindacalista, militante comunista e insegnante di lettere, il 13
febbraio ’47, a Villabate, in provincia di Palermo, viene ucciso a colpi di lupara da
mafiosi per il suo impegno nella lotta per la riforma agraria e il tentativo di fondare
una cooperativa agricola.
Portella della Ginestra. Primo maggio 1947, a Portella della Ginestra si radunano
circa duemila contadini per la festa del lavoro. Vengono da Piana degli Albanesi, San
Giuseppe Jato e San Cipirello, per il raduno ideato 60 anni prima dal socialista Nicola
Barbato. Dalla collina che sovrasta la piana, improvvisamente i banditi di Salvatore
Giuliano cominciano a sparare con mitragliatrici sulla folla. Il bilancio è pesantissimo:
undici morti, ventisette feriti, alcuni dei quali deceduti nei giorni seguenti. Tra le vittime
anche tre bambini e una donna incinta. Questi i nomi delle vittime: Vito Allotta,
Emanuele Busellini, Margherita Clesceri, Giorgio Cusenza, Castrenze Intravaia,
Giuseppe Di Maggio, Filippo Di Salvo, Giovanni Grifò, Vincenza La Fata,
Vincenzo La Rocca, Serafino Lascari, Giovanni Megna, Vincenza Spina,
Francesco Vicari. Michelangelo Salvia, contadino, dirigente comunista della
Camera del lavoro di Partinico, in provincia di Palermo. Viene assassinato dalla mafia
l’8 maggio 1947, una settimana dopo la strage di Portella della Ginestra. Salvia,
nonostante le umili origini, era molto apprezzato dai contadini per le sue capacità
oratorie e organizzative. Forse è proprio per questa sua capacità di parlare in
pubblico, e di farlo senza peli sulla lingua, che i sicari mafiosi lo uccisero sparandogli
un colpo di lupara in bocca.
Giuseppe Casarrubea e Vincenzo Lo Iacono muoiono il 22 giugno 1947 in un
attentato alla sede del Partito Comunista di Partinico (PA) rivendicato dalla banda
Giuliano, che in un volantino lasciato sul luogo del delitto incita i siciliani a combattere
“contro la canea dei rossi” e annuncia la costituzione di un nucleo di lotta al
bolscevismo, promettendo aiuti finanziari a chi si presenterà al quartiere generale per
la formazione militare presso il feudo di Sagana.
Giuseppe Maniaci, segretario della Federterra di Terrasini (PA) e dirigente del Pci,
viene ucciso a colpi di mitra davanti casa a 38 anni, lasciando la moglie e l figlioletto
di due anni. Era diventato comunista in carcere, detenuto per reati comuni, dove
aveva conosciuto due importanti dirigenti del Pci: Mauro Scoccimarro e Umber to
Terracini. I tre mafiosi sospettati del delitto no vengono neanche denunciati, e la Corte
di Appello di Palermo dichiarò, neanche sei mesi dopo il delitto, di “non doversi
procedere perché ignoti gli autori del delitto”.
Calogero Caiola, piccolo proprietario terriero di San Giuseppe Jato, sembra che il
primo maggio del ’47, il giorno della strage di Portella della Ginestra, avesse
riconosciuto dei suoi compaesani che stavano tornando a casa armati di lupara e
mitragliatrice. Certo è che sarebbe dovuto andare come testimone al processo per la
strage, ma viene ucciso prima, a 29 anni.
Vito Pipitone, segretario della Camera del Lavoro di Marsala, 39 anni, padre di
quattro figli, è un convinto sostenitore della possibilità di applicare anche in Sicilia la
nuova legge in materia di agricoltura varata dal ministro Fausto Gullo. Da tempo si
batte perché ai contadini vengano riconosciuti il diritto a un salario equo, alla giornata
lavorativa di otto ore e alla pensione. Viene ucciso dalla mafia a colpi di fucile l ’8
novembre 1947.
Luigi Geronazzo, tenente colonnello dei carabinieri, a capo di un battaglione
dell’Arma impegnato nella lotta contro una banda che semina il terrore nel
palermitano. Il 29 novembre ’47, di notte, mentre si reca alla sede del Comando a
Partinico (PA), cade in un agguato e muore sotto i colpi di arma da fuoco mentre tenta
di difendersi con la pistola. Del suo omicidio (e di molti altri) si autoaccuseranno i
banditi Antonio Guarino e Antonino De Lisi.
1948
Epifanio Li Puma, contadino, è un socialista riformista. Antifascista nel Ventennio,
subito dopo la guerra si impegna a organizzare i contadini del borgo in cui vive, Raffo,
sulle Madonie, per l’applicazione di quanto previsto dal decreto del ministro Gullo.
Ben presto la sua azione si estende ai paesi vicini e riesce a fondare la cooperativa
“Madre Terra” che conta circa 500 contadini, i quali si rifiutano di lavorare la terra dei
latifondisti fino a quando non saranno applicate le norme del decreto Gullo. Li Puma
è mezzadro nel feudo del marchese Pottino, che prima cerca di intimidire il suo
dipendente, poi lo sfratta. Ma Li Puma prosegue nella sua azione e il 2 marzo del ’48,
mentre è intento ad arare un terreno del cognato in compagnia di due suoi figli, di 19
e 13 anni, viene avvicinato da due uomini a cavallo che lo uccidono sparandogli a
bruciapelo. Anche in questo caso, le indagini vengono presto archiviate.
Placido Rizzotto è stato partigiano delle Brigate Garibaldi in Friuli, dove era stato
sorpreso dall’8 settembre mentre faceva servizio militare sui monti della Carnia con il
grado di caporale. Tornato in Sicilia, nella sua Corleone, alla fine della guerra, diviene
ben presto dirigente di spicco del Psi e della Cgil e viene eletto segretario della
Camera                                     del                                    Lavoro.
Si impegna particolarmente nell’organizzare l’occupazione delle terre incolte. Per
questa sua attività, viene rapito e assassinato la sera del 10 marzo ’48, all’età di 34
anni, mentre si sta recando a incontrare alcuni compagni di partito, da un manipolo di
mafiosi, tra i quali il futuro boss Luciano Liggio. Un pastorello di 12 anni, Giuseppe
Letizia, vede di nascosto la scena dell’omicidio. Scoperto, i sicari lo portano dal
capomafia di Corleone, il medico Michele Navarra, che lo uccide con una iniezione
letale. Il corpo di Rizzotto non si trova perché gettato in una foiba vicino a Corleone.
Le indagini vengono affidate a Carlo Alberto dalla Chiesa, in quest’epoca capitano dei
carabinieri a Corleone, che riesce a individuare e arrestare due dei killer di Rizzotto,
Pasquale Criscione e Vincenzo Collura, che ammettono di aver partecipato
all’omicidio e indicano in Luciano Liggio il terzo componente del commando mafioso.
Liggio si dà alla latitanza, mentre Criscione e Collura ritrattano durante il processo,
che si conclude con una assoluzione di tutti gli imputati per insufficienza di prove. 60
anni dopo, il 7 luglio 2009, gli speleologi dei Vigili del Fuoco riescono a trovare dentro
la foiba e a recuperare i resti di Placido Rizzotto. Tre anni più tardi, il Consiglio dei
Ministri decide di onorare Placido Rizzotto con funerali di Stato, che si svolgono a
Corleone il 24 maggio 2012 alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio
Napolitano.
Calogero Cangelosi è il segretario della Camera del Lavoro di Camporeale (PA), e
anche lui si batte per l’applicazione dei decreti Gullo che impongono una diversa
divisione dei prodotti tra proprietari terrieri e mezzadri. Sposato con quattro figli, 42
anni, Cangelosi è conscio del pericolo a cui è esposto: già altri 35 sindacalisti sono
stati assassinati dalla mafia da quando è finita la guerra. Per questo, anche la sera
dell’1 aprile ’48 rientra a casa scortato da quattro compagni della Cgil. Lungo il
tragitto, il gruppo di sindacalisti è investito da una raffica di mitragliatrice. Cangelosi,
colpito alla testa, muore all’istante, mentre due dei suoi accompagnatori restano
gravemente feriti. I militanti della Cgil non esitano a indicare nel proprietario terriero
Serafino Sciortino il mandante dell’agguato mortale e nel capomafia Vanni Sacco e
nei suoi picciotti gli esecutori. Le indagini procedono però “contro ignoti”, che tali
resteranno per sempre.
Marcantonio e Antonio Giacalone, padre e figlio, possidenti di Partinico, in provincia
di Palermo. Vengono entrambi assassinati dalla Banda Giuliano per essersi rifiutati di
pagare il “pizzo”.
Celestino Zapponi, Nicola Messina e Antonio Di Salvo, Celestino Zapponi è un
commissario di Polizia, Nicola Messina un maresciallo dei Car abinieri e Antonio Di
Salvo capitano dei Carabinieri. Vengono uccisi il 3 settembre ’48 a Partinico (PA) in
un agguato con raffiche di mitra e bombe a mano. Delitto imputato immediatamente
agli uomini della banda Giuliano. Giovanni Tasquier partecipa ad un pattugliamento
quando, il 16 novembre ’48, la jeep sulla quale viaggiava con gli altri militari viene
investita da raffiche di mitra esplose dai banditi della banda Giuliano in agguato.
Tasquier    rimane   ucciso   sul   colpo   mentre    tre   carabinieri   rimangono   fer iti.

                                            1949
Vito Guarino è un bambino di soli 3 anni. Resta ucciso a Partinico (PA), assieme al
padre Carlo Guarino ed a Francesco Gulino, da banditi armati che fanno nella casa
dei Guarino lanciando bombe a mano e sparando raffiche di mitra. Commessa la
strage, i banditi si dileguano sparando raffiche di mitra e lanciando bombe per
impaurire la popolazione accorsa. Si presume che la strage sia stata commessa per
vendetta.
Carmelo Agnone, Candeloro Catanese, Carmelo Lentini, Michele Marinaro e
Quinto Reda sono poliziotti di stanza a San Giuseppe Jato (PA). Il 2 luglio ’49 si
stanno recando in auto a Palermo per una riunione di lavoro, quando, in località
Portella della Paglia, cadono nell’agguato di una decina di membri della banda
Giuliano, che li aggrediscono con raffiche di mitra e bombe a mano. Agnone, Lentini
e Reda muoiono all’istante. Catanese, Marinaro, insieme ad altri due poliziotti
(Giovanni Biundo e Carmelo Gucciardo) scendono dalle automobili e rispondono al
fuoco, riuscendo, dopo una furiosa sparatoria, a mettere in fuga i banditi. Biundo e
Gucciardo sono gravemente feriti, ma non mortalmente. Marinaro, invece, muore
poco dopo e Catanese due giorni dopo.
Giovanbattista Aloe, Armando Loddo, Sergio Mancini, Pasquale Antonio
Marcone, Gabriele Palandrani, Carlo Antonio Pabusa e Ilario Russo sono
carabinieri e il 19 agosto del ’49 sono a bordo di un autocarro che li sta portando da
Partinico a Palermo insieme ad altri 53 militari del XII Battaglione Mobile Carabinieri.
Quando la colonna, formata da 5 autocarri e due autoblindo, quando giunge a Passo
di Rigano, vicino a Bellolampo, borgata alle porte di Palermo, il bandito Salvatore
Giuliano dà l’ordine di far esplodere una mina di autocarro che era stata piazzata ai
bordi della strada. La deflagrazione investe l’ultimo mezzo, con a bordo 18 carabinieri,
uccidendo sette di loro.
Giovanni Calabrese e Giuseppe Fiorenza sono due carabinieri uccisi il 21 agosto
‘49 a Sancipirello (Palermo) dalla banda Giuliano.
Francesco Butifar e Salvatore Messina, la mattina del 28 novembre 1949, si recano
in una stalla a Bagheria (Pa) alla ricerca di un carro che era stato rubato. Giunti sul
posto, i due militari trovano 6 uomini. Il maresciallo capo Messina, che è comandante
della locale stazione dei carabinieri, procede alla loro identificazione, lasciando
l’appuntato Butifar all’ingresso. Quando Messina si accorge di una pistola lasciata su
una cassa vuota, uno dei malviventi estrae una pistola e spara al maresciallo,
uccidendolo. Gli altri banditi sparano anche a Butifar che, ferito gravemente, riesce
tuttavia a trascinarsi dietro un riparo e ingaggiare un conflitto a fuoco, ferendo uno
dei banditi, i quali si danno alla fuga. Butifar, soccorso da un collega casualmente
passa da lì, viene trasportato all’ospedale militare di Palermo, dove però giunge
cadavere.

                                          1951
Antonio Sanginiti, maresciallo dei carabinieri viene ucciso il 30 agosto 1951 da
Angelo Macrì, un boscaiolo incensurato. Macrì si è così voluto vendicare della morte
del fratello Giovanni, rimasto ucciso da latitante insieme ad un amico, Leo Palumbo,
nel corso di un conflitto a fuoco con i carabinieri, il 3 agosto.

                                          1952
Filippo Intili è un mezzadro di Caccamo, e viene ucciso a colpi d’accetta perché
pretendeva di dividere il prodotto dei campi tenendo per sé il 60% e lasciando al
proprietario della terra il restante 40%, così come prevedeva il decreto Fausto Gullo.
Nonostante il decreto fosse ormai in vigore da otto anni, agrari e mafiosi pretendevano
ancora di dividere al 50%. Intilli viene ucciso a 51 anni e da tempo prendeva parte
alle proteste dei contadini per l’applicazione della riforma agraria.

                                          1955
Salvatore Carnevale è un bracciante e sindacalista socialista di Sciara (PA). Viene
assassinato all’alba del 16 maggio 1955 all’alba mentre percorre un a mulattiera per
recarsi a lavorare in una cava di pietra. Carnevale aveva dato molto fastidio ai
proprietari terrieri difendendo i diritti dei braccianti agricoli: era infatti molto attivo
politicamente nel sindacato e nel movimento contadino. Nel 1951 aveva fondato la
sezione del Psi di Sciara ed aveva organizzato la Camera del lavoro. Nel 1952 aveva
rivendicato per i contadini la ripartizione dei prodotti agricoli ed era riuscito ad
accordarsi con la principessa Notabartolo. Nell’ottobre 1951aveva organi zzato
l’occupazione simbolica delle terre di contrada Giardinaccio della principessa e per
questo era stato arrestato. Uscito dal carcere si trasferisce per due anni a
Montevarchi, in Toscana, dove scopre una cultura dei diritti dei lavoratori più forte e
radicata. Nell’agosto 1954 torna in Sicilia, dove cerca di trasferire nella lotta contadina
le sue esperienze settentrionali. Nominato segretario della Lega dei lavoratori edili di
Sciara, tre giorni prima di essere assassinato riesce ad ottenere le paghe arretrate
dei suoi compagni e il rispetto della giornata lavorativa di otto ore. Salvatore
Carnevale muore a 31 anni.
Giuseppe Spagnuolo è un contadino di Cattolica Eraclea (AG), presidente della
cooperativa “La Proletaria” e segretario della Camera del la voro. Tre mesi dopo la
morte di Salvatore Carnevale, viene ucciso anche Spagnuolo, sorpreso mentre
dormiva da quattro mafiosi che gli sparano diversi colpi di lupara. Le morti di
Spagnuolo e di Carnevale vengono dopo la riforma agraria del 1950, che preved e lo
smembramento dei feudi. Gli agrari, utilizzando i mafiosi, cercano di rallentare
l’attuazione della riforma per aver il tempo di vendere le terre prima della confisca.

                                          1957
Pasquale Almerico è il sindaco di Camporeale e segretario della locale sezione della
Dc quando viene ucciso da cinque uomini a cavallo armati di mitra. Anche un giovane
passante, Antonino Pollari, rimane ucciso. La prima Commissione Parlamentare
Antimafia arriva alla conclusione che a decidere la sua condanna a morte è il potente
capomafia di Camporeale Vanni Sacco, implicato anche nell’assassinio del segretario
socialista della Camera del Lavoro Calogero Cangelosi. A condannare Pasquale
Almerico è stato il suo rifiuto di dare la tessera della Dc al boss Vanni Sacco e ad altri
trecento mafiosi del paese. Dopo questo rifiuto, Almerico viene minacciato e decide
di scrivere al segretario della DC siciliana, Nino Gullotti, informando anche uno dei
proconsoli fanfaniani a Palermo, Giovanni Gioia. Almerico denuncia loro il rischio di
consegnare la Dc di Camporeale alla mafia e il pericolo di essere ucciso, ma i dirigenti
del partito non condividono la sua posizione e lo invitano a lasciare l’incarico di
segretario della Democrazia Cristiana.

                                          1958
Vincenzo Di Salvo è dirigente sindacale della Lega edili aderente all’organizzazione
unitaria e contemporaneamente lavora presso la ditta Iacona, impresa appaltatrice
dei lavori di costruzione delle fognature cittadine. In qualità di dirigente sindacale, il
Di Salvo è alla testa, da una settimana circa, dello sciopero dei dipendenti
dell’impresa, non essendo riusciti ad ottenere, dall’1 febbraio, il pagamento dei salari
e degli assegni familiari maturati. Poi, a conclusione di un incontro tra rappresentanti
dei lavoratori e del datore di lavoro, alla presenza del sindaco e di un sottufficiale dei
carabinieri, si giunge ad un accordo: i lavoratori avrebbero sospeso l’azione sindacale
a patto che l’azienda paghi entro il giorno successivo i salari e tutte le altre spettanze.
La “Iacona” non mantiene l’impegno e, la sera del 18 marzo, con un colpo di pistola
in pieno petto, Di Salvo viene assassinato.

                                          1959
Anna Prestigiamo è una ragazzina di 15 anni e vive nel quartiere San Lorenzo di
Palermo. Il 26 giugno del ’59 viene uccisa a colpi di fucile. La sorellina di 11 anni,
Rosetta, vede la scena e riconosce l’assassino. Si tratta di Michele Cusimano, un
vicino di casa. Si scopre che il padre di Anna, Francesco, è ritenuto un confidente dei
carabinieri. Viene anche a galla che vari rancori dividono da tempo le due famiglie. Si
scopre che tredici anni prima Francesco Prestigiacomo aveva convinto Cusimano a
costituirsi ai carabinieri dopo un conflitto a fuoco e che per questo episodio si era fatto
la fama di confidente. Cusimano viene arrestato con il padre Girolamo per l’omicidio
della piccola Anna. In primo grado, Michele Cusimano, difeso da un principe del Foro,
il deputato liberale e sottosegretario alla Difesa Giacomo Bellavista, viene assolto.
Sentenza ribaltata in secondo grado: Michele Cusimano viene condannato, seppure
con il riconoscimento di alcune attenuanti.
Giuseppina Savoca, di 12 anni, viene colpita a Palermo, mentre giocava per strada,
da un proiettile vagante nel corso di una sparatoria avvenuta la sera del 19 settembr e
’59 in via Messina Marine nella quale rimane ucciso il pregiudicato Filippo Drago, 51
anni, proprietario di una profumeria, e ferito leggermente suo nipote Giuseppe
Gattuso di 22 anni. Giuseppina non muore immediatamente: trasportata in ospedale,
si spegne per complicazioni polmonari tre giorni dopo il ricovero.

                                           1960
Antonino Damanti viene ucciso per errore, all’età di 17 anni, il 30 marzo 1960, ad
Agrigento. Viene colpito da una pallottola vagante nel corso dell’agguato che un
gruppo di mafiosi compie per tentare di uccidere il commissario di polizia Cataldo
Tandoy.
Cosimo Cristina è un giovane giornalista che fonda e dirige a Palermo il periodico
“Prospettive Siciliane”, oltre a collaborare per diverse testate: L’Ora, Il Giorno, l’Ansa,
Il           Messaggero,             Il         Gazzettino            di          Venezia.
Per il suo periodico, segue con particolare attenzione la cronaca nera, il fenomeno
mafioso e le sue ramificazioni nei territori di Termini Imerese e della vicina Caccamo.
Attività di cronaca che gli costano la condanna a morte da parte di alcune famiglie
mafiose, facendo ritrovare il suo corpo sui binari delle ferrovie, all’interno di una
galleria vicino Termini Imerese. Un espediente che ricorda quello utilizzato 18 anni
dopo          per          il        delitto        di         Peppino          Impastato.
La morte di Cosimo Cristina viene quindi archiviata come suicidio. Sei anni dopo, il
caso viene riaperto e viene effettuata l’autopsia sul corpo di Cristina, ma i periti
confermano la tesi del suicidio. Nel 1999 il giornalista catanese Luciano Mirone
indaga nuovamente sul caso e scopre che nel 1966 il vice questore di Palermo Angelo
Mangano, famoso per una foto che lo ritrae mentre arresta il boss di Corleone Luciano
Liggio, aveva riaperto le indagini scoprendo che Cristina era stato ucciso in un luogo
diverso dalla ferrovia, e portato sui binari solo per depistare. Ma il rapporto di
Mangano è stato neutralizzato dall’autopsia.
Paolo Bongiorno, 38 anni, è un bracciante agricolo, comunista, padre di cinque figli,
segretario della Camera del Lavoro di Lucca Sicula, in provincia di Agrigento. La sera
del 27 settembre, Paolo Bongiorno, dopo una riunione del partito, rincasa in
compagnia del nipote, Giuseppe Alfano, segretario della Fgci locale. A pochi metri
dall’abitazione, due scariche di lupara, sparate da ignoti killer nascosti dietro un muro,
colpiscono          alla        schiena        Paolo         Bongiorno        uccidendolo.
Paolo Bongiorno dedicava il tempo che gli restava dal lavoro nei campi per il lavoro
sindacale, organizzando le rivendicazioni per il salario e il rispetto dell’orario di lavoro
dei braccianti, facendosi apprezzare in paese, ma anche diventando un pericolo per
gli agrari e i mafiosi.
1961
Paolo Riccobono, di 13 anni, viene assassinato a colpi di lupara nel rione Tommaso
Natale di Palermo. Viene ucciso in una faida di mafia che era già costata la vita al
padre e a due fratelli maggiori.

                                         1962
Giacinto Puleo, bracciante agricolo, emigra in Germania con l’intento di risparmiare
quanto bastava per comprare un appezzamento di terreno. Nel 1962 torna in Sicilia,
a Bagheria, e insieme ad un amico prende a mezzadria un limoneto. Nessuno gli dice
che i limoni non li raccoglieva il proprietario del terreno, ma un mafioso. Al momento
del raccolto, gli viene rivelato come stanno le cose e viene consigliato di andarsene.
Puleo non intende rinunciare ai suoi limoni. Il 2 luglio ’62, di buon mattino, mentre sta
andando a lavorare, viene ucciso con due colpi di lupara.
Enrico Mattei, fondatore e presidente dell’Eni, muore il 27 ottobre 1962 precipitando
con il suo aereo a Bescapè, in provincia di Pavia, di ritorno da Gagliano Castelferrato,
in provincia di Enna, dove era stato scoperto un giacimento di metano. Con lui
muoiono il pilota, Irnerio Bertuzzi, e un giornalista americano, William McHale.
Considerato uno degli uomini più potenti dell’Italia del dopoguerra, inviso alle grandi
compagnie petrolifere internazionali ma non solo, Mattei è sicuramente rimasto vittima
di un attentato. Nel 2005, si riesce infatti a dimostrare che l’aereo non è precipitato
per un’avaria, ma per l’esplosione di una bomba. Sui mandanti si sono fatte molte
congetture, senza però arrivare a conclusioni certe. Appare invece molto probabile
che la manodopera per l’attentato sia stata fornita dalla mafia.

                                         1963
Giuseppe Tesauro e Pietro Cannizzaro, panettiere il primo e custode di un garage
il secondo, restano uccisi nell’esplosione di un’auto bomba a Villabate, alle porte di
Palermo, la notte del 29 giugno 1963. Con loro, a quell’ora, è al lavoro un secondo
panettiere, Giuseppe Castello. I tre si accorgono che da un’automob ile parcheggiata
poco lontano esce del fumo. Si avvicinano per spegnere l’incendio, ma appena
Cannizzaro, il garagista, tenta di aprire la portiera, l’automobile esplode. Si salva,
sebbene ferito, soltanto Castello. L’obiettivo dell’attentato era probabilm ente
Giovanni Di Peri, un boss mafioso del posto.
La strage di Ciaculli. Cinque carabinieri e due militari dell’esercito sono le vittime di
uno dei più eclatanti attentati di Cosa Nostra. Il 30 giugno 1963, dopo la segnalazione
di un’auto sospetta parcheggiata in borgata Ciaculli, alla periferia sud di Palermo, si
recano sul posto, per i carabinieri, il tenente Mario Malausa, i marescialli Silvio
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