LE VITTIME DELLA MAFIA - IC San Giovanni Bosco
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L E V I T T I M E D E L L A M AF I A 1861 Giuseppe Montalbano è un medico, fervente mazziniano, e partecipa alla rivoluzione palermitana del 1848. Dopo lo sbarco a Marsala di Giuseppe Garibaldi, si unisce ai Mille, e per questo verrà poi eletto consigliere comunale e poi provinciale. Viene ucciso la sera del 3 marzo 1861 davanti casa sua, a Santa Margherita Belice (Ag), con tre fucilate alle spalle. Montalbano paga così l’aver guidato i contadini che rivendicano tre feudi che dovrebbero essere del Comune, usurpati invece dalla principessa Giovanna Filangieri. Alla sua morte esplode la rabbia popolare e viene preso d’assalto il Circolo dei Civili e messo sotto assedio per 2 giorni il municipio della città. La rivolta viene infine sedata e sull’omicidio Montalbano non si fanno indagini. 1863 Giovanni Corrao è un operaio del porto di Palermo, un calafataro, cioè colui che con il catrame rende impermeabili le imbarcazioni di legno. Ma Corrao è soprattutto un antiborbonico. Nel 1860 si unisce ai Mille e nel corso della campagna viene nominato generale dallo stesso Garibaldi. Finita l’impresa dei Mille, Corrao entra a far parte dell’esercito sabaudo con il grado di colonnello, ma nel 1862 lascia tutto per seguire nuovamente Garibaldi nell’impresa della conquista di Roma, fino alla sconfitta sull’Aspromonte. Quando torna a Palermo, viene assassinato dalla mafia il 3 agosto 1863. Il delitto resta impunito, ma negli atti dell’indagine si usa per la prima volta il termine “mafia”. 1874 Emanuele Attardi è un bambino quando, l’8 novembre 1874, viene ucciso da un colpo di fucile che lo raggiunge mentre passeggia in compagnia del padre, Gaspare Attardi, il vero obiettivo dell’agguato. Gaspare Attardi è cancelliere della Pretura e ha contribuito a individuare e far arrestare un mafioso. 1876 Giuseppe Aguglia è un caporale delle guardie campestri di Bagheria. Viene ucciso il 15 giugno 1876 perché si oppone ai soprusi dei mafiosi locali. 1878 Anna Nocera è una ragazza di 17 anni e lavora come domestica in casa degli Amoroso, una famiglia mafiosa. Viene sedotta dal rampollo del la famiglia, Leonardo, che quando apprende che Anna è rimasta incinta la uccide e fa sparire il corpo. Il
padre di Anna, non avendo più notizie della figlia, affronta Amoroso, che reagisce insultandolo e minacciandolo di morte qualora avesse osato rivolger si alla giustizia. Cinque anni più tardi, grazie alle dichiarazioni di alcuni mafiosi diventati collaboratori di giustizia, Leonardo Amoroso assieme a un fratello e ad altri mafiosi finisce comunque alla sbarra, accusato di nove omicidi. Tra le vittime, oltre ad Anna Nocera, figura anche un altro fratello degli Amoroso, Gaspare, assassinato perché aveva prestato servizio militare nei carabinieri, contravvenendo al codice mafioso. Leonardo Amoroso viene difeso da due deputati, Valentino Caminneci e Raffaele Palizzolo. Quest’ultimo verrà coinvolto anni dopo nell’omicidio di Emanuele Notarbartolo. Il processo si conclude con nove condanne a morte. 1893 Emanuele Notarbartolo, il primo febbraio 1893, sul treno che da Termini Imerese porta a Trabia, viene assassinato con 27 pugnalate da due sicari mafiosi. Pochi giorni dopo avrebbe compiuto 59 anni. Gli assassini, Matteo Filippello e Giuseppe Fontana, della cosca mafiosa di Villabate, nonostante qualche tentativo di depistaggio, vengono presto individuati, ma le indagini arrivano ben presto a svelare anche il movente e il mandante dell’omicidio. Di famiglia aristocratica, il marchese Notarbartolo si avvicina molto giovane alle idee liberali e nel 1860 si unisce alla spedizione dei Mille di Giuseppe Garibaldi partecipando alla battaglia di Milazzo. Tornato alla vita civile, si impegna in politica e tra il 1873 al 1876 diventa sindaco di Palermo (a lui si deve la costruzione del Massimo, uno dei più grandi teatri lirici d’Europa). Ma è proprio nel 1876 che ottiene l’incarico più difficile: direttore generale del Banco di Sicilia. Notarbartolo si impegna a salvare la banca che è sull’orlo del fallimento e combatte gli interessi che avevano portato l’istituto alla rovina e che vedevano un intreccio tra aristocratici, politici e mafiosi. L’opera di risanamento di Notarbartolo diventa ancor più difficile quando il governo Depretris gli affianca due personaggi a lui ostili, tra cui il deputato Raffaele Palizzolo. Quest’ultimo, legato alla mafia da molti anni, si era già scontrato duramente con Notarbartolo che aveva bloccato diverse sue spericolate speculazioni. Alla fine è Notarbartolo a soccombere, e nel 1890 viene destituito da direttore generale del Banco. Due anni più tardi, però, Giovanni Giolitti, divenuto presidente del Consiglio, fa capire che intende intervenire per “rimettere in ordine le cose” al Banco di Sicilia, e immediatamente circola la voce che Notarbartolo potrebbe ritornare alla guida dell’istituto e questo mette in allarme tutti quelli che erano stati danneggiati dalla sua precedente gestione.
È a partire da questo quadro della situazione che i sospetti degli inquirenti si concentrano su Palizzolo come mandante dell’omicidio. Passano sei anni prima che la Camera autorizzi il processo, ma due anni dopo, nel 1901, Palizzolo viene condannato come mandante dell’omicidio a 30 anni di carcere. Sentenza che viene però incredibilmente ribaltata in appello, nel 1905: Palizzolo, probabilmente grazie agli appoggi politici di cui gode, viene assolto per insufficienza d i prove dalla Corte d’Assise di Firenze e può quindi tornare a Palermo, dove viene accolto da una folla festante. Quello di Notarbartolo è considerato il primo “omicidio eccellente” nella storia di Cosa Nostra. 1896 Emanuela Sansone, ha diciassette anni quando viene assassinata. Il delitto è compiuto da uomini di Cosa Nostra per ritorsione nei confronti della madre della ragazza, sospettata di averli denunciati per fabbricazione di banconote false. La donna, che gestisce una bettola, collabora attivamente con gli inquirenti nel tentativo di individuare gli assassini della figlia. Non è questo l’ultimo caso che vede una donna infrangere la legge dell’omertà per avere giustizia. 1905 Luciano Nicoletti è un bracciante che si mostra tra i più decisi nel grande sciopero del 1893 per l’applicazione dei “Patti di Corleone”: una lotta durissima che vede i lavoratori, esaurite le scorte messe da parte in vista dello sciopero, costretti con le loro famiglie a cibarsi di fichi d’india. I braccianti tuttavia non si arrendono e proseguono lo sciopero, e alla fine sono i padroni terrieri a doversi piegare. Nicoletti è di nuovo alla testa dei lavoratori anche nelle successive lotte per le “affittanze collettive”, apparendo così il maggior pericolo per gli agrari e per i mafiosi che lavoravano per loro. Il 14 ottobre, mentre torna a piedi a Corleone dopo una giornata di lavoro nei campi, viene ucciso con due colpi di lupara. Ha 54 anni. 1906 Andrea Orlando è un medico di Corleone. Socialista, è tra i principali sostenitori delle lotte contadine per le “affittanze collettive” e contribuisce alla costituzione della cooperativa “Unione agricola”. Eletto consigliere comunale, Orlando si impegna per la moralizzazione di quella amministrazione, in particolare contrastando l’uso di esonerare dal pagamento delle tasse amici e parenti, a tutto danno delle famiglie più povere. Diventa così un personaggio ingombrante e pericoloso. La sera del 13
gennaio 1906, all’età di 42 anni, viene assassinato con due colpi di lupara a Rianciale, una località vicino a Corleone, dove possiede un appezzamento di terreno. 1909 Giuseppe (Joe) Petrosino, nato a Padula, in provincia di Salerno, ed emigrato negli Usa da piccolo con i suoi genitori, da giovane entra nella polizia di New York e diventa ben presto tenente alla guida di una squadra di italo-americani considerati i più adatti a combattere la mafia americana, nota all’epoca col nome di “Mano Nera”. Stimato dal presidente Theodor Roosevelt, riuscì a infliggere molti colpi alla mafia americana, assicurando alla giustizia diversi boss di grosso calibro. Per questi successi diventa molto famoso in tutti gli Stati Uniti. Intuisce l’esistenza dei forti legami che uniscono la mafia americana con Cosa Nostra siciliana e decide di recarsi in Italia con l’obiettivo di infliggere un colpo mortale all’organizzazione mafiosa. La missione è segreta, ma un’indiscrezione fa sì che sul New York Herald vengono pubblicati tutti i dettagli dell’operazione ancor prima della partenza. Petrosino non demorde e parte comunque, probabilmente contando che anche a Palermo, come negli Usa, la mafia non avrebbe mai osato uccidere un poliziotto. Invece, uscito dall’albergo, l’Hotel de France, per un misterioso incontro nella sottostante piazza Marina, viene assassinato da due sicari con tre colpi di pistola sparati a raffica, più un quarto, alla testa. Sono le 20,45 del 12 marzo 1909. Così muore, a 48 anni, Joe Petrosino. Da notare che sempre quell’anno, prima della sua partenza per la Sicilia, il tenente ha modo di conoscere Raffaele Palizzolo, recatosi a New York per incontrare la comunità italiana. Non si sa cosa si sono detti. Quel che è certo è che Petrosino aveva già fatto arrestare uomini vicini al deputato italiano e che questi subito dopo l’incontro si è affrettato a tornare in Italia. 1911 Lorenzo Panepinto, maestro elementare, socialista, fonda nel suo paese, Santo Stefano Quisquina, in provincia di Agrigento, il Fascio siciliano e dirige il giornale La Plebe. Viene eletto consigliere comunale, sconfiggendo i moderati. La reazione è furibonda, il comune viene commissariato, ma questo non impedisce che la lista progressista vinca anche le nuove elezioni. E il governo del marchese di Rudinì commissaria una seconda volta il Comune. Panepinto si dimette per protesta. All’inizio del secolo collabora con Bernardino Verro, di Corleone, e Nicola Alongi, di Prizzi, per la realizzazione di cooperative agricole e di Casse agrarie per emarginare i gabelloti dei feudi. Nel 1907 si trasferisce in America, ma appena un anno dopo
torna nel suo paese. Il 16 maggio 1911, all’età di 46 anni, viene assassinato davanti alla porta di casa con due colpi di fucile al petto. 1914 Mariano Barbato è un attivista socialista, braccio destro nonché cugino di Mariano Barbato, uno dei più importanti dirigenti socialisti siciliani. Nel 1882 viene arrestato per “istigazione all’ammutinamento dal lavoro durante uno sciopero contadino”. Altri processi li subisce nel 1894 e nel 1898. Nel 1914 si impegna nella campagna elettorale per il comune di Piana degli Albanesi. Ma il 20 maggio viene assassinato mentre è intento a costruire un muro in un terreno fuori paese. Con lui viene ucciso anche il cognato, Giorgio Pecoraro. Nicola Barbato non ha dubbi sui responsabili del duplice delitto e accusa il sindaco, Paolo Sirchia, e due assessori comunali di aver istigato i mafiosi a uccidere Mariano Barbato nella speranza di impedire la vittoria elettorale dei socialisti. L’inchiesta viene archiviata. Alle elezion i, comunque, i socialisti conquistano il comune. 1915 Bernardino Verro a 26 anni, nel 1892, fonda nella sua Corleone uno dei primi Fasci siciliani e ne diventa presidente. Si reca anche nei paesi vicini, girando a dorso di un mulo, per fondare altri Fasci, e così spiega ai contadini l’importanza di darsi un’organizzazione per contrastare gli agrari: “Se voi prendete una verga sola la spezzate facilmente, se ne prendete due le spezzate con maggiore difficoltà. Ma se fate un fascio di verghe è impossibile spezzarle. Così, se il lavoratore è solo può essere piegato dal padrone, se invece si unisce in un fascio, in un’organizzazione, diventa invincibile”. Nel 1910, tiene un comizio in piazza e attacca così il sindaco, gli assessori comunali e la mafia: “Siete riusciti a rendere Corleone il più disgraziato dei comuni della Sicilia, lasciandogli solo il triste vanto di essere la sede della Cassazione della mafia siciliana”. Solo sei giorni dopo, mentre è seduto nella farmacia del paese, gli vengono sparati contro due fucilate, che però lo feriscono soltanto. Passano quattro anni e i socialisti vincono le elezioni comunali e Verro diventa sindaco di Corleone. Non era mai accaduto prima, e per la mafia e gli agrari è un fatto intollerabile. Nel primo pomeriggio del 3 novembre 1915, Bernardino Verro, uscito dal municipio, si sta dirigendo a casa; ha appena licenziato i due vigili urbani che lo scortano, quando viene colpito da numerosi colpi di pistola (undici, di cui quattro sparatigli a bruciapelo al capo), che lo uccidono a 49 anni. 1916
Don Giorgio Gennaro è un sacerdote che ha l’ardire di denunciare pubblicamente le ingerenze mafiose nell’amministrazione delle rendite ecclesiastiche. Ciò gli basta per essere condannato a morte da due importantissimi boss mafiosi di Ciaculli: Salvatore e Giuseppe Greco. Viene assassinato a Ciaculli, alle porte di Palermo, all’età di 50 anni. 1919 Giovanni Zangara, socialista, di mestiere cordaro, diventa consigliere comunale e assessore di Corleone con il sindaco Bernardino Verro. Rimane assessore anche dopo l’uccisione di Verro. Viene assassinato il 29 gennaio 1919, all’età di 42 anni, da tre sicari su ordine del capomafia di Corleone, Michelangelo Gennaro. Il pretesto è il rifiuto opposto da Zangara a dare ai mafiosi il petrolio destinato a essere distribuito gratuitamente ai poveri. L’obiettivo è comunque quello di impedire che i socialisti restino alla guida far cessare la gestione socialista del Comune. Don Costantino Stella, arciprete, parroco di Resuttano, in provincia di Caltanissetta, impegnato in diverse attività e per il miglioramento delle condizioni delle campagne e degli abitanti della zona e fondatore della Cassa rurale e artigiana, viene accoltellato sulla porta di casa il 22 settembre 1919. Muore, a 46 anni, dopo u n’agonia di diciotto giorni. Giuseppe Rumore, di Prizzi, in provincia di Palermo, partecipa alle rivolte nelle campagne dei primi anni del 1900 fino a diventare segretario della Lega dei contadini, collaborando con il collega Nicola Alongi. Organizza l’occupazione dei latifondi durante uno sciopero, indetto insieme ad Alongi il 31 agosto del 1919, conosciuto ancor oggi come lo sciopero delle campagne prizzesi. Gira quindi a fare comizi nei comuni della zona, suscitando la reazione dei latifondisti e dei maf iosi. La notte del 22 settembre 1919, Giuseppe Rumore, all’età di 25 anni, viene ucciso sotto casa con due colpi di fucile. Giuseppe Monticciolo, socialista, presidente della Lega per il miglioramento agricolo a difesa dei contadini contro agrari e mafiosi. Viene ucciso a Trapani, all’età di 42 anni, il 27 ottobre 1919. Alfonso Canzio, di Barrafranca, in provincia di Enna, fonda nel suo paese la Lega di Miglioramento dei Contadini, e diventa il leader dei socialisti locali. Dopo la Prima Guerra Mondiale, Canzio guida le lotte contadine riuscendo a conquistare contratti favorevoli ai lavoratori. Questo lo espone agli occhi dei latifondisti e dei mafiosi, e anche lui resta vittima dell’ondata di omicidi che in quei mesi semina tanti morti tra i sindacalisti siciliani. Gli viene così teso un agguato davanti casa: gli sparano,
ferendolo gravemente, con pallettoni unti nell’aglio che gli provocano la cancrena. Muore il 13 dicembre 1919 a 47 anni. 1920 Nicolò Alongi, di Prizzi, in provincia di Palermo, a trent’anni entra nel movimento dei Fasci siciliani facendo sue le idee di Bernerdino Verro. Lo sciopero contadino che si protrae dall’agosto al dicembre del 1901 lo consacra dirigente sindacale. A Prizzi si tiene il congresso delle Leghe socialiste e Alongi viene nominato presidente della Lega prizzese che vanta duecento militanti socialisti. Alongi si batte per la conquista della proprietà delle terre da parte dei contadini poveri e, andando oltre le posizioni di Verro, lavora per l’alleanza tra operai e contadini. Nel ’19, con il Decreto Visocchi si ottengono affitti delle terre convenienti per le cooperative di contadini, esautorando i gabelloti, per arrivare successivamente all’assegnazione delle terre incolte. Conquiste a cui la mafia risponde con una serie di omicidi di sindacalisti. Il turno di Alongi arriva la sera del 29 febbraio 1920: mentre stava andando alla sede della Lega di Prizzi per partecipare ad una riunione, Alongi viene colpito da tre fucilate e muore. Ha 57 anni. Paolo Li Puma e Croce Di Gangi, contadini di Petralia Soprana, in provincia di Palermo, entrambi militanti socialisti, vengono uccisi mentre tornano a casa dopo una riunione della Lega Contadina. Paolo Mirmina, contadino di Noto, in provincia di Siracusa. Di lui si sa poco, trann e che si tratta della figura di un sindacalista molto attivo nelle lotte per la terra. Pochi altri dettagli sono rintracciabili: di figura minuta, Mirmina si distingue per il fatto che sa leggere e scrivere, una vera rarità tra i braccianti dell’epoca. Vie ne assassinato il 3 ottobre 1920. Solo recentemente è stata individuata la sua tomba nel cimitero di Noto e gli è stata dedicata una piazza. Giovanni Orcel, tipografo palermitano, si iscrive giovanissimo al Psi, organizza la Lega dei lavoratori e aderisce al gruppo rivoluzionario formatosi intorno ai giornali Il Germe e La Fiaccola. Nello scontro interno al partito socialista tra riformisti e rivoluzionari, Orcel si schiera con i secondi, guidati da Nicola Barbato e Nicola Alongi. Finita la Grande Guerra, nel 1919 viene eletto segretario della Fiom e si impegna nella lotta al carovita, per le otto ore di lavoro, per gli aumenti salariali, per il riconoscimento del ruolo del sindacato e per la costituzione di commissioni interne. Intanto parte la violenta controffensiva degli agrari e dei mafiosi con l’uccisione di diversi sindacalisti, mentre l’8 ottobre le forze dell’ordine di Riesi uccidono undici contadini che protestavano per la riforma agraria. Nel 1920 Orcel si impegna con
Nicolò Alongi per una collaborazione nelle lotte tra operai e contadini e a Palermo si arriva all’occupazione dei cantieri navali e delle fabbriche annesse. E questo è probabilmente il fattore che fa decidere alla mafia di eliminarlo. Il 14 ottobre, Orcel viene assassinato all’età di 33 anni da un sicario agli ordini del capo -mandamento di Prizzi, Sisì Gristina. Don Stefano Caronia è un arciprete, uno di quelli che vengono definiti “preti sociali”, sulla base dell’insegnamento di Papa Leone XIII, e diventa esponente di punta del Partito Popolare di Don Sturzo. Si schiera nella lotta contro le usurpazioni di stampo feudale e chiede a Roma l’esproprio dei feudi della zona di Gibellina (Trapani) in favore della Cooperativa Agricola. Il pomeriggio del 17 novembre 1920, a 44 anni, viene assassinato con tre colpi di pistola nel pieno centro di Gibellina, vicino alla Cooperativa di Consumo che aveva contribuito a far crescere. 1921 Giuseppe Compagna, contadino, consigliere comunale socialista di Vittoria, in provincia di Ragusa, viene ucciso il 29 gennaio del ’21 nel corso di un raid di nazionalisti, fascisti e mafiosi locali che irrompono nella sede del circolo socialista sparando all’impazzata. Pietro Ponzo, contadino, presidente della Cooperativa agricola di Salemi, dedica la sua vita alle lotte contadine dai tempi dei Fasci fino alle occupazioni delle terre del biennio 1919-1920. Viene assassinato a Salemi, all’età di 70 anni, il 19 febbraio del 1921. I sicari sono individuati e condannati, mentre restano ignoti i nomi dei mandanti. Vito Stassi, dirigente socialista e presidente della Lega dei contadini di Piana degli Albanesi, che viene indicata come “Piana la Rossa”. La sera del 28 aprile 1921 cade in un’imboscata tesagli da tre mafiosi che gli sparano uccidendolo all’età di 45 anni. Giuseppe Cassarà e Vito Cassarà sono due dirigenti socialisti di Piana degli Abanesi, assassinati dalla criminalità locale il 5 maggio 1921. 1922 Domenico, Mario e Pietro Paolo Spatola. Domenico è il fratello, Mario e Pietro Paola i figli di Giacomo Spatola, dirigente socialista e presidente della Società Agricola Cooperativa, impegnato nelle lotte contadine fin dai tempi dei Fasci. Vengono uccisi dai mafiosi il 16 gennaio del 1922 a Paceco, in provincia di Trapani. Sebastiano Bonfiglio, sindacalista e politico socialista, sindaco di Erice, allora Monte San Giuliano (TP) per quasi due anni, fino al suo omicidio, avvenuto per mano mafiosa, nel contesto dell’opposizione delle organizzazioni criminali alle lotte
contadine ed all’espansione del socialismo. Bonfiglio viene ucciso il 10 giugno del 1922 mentre sta tornando a casa dopo una riunione della Giunta municipale. Antonio Scuderi, contadino e consigliere comunale socialista, viene assassin ato il 16 febbraio del 1922, poco dopo la sua elezione a segretario della cooperativa agricola di Paceco, in provincia di Trapani. Per la sua attività a difesa dei contadini viene condannato a morte e ucciso mentre in bicicletta sta rientrando a Dattilo. I l suo omicidio resta impunito e non vengono fatte neanche vere e proprie indagini. Antonio Ciolino è l’ultimo dirigente delle lotte contadine ad essere ucciso dalla mafia di Piana degli Albanesi. Per il suo omicidio non viene individuato nessun colpevole. 1944 Santi Milissena, segretario della federazione del Pci di Enna, viene ucciso il 27 maggio nel corso di tumulti legati ad un raduno di separatisti a Regalbuto. In quel periodo, socialisti e comunisti vengono visti come i nemici da battere, mentre i ma fiosi come potenziali alleati. Sull’uccisione di Milissena non vengono fatte vere e proprie indagini. Andrea Raia, militante comunista, si batte per i diritti dei contadini e si oppone pubblicamente allo strapotere mafioso. Viene assassinato il 6 agosto ’4 4 a Casteldaccia, in provincia di Palermo. 1945 Calogero Comaianni, guardia giurata, responsabile dell’arresto del boss Luciano Liggio e per questo assassinato a Corleone il 28 marzo ’45. Nunzio Passafiume, sindacalista delle Cgil, è noto per la sua capacità di illustrare così bene le sue idee da essere ascoltato e seguito non solo dai contadini nella occupazione delle terre incolte, ma anche da molti giovani e professionisti. Viene ucciso da sicari mafiosi il 7 giugno ’45 a Trabia, in provincia di Pa lermo, e la sua morte resterà impunita. Filippo Scimone, maresciallo dei carabinieri, partecipa alle operazioni di repressione del banditismo. Viene ucciso a San Giuseppe Jato il 20 giugno ’45, all’età di 46 anni, da due uomini della banda Giuliano come ritorsione per la morte di un comandante dell’Evis, l’ala militare del movimento indipendentista siciliano, nel corso di un conflitto a fuoco vicino a Randazzo. Calcedonio Catalano è un ragazzino di 13 anni che, il 18 agosto ’45, viene ucciso da dei banditi mentre passa per la contrada di San Filippo di Roccapalumba (PA) e si trova in mezzo a un conflitto a fuoco con i carabinieri. I banditi sospettano che il ragazzo sia una spia e non esitano a ucciderlo.
Agostino D’Alessandro di mestiere è guardiano dei pozzi ed è segretario della Camera del Lavoro di Ficarazzi (PA). Conduce una battaglia contro il controllo mafioso sulla gestione dell’acqua per l’irrigazione degli agrumeti. Subisce intimidazioni, ma non cede. Viene quindi assassinato l’11 settembre del ’4 5. Calogero Cicero e Fedele De Francisca, entrambi carabinieri, vengono uccisi il 14 settembre ’45, a Favara, in provincia di Agrigento, durante un conflitto a fuoco con alcuni banditi di Palma di Montechiaro. Michele Di Miceli, Rosario Pagano e Mario Paoletti, carabinieri, vengono uccisi in contrada Apa a Niscemi (CL) nel corso di un agguato. Questo è stato ordito da una banda criminale operante a Niscemi dal 1943 ed inizialmente alleata del Movimento Separatista Siciliano, salvo poi esserne ripudiata per l’efferatezza dei propri crimini. L’attentato del 16 ottobre 1945, con fucili e bombe a mano, è uno dei più sanguinosi. Giuseppe Scalia, sindacalista socialista, tra i fondatori della cooperativa La Proletaria, dopo la guerra, con altri contadini, è alla guida del movimento bracciantile. Il suo impegno non diminuisce neanche dopo essere stato minacciato e per il suo atteggiamento deciso e coraggioso viene eletto segretario della Camera del Lavoro locale. Il 18 novembre 1945 resta vittima, con il vice -sindaco socialista Aurelio Bentivegna, di un attentato a bombe a mano da parte di un gruppo di sicari mafiosi. Muore una settimana dopo in seguito alle ferite riportate. Giorgio Comparetto, contadino, viene ucciso a Caccamo (Pa) il 5 novembre del 1945 mentre è sulla mula insieme al figlioletto di 5 anni. Per il suo omicidio, grazie alla collaborazione di un testimone, finisce sul banco degli imputati Salvatore La Corte, poi condannato all’ergastolo nel 1969, che si difende sostenendo di aver ucciso il contadino dopo averlo sorpreso a rubare del frumento. In realtà questi sono gli anni delle lotte per la terra e la mafia ha tempo deciso di fermare i contadini. Giuseppe Puntarello, conducente di autobus sulla linea Ventimiglia di Sicilia – Palermo. È anche dirigente della Camera del lavoro di Ventimiglia e si impegna nelle lotte contadine. Viene ucciso a colpi di lupara la mattina del 4 dicembre ’45 mentre si reca all’autorimessa per il suo lavoro. 1946 Vitangelo Cinquepalmi, Vittorio Epifani, Imerio Piccini e Angelo Lombardi, militari, rimangono uccisi in contrada Donnastura- San Cataldo di Terrasini (PA) nel corso di uno scontro a fuoco con uomini della banda Giuliano che avevano teso un agguato ad un automezzo delle forze armate. L’attentato rientra nel quadro di
tensione del secondo dopoguerra, in cui la mafia fa accordi con il banditismo, ed in particolare con la banda Giuliano, per difendere i propri interessi agrari. Vincenzo Ameduni, Vittorio Levico, Emanuele Greco, Pietro Loria, Mario Boscone, Mario Spanpinato, Fiorentino Bonfiglio e Giovanni La Brocca. Tutti carabinieri della caserma “Feudo Nobile” di Gela. Ameduni, Levico, Greco, Loria e Boscone, mentre sono di pattuglia, vengono assaliti e sequestrati da alcuni briganti ben armati legati alle bande criminali della zona di Niscemi (CL), che nel frattempo attaccano la caserma di Gela, riuscendo a sopraffare, dopo un violento scontro a fuoco, i carabinieri Spampinato, Bonfiglio e La Brocca. Tutti e otto i militari vengono nascosti per utilizzarli come ostaggi nelle trattative in corso tra i banditi e lo Stato. Quando appare chiaro che nessun bandito incarcerato sarà rilasciato in cambio degli otto carabinieri, i banditi conducono gli ostaggi in una cava e, dopo averli denudati, li uccidono a colpi di fucile e moschetto. Masina Perricone Spinelli, di 33 anni, sposata da poco, rimane uccisa per sbaglio il 7 marzo del 1946 nel corso di un agguato al candidato sindaco di Burgio Antonio Guarisco, che invece si salva, riportando solo una ferita al braccio. Guarisco continuerà la sua campagna elettorale e verrà eletto sindaco. Gaetano Guarino si impegna nelle lotte contro i grandi proprietari terrieri che sfruttano i contadini e per l’applicazione delle leggi Gullo-Segni per l’attribuzione delle terre incolte dei latifondi alle cooperative agricole e fonda una cooperativa, attirandosi le inimicizie degli agrari. Il 10 marzo 1946 viene eletto sindaco di Favara (AG) con il 59% dei voti, sostenuto da socialisti, comunisti e Partito d’Azione. Ma la sua politica e le sue prese di posizione non sono gradite alla mafia dei latifondi e, appena 65 giorni dopo l’investitura, il 10 marzo ’46, viene ucciso con un colpo di lupara alla nuca. Francesco Sassano è un carabiniere convito di essere in grado di far arrestare il capo bandito Giuliano e lo dice pubblicamente. Durante una licenza a Pioppo (PA), il 25 marzo del ’46, tre uomini armati di mitra fanno irruzione in casa sua e, sotto gli occhi delle sorelle Anna e Francesca, lo trascinarono fuori di casa e lo uccidono, lasciando sul corpo un foglio su cui si leggeva: “Questa è la fine delle spie. Giuliano”. Pino Camilleri è un socialista, a capo delle lotte contadine nell’area tra le province di Agrigento e di Caltanissetta, e sindaco di Naro (AG). Viene ucciso il 28 giugno ’46 da sicari mafiosi con un colpo di lupara all’età di soli 27 anni, mentre da Riesi (CL) si sta recando al feudo di Deliella, teatro di una contesa particolarmente aspra tra agrari e contadini. Girolamo Scaccia e Giovanni Castiglione sono due contadini, impegnati nelle lotte per le terre del secondo dopoguerra in Sicilia. Il 22 settembre 1946, in casa del
segretario della Camera del Lavoro di Alia (PA) si tiene una riunione per discutere della possibile attribuzione dei feudi “Raciura” e “Vacco” a cooperative contadine, in seguito ai decreti Gullo sull’attribuzione delle terre incolte ai contadini. Delle bombe a mano vengono lanciate nella stanza, seguite da colpi di lupara. Castiglione e Scaccia rimangono uccisi, mentre altri 13 restano feriti. La riunione era stata convocata per organizzare l’occupazione di feudi gestiti dai gabelloti mafiosi. Giuseppe Biondo è un mezzadro iscritto alla Federterra e impegnato nella lotta per l’applicazione della legge che prevede la divisione del prodotto al 60% per il mezzadr o e 40% per il proprietario. Sfrattato abusivamente dal proprietario del terreno, Biondo torna a lavorarvi. Viene assassinato a Santa Ninfa (TP) il 22 ottobre del ‘46. Vincenzo, Giuseppe e Giovanni Santangelo, fratelli, fanno parte di una cooperativa di contadini in attesa dell’assegnazione di un feudo. Vengono assassinati con un colpo alla nuca da ben tredici banditi su ordine degli agrari a Belmonte Mezzagno (PA) il 2 novembre 1946. Lo scopo del massacro è intimidire tutti gli altri contadini e porre così fine alle rivendicazioni nella zona. Giovanni Severino, contadino, segretario della Camera del Lavoro di Jappolo Giancaxio (AG), viene assassinato a colpi di lupara il 25 novembre 1946. Il delitto resterà impunito. Filippo Forno e Giuseppe Pullara. Forno è un contadino e sindacalista di Comitini (AG), Pullara un bracciante. Il giorno in cui cadono in un agguato, uccisi a colpi d’arma da fuoco, 29 novembre ’46, stanno tornando dalla vicina Aragona, dove Forno, accompagnato da Pullara, aveva avuto un incontro con un gruppo di contadini. Nicolò Azoti, di mestiere ebanista, ma anche musicista per passione, è segretario della Camera del Lavoro di Baucina. Fonda l’ufficio di collocamento, progetta la fondazione di una cooperativa agricola e lotta per l’applicazio ne della legge sulla mezzadria che prevede che il 60% spettasse al contadino e solo il 40% al proprietario della terra. Prima viene lusingato con promesse dai mafiosi, poi minacciato, infine, il 23 dicembre del ’46, ucciso. Azoti, raggiunto da cinque colpi di pistola sparati alle spalle, fa in tempo a dire alla moglie, che si è precipitata a soccorrerlo, il nome dell’uomo che gli ha sparato: un certo Varisco, detto l’avvocato, noto mafioso gabelloto che controlla il vicino Feudo Traversa dei Di Salvo. Azoti muore dopo due giorni di agonia all’Ospedale Civico di Palermo. Nonostante la testimonianza della moglie ai carabinieri, per la sua morte non viene istruito nemmeno un processo: l’inchiesta viene archiviata in istruttoria, dopo che Varisco, resosi irreper ibile, si presenta ai Carabinieri con un falso alibi di ferro.
1947 Accursio Miraglia è dirigente del Pci e fondatore della prima Camera del Lavoro in Sicilia. Impegnato nella difesa dei diritti dei contadini, diventa anche presidente del locale ospedale, proprietario di una piccola industria ittica, rappresentante e commerciante di ferro e metalli, e amministratore del teatro “Rossi” di Sciacca. Conscio di essere esposto, ogni sera Miraglia viene scortato fino a casa da due compagni. La sera del 4 gennaio del ’47, però, si separa da chi lo scorta una trentina di metri prima di giungere a casa, e quel piccolo tratto percorso in solitudine gli è fatale. Davanti alla sua casa lo attendono i sicari che lo uccidono con una raffica di mitra. Prima di spirare, Miraglia fa in tempo La storia di Miraglia ha ispirato Leonardo Sciascia per il suo romanzo “Il giorno della civetta”. Pietro Macchiarella è un dirigente sindacale e militante del Partito Comunista, molto attivo nelle lotte contadine in Sicilia. Ha 41 anni quando viene ucciso a colpi di lupara a Ficarazzi (PA) il 17 gennaio 1947. Si fa subito il nome, ripreso anche dai giornali, di un noto mafioso del posto, Paolo Niosi, come mandante dell’omicidio, ma non si riesce neppure ad aprire un processo a suo carico. Lo stesso giorno, a Palermo, un gruppo di fuoco capeggiato dal boss del rione Acquasanta, Nicola D’Alessandro, spara contro gli operai che protestano per la presenza della mafia nei cantieri navali e chiedono l’allontanamento del direttore della mensa, Emilio Ducci, perché sostenuto dalle cosche. Due operai vengono feriti: Francesco Paolo Di Fiore e Antonino Lo Surdo. Vincenzo Sansone, sindacalista, militante comunista e insegnante di lettere, il 13 febbraio ’47, a Villabate, in provincia di Palermo, viene ucciso a colpi di lupara da mafiosi per il suo impegno nella lotta per la riforma agraria e il tentativo di fondare una cooperativa agricola. Portella della Ginestra. Primo maggio 1947, a Portella della Ginestra si radunano circa duemila contadini per la festa del lavoro. Vengono da Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello, per il raduno ideato 60 anni prima dal socialista Nicola Barbato. Dalla collina che sovrasta la piana, improvvisamente i banditi di Salvatore Giuliano cominciano a sparare con mitragliatrici sulla folla. Il bilancio è pesantissimo: undici morti, ventisette feriti, alcuni dei quali deceduti nei giorni seguenti. Tra le vittime anche tre bambini e una donna incinta. Questi i nomi delle vittime: Vito Allotta, Emanuele Busellini, Margherita Clesceri, Giorgio Cusenza, Castrenze Intravaia, Giuseppe Di Maggio, Filippo Di Salvo, Giovanni Grifò, Vincenza La Fata, Vincenzo La Rocca, Serafino Lascari, Giovanni Megna, Vincenza Spina, Francesco Vicari. Michelangelo Salvia, contadino, dirigente comunista della
Camera del lavoro di Partinico, in provincia di Palermo. Viene assassinato dalla mafia l’8 maggio 1947, una settimana dopo la strage di Portella della Ginestra. Salvia, nonostante le umili origini, era molto apprezzato dai contadini per le sue capacità oratorie e organizzative. Forse è proprio per questa sua capacità di parlare in pubblico, e di farlo senza peli sulla lingua, che i sicari mafiosi lo uccisero sparandogli un colpo di lupara in bocca. Giuseppe Casarrubea e Vincenzo Lo Iacono muoiono il 22 giugno 1947 in un attentato alla sede del Partito Comunista di Partinico (PA) rivendicato dalla banda Giuliano, che in un volantino lasciato sul luogo del delitto incita i siciliani a combattere “contro la canea dei rossi” e annuncia la costituzione di un nucleo di lotta al bolscevismo, promettendo aiuti finanziari a chi si presenterà al quartiere generale per la formazione militare presso il feudo di Sagana. Giuseppe Maniaci, segretario della Federterra di Terrasini (PA) e dirigente del Pci, viene ucciso a colpi di mitra davanti casa a 38 anni, lasciando la moglie e l figlioletto di due anni. Era diventato comunista in carcere, detenuto per reati comuni, dove aveva conosciuto due importanti dirigenti del Pci: Mauro Scoccimarro e Umber to Terracini. I tre mafiosi sospettati del delitto no vengono neanche denunciati, e la Corte di Appello di Palermo dichiarò, neanche sei mesi dopo il delitto, di “non doversi procedere perché ignoti gli autori del delitto”. Calogero Caiola, piccolo proprietario terriero di San Giuseppe Jato, sembra che il primo maggio del ’47, il giorno della strage di Portella della Ginestra, avesse riconosciuto dei suoi compaesani che stavano tornando a casa armati di lupara e mitragliatrice. Certo è che sarebbe dovuto andare come testimone al processo per la strage, ma viene ucciso prima, a 29 anni. Vito Pipitone, segretario della Camera del Lavoro di Marsala, 39 anni, padre di quattro figli, è un convinto sostenitore della possibilità di applicare anche in Sicilia la nuova legge in materia di agricoltura varata dal ministro Fausto Gullo. Da tempo si batte perché ai contadini vengano riconosciuti il diritto a un salario equo, alla giornata lavorativa di otto ore e alla pensione. Viene ucciso dalla mafia a colpi di fucile l ’8 novembre 1947. Luigi Geronazzo, tenente colonnello dei carabinieri, a capo di un battaglione dell’Arma impegnato nella lotta contro una banda che semina il terrore nel palermitano. Il 29 novembre ’47, di notte, mentre si reca alla sede del Comando a Partinico (PA), cade in un agguato e muore sotto i colpi di arma da fuoco mentre tenta di difendersi con la pistola. Del suo omicidio (e di molti altri) si autoaccuseranno i banditi Antonio Guarino e Antonino De Lisi.
1948 Epifanio Li Puma, contadino, è un socialista riformista. Antifascista nel Ventennio, subito dopo la guerra si impegna a organizzare i contadini del borgo in cui vive, Raffo, sulle Madonie, per l’applicazione di quanto previsto dal decreto del ministro Gullo. Ben presto la sua azione si estende ai paesi vicini e riesce a fondare la cooperativa “Madre Terra” che conta circa 500 contadini, i quali si rifiutano di lavorare la terra dei latifondisti fino a quando non saranno applicate le norme del decreto Gullo. Li Puma è mezzadro nel feudo del marchese Pottino, che prima cerca di intimidire il suo dipendente, poi lo sfratta. Ma Li Puma prosegue nella sua azione e il 2 marzo del ’48, mentre è intento ad arare un terreno del cognato in compagnia di due suoi figli, di 19 e 13 anni, viene avvicinato da due uomini a cavallo che lo uccidono sparandogli a bruciapelo. Anche in questo caso, le indagini vengono presto archiviate. Placido Rizzotto è stato partigiano delle Brigate Garibaldi in Friuli, dove era stato sorpreso dall’8 settembre mentre faceva servizio militare sui monti della Carnia con il grado di caporale. Tornato in Sicilia, nella sua Corleone, alla fine della guerra, diviene ben presto dirigente di spicco del Psi e della Cgil e viene eletto segretario della Camera del Lavoro. Si impegna particolarmente nell’organizzare l’occupazione delle terre incolte. Per questa sua attività, viene rapito e assassinato la sera del 10 marzo ’48, all’età di 34 anni, mentre si sta recando a incontrare alcuni compagni di partito, da un manipolo di mafiosi, tra i quali il futuro boss Luciano Liggio. Un pastorello di 12 anni, Giuseppe Letizia, vede di nascosto la scena dell’omicidio. Scoperto, i sicari lo portano dal capomafia di Corleone, il medico Michele Navarra, che lo uccide con una iniezione letale. Il corpo di Rizzotto non si trova perché gettato in una foiba vicino a Corleone. Le indagini vengono affidate a Carlo Alberto dalla Chiesa, in quest’epoca capitano dei carabinieri a Corleone, che riesce a individuare e arrestare due dei killer di Rizzotto, Pasquale Criscione e Vincenzo Collura, che ammettono di aver partecipato all’omicidio e indicano in Luciano Liggio il terzo componente del commando mafioso. Liggio si dà alla latitanza, mentre Criscione e Collura ritrattano durante il processo, che si conclude con una assoluzione di tutti gli imputati per insufficienza di prove. 60 anni dopo, il 7 luglio 2009, gli speleologi dei Vigili del Fuoco riescono a trovare dentro la foiba e a recuperare i resti di Placido Rizzotto. Tre anni più tardi, il Consiglio dei Ministri decide di onorare Placido Rizzotto con funerali di Stato, che si svolgono a Corleone il 24 maggio 2012 alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Calogero Cangelosi è il segretario della Camera del Lavoro di Camporeale (PA), e anche lui si batte per l’applicazione dei decreti Gullo che impongono una diversa divisione dei prodotti tra proprietari terrieri e mezzadri. Sposato con quattro figli, 42 anni, Cangelosi è conscio del pericolo a cui è esposto: già altri 35 sindacalisti sono stati assassinati dalla mafia da quando è finita la guerra. Per questo, anche la sera dell’1 aprile ’48 rientra a casa scortato da quattro compagni della Cgil. Lungo il tragitto, il gruppo di sindacalisti è investito da una raffica di mitragliatrice. Cangelosi, colpito alla testa, muore all’istante, mentre due dei suoi accompagnatori restano gravemente feriti. I militanti della Cgil non esitano a indicare nel proprietario terriero Serafino Sciortino il mandante dell’agguato mortale e nel capomafia Vanni Sacco e nei suoi picciotti gli esecutori. Le indagini procedono però “contro ignoti”, che tali resteranno per sempre. Marcantonio e Antonio Giacalone, padre e figlio, possidenti di Partinico, in provincia di Palermo. Vengono entrambi assassinati dalla Banda Giuliano per essersi rifiutati di pagare il “pizzo”. Celestino Zapponi, Nicola Messina e Antonio Di Salvo, Celestino Zapponi è un commissario di Polizia, Nicola Messina un maresciallo dei Car abinieri e Antonio Di Salvo capitano dei Carabinieri. Vengono uccisi il 3 settembre ’48 a Partinico (PA) in un agguato con raffiche di mitra e bombe a mano. Delitto imputato immediatamente agli uomini della banda Giuliano. Giovanni Tasquier partecipa ad un pattugliamento quando, il 16 novembre ’48, la jeep sulla quale viaggiava con gli altri militari viene investita da raffiche di mitra esplose dai banditi della banda Giuliano in agguato. Tasquier rimane ucciso sul colpo mentre tre carabinieri rimangono fer iti. 1949 Vito Guarino è un bambino di soli 3 anni. Resta ucciso a Partinico (PA), assieme al padre Carlo Guarino ed a Francesco Gulino, da banditi armati che fanno nella casa dei Guarino lanciando bombe a mano e sparando raffiche di mitra. Commessa la strage, i banditi si dileguano sparando raffiche di mitra e lanciando bombe per impaurire la popolazione accorsa. Si presume che la strage sia stata commessa per vendetta. Carmelo Agnone, Candeloro Catanese, Carmelo Lentini, Michele Marinaro e Quinto Reda sono poliziotti di stanza a San Giuseppe Jato (PA). Il 2 luglio ’49 si stanno recando in auto a Palermo per una riunione di lavoro, quando, in località Portella della Paglia, cadono nell’agguato di una decina di membri della banda Giuliano, che li aggrediscono con raffiche di mitra e bombe a mano. Agnone, Lentini
e Reda muoiono all’istante. Catanese, Marinaro, insieme ad altri due poliziotti (Giovanni Biundo e Carmelo Gucciardo) scendono dalle automobili e rispondono al fuoco, riuscendo, dopo una furiosa sparatoria, a mettere in fuga i banditi. Biundo e Gucciardo sono gravemente feriti, ma non mortalmente. Marinaro, invece, muore poco dopo e Catanese due giorni dopo. Giovanbattista Aloe, Armando Loddo, Sergio Mancini, Pasquale Antonio Marcone, Gabriele Palandrani, Carlo Antonio Pabusa e Ilario Russo sono carabinieri e il 19 agosto del ’49 sono a bordo di un autocarro che li sta portando da Partinico a Palermo insieme ad altri 53 militari del XII Battaglione Mobile Carabinieri. Quando la colonna, formata da 5 autocarri e due autoblindo, quando giunge a Passo di Rigano, vicino a Bellolampo, borgata alle porte di Palermo, il bandito Salvatore Giuliano dà l’ordine di far esplodere una mina di autocarro che era stata piazzata ai bordi della strada. La deflagrazione investe l’ultimo mezzo, con a bordo 18 carabinieri, uccidendo sette di loro. Giovanni Calabrese e Giuseppe Fiorenza sono due carabinieri uccisi il 21 agosto ‘49 a Sancipirello (Palermo) dalla banda Giuliano. Francesco Butifar e Salvatore Messina, la mattina del 28 novembre 1949, si recano in una stalla a Bagheria (Pa) alla ricerca di un carro che era stato rubato. Giunti sul posto, i due militari trovano 6 uomini. Il maresciallo capo Messina, che è comandante della locale stazione dei carabinieri, procede alla loro identificazione, lasciando l’appuntato Butifar all’ingresso. Quando Messina si accorge di una pistola lasciata su una cassa vuota, uno dei malviventi estrae una pistola e spara al maresciallo, uccidendolo. Gli altri banditi sparano anche a Butifar che, ferito gravemente, riesce tuttavia a trascinarsi dietro un riparo e ingaggiare un conflitto a fuoco, ferendo uno dei banditi, i quali si danno alla fuga. Butifar, soccorso da un collega casualmente passa da lì, viene trasportato all’ospedale militare di Palermo, dove però giunge cadavere. 1951 Antonio Sanginiti, maresciallo dei carabinieri viene ucciso il 30 agosto 1951 da Angelo Macrì, un boscaiolo incensurato. Macrì si è così voluto vendicare della morte del fratello Giovanni, rimasto ucciso da latitante insieme ad un amico, Leo Palumbo, nel corso di un conflitto a fuoco con i carabinieri, il 3 agosto. 1952 Filippo Intili è un mezzadro di Caccamo, e viene ucciso a colpi d’accetta perché pretendeva di dividere il prodotto dei campi tenendo per sé il 60% e lasciando al
proprietario della terra il restante 40%, così come prevedeva il decreto Fausto Gullo. Nonostante il decreto fosse ormai in vigore da otto anni, agrari e mafiosi pretendevano ancora di dividere al 50%. Intilli viene ucciso a 51 anni e da tempo prendeva parte alle proteste dei contadini per l’applicazione della riforma agraria. 1955 Salvatore Carnevale è un bracciante e sindacalista socialista di Sciara (PA). Viene assassinato all’alba del 16 maggio 1955 all’alba mentre percorre un a mulattiera per recarsi a lavorare in una cava di pietra. Carnevale aveva dato molto fastidio ai proprietari terrieri difendendo i diritti dei braccianti agricoli: era infatti molto attivo politicamente nel sindacato e nel movimento contadino. Nel 1951 aveva fondato la sezione del Psi di Sciara ed aveva organizzato la Camera del lavoro. Nel 1952 aveva rivendicato per i contadini la ripartizione dei prodotti agricoli ed era riuscito ad accordarsi con la principessa Notabartolo. Nell’ottobre 1951aveva organi zzato l’occupazione simbolica delle terre di contrada Giardinaccio della principessa e per questo era stato arrestato. Uscito dal carcere si trasferisce per due anni a Montevarchi, in Toscana, dove scopre una cultura dei diritti dei lavoratori più forte e radicata. Nell’agosto 1954 torna in Sicilia, dove cerca di trasferire nella lotta contadina le sue esperienze settentrionali. Nominato segretario della Lega dei lavoratori edili di Sciara, tre giorni prima di essere assassinato riesce ad ottenere le paghe arretrate dei suoi compagni e il rispetto della giornata lavorativa di otto ore. Salvatore Carnevale muore a 31 anni. Giuseppe Spagnuolo è un contadino di Cattolica Eraclea (AG), presidente della cooperativa “La Proletaria” e segretario della Camera del la voro. Tre mesi dopo la morte di Salvatore Carnevale, viene ucciso anche Spagnuolo, sorpreso mentre dormiva da quattro mafiosi che gli sparano diversi colpi di lupara. Le morti di Spagnuolo e di Carnevale vengono dopo la riforma agraria del 1950, che preved e lo smembramento dei feudi. Gli agrari, utilizzando i mafiosi, cercano di rallentare l’attuazione della riforma per aver il tempo di vendere le terre prima della confisca. 1957 Pasquale Almerico è il sindaco di Camporeale e segretario della locale sezione della Dc quando viene ucciso da cinque uomini a cavallo armati di mitra. Anche un giovane passante, Antonino Pollari, rimane ucciso. La prima Commissione Parlamentare Antimafia arriva alla conclusione che a decidere la sua condanna a morte è il potente capomafia di Camporeale Vanni Sacco, implicato anche nell’assassinio del segretario socialista della Camera del Lavoro Calogero Cangelosi. A condannare Pasquale
Almerico è stato il suo rifiuto di dare la tessera della Dc al boss Vanni Sacco e ad altri trecento mafiosi del paese. Dopo questo rifiuto, Almerico viene minacciato e decide di scrivere al segretario della DC siciliana, Nino Gullotti, informando anche uno dei proconsoli fanfaniani a Palermo, Giovanni Gioia. Almerico denuncia loro il rischio di consegnare la Dc di Camporeale alla mafia e il pericolo di essere ucciso, ma i dirigenti del partito non condividono la sua posizione e lo invitano a lasciare l’incarico di segretario della Democrazia Cristiana. 1958 Vincenzo Di Salvo è dirigente sindacale della Lega edili aderente all’organizzazione unitaria e contemporaneamente lavora presso la ditta Iacona, impresa appaltatrice dei lavori di costruzione delle fognature cittadine. In qualità di dirigente sindacale, il Di Salvo è alla testa, da una settimana circa, dello sciopero dei dipendenti dell’impresa, non essendo riusciti ad ottenere, dall’1 febbraio, il pagamento dei salari e degli assegni familiari maturati. Poi, a conclusione di un incontro tra rappresentanti dei lavoratori e del datore di lavoro, alla presenza del sindaco e di un sottufficiale dei carabinieri, si giunge ad un accordo: i lavoratori avrebbero sospeso l’azione sindacale a patto che l’azienda paghi entro il giorno successivo i salari e tutte le altre spettanze. La “Iacona” non mantiene l’impegno e, la sera del 18 marzo, con un colpo di pistola in pieno petto, Di Salvo viene assassinato. 1959 Anna Prestigiamo è una ragazzina di 15 anni e vive nel quartiere San Lorenzo di Palermo. Il 26 giugno del ’59 viene uccisa a colpi di fucile. La sorellina di 11 anni, Rosetta, vede la scena e riconosce l’assassino. Si tratta di Michele Cusimano, un vicino di casa. Si scopre che il padre di Anna, Francesco, è ritenuto un confidente dei carabinieri. Viene anche a galla che vari rancori dividono da tempo le due famiglie. Si scopre che tredici anni prima Francesco Prestigiacomo aveva convinto Cusimano a costituirsi ai carabinieri dopo un conflitto a fuoco e che per questo episodio si era fatto la fama di confidente. Cusimano viene arrestato con il padre Girolamo per l’omicidio della piccola Anna. In primo grado, Michele Cusimano, difeso da un principe del Foro, il deputato liberale e sottosegretario alla Difesa Giacomo Bellavista, viene assolto. Sentenza ribaltata in secondo grado: Michele Cusimano viene condannato, seppure con il riconoscimento di alcune attenuanti. Giuseppina Savoca, di 12 anni, viene colpita a Palermo, mentre giocava per strada, da un proiettile vagante nel corso di una sparatoria avvenuta la sera del 19 settembr e ’59 in via Messina Marine nella quale rimane ucciso il pregiudicato Filippo Drago, 51
anni, proprietario di una profumeria, e ferito leggermente suo nipote Giuseppe Gattuso di 22 anni. Giuseppina non muore immediatamente: trasportata in ospedale, si spegne per complicazioni polmonari tre giorni dopo il ricovero. 1960 Antonino Damanti viene ucciso per errore, all’età di 17 anni, il 30 marzo 1960, ad Agrigento. Viene colpito da una pallottola vagante nel corso dell’agguato che un gruppo di mafiosi compie per tentare di uccidere il commissario di polizia Cataldo Tandoy. Cosimo Cristina è un giovane giornalista che fonda e dirige a Palermo il periodico “Prospettive Siciliane”, oltre a collaborare per diverse testate: L’Ora, Il Giorno, l’Ansa, Il Messaggero, Il Gazzettino di Venezia. Per il suo periodico, segue con particolare attenzione la cronaca nera, il fenomeno mafioso e le sue ramificazioni nei territori di Termini Imerese e della vicina Caccamo. Attività di cronaca che gli costano la condanna a morte da parte di alcune famiglie mafiose, facendo ritrovare il suo corpo sui binari delle ferrovie, all’interno di una galleria vicino Termini Imerese. Un espediente che ricorda quello utilizzato 18 anni dopo per il delitto di Peppino Impastato. La morte di Cosimo Cristina viene quindi archiviata come suicidio. Sei anni dopo, il caso viene riaperto e viene effettuata l’autopsia sul corpo di Cristina, ma i periti confermano la tesi del suicidio. Nel 1999 il giornalista catanese Luciano Mirone indaga nuovamente sul caso e scopre che nel 1966 il vice questore di Palermo Angelo Mangano, famoso per una foto che lo ritrae mentre arresta il boss di Corleone Luciano Liggio, aveva riaperto le indagini scoprendo che Cristina era stato ucciso in un luogo diverso dalla ferrovia, e portato sui binari solo per depistare. Ma il rapporto di Mangano è stato neutralizzato dall’autopsia. Paolo Bongiorno, 38 anni, è un bracciante agricolo, comunista, padre di cinque figli, segretario della Camera del Lavoro di Lucca Sicula, in provincia di Agrigento. La sera del 27 settembre, Paolo Bongiorno, dopo una riunione del partito, rincasa in compagnia del nipote, Giuseppe Alfano, segretario della Fgci locale. A pochi metri dall’abitazione, due scariche di lupara, sparate da ignoti killer nascosti dietro un muro, colpiscono alla schiena Paolo Bongiorno uccidendolo. Paolo Bongiorno dedicava il tempo che gli restava dal lavoro nei campi per il lavoro sindacale, organizzando le rivendicazioni per il salario e il rispetto dell’orario di lavoro dei braccianti, facendosi apprezzare in paese, ma anche diventando un pericolo per gli agrari e i mafiosi.
1961 Paolo Riccobono, di 13 anni, viene assassinato a colpi di lupara nel rione Tommaso Natale di Palermo. Viene ucciso in una faida di mafia che era già costata la vita al padre e a due fratelli maggiori. 1962 Giacinto Puleo, bracciante agricolo, emigra in Germania con l’intento di risparmiare quanto bastava per comprare un appezzamento di terreno. Nel 1962 torna in Sicilia, a Bagheria, e insieme ad un amico prende a mezzadria un limoneto. Nessuno gli dice che i limoni non li raccoglieva il proprietario del terreno, ma un mafioso. Al momento del raccolto, gli viene rivelato come stanno le cose e viene consigliato di andarsene. Puleo non intende rinunciare ai suoi limoni. Il 2 luglio ’62, di buon mattino, mentre sta andando a lavorare, viene ucciso con due colpi di lupara. Enrico Mattei, fondatore e presidente dell’Eni, muore il 27 ottobre 1962 precipitando con il suo aereo a Bescapè, in provincia di Pavia, di ritorno da Gagliano Castelferrato, in provincia di Enna, dove era stato scoperto un giacimento di metano. Con lui muoiono il pilota, Irnerio Bertuzzi, e un giornalista americano, William McHale. Considerato uno degli uomini più potenti dell’Italia del dopoguerra, inviso alle grandi compagnie petrolifere internazionali ma non solo, Mattei è sicuramente rimasto vittima di un attentato. Nel 2005, si riesce infatti a dimostrare che l’aereo non è precipitato per un’avaria, ma per l’esplosione di una bomba. Sui mandanti si sono fatte molte congetture, senza però arrivare a conclusioni certe. Appare invece molto probabile che la manodopera per l’attentato sia stata fornita dalla mafia. 1963 Giuseppe Tesauro e Pietro Cannizzaro, panettiere il primo e custode di un garage il secondo, restano uccisi nell’esplosione di un’auto bomba a Villabate, alle porte di Palermo, la notte del 29 giugno 1963. Con loro, a quell’ora, è al lavoro un secondo panettiere, Giuseppe Castello. I tre si accorgono che da un’automob ile parcheggiata poco lontano esce del fumo. Si avvicinano per spegnere l’incendio, ma appena Cannizzaro, il garagista, tenta di aprire la portiera, l’automobile esplode. Si salva, sebbene ferito, soltanto Castello. L’obiettivo dell’attentato era probabilm ente Giovanni Di Peri, un boss mafioso del posto. La strage di Ciaculli. Cinque carabinieri e due militari dell’esercito sono le vittime di uno dei più eclatanti attentati di Cosa Nostra. Il 30 giugno 1963, dopo la segnalazione di un’auto sospetta parcheggiata in borgata Ciaculli, alla periferia sud di Palermo, si recano sul posto, per i carabinieri, il tenente Mario Malausa, i marescialli Silvio
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