Il meglio del cinema italiano nel 2020
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Il meglio del cinema italiano nel 2020 In questo disgraziatissimo e maledetto 2020, con la Pandemia da Covid-19 che ancora non sembra darci tregua, il comparto culturale (congressi, conferenze, teatri, cinema, musei) è quello che più di tutti ha sofferto l’immobilismo che ha bloccato il mondo. Il cinema ovviamente ha lavorato a singhiozzo e si è adattato forzatamente alla moda dello “smart working”, che ormai ha conquistato il mondo. Lo “smart working” nel caso del cinematografo, ha creato un momento a suo modo epocale: la maggior parte dei film usciti nel panorama mondiale e nazionale sono approdate sulle varie piattaforme di streaming online come come Rakuten TV, Infinity TV, Google Play, Chili, TIMvision, Prime Video, Sky, Netflix o anche YouTube in versione a pagamento. I cinema sono rimasti aperti, tra restrizioni e condizionamenti molto variegati, almeno fino ai primi giorni di marzo; per riaprire poi, in estate, ma con una programmazione ridotta; e riprendendo poi, un certo vigore tra settembre ed ottobre, quando un nuovo DPCM, ne ha previsto la chiusura a partire dal 26 ottobre, in concomitanza con l’inizio della seconda ondata della pandemia. In questo contesto molto angosciante e avvilente per tutto il comparto cinematografico, le pellicole italiane uscite, in qualunque maniera, nella maledetta annata 2020, toccano le 240 unità. Un numero cospicuo, bisogna dirlo, che testimonia come il nostro cinema, sia in ripresa e goda di una certa freschezza di idee, non parimente riscontrabile una decina di anni fa, ad esempio. Scopri il nuovo numero: Simply the best È indubbio che quest’anno passerà alla storia come l’anno della pandemia. Così come indubbio che quest’anno ha portato malessere sociale, psichico ed economico. Ma dobbiamo sforzarci di cogliere un bagliore di luce anche in un anno così buio. Da qui una carrellata dei migliori film italiani dell’annata, tenendo conto di vari fattori, come la popolarità degli attori impiegati, l’effettivo valore delle pellicole e infine del successo popolare, estendibile anche in campo internazionale. TOLO TOLO, di Luca Medici [Checco Zalone] Al suo quinto film Checco Zalone, debutta alla regia, firmandosi con il suo vero nome di Luca Medici. Lo fa con il suo copione forse più contestato, di sicuro il più ambizioso, arricchito anche da una certa vena di critica politica, che lo eleva certamente dai suoi lavori precedenti. Sembra un’era fa, ma un tempo nel nostro Paese si parlava solo di immigrazione. Checco offre la sua versione: libera, graffiante, molto più della visione dei democratici del nostro Parlamento. Un film che ha diviso spettatori e politica, ma che resta la tragicommedia (a fuggire dall’Africa all’Italia stavolta è un italiano stesso) che nessun altro saprebbe fare. Incassi in calo: dai quasi 66 milioni di lire di Quo vado, ai 46 dell’attuale film. Tanto basta per risultare campione di incassi annuali ed entrare quindi nella storia del cinema italiano. (Qui trovate la nostra recensione completa)
GLI ANNI PIU’ BELLI, di Gabriele Muccino Remake dichiarato e in se, strepitoso omaggio a C’eravamo tanto amati, capolavoro di Ettore Scola, è la storia di tre amici (Pierfrancesco Favino, Kim Rossi Stuart, Claudio Santamaria) divisi dalla Storia e dalle storie personali; e di una donna (Micaela Ramazzotti) che proprio nel corso della loro vita si legano e si allontanano. Ne esce una cavalcata (meravigliosamente girata) dagli anni ’80 a oggi che ci riguarda tutti, nessuno escluso. Con sottofondo di Claudio Baglioni: «Noi che sognavamo i giorni di domani, per crescere insieme mai lontani», che si lega un po’ alla frase simbolo del film di Scola, recitata dal grande Nino Manfredi: “Credevamo di cambiare il mondo e invece è il mondo che ha cambiato noi”. Nelle parti di Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Stefano Satta Flores e Stefania Sandrelli, il quartetto di attori non fa rimpiangere il passato e ci regala uno squarcio di poesia, che ci riporta ai fasti di un tempo. (Qui trovate la nostra recensione completa) FAVOLACCE, dei fratelli D’Innocenzo Vincitore all’ultima Berlinale dell’Orso d’Argento per la sceneggiatura, il film dei puntuali fratelli D’Innocenzo, è una commedia familiare di periferia che fonde Pier Paolo Pasolini e Tim Burton, e lo fa con un linguaggio stilistico, elegante e trasognante, che non può lasciare indifferenti. Disturbante, divertente, necessario, fresco e innovativo, ha in Elio Germano, il suo punto di forza. Proprio quell’Elio Germano che può essere considerato davvero l’attore dell’anno. ODIO L’ESTATE, di Aldo, Giovanni e Giacomo Odio l’estate è l’ultima fatica del leggendario trio composto da Aldo Baglio, Giovanni Storti e Giacomo Poretti. Una pellicola che restituisce al trio i fasti del proprio glorioso passato. E questa volta non si rimane delusi. Odio l’estate ha qualcosa di ognuno dei film storici del trio: ti fa pensare, ti fa ridere e alla fine lascia una velatura di malinconia. Nel film si ritrova il solito Aldo fanfarone, il solito Giovanni pignolo e il solito Giacomino perfezionista maniacale con il punto di forza di un affiatamento collaudato e di un’amicizia sincera che dura da sempre, quasi a voler smentire, una volta per tutte, i soliti detrattori, che avevano preannunciato o sperato in un disfacimento del trio. E invece no, Aldo, Giovanni & Giacomo, dopo alcune scialbe prove sono tornati più convinti di prima al cinema, con una sceneggiatura importante, ben scritta, e con un ritorno al passato. (Qui trovate la nostra recensione completa) FIGLI, di Giuseppe Bonito Figli, già monologo reso celebre in tv da Valerio Mastandrea, è la commedia all’italiana dell’annata. Mastandrea è anche il protagonista, insieme a Paola Cortellesi, dell’adattamento cinematografico. La parabola dei genitori (non giovanissimi) che affrontano le fatiche erculee della crescita di un secondo figlio è costellata delle tenerezze e delle malinconie della vita di tutti. Ma è anche un resoconto infallibile della società di oggi: i protagonisti ultraquarantenni sono per primi gli eterni “figli”, schiacciati dalla generazione precedente.
HAMMAMET, di Gianni Amelio Raccontare gli ultimi sei mesi di Bettino Craxi è l’obiettivo, difficile e ambizioso dell’ultimo film di Gianni Amelio. Sono passati 20 anni dalla sua fine prematura in Tunisia, complesso dire se pochi o molti per cominciare a guardare con il giusto distacco il discusso leader politico socialista. Ma Gianni Amelio con la complicità di un Pierfrancesco Favino reso straordinariamente somigliante ci prova e ci riesce bene; rientrando in quel filone che negli ultimi anni ha visto alcuni dei più importanti registi italiani affrontare la difficile materia di proporre una serie di personaggi politici che hanno segnato la storia del Paese: dal dittico cinematografico Loro di Paolo Sorrentino su Silvio Berlusconi, a Buongiorno, notte di Marco Bellocchio sul rapimento, la detenzione e l’omicidio di Aldo Moro, senza dimenticare il Giulio Andreotti de Il divo, sempre di Sorrentino. (Qui trovate la nostra recensione completa) IL GRANDE PASSO, di Antonio Padovan Strepitosa commedia lunare, opera seconda del regista veneto Antonio Padovan; che si serve della classe interpretativa di Stefano Fresi e Giuseppe Battiston e della loro incredibile somiglianza fisica; Il grande passo è un film ricco di ingredienti, situazioni e personaggi fuori dal comune. Il tutto ruota, però, attorno ad un unico grande sogno: raggiungere la luna solo con le proprie forze. Un fratello ostinato, tanto da costruire un vero e proprio razzo spaziale nella sua cascina di campagna; ed un altro, bonario, accomodante, comprensivo, che ha a cuore le sorti del fratello, che ha visto pochissimo nella sua vita, ma che è l’unico in grado di comprendere il suo malessere. Battiston e Fresi spaziano perfettamente tra il toccante e l’esilarante, tra il grottesco e il surrealismo, regalandoci scampoli di quella che può essere definita la “nuova” coppia del cinema impegnato. Già perché la pellicola è davvero una spanna sopra la media delle commedie all’italiana attuali. Il sogno dello spazio e dalla vita extraterrestre sono ben descritti, così come la capacità di questo film, di far sognare il pubblico, ed infondere positività, strappando risate amare, ma intelligenti. Il talento dei suoi due protagonisti e un finale davvero sorprendente ed azzeccato, rendono la pellicola, per chi ama davvero il cinema italiano d’autore, una gemma preziosa. (Qui trovate la nostra recensione completa) I PREDATORI, di Pietro Castellitto La miglior opera prima dell’anno è scritta, diretta e interpretata da Pietro Castellitto, figlio d’arte del padre Sergio, che con I predatori ha vinto il premio Orizzonti per la sceneggiatura a Venezia 77. Un’idea di cinema personale ma già molto identitaria, e invidiabile per la sua chiarezza. C’è uno sguardo generazionale, fulminante e irriverente su questo scontro tra sottomondi (famiglia popolare, grezza e neofascista, posta in contrapposizione con quella ricca, borghese e radical chic), che però Pietro sviluppa su toni grotteschi e surreali, elaborando con un’ironia disarmante anche un certo giustificato complesso edipico. Per un’analisi antropologica degli italiani che vale più di mille trattati, travestita da filosofic-satira pronta a esplodere come una bomba a orologeria. Un ottimo debutto, che certamente verrà confermato con l’opera seconda, già in cantiere per il 2021. VOLEVO NASCONDERMI, di Giorgio Diritti
Ancora Elio Germano, attore italiano dell’anno, senza se e senza ma. Questa volta al servizio del rigore di Giorgio Diritti. E del “genio e sregolatezza” (psichica: ma lì sta il genio) di Antonio Ligabue, il più celebre dei nostri pittori naïf. Anche in questo caso, un biopic che biopic non è, bensì opera pittorica, introspettiva, lieve sugli emarginati di tutti i luoghi e di tutti i tempi. E sui loro talenti (in)compresi. Immersa in un’Italia di provincia che raramente è stata così concreta, umana, realistica. Una collaborazione, quella tra Diritti e Germano, capace di generare il meglio del connubio autore-attore. E che non è ovviamente passato inosservato: al secondo è andato l’Orso d’Argento per la miglior interpretazione maschile all’ultimo Festival di Berlino. PADRENOSTRO, di Claudio Noce Lo scorso 12 settembre sul palco della 77esima edizione del più prestigioso e del più antico Festival del Cinema, ovvero Venezia, un emozionatissimo Pierfrancesco Favino riceve la Coppa Volpi, come miglior interprete maschile proprio per il film di Claudio Noce. L’avvenimento si erge come uno dei momenti più prestigiosi del cinema italiano del nuovo millennio. D’altronde Favino è ormai il miglior attore italiano degli ultimi vent’anni e l’interpretazione del vicequestore Alfonso Noce, assassinato nel 1976 per mano dei Nuclei Armati Proletari, negli anni di piombo, è resa con incredibile bravura e profondità drammatica, davvero senza eguali. Il film di Claudio Noce, sul proprio padre dell’Alfonso, interpretato da Favino, scava nei meandri del dramma del terrorismo, che colpì l’Italia e le più giovani generazioni, in quelli che furono definiti i “bui” anni ’70. L’INCREDIBILE STORIA DELL’ISOLA DELLE ROSE, di Sydney Sibilia Sydney Sibilia è un regista d’azione, innovativo nel panorama cinematografico italiano. Ha una poetica rude, ma che lascia il segno, e pone lo sguardo sul rapporto tra libertà individuale e potere costituito. La storia è di quelle italianissime, anarchiche e poco conosciute: l’avventura sessantottina quasi inconsapevole di un nerd d’altri tempi, Giorgio Rosa, che fondò uno Stato indipendente al largo delle acque di Rimini, mettendo in crisi Governo italiano, Consiglio d’Europa e ONU. Primeggia ancora una volta Elio Germano, ma c’è anche altro che luccica: una Matilda De Angelis deliziosamente bolognese e delicatamente seducente; e poi Zingaretti e Bentivoglio versione super caratteristi. Un cast perfetto per plasmare la nuova commedia all’italiana a immagine e humour del suo intelligente autore. MISS MARX, di Susanna Nicchiarelli Un film sulla figlia minore di Karl Marx, Eleanor, la quale porta avanti l’eredità politica del padre Karl, avvicinando i temi del femminismo e del socialismo, partecipando alle lotte operaie e combattendo per i diritti delle donne e per l’abolizione del lavoro minorile. La regista Susanna Nicchiarelli, fa ballare Eleanor (un’ottima Romola Garai) sulle note di un pezzo dei Downtown Boys come fosse Courtney Love. È proprio quel “punk”, tra le altre intuizioni, a lanciare Miss Marx oltre il biopic. Attenzione però: non si tratta di un film femminista, ma semplicemente “libero”, come ha spiegato la Nicchiarelli. IL GIORNO E LA NOTTE, di Daniele Vicari
Una pellicola che detiene un primato da guinness: il primo “smart film” della storia del cinema. Le riprese sono cominciate nella Fase 2 e sono state rese possibili dal fatto che gli attori – in alcuni casi si tratta di coppie nella vita oltre che sulla scena – si riprendono da soli da casa propria, grazie alla propria attrezzatura tecnica. L’idea non è solo quella di fare un esperimento cinematografico ma anche quella di tradurre, dal punto di vista creativo, questo particolare momento storico, caratterizzato da isolamento e restrizioni della libertà, con tutte le conseguenze del caso, nel bene e nel male. Vicari porta con sé un cast d’eccellenza: Vinicio Marchioni e Milena Mancini (coppia nella vita, in quarantena insieme alla famiglia), Dario Aita, Elena Gigliotti, Barbara Esposito, Francesco Acquaroli, Isabella Ragonese, Matteo Martari, Giordano De Plano. Tutti comunicano tra di loro in video attraverso le varie piattaforme online, così come gli attori anche il regista è a casa sua e dirige il cast a distanza. (Qui trovate la nostra recensione completa) DIVORZIO A LAS VEGAS, di Umberto Riccioni Carteni Un road movie garbato, divertente, fresco e ben congeniato, che si ispira alle commedie romantiche americane, con tanto di lieto fine annesso. I protagonisti della storia sono Giampaolo Morelli e Andrea Delogu, bella, brava e disinibita al suo primo ruolo cinematografico; ben supportati da Grazia Schiavo, Ricky Memphis e Gianmarco Tognazzi in partecipazione straordinaria. La storia è piuttosto ben congegnata negli snodi (pur all’interno delle esagerate circostanze comiche), ma sono soprattutto i dialoghi a fare centro, e a risultare divertenti e romantici: il che è davvero una rarità nel cinema italiano contemporaneo di commedia. DNA- DECISAMENTE NON ADATTI, di Lillo & Greg Lasciato, non a caso per ultimo, Dna- Decisamente non adatti è il più bel film di genere comico dell’annata: nona fatica della coppia composta da Lillo & Greg, al secolo Pasquale Petrolo e Claudio Gregori. I due tornano al cinema, dopo tre anni di assenza, con una commedia decisamente azzeccata: surreale, dissacrante, esplosiva. La loro è un’accoppiata intelligente, che dopo i tanti successi radiofonici e televisivi, ha saputo farsi spazio anche nel cinematografo. E questa volta si testano, con risultati eccellenti, per la prima volta anche dall’altra parte della cinepresa. Il racconto si lascia seguire e i due seguono tutte le regole della commedia popolare italiana, riuscendo ad inserire la loro vena comica originale, che fa leva su giochi di parole intelligenti e gustose parodie. Al loro fianco Anna Foglietta, sempre brava e sempre nella parte. Insomma quello di Dna- Decisamente non adatti è un divertissement, davvero consigliabile, soprattutto in momenti così difficili, come quelli attuali. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre.
Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter Pierfrancesco Favino, Venezia e la Coppa Volpi: 88 anni di trionfi (e di polemiche) all’italiana “Un maestro mi ha detto che quando si gira un film è come creare una stella, e voglio dedicare questo premio a tutte le stelle, ai milioni di schermi che accoglieranno le stelle e agli occhi che brilleranno nel buio.” Lo scorso 12 settembre sul palco della 77esima edizione del più prestigioso e del più antico Festival del Cinema, ovvero Venezia, un emozionatissimo Pierfrancesco Favino regala queste parole alla platea, pronta ad applaudirlo. Ha appena ricevuto la Coppa Volpi, come miglior interprete maschile per il film Padrenostro. Quella Coppa Volpi, che è, insieme al Leone d’oro come miglior film, il simbolo della Mostra del Cinema di Venezia. Un Festival che affonda le sue radici indietro nel tempo, a quel 1932, destinato a lasciare un’impronta indelebile nella storia del cinema. Quell’anno alla Mostra non si assegnarono premi, ma fu l’edizione che lanciò nel firmamento del grande cinema la figura di Vittorio De Sica, che sarà capace qualche anno dopo di incantare il mondo con i suoi capolavori neorealisti. Il film più acclamato fu Gli uomini, che mascalzoni!, che aveva proprio l’attore ciociaro come stella più acclamata. Risale a due e tre anni dopo, ovvero al 1934 e 1935, l’istituzione dei premi cinematografici legati al Festival, destinati poi a rimanere nella memoria collettiva. La storia dei
premi strettamente attoriali, è riconducibile alla creazione della Coppa Volpi, che tanto al maschile, quanto al femminile, rappresenta il premio come migliori interpreti della kermesse internazionale. Il riconoscimento deve il suo nome al conte Giuseppe Volpi, presidente della Biennale di Venezia e “padre” della Mostra del Cinema. Molto spesso tale prestigioso premio, è stato assegnato ad attrici ed attori nostrani, ed hanno rappresentato di conseguenza, vette dell’arte cinematografica, in grado di rendere unico ed acclamato il cinema italiano. La prima donna ad ottenere la Coppa Volpi come migliore interprete femminile sarà Anna Magnani nel 1947 per L’onorevole Angelina, alla quale seguirà 11 anni dopo Sophia Loren per Orchidea nera. E poi tra le altre troviamo Valeria Golino, unica attrice ad essersi aggiudicata il riconoscimento per ben due volte a distanza di 29 anni l’uno dall’altro: nel 1986 per Storia d’amore e nel 2015 con Per amor vostro. Completano il quadro, Laura Betti nel 1968 per Teorema; Sandra Ceccarelli nel 2001 per Luce dei miei occhi; Giovanna Mezzogiorno nel 2005 per La bestia nel cuore; Elena Cotta nel 2013 per Via Castellana Bandiera; e Alba Rohrwacher per Hungry Hearts. PER APPROFONDIRE: ■ Scopri la nostra rubrica dedicata al Cinema Al maschile la Coppa Volpi è stata assegnata per 11 volte ad interpreti italiani, con lo squarcio di poesia dell’ex aequo a Marcello Mastroianni e Massimo Troisi per la memorabile interpretazione di un padre e di un figlio che cercano di ricostruire il loro rapporto, nel film di Ettore Scola, Che ora è? (1989). Il primo riconoscimento “italiano” fu attribuito a Ermete Zacconi nel lontano 1941 per
Don Buonaparte, al quale seguì l’anno seguente Fosco Giachetti per Bengasi. Si dovettero poi aspettare ben 44 anni per ritrovare un attore italiano vincitore a Venezia. Fu però, probabilmente l’edizione più discussa, più travagliata e più contestata. Quella del 1986 è passata alla storia come l’edizione dello scippo perpetuato ai danni del grande Walter Chiari. Si racconta che quella Coppa Volpi fosse stata già assegnata all’attore pugliese, per la commovente interpretazione di Romance, proprio quell’anno in concorso a Venezia. Ingerenze politiche ancora misteriose e mai del tutto chiarite, portarono ad assegnare il premio, a sorpresa a Carlo Delle Piane per Regalo di Natale; mentre Walter dovette “accontentarsi” del Premio Pasinetti, come miglior attore della kermesse, assegnato dal Sindacato Nazionale dei Giornalisti cinematografici italiani. Un premio legato alla Mostra, ma collaterale, che non riuscì a coprire l’amarezza per quel misterioso scippo. Alla notizia che il premio non sarebbe stato assegnato a Walter Chiari, in sala si levarono una bordata di fischi senza precedenti, con i fotografi ufficiali della Mostra del Cinema, che per protesta posero le loro macchine fotografiche in terra. https://www.youtube.com/watch?v=7zOEehgBE9g Dopo quella edizione scandalo e dopo il già citato ex aequo di Marcello Mastroianni e Massimo Troisi, nel 1993 troviamo Fabrizio Bentivoglio vincitore per Un’anima divisa in due; Luigi Lo Cascio nel 2001 per Luce dei miei occhi; Stefano Accorsi nel 2002 per Un viaggio chiamato amore; Silvio Orlando nel 2008 per Il papà di Giovanna; Luca Marinelli nel 2019 per Martin Eden; ed infine il già celebrato trionfo di Pierfrancesco Favino nel 2020 per Padrenostro. Il Festival di Venezia, insomma, nonostante le dovute rivoluzioni tecnologiche ed organizzative, alle quali ha dovuto ricorrere nella sua evoluzione, è più fresco e vivo che mai. Come ogni anno e come ogni kermesse, anche quella attuale porta via una striscia di polemiche sui nomi dei vincitori. Quest’anno tocca al Leone d’oro, assegnato, a detta di molti a sorpresa ed anche ingiustamente a Nomadland, di Chloè Zhao. A tutto ciò c’è però da dire, come la storia dei Festival è piena di giudizi contestati e sono stati spesso anche sindacabili. In quanto composti da un ristretto numero di “esperti”, i Festival vivono di momenti storico-sociali, di ingerenze politiche, di brevi stagioni e spesso delle mode del momento. https://www.youtube.com/watch?v=u0S0u3-228M Si pensi a quanto ha dovuto penare il grande Ugo Tognazzi, questa volta a Cannes, per poter ottenere la tanto agognata Palma d’oro come miglior interprete maschile. Quel premio che ottenne solo nel 1982 per La tragedia di un uomo ridicolo, ma che egli stesso giudicò tardivo. Ogni volta, infatti, negli anni precedenti era andato lì lì per vincerlo, ma ogni volta era rimasto puntualmente con un pugno di mosche in mano. Una volta perché i giurati avevano deciso di assegnarlo a un attore brasiliano e dunque alla cinematografia emergente; un’altra perché i francesi avevano boicottato un film di Marco Ferreri, dal titolo La donna scimmia, che aveva come protagonista proprio Tognazzi; e un’altra volta ancora perché Ingrid Bergman, che presiedeva la giuria, aveva minacciato di andarsene se fosse stata concessa una qualsiasi gratifica alla Grande Abbuffata, un film a suo dire indecente. Un piccolo esempio, dunque, di come i festival sentano e vivano quello che è il “momento”, anche in considerazione dell’esigua composizione della giuria, quasi sempre dai 7 ai 9 elementi. Viceversa le giurie dei grossi premi internazionali, che sono diverse per struttura dai Festival (Nastri
d’Argento, David di Donatello, Oscar, Bafta, Golden Globe…) hanno una composizione mai inferiore alle 1000 unità, quindi con un campione molto più realistico dei gusti e delle inclinazioni del pubblico e molto meno controllati politicamente. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre. Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter David di Donatello 2020: i verdetti La 65esima edizione dei David di Donatello, per intenderci i “nostri” Oscar, trasmessa dalla prima rete nazionale lo scorso 8 maggio, è stata un’edizione particolare, certamente destinata a rimanere negli annali. Anche lo stesso Carlo Conti, presentatore esemplare della serata, l’ha ripetuto più volte. Eliminati il red carpet, niente sfilate di attori, niente fotografie. Il teatro vuoto, il maxischermo illuminato, e tutti, nominati e vincitori, collegati da casa insieme alla famiglia, con una bottiglia di champagne a portata di mano e improvvisando un’inquadratura, magari artistica con una libreria alle spalle, o i più spartani tipo Pierfrancesco Favino, con una classicheggiante parete bianca. Il David al tempo del Coronavirus è stato dunque questo, che sia piaciuto o no, era davvero il massimo che si potesse fare di questi tempi. Fortuna ha voluto che alla conduzione ci fosse un presentatore consumato, un professionista esemplare, che ha saputo dominare un’anomala situazione, gestendo i collegamenti, gli inevitabili tempi morti e i problemi di connessione di alcuni dei protagonisti. In apertura Conti, ha letto un contributo epistolare del Presidente della Repubblica Mattarella, il quale nella sua lettera di saluti, ha parlato di quanto sia fondamentale sognare; è importante, ha detto, tornare a farlo dopo questa emergenza, ed è il cinema che può guidarci. Dopo di lui, le attrici e gli attori italiani hanno dato voce a chi lavora nell’industria, ai tecnici, agli altri interpreti, a chi
ogni giorno permette a un set di funzionare, a un film di essere girato, e alla macchina produttiva di mettersi in moto. C’è bisogno di sostenerli, hanno sottolineato. La serata ha vissuto su due momenti topici. Innanzitutto il David di Donatello alla carriera, conferito all’immensa FRANCA VALERI, che all’alba dei 100 anni, riceve questo prestigioso, e direi tardivo riconoscimento. Peccato non ci fosse il red carpet, perché Franca avrebbe meritato una lunga e calorosa standing-ovation reale, che il pubblico non avrebbe mancato di conferirle. Anche perché negli ultimi tre giorni, il suo nome, nelle ricerche Google, è stato uno dei più cliccati e si sono succeduti articoli dedicati alla sua figura di donna emancipata e fuori da ogni schema. E poi…e poi c’è il secondo momento topico: la serata è stata infatti dominata dal regista Marco Bellocchio e da quel film, ovvero Il traditore, che già nelle previsioni avrebbe dovuto fare man bassa di statuette, a fronte addirittura di ben 17 nominations: un vero e proprio record assoluto. Il traditore si aggiudica 6 statuette, tra cui alcune di primissima fascia, come quella al miglior film; quella al miglior regista; e quelle attoriali conferite a Pierfrancesco Favino come miglior attore protagonista e a Luigi Lo Cascio come miglior attore non protagonista. Le altre due statuette sono state conferite a Ludovica Rampoldi, Valia Santella, Francesco Piccolo e allo stesso Bellocchio per la miglior sceneggiatura originale e a Francesca Calvelli per il miglior montaggio. Scopri la nostra rubrica dedicata al Cinema. Curiosità: lo stesso film andò in concorso alla scorsa edizione dei Nastri d’Argento, il secondo premio cinematografico nazionale, ottenendo riconoscimenti esattamente per le stesse categorie dei
David, fatta eccezione per il Nastro alla migliore colonna sonora conferito a Nicola Piovani, e per l’ex-aequo nella categoria miglior attore non protagonista tra Luigi Lo Cascio e Fabrizio Ferracane. Altra curiosità: per Favino, ormai osannato come l’attore più importante del moderno cinema italiano, è il primo David di Donatello come miglior attore protagonista, ai quali ne vanno aggiunti altri due come miglior attore non protagonista e vanno almeno citati anche i 4 Nastri d’Argento vinti nel corso della sua carriera. I rimanenti premi attoriali, in pratica quelli femminili, sono andati a Jasmine Trinca, come miglior attrice protagonista per La dea fortuna, di Ferzan Ozpetek; e a Valeria Golino, che è scivolata quando è stato annunciato il suo nome, quello come miglior attrice non protagonista per 5 è il numero perfetto di Igort. Altra curiosità: Valeria Golino era candidata anche nella categoria come miglior attrice protagonista per Tutto il mio folle amore. E Matteo Garrone? Il suo Pinocchio, ha raccolto la maggior parte dei premi tecnici, tra cui miglior scenografia, migliori costumi, miglior truccatore, miglior acconciatore e miglior effetti visivi; mentre a Il primo Re è andato il premio per il miglior produttore; a Pietro Marcello e Maurizio Braucci è andato il David per la miglior sceneggiatura non originale, per il lavoro che hanno fatto su Martin Eden; e infine, per chiudere il discorso sui premi tecnici, Daniele Ciprì si è aggiudicato per Il primo re, la statuetta alla miglior fotografia. https://www.youtube.com/watch?v=Yf7Gjk2M6tk Meritatissimo poi, il riconoscimento come miglior regista esordiente per Bangla, del giovanissimo Phaim Bhuiyan, la vera sorpresa cinematografica italiana della scorsa stagione. L’autore ci racconta la sua storia di italiano di seconda generazioni di origine bengalese in una commedia sia sentimentale che sociale. Probabilmente l’unico film degli ultimi anni in cui un’onnipresente voce fuori-campo non è invadente e fastidiosa. Funziona piuttosto da contrappunto e commento alle azioni del protagonista, il quale, a mo’ di un novello Virgilio, ci conduce fra le strade vivaci di Torpignattara, crogiuolo di razze e mestieri, quartiere di chiese e moschee, di baretti e di street art. Il film esalta la diversità e dà una stoccatina alla falange razzista del nostro paese.
Il David “senza suspance” è andato invece alla coppia formata da Ficarra & Picone, per il loro film in costume Il primo Natale. Il “senza suspance” si riferisce al particolare premio assegnato al film più visto, e che dunque ha incassato di più, della scorsa stagione. Un premio che già dall’inizio dell’anno, la coppia sapeva di aver vinto. Bisogna dirlo, il David dello spettatore è in pratica la prosecuzione del prestigioso “Biglietto d’oro dell’AGIS”, che veniva annualmente assegnato dal 1947, al film più visto dell’annata solare. Dallo scorso anno è stato accorpato e fuso all’interno dei premi dei David, diventando uno dei tanti prestigiosi riconoscimenti dell’Accademia. La serata, nonostante l’edizione a distanza, è stata comunque ricca di momenti divertenti, suggestivi, commemorativi ed anche commoventi. Roberto Benigni, candidato nella cinquina per il miglior attore non protagonista con il suo Geppetto, ha fatto da mattatore e ha intrattenuto; ha scherzato («questi sono i Covid di Donatello») e s’è detto tra le categorie più colpite: «io che abbraccio, tocco e prendo in braccio tutti». Bellocchio, al momento dei ringraziamenti, è stato raggiunto dalla famiglia, e Favino, proprio alla fine, ha voluto salutare sua madre, dedicandole la vittoria. Molto suggestivi poi, i ricordi di Alberto Sordi e Federico Fellini salutati con alcuni filmati delle immense Teche Rai, con i diretti interessati ripresi a parlare e a raccontarsi. Tutti speriamo che la prossima edizione, la numero 66, sia diversa da quella che abbiamo vissuto quest’anno, sia pure riconoscendo lo sforzo enorme, che in situazione di assoluta difficoltà, hanno fatto sia la Rai che l’Accademia del Cinema Italiano. La stessa presidente, Piera Detassis, si è augurata che la prossima edizione possa segnare un ritorno alla vita per il nostro cinema e per la nostra società. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre. Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email *
Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter Gli anni più belli - Il film “È il film più grande che abbia mai realizzato perché i personaggi sono la microstoria nella cornice della grande storia. Sullo sfondo della storia che racconto c’è l’Italia che cambia, dalla fine degli anni di piombo alla caduta del Muro di Berlino, dalla stagione di Mani pulite all’11 settembre. Racconterò anche l’ascesa del Movimento 5 stelle. Non sarà un viaggio nostalgico, o pessimista: tutti i personaggi, con le loro difficoltà, sono spinti dall’idea che domani sarà un giorno migliore”. Gabriele Muccino Che male c’è a rifare un film, sia anche questo una delle pietre miliari del cinema italiano e mondiale? Nulla, perché le ispirazioni possono diventare imitazioni, le riproposte non mancanze di idee nuove, ma voglia di raccontare il proprio presente. Il regista de Gli anni più belli, Muccino si rifà a modelli accreditati e storicizzati, che hanno dettato, ai loro tempi, evasione, esempio e anche qualità. È vero che i tre protagonisti, Giulio (Favino), Paolo (Rossi Stuart) e Riccardo (Santamaria) li abbiamo già visti e rivisti e certo ricordano i loro omologhi Gianni (Gassman) Antonio (Manfredi) e Nicola (Satta Flores) di C’eravamo tanto amati di Ettore Scola. Ed è vero che la Gemma che fa Micaela Ramazzotti assomiglia alla Luciana di Stefania Sandrelli di quel film. Ma cosa c’è di male? E potremmo ancora aggiungere che Muccino rifà la scena della fontana di Trevi. Non è lesa maestà come qualcuno ha erroneamente annunciato, ma piuttosto un richiamo di estetica e di sentimento nostalgico e gradevole, ma soprattutto un omaggio pieno d’amore verso i grandi autori della
commedia all’italiana. Potremmo chiuderla dicendo che Muccino ci ha fatto ricordare Scola, così come Sorrentino, per certi versi, ci ricorda Fellini. E ancora, che questo quartetto di incredibile bravura, non ci fa rimpiangere i
Gassman, i Manfredi, i Satta Flores e la Sandrelli, ma rappresentano la naturale evoluzione delle loro storie. Già perché se il film di Scola, racconta attraverso la storia di tre amici ed una ragazza oggetto dei desideri di tutti e tre, trent’anni di Italia, dalla Liberazione alla metà degli anni ’70; il remake di Muccino dai primi anni ’80 arriva ai giorni nostri, seguendo esattamente il filo logico del film del maestro Scola. E così il film di Muccino si erge, in maniera impeccabile come il commovente e amaro ritratto di una generazione, che “credeva di cambiare il mondo, e invece è il mondo che l’ha cambiata”, come profetizzava Manfredi nell’originale. https://youtu.be/X5KHk6SGOEU Andando più nel concreto, il film è sorretto dal quartetto di protagonisti, con la splendida aggiunta e scoperta di una Emma Marrone attrice di livello. Dopo l’entrata in scena di Pierfrancesco Favino, Kim Rossi Stuart e Claudio Santamaria, il film comincia a prendere quota e a trovare un’identità che si smarca gradualmente dai cliché, rivelando un’onestà artistica credibile. Il merito è certamente degli attori, che trovano la loro misura anche all’interno dello stile dominante, ma anche di una regia attenta. È proprio il ritratto di chi oggi è arrivato ai cinquant’anni il punto di forza e il cavallo di Troia che si insinua nella coscienza degli spettatori, de Gli anni più belli: un ritratto che finora nessuno, negli anni 2000, aveva portato al cinema con altrettanta compiutezza, mettendo a fuoco una generazione sfocata, travolta da una “metamorfosi socioculturale”, umiliata dal precariato e schiacciata dai padri. In questo senso il modello di riferimento dichiarato del film, C’eravamo tanto amati, fa da efficace pietra di paragone, perché i protagonisti di Gli anni più belli, smarriti e spaesati, sono l’ombra di quelli del capolavoro di Ettore Scola, ed è giusto così, perché non possono avere lo spessore e la definizione di chi ha vissuto un’Italia molto diversa dalla nostra, ma ugualmente come gli originali,
diventano lo specchio della società italiana, rivisitata e trasportata agli anni 2000. Muccino fa leva drammaturgica su questo scarto epocale raccontandoci tre identità maschili depotenziate e destrutturate, come lo sono molti neocinquantenni di oggi. E alla fine ci si commuove profondamente, si riflette su dove siamo e perché, e su quali siano “le cose belle” cui restare incollati quando il mondo intorno ci tradisce. Muccino racconta molto bene quanto sia facile sbagliare nella vita (soprattutto se è “una vita difficile”) senza valutare le conseguenze di errori cui sarà arduo porre riparo, ma è ancora possibile rammendare la propria vita e trovare una consolazione finale, una rappacificazione con noi stessi e il nostro bilancio esistenziale. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre. Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter
Hammamet- Il film “Con Hammamet Gianni Amelio affronta una pagina della Storia d’Italia sulla quale persiste una lettura contrapposta: Craxi era un “maleducato, manigoldo, malfattore, malvivente e maligno”, o un uomo dalla statura fisica e politica imponente “circondato da nani”, bersaglio di una “congiura contro la sua persona” più che contro un sistema di cui “tutti facevano parte?” (Paola Casella)
Racc ontar e gli ultimi sei mesi di Betti no Craxi è l’obie ttivo, diffici le e ambiz ioso dell’u ltimo film di Giann i Ameli o. Sono passa ti 20 anni dalla sua fine prem atura in Tunis ia, comp lesso dire se pochi o molti per cominciare a guardare con il giusto distacco il discusso leader politico socialista. Ma Gianni Amelio con la complicità di un Pierfrancesco Favino reso straordinariamente somigliante ci prova e ci riesce bene; rientrando in quel filone che negli ultimi anni ha visto alcuni dei più importanti registi italiani affrontare la difficile materia di proporre una serie di personaggi politici
che hanno segnato la storia del Paese: dal dittico cinematografico Loro di Paolo Sorrentino su Silvio Berlusconi, a Buongiorno, notte di Marco Bellocchio sul rapimento, la detenzione e l’omicidio di Aldo Moro, senza dimenticare il Giulio Andreotti de Il divo, sempre di Sorrentino. Il film rappresenta un’operazione di mimesi straordinaria che ha portato Amelio a girare nei luoghi precisi dove si consumarono gli ultimi anni del leader politico. Tanto che uno dei set riguarda proprio la casa tunisina di Craxi. Favino è riuscito a raggiungere una straordinaria somiglianza con il suo personaggio, come per altro ci aveva abituato nell’interpretare il pentito di mafia Tommaso Buscetta nel film Il traditore di Marco Bellocchio. Per ottenere il trucco con cui l’attore è diventato Craxi c’è voluto un lavoro di mesi da parte dei truccatori che sono partiti dallo studio dei calchi per poi giungere ad un make up di incredibile realismo. Ed è innegabile come Hammamet, appartenga tanto ad Amelio quanto a Favino, che incarna un Craxi più vero del vero nella voce, nel gesto, nella postura, e soprattutto nell’essenza drammatica. La sua non è semplicemente una metamorfosi, ma l’interpretazione magistrale di un uomo dominato da pulsioni contrapposte: egocentrismo e senso dello Stato, orgoglio (anche italico) e arroganza, pragmatismo politico e assenza di cinismo. Un uomo il cui tempo è scaduto, ma la cui discesa crepuscolare verso la fine non riesce a privarlo della sua visione dall’alto. Nessuno dei personaggi, nemmeno Craxi, è chiamato con il suo vero nome, e questo darà il via al gioco delle identificazioni: Vincenzo potrebbe essere Moroni, l’Ospite Fanfani, il Giudice è certamente Di Pietro, e così via. Ma ciò che conta è l’atmosfera crepuscolare della caduta di un uomo di potere mostrato all’inizio in uno dei punti più alti della sua ascesa, a quel 45esimo Congresso del PSI dove il suo viso era inquadrato al centro di un triangolo come l’occhio di Dio, e dove invece Amelio ci mostra già i garofani a terra, presagio del futuro di un partito che “non sopravviverà” all’egocentrismo e agli azzardi di quel capo che per primo l’ha portato alla Presidenza del Consiglio.
https://youtu.be/hKM-H0sp_28 E il commento musicale di Nicola Piovani decostruisce l’Internazionale, preannunciando i disfacimento del PSI. La pellicola non mette l’accento sull’uomo politico ma si concentra maggiormente sulla sua vita privata, concentrandosi sull’anno 1999, negli ultimi sei mesi di vita del controverso statista italiano, scomparso nei primi giorni del nuovo millennio. Anche se non mancheranno i riferimenti alla realtà dell’epoca, inestricabile con Craxi, e alle inevitabili considerazioni sulla perdita del potere. Quelli raccontati nel film sono gli ultimi giorni di una parabola umana e politica che vedrà il Presidente dibattersi fra malattia, solitudine e rancore. “Il film è collocato esattamente nell’ultimo anno del 1900, nel 1999. Io racconto sei mesi di vita di un uomo politico importante fino alla sua morte, ma non è un arco narrativo che somiglia a una biografia, tutto il contrario. Racconto gli spasmi di un’agonia”. (Gianni Amelio) In odore di premi nazionali ed internazionali, vedremo quali e di che valenza, già a partire dalle nominations ai David di Donatello, che verranno rese pubbliche a marzo; Hammamet ha la forza di un kolossal storico-politico e la grazia di un film d’alta scuola, supportato da un regista esperto ed “impegnato” e da un attore protagonista monstre, ormai davvero il “top dei tops” italiani dell’ultimo ventennio. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre. Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter
Nastri d’argento 2019 - I verdetti Nella splendida cornice del Teatro Greco di Taormina, come da tradizione, il 29 giugno scorso, sono stati consegnati i premi prestigiosi dei Nastri d’argento 2019. Il Sindacato dei Giornalisti cinematografici italiani, come ogni anno, dal 1946, ha votato e premiato il meglio del cinema italiano. A stra-vincere la serata è Il traditore, il ritratto d’autore di Tommaso Buscetta firmato da Marco Bellocchio che vince come miglior film, regia, sceneggiatura, montaggio, colonna sonora, premio da protagonista a Pierfrancesco Favino per il suo ritratto di Tommaso Buscetta, ma anche ai non protagonisti, Luigi Lo Cascio e Fabrizio Ferracane. “Il trionfo di Bellocchio – spiega Laura Delli Colli, che presiede il Sngci (il Sindacato nazionale dei giornalisti cinematografici italiani) – Ci racconta l’importanza di un film che è riuscito a coniugare il pubblico e il successo internazionale con un contenuto che per noi giornalisti è anche molto forte dal punto di vista del cinema civile. In questo stesso senso la scelta del direttivo e il voto dei cento giornalisti è andata a un film come Sulla mia pelle. Siamo attenti ai film che nascono dall’attualità, ma anche alle piccole scoperte, come Bangla di Phaym Bhuiyan, che è stato una sorpresa assoluta e forse anche Un giorno all’improvviso, che ci ha regalato la migliore attrice protagonista”. Il film di Bellocchio ha battuto una concorrenza di film d’autore di alto livello, tra cui Euforia di Valeria Golino e Suspiria di Luca Guadagnino. Premio alla miglior commedia, quasi a sorpresa per il già citato Bangla di Phaym Bhuivan, il che dimostra l’assoluta differenza tra i Nastri e i David, anche in riguardo alle stesse categorie. Ognuno dei due premi nazionali è custode di una
propria indipendente identità e rappresenta un unicum nella storia del cinema mondiale. Tra gli altri riconoscimenti attoriali: Anna Foglietta (migliore attrice protagonista per Un giorno all’ improvviso), la quale ha battuto la favorita Micaela Ramazzotti; Marina Confalone (migliore ‘non protagonista’ per Il vizio della speranza) e Paola Cortellesi (migliore attrice di commedia per Ma cosa ci dice il cervello). Doppio premio per Stefano Fresi (C’è tempo, L’uomo che comprò la luna, Ma cosa ci dice il cervello) il Nastro per il miglior attore di commedia e il ‘Nino Manfredi’ consegnato dalla moglie di Nino, Erminia e dalla nipote Sarah Masten. Torna, sul palco del Teatro Greco di Taormina, dopo il premio di un anno fa, per la migliore canzone, Serena Rossi, Nastro speciale per Io sono Mia, strepitosa nei panni della grande Mia Martini. Già assegnati a Roma i ‘Biraghi’ per gli esordienti: Chiara Martegiani per Ride, Pietro Castellitto per La profezia dell’Armadillo e Giampiero de Concilio per Un giorno all’improvviso mentre Benedetta Porcaroli lo riceve per Tutte le mie notti a Taormina, tra le più giovani rivelazioni dell’anno. I Nastri hanno già premiato quest’anno anche i migliori doppiatori con il Nuovo Imaie-Nastri d’Argento per il doppiaggio andato ad Angelo Maggi (John C. Reilly) e Simone Mori (Steve
Coogan) nel film Stanlio e Ollio di John S. Baird, distribuito in Italia dalla Lucky Red. Un doppiaggio sobrio, funzionale al clima emotivo della storia con la grande abilità di aver restituito al pubblico l’identità vocale e l’impareggiabile umanità di due indimenticabili icone del cinema di tutti i tempi. Tra gli altri Nastri speciali, segnaliamo il riconoscimento al miglior ‘cameo’ dell’anno eccezionalmente assegnato ad Adriano Panatta nella parte di se stesso ne La profezia dell’armadillo: un’apparizione divertente che ha spopolato in rete. Mentre va a Stefano Sollima, per il debutto internazionale con Soldado, il Premio Hamilton Behind the Camera – Nastri d’Argento.
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