Gigi Proietti al suo pubblico - Smart Marketing

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Gigi Proietti al suo pubblico - Smart Marketing
Io sono Babbo Natale: l’atto di addio di
Gigi Proietti al suo pubblico
Nelle sale dallo scorso 3 novembre, esattamente il giorno dopo del primo anniversario della morte
di Gigi Proietti, il film Io sono Babbo Natale rimarrà per sempre legato a questa struggente
malinconia, dal quale è difficile riuscire a scinderla. Al suo fianco c’è Marco Giallini, perfetto nei
panni di questo ladruncolo, che piano piano si redime, credendo nella magia del Natale e alle
assurde verità di un anziano, elegante e distinto signore di nome Nicola, che dice di essere
addirittura Babbo Natale in persona. Ha inizio così una girandola di siparietti, divertenti ma anche
commoventi, tra Proietti e Giallini, attori di grande scuola: un mito vivente il primo, un grande attore
il secondo.

Così la romanità di entrambi riesce a dare calore e familiarità ad una favola natalizia, che rifà tanto
il verso a quelle americane degli anni ’80 e ’90, basata su una trama “magica” ma correlata alla
realtà, con tante buone intenzioni e un buonista messaggio di fondo, che non stona affatto con il
significato del “Natale”.

Giallini è stupendo, lo abbiamo detto e lo ribadiamo, però è il Gigi nazionale che si prende tutta la
scena, con la sua classe, con i suoi tempi recitativi impeccabili, eredità di 60 anni di carriera e figli
di una vecchia scuola recitativa, che non esiste più. Infatti Proietti riesce ad essere perfettamente
credibile nei panni di Babbo Natale, eliminando qualunque artifizio, grazie alla sua capacità di
rendere l’impossibile, possibile. Il film rimane come il canto di addio di uno degli attori italiani più
amati della storia del nostro cinema, d’altronde la sequenza finale, apre uno squarcio assoluto di
poesia e di malinconia, nei quali la lacrimuccia dagli occhi è difficile riuscire a contenerla. Babbo
Natale/Proietti, esce di scena, nell’ultima sequenza del film, quasi rivolgendosi alla telecamera, come
per salutare affettuosamente il suo pubblico. Ed è da pelle d’oca pensare che questo film uscito
postumo si concluda proprio con questo struggente saluto di Gigi.
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Il film venne girato nel dicembre di due anni fa, quando la pandemia da Covid-19 era ancora in
Cina, ma di lì a poco avrebbe invaso l’Europa e il Mondo. Le chiusure delle sale, la susseguente
morte di Gigi Proietti, avvenuta il 2 novembre del 2020, hanno convinto produttore e distributori
a tardare l’uscita della pellicola, intelligentemente non presentandola né sulle piattaforme online, né
fuori stagione. L’uscita, simbolica del 3 novembre restituisce ancora di più il legame profondo che
lega la pellicola a Gigi, sancita dalla dedica finale, a fine film (“A Gigi”), che è il saluto, questa volta,
del pubblico ad un attore, tanto familiare, da essere rimasto nella memoria collettiva; e Io sono
Babbo Natale ci fa sentire la nostalgia di Gigi in ogni inquadratura, in un addio ricco di gratitudine
e di affetto. Perché poi, per quanto ci si possa sforzare di scindere la visione del film, dalla
malinconia dell’ultima apparizione dell’attore romano, l’occhio, la mente e il pensiero rimangono
sempre concentrati sui movimenti (pure agili, bisogna dirlo), sui gesti, sulle parole di Gigi Proietti,
che scaldano il cuore.

E poi c’è quel sorriso, che è sempre quello, efficace e irresistibile, immobile nel tempo e destinato a
restare per sempre fissato nei nostri occhi. Quello di Bruno Fioretti, detto “Mandrake”, che
sfoggia sulle passerelle o all’ippodromo di Tor di Valle, per incantare cavalli e segugi (Febbre da
cavallo). Quel sorriso magico del “Mandrake” del palcoscenico e del grande schermo, che ci saluta
con un filo di commozione nell’ultima scena del film. Quel sorriso un po’ invecchiato, ma che è
sempre quello, rassicurante, umano, illuminante.

Di Gigi rimane tanto, rimangono le sue 40 pellicole, da riscoprire e da ammirare, perché in fondo, a
chi dice che abbia avuto un rapporto controverso con il cinema, gli si può rispondere, che più che
altro Gigi ha saputo creare una carriera artistica poliedrica fatta di tante stagioni luminose, non
abbandonando mai il teatro, che rimane il suo primo amore. Il cinema negli anni ’70, con il premio di
“Personaggio cinematografico dell’anno” conquistato nel 1976, proprio per Febbre da cavallo. E poi
la televisione, come show man degli anni ’80 e primi ’90. E poi le serie e i film tv degli anni ’90 e
2000 (su tutti rimangono il Maresciallo Rocca e Don Filippo Neri di Preferisco il Paradiso).

E poi il grande ritorno al cinema, con il Nastro d’Argento vinto per Febbre da cavallo 2 nel 2003
al quale va aggiunto quello alla carriera del 2018, con alcune interpretazioni rimaste nella memoria,
come quella, parodistica del Conte Duval, in una rivisitazione satirica de La signora delle Camelie,
in Un estate al mare, capolavoro comico di grandissima scuola; oppure il ruolo di Mangiafuoco
nel Pinocchio di Matteo Garrone. Mancava solo il David di Donatello, a coronare la sua carriera
cinematografica. Arrivato forse fuori tempo massimo, quest’anno l’Accademia lo ha insignito del
David di Donatello alla Memoria. Meritatissimo, con una standing-ovation durata svariati minuti.
Il segno dell’affetto immutato del pubblico verso Gigi.

Perché poi rimane, sempre il solito dubbio: “ma i Miti muoiono mai?”.

Io non credo, perché Totò non mi sembra sia mai morto e allora credo proprio
che neanche Gigi morirà davvero mai.

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Nomadland è un film che ci presenta
un’umanità precaria, liquida ed in perenne
movimento, ma che non ha smesso di
sperare e sognare, ed è soprattutto per
questo che dovremmo vederlo
È un film di atmosfere e spazi sconfinati Nomadland, l’ultimo premiatissimo lavoro della regista
cinese naturalizzata statunitense Chloé Zhao, che oltre a dirigerlo lo ha anche scritto, montato e co-
prodotto.

Nonostante lo sguardo della sua cinepresa si soffermi sui volti, i corpi e le comunità dei nomadi con
lievità, poesia e quel velato distacco tipicamente “zen” delle culture orientali, sono l’ambiente, gli
sconfinati panorami, le infinite strade e le sterminate vallate a farla da padrone, o quantomeno a
fare concorrenza alla protagonista ed a tutta quella candida umanità che si muove e sposta di
continuo, percorrendo la natura senza però riuscire davvero a penetrarla.

Infatti, benché il film racconti una storia triste, ai limiti del drammatico, noi spettatori siamo avvinti
dalla bellezza dei luoghi che la sessantenne Fern (un’intensa e allo stesso tempo imperturbabile
Frances McDormand) e tutti gli altri compagni di viaggio percorrono in lungo ed in largo come
novelli pellegrini alla scoperta di una nuova frontiera.

Tutto ciò che vediamo e sentiamo attraverso lo schermo è incantevole, soave, struggente quasi, a
cominciare dalla splendida fotografia, allo stesso tempo intima ed espansa, di Joshua James
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Richards, fino alla ricercata musica di Ludovico Einaudi, con le sue melodie ondulatorie sempre
sospese fra minimalismo e lirismo.

                Scopri il nuovo numero: “Holiday working”
     Se l’anno scorso abbiamo scoperto il remote, lo smart e il south working, oggi si fa strada un
   nuovo concetto di lavoro: l’holiday working. Con un pc al seguito ed una connessione a internet è
      possibile lavorare ovunque, mantenendo inalterati i livelli di produttività. La rivoluzione è
                            compiuta: non importa dove lo fai, ma cosa fai!

Tutto accade dopo e durante la Grande recessione, che ha costretto tanti, soprattutto anziani, a
decidere fra l’avere una casa e il riuscire a mangiare, il tutto in un Paese, gli Stati Uniti, che
all’indomani della grande crisi si risveglia dal suo torpore, ancora attonito e confuso, ma
consapevole di aver perso la sua ingenuità e che ha scoperto che il grande Sogno Americano
assomiglia sempre più ad un incubo.

Fern è in perenne movimento, si sposta inseguendo il lavoro, ora un impiego temporaneo in un
grande centro spedizioni di Amazon, ora facendo l’operaia durante la raccolta delle barbabietole in
una immensa fattoria, ora sostenendo un colloquio in un’agenzia interinale, poi lavorando come
inserviente in un campeggio.

Ma attenzione, Fren non viaggia, si sposta, sembra la personificazione dell’umanità (e delle
esistenze) “liquida” postulata dal compianto sociologo polacco Zygmunt Bauman, Fren si muove
perché la velocità e il perenne movimento sono le uniche possibilità che ha per evitare che il sottile
strato di ghiaccio che ricopre l’abisso su cui vive si rompa e la inghiotta.

Eppure c’è grande dignità nella figura di questa donna, che non solo sopporta la pena che le è stata
inflitta, ma la abbraccia ed ama come sua nuova modalità esistenziale. Fren lavora con passione, si
affeziona e si prende cura delle cose che possiede e delle persone che incontra durante il suo
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cammino, ma è anche risoluta nel non trattenersi, nel passare oltre, nel non ancorarsi in una
relazione affettiva stanziale che in qualche maniera possa diventare permanente.

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l film con la regista Chloé Zhao e l’attrice Frances McDormand.

Come un moderno Sisifo, continua imperterrita a far rotolare il suo sasso lungo il fianco della
montagna, ben conscia che una volta arrivata in cima il macigno rotolerà a valle e dovrà
ricominciare da capo, ma consapevole, anzi persuasa, che, come ci racconta Albert Camus a
proposito di questo mito, un alto ideale possa bastare a riempire il cuore di un uomo, o di una donna,
e che dobbiamo immaginare Sisifo felice.

  “Così, persuaso dell’origine esclusivamente umana di tutto ciò che è umano, cieco che desidera
  vedere e che sa che la notte non ha fine, egli è sempre in cammino. Il macigno rotola ancora.
  Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la
  fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva i macigni. Anch’egli giudica che tutto sia bene. Questo
  universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni
  bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la
  lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice”.

                                   (Albert Camus, Il mito di Sisifo in Opere. Milano, Bompiani, 2003)

Il nomadismo diventa allora una nuova forma di esistenza, una diversa modalità dell’essere, una
filosofia di vita vera e propria che sembra aggregare le persone che l’abbracciano in comunità assai
più coese, solidali e autentiche di quelle che invece troviamo nelle città consumate dall’invidia,
corrose dall’ipocrisia e alla perenne ricerca della riprova sociale che sembra sempre più
irraggiungibile.

Chloé Zhao, a 39 anni, confeziona un film notevole, con uno sguardo maturo e già molto personale
che indaga il volto oscuro dell’America di oggi, l’altra faccia del dollaro, la polvere nascosta sotto il
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tappeto. Quando vediamo il suo film, speriamo in un lieto fine che in cuor nostro sappiamo non potrà
esserci, la sua Fren non ci risparmia nessuna emozione, nessuna tenerezza, nè lo strazio o lo
smarrimento esistenziale che arrivano al pubblico non in virtù di una supposta empatia, ma per
osmosi. Quando usciamo dalla sala, infatti, ci rendiamo conto che la storia, le immagini, gli spazi
sconfinati e le persone che abbiamo incontrato sullo schermo continuano a vivere, a respirare e
lavorare dentro di noi.

l film ha ottenuto 6 candidature e vinto 3 Premi Oscar, ha vinto il Leone d’Oro al Festival di
Venezia, ha ottenuto 4 candidature e vinto 2 Golden Globes, 7 candidature e vinto 4 BAFTA, oltre
ad un’infinità di altri premi.

  Il film, come è noto, è tratto dal libro “Nomadland. Un racconto
  d’inchiesta”, della giornalista Jessica Bruder (a sua volta tratto
  dall’inchiesta “Dopo la pensione”, vincitrice del Premio Aronson
  2015 per il giornalismo sulla giustizia sociale), edito in Italia dalla
  casa editrice fiorentina Edizioni Clichy, ed ha visto, dopo il trionfo
  del film alla Notte degli Oscar, schizzare gli ordinativi. Un libro con
  una storia che riguarda tutti noi e che merita non solo una lettura
  ma anche studio e dibattitto.

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Un secolo di… Nino Manfredi
Qualche giorno prima del lockdown dello scorso anno, che ha messo in ginocchio l’Italia e il mondo,
ebbi l’onore di intervistare la signora Erminia Manfredi, moglie del compianto Nino, per il libro Il
ventennio d’oro del cinema italiano- 4 lustri di illustri, edito da Graus Edizioni. In
quell’occasione, così vibrante di emozioni, per un autentico e passionale estimatore di Nino
Manfredi, ne uscì un ritratto ancora più vero di quello che è stato l’attore, tra il privato e il
pubblico. Alla mia domanda se vi erano differenze tra il Manfredi privato e il Manfredi del
cinematografo, la signora Erminia rispose così:

  “Mio marito, dal punto di vista lavorativo, era l’esatto specchio di quello che lui era nella sua vita
  privata. Era una persona molto seria e faceva tutto con serietà, nel senso che era molto
  metodologico e si preparava su tutto. Ad esempio, quando gli proponevano un film, studiava il suo
  personaggio in maniera tale da entrare completamente nella parte e farla sua. Per esempio,
  quando ha fatto Geppetto, nel Pinocchio di Comencini, per prepararsi alla parte, pur non
  avendone l’età, andava di fronte alla nostra casa, a Roma, nel Giardino degli Aranci, a vedere
  come giocavano i bambini. Il tutto per delineare un Geppetto ancora attivo, desideroso di giocare,
  che poi grazie a questi “studi” è diventato quel personaggio immortale, che tutti noi continuiamo
  ancora ad ammirare. Mio marito amava un po’ tutti i personaggi che interpretava, perché in
  ognuno metteva sempre tutto se stesso e la sua professionalità, ma ad ognuno era in grado di
  donare sfumature sempre diverse, che fosse Pane e cioccolata o che fosse Brutti, sporchi e
  cattivi”.
Da questo estratto di quell’intervista, che porto sempre nel cuore, fuoriesce tutta l’essenza di quello
che è stato il metodologico Nino Manfredi, che rimane ad oggi, esattamente a 100 anni dalla sua
nascita un punto di riferimento assoluto nella storia del cinema italiano e della commedia
all’italiana, del quale è ritenuto uno dei “4 mostri”, assieme a Sordi, a Gassman e a Tognazzi.
Versatile e incisivo, poliedrico e magnetico, come pochi, nel corso della sua carriera ha alternato con
uguale vigore ruoli comici e drammatici di notevole efficacia, risultando probabilmente il più grande
di tutti, nella sua capacità di entrare nel ruolo e regalarci personaggi immortali. La signora Erminia,
ha parlato dello strepitoso e struggente Geppetto del Pinocchio di Luigi Comencini; ma il tutto va
continuato ed ampliato con il Dudù di Operazione San Gennaro; con il meraviglioso padre di
famiglia dell’Italia del boom de Il padre di famiglia; o ancora il leggendario Pasquino di
Nell’anno del Signore. Ce ne siamo scordati tanti e potremmo continuare per ore, fino a far
diventare questo articolo un saggio vero e proprio, magari da pubblicare.

Eppure non basterebbe neanche un libro per ricordare la grandezza di un attore, che fa parte del
patrimonio storico ed emotivo del nostro Paese: un personaggio familiare, che fa parte di noi stessi,
di quello che siamo stati e di quello che siamo. 101 film interpretati, tra il 1949 di Torna a
Napoli e il 2003 de La fine di un mistero. In mezzo, 9 David di Donatello (record assoluto al
maschile), 6 Nastri d’Argento, 4 Globi d’oro e soprattutto la Palma d’oro a Cannes 1971, come
miglior opera prima per il suo capolavoro emotivo dal titolo Per grazia ricevuta. Basterebbe
questo palmares, per inquadrare Nino, anzi Saturnino, perché questo era il suo vero nome
all’anagrafe; ma non basta, perché la sua grandezza non è quantificabile in una stima di quanto il
suo lavoro abbia influenzato tutta la commedia, durante gli anni del fulgore della commedia
all’italiana e anche nei decenni successivi.

Alcuni di questi film sopravvivono sulle vette più elevate del nostro cinema; altri ancora navigano più
in basso; ma tutti gli oltre 100 delineano quella che è stata la maestria metodologica di Manfredi, il
più grande nel tuffarsi nel personaggio regalandoci interpretazioni sempre diverse, ma sempre
particolarmente realistiche ed efficaci. Dopo una notevole gavetta, fatta di tante particine sparse qua
e là, il meritato successo arriva alla fine degli anni ’50, con titoli come Carmela è una bambola,
L’impiegato e Audace colpo dei Soliti Ignoti o Anni ruggenti, che ci consegnano un attore
diverso dal classico panorama cinematografico nazionale. E i titoli della seconda metà degli anni
’60, non fanno altro che confermare in pieno quell’intuizione. Proprio in questo decennio, Manfredi
mette a segno passo dopo passo numerosi successi, fino a quel 1969, che lo issa come miglior attore
italiano dell’annata, per quello che sarà il suo anno mirabilis. Nel solo quinquennio 1964-69 è
protagonista di oltre 20 film, tra film a episodi come Le bambole o I cuori infranti e
lungometraggi interamente basati sulle sue straordinarie capacità di attore a tutto tondo, quali
Straziami, ma di baci saziami, Italian secret service e Operazione San Gennaro, ambientato
all’ombra del Vesuvio e impreziosito da un prestigioso intervento del grande Totò; per finire con Il
padre di famiglia, uno dei migliori Manfredi di sempre, perfetto nel tratteggiare, come già
anticipato sopra, il ritratto di un padre di famiglia alle prese con tutte le problematiche sociali e
lavorative degli anni ‘60. Un piccolo gioiello diretto dal regista Nanni Loy.

Ma soffermiamoci un attimo su Italian secret service del 1967, un sottovalutato, ma divertente
incrocio tra commedia all’italiana e parodia dei film di spionaggio americani. È il momento migliore
della carriera di Nino Manfredi che addirittura nel 1968 si aggiudica due David di Donatello ex-
aecquo sia per Italian secret service che per Il padre di famiglia. Caso più unico che raro nella
storia della cinematografia mondiale: un ex-aecquo con se stesso. Ciò sta a significare che le sue
interpretazioni, ormai, sono tutte di enorme spessore ed è forse l’attore più richiesto del panorama
italiano, tra la seconda metà degli anni ’60 e i primi anni ’70. Infatti, è proprio in questo periodo, che
l’attore prende piena consapevolezza di sé, dopo anni di gavetta, entrando sull’accogliente carro
della commedia all’italiana. Anno dopo anno l’attore scala le vette, pur mantenendo un profilo basso,
ravvisabile rispetto agli ingaggi medi degli altri colleghi del periodo: Mastroianni 120 milioni di lire,
Tognazzi 50 e Manfredi (si fa per dire) soltanto 30, anche se con un movimento oscillatorio.

Infatti, a seconda del suo gradimento rispetto alla sceneggiatura era consono alzare o diminuire la
richiesta, tenendo in mente vari fattori, quali lo studio approfondito del personaggio e i giorni di
impegno sul set. Non c’è da sorprendersi, il tutto rientrava in quella grande attenzione che il
professionista Manfredi, diffondeva nel suo lavoro: metodo, precisione e orgoglio. Molto spesso era
solito inserire con grande vigore, modifiche in seno di sceneggiatura, attirando non di rado,
polemiche accese con il regista di turno, quanto più era qualificato il secondo, tanto meno era
disposto a cedere il passo. E così, ad esempio sul set di Nudo di donna, nel 1981, avviene un
proverbiale e acceso diverbio tra Nino Manfredi e il regista Alberto Lattuada, con quest’ultimo che
decide di abbandonare anzitempo il set, e il primo che prenderà le redini del lavoro portandolo a
compimento.

Tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’80, Manfredi continua quel
processo di maturazione, che lo rende uno degli attori più amati del
panorama nazionale.

Nominiamo, dunque, le sue migliori pellicole.
Nel 1969 è impegnato sul set di Straziami, ma di baci saziami (1968), gioiellino di comicità
paradossale e popolana, tutta giocata sul gusto per il calco filologico e deformante della subcultura
popolare, del patetico da fotoromanzo e del romanticismo da festival di Sanremo, che contiene
alcune delle più belle battute degli sceneggiatori Age e Scarpelli. Il trio di protagonisti è
semplicemente sublime: Manfredi, Tiffin e Tognazzi; mentre il regista è Dino Risi.

L’elenco delle interpretazioni memorabili di Nino Manfredi, strettamente nell’ambito del film a
episodi, del quale, va quì ricordato, Manfredi fu uno dei massimi specialisti, si arricchisce nel 1969,
di un film Vedo nudo, diretto anch’esso da Dino Risi, che rimane, come film corale, uno dei
migliori assoli dell’attore romano. Il migliore dei sette sketch che lo compongono è proprio l’ultimo,
ovvero quello che dà il titolo al film e che è rimasto nella memoria collettiva. E’ la storia di un
pubblicitario che vede denudate tutte le donne che incontra, ma quando crede di essere guarito la
stessa devianza psichica si manifesta con gli uomini. L’episodio, il più divertente del film corale, si
basa tutto sulla prova del grande Nino Manfredi e sulle sue espressioni facciali alle prese con le
visioni “nude”, che sono da antologia della risata e da scuola di recitazione. Un cortometraggio
molto conosciuto anche all’estero, dato anche il grande successo commerciale del film, tanto che
pare sia stato preso ad esempio, quando nel 2000 la regista Nancy Meyers ad Hollywood firmò la
pellicola What women want, con Mel Gibson. Anche quella è la storia di un pubblicitario alle
prese con l’altro sesso, ma stavolta invece di vederle nude, acquista il potere “magico” di ascoltare il
loro pensiero. Una prova in più del fatto che il cinema americano, ha spesso tratto spunto da quello
italiano, sempre precursore dei tempi.

Quello stesso anno l’attore prende parte a Nell’anno del Signore, campione di incassi della
stagione, il quale può essere considerato come il più grande film in costume della storia del cinema
italiano. In un cast a dir poco eccelso – Sordi, Tognazzi, la Cardinale, Salerno – si staglia
l’interpretazione del vero protagonista del film: Nino Manfredi. Sublime nel tratteggiare Pasquino, il
ciabattino, lo storico autore di invettive contro il Papa, nella Roma papalina del 1825. La splendida
interpretazione gli valse sia il Nastro d’argento che il David di Donatello come miglior attore
protagonista della stagione 1969. Fu proprio con questo film che Manfredi e Magni iniziarono una
fruttuosa e redditizia collaborazione, consolidatasi negli anni con In nome del Papa Re (1977) e In
nome del popolo sovrano (1991), secondo e terzo capitolo della trilogia sulla Roma papalina di
metà Ottocento, focalizzando l’attenzione sul rapporto tra clero pontificio, aristocrazia e popolo.

Proprio Nell’anno del Signore rappresenta il primo capitolo di questa trilogia con almeno una
perla destinata a entrare nella storia del cinema. Esattamente la scena finale –quando Pasquino
intuisce che il potere trae forza dalla sua mancanza di emotività, rispetto al popolo che “c’ha er
core” – è geniale e allo stesso tempo commovente. Spiega al suo discepolo interpretato da Pippo
Franco che “…li morti così con una burla de processo pesano più peggio e cor tempo diventano la
cattiva coscienza del padrone… perché solo sul sangue versato viaggia la barca della rivoluzione”.

Insomma, sacrificare due carbonari per risvegliare la coscienza del popolo: i primi vaggiti d’Italia 35
anni prima di Garibaldi, in un film realizzato all’alba dei tumulti che caratterizzeranno gli anni ’70 e
che il cinema nazionale ha prontamente descritto.

Procedendo velocemente, negli anni ’70, vanno citate altre memorabili interpretazioni. Come Per
grazia ricevuta (1971), che segna l’esordio in un lungometraggio di Nino Manfredi come regista, il
quale è comunque anche il protagonista del film, con una regia dal sapore naif e un soggetto
indubitabilmente nostrano e originale, a metà tra spiritualità e psicoanalisi, sulle conseguenze della
cattiva educazione religiosa. Record di incassi della stagione 1970/71. Nino Manfredi, come già
accennato sopra, vinse la prestigiosa “Palma d’oro” al Festival di Cannes per la miglior opera
prima. Molte scene rimaste nella storia. Capolavoro senza tempo, esattamente come C’eravamo
tanto amati (1974), di Ettore Scola, omaggio nostalgico, amaro e sincero al cinema italiano e più
in generale ad un pezzo di storia e al tempo che passa inesorabile.

Abbiamo poi anche Pane e cioccolata (1974), a detta di molti, il miglior film della carriera di Nino
Manfredi. Elogio dell’italiano all’estero con tante scene entrate nell’immaginario popolare. Manfredi
si supera, in un’interpretazione attenta e precisa e vince con merito il David di donatello come
miglior attore protagonista. In ultimo citiamo, alcuni film che rientrano nel Manfredi più
strettamente drammatico. Un esempio su tutti, Brutti, sporchi e cattivi (1976), un film
volutamente sgradevole, ambientato in una borgata degradata della capitale, dove Manfredi offre
un’ottima prova della sua straordinaria poliedricità.

E poi abbiamo gli ultimi grandi “fuochi”, scintille di grande cinema d’autore. Parliamo de Il
giocattolo (1979), splendido apologo sulla violenza privata, con un Manfredi drammatico che
convince appieno; e soprattutto Cafe express (1980), nei panni del venditore abusivo di caffè sui
treni Michele Abbagnano, a detta di molti la sua interpretazione più intensa e sofferta. E per questo
film Manfredi vinse l’ennesimo Nastro d’argento della sua sfolgorante carriera.

Insomma, fa davvero piacere, che nonostante stiamo vivendo un 2021 complicatissimo, le
celebrazioni in onore di Nino Manfredi, siano molteplici in tutto il nostro Paese: pubblicazioni,
documentari inediti, omaggi televisivi e numerosi articoli a lui dedicati. Questo vuol dire, che
abbiamo ancora una speranza. Abbiamo ancora la speranza che la cultura possa elevarci, che la
cultura possa educarci e che quindi la memoria di chi ha reso grande questo nostro martoriato
Paese, non si perda mai, nell’oblio degli abulici tempi moderni.

Perciò dobbiamo gridare con forza CIAO NINO ovunque lui sia…e studiarlo, amarlo al pari degli
altri suoi colleghi, perché appassionarsi al nostro cinema vuol dire imparare qualcosa di più su di noi
e vuol dire fare cultura, quella con la C maiuscola.

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Addio a Stefano D’Orazio: il batterista dei
Pooh ci lascia prematuramente ucciso dal
Covid-19
È un giorno triste per la musica italiana, Stefano D’Orazio ci lascia a 72 anni, prematuramente
ucciso da una complicanza da Coronavirus.

Quel “virus che ha fatto strage in tutto il pianeta come nei film di fantascienza e ci ha cambiato il
modo di vivere”, così lo ha definito Stefano senza sapere che l’avrebbe portato via ai suoi fan, ma
soprattutto all’affetto dei suoi cari e degli amici, straziati dalla sua assenza.
Quel virus che ha tentato di esorcizzare regalandoci il testo della bellissima “Rinascerò
rinascerai”, interpretata dall’amico e collega Roby Facchinetti (anche autore della musica),
canzone composta durante il lockdown del marzo 2020 e subito diventata il simbolo di quella
rinascita tanto auspicata dagli Italiani dopo la pandemia che, purtroppo, è ancora in atto.

https://youtu.be/D5DhJS5hGWc

“Non solo musica” nella vita di Stefano D’Orazio, tanto che si farebbe un grande torto al suo
incommensurabile estro artistico definendolo soltanto come “il batterista dei Pooh”, lo storico
gruppo che ha venduto oltre 100 milioni di dischi, emozionando da oltre cinquant’anni
generazioni di fan ed appassionati.

Insieme ai Pooh, amici e compagni di vita, ha scritto ed interpretato le canzoni più significative della
band, ma è anche stato scrittore, produttore, attore, regista e polistrumentista, intraprendendo,
negli ultimi anni, anche una proficua carriera da cantante solista.

Definito spesso dalla critica “eterno ragazzo”, con uno spirito sempre giovane e la voglia di “Fare,
sfare, dire, indovinare”, si avvicinò al musical, alla scrittura, mostrando grandissime doti anche di
produttore e regista.

Molto amato dal pubblico, mantenne sempre un grosso legame con gli altri componenti dei Pooh
anche dopo aver abbandonato il gruppo, legame che volle raccontare in un libro autobiografico il cui
titolo mostra l’aspetto ironico ma anche umile di un grande artista.

“Confesso che ho stonato. Una vita da Pooh” diventa così il racconto di quell’uomo nella sua
totalità, l’omaggio alla band ma anche ai fan che lo hanno reso grande, senza tralasciare errori,
sbagli, stonature che fanno parte della vita di tutti.

Complicato sintetizzare cinquant’anni di vita e di carriera di un artista così poliedrico, ma sempre
composto, mai sopra le righe; sicuramente ne ricorderemo la dolcezza del suo flauto traverso,
l’espressività della sua batteria e della sua voce, continueremo a cantare ancora le sue canzoni,
pietre miliari della musica italiana, ci appassioneremo ancora alle sue storie, ma, soprattutto, non
scorderemo mai la sua grande umanità.

  “Goodbye” Stefano, tu lo sai:

  “Il tempo è un marinaio

  giura di restare

  ma appena s’alza il vento

  vuole un altro mare

  e noi siamo come il tempo pronti a correre

  a scommettere a scappare a farci prendere
per dirci poi ricordati di me.”

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Addio a Franca Valeri: l’attrice che ha
innovato il ruolo della “Donna” nella storia
del cinema italiano
Il 2020 è un anno, ormai, che sarà tristemente legato alla pandemia del Coronavirus; ma
artisticamente nel nostro Paese, sarà per sempre ricordato per il centenario di due “grandissimi”
assoluti del cinema mondiale, ovvero Alberto Sordi e Federico Fellini. Loro coetanea è stata anche
l’altrettanto immortale FRANCA VALERI, ritornata alla ribalta quest’anno, in tre distinte date
destinate a rimanere negli annali.

La prima delle due date, è l’8 maggio, quando l’attrice è stata insignita, alla veneranda età di quasi
100 anni, del David di Donatello alla carriera, pieno riconoscimento ad una donna e artista, come
poche al mondo. Peccato, che la Valeri, non abbia potuto ricevere una standing-ovation, fisica, ma
solamente verbale, data la pandemia e la susseguente cerimonia “inusuale” dei David di Donatello.

La seconda data, affonda le sue radici nel lontano 31 luglio 1920, quando a Milano nacque una
bambina destinata ad innovare la figura della donna nella storia del cinema italiano. Ovviamente
parliamo di Franca Valeri, alla quale esattamente cento anni dopo, sono stati dedicati speciali,
omaggi e film, per festeggiare adeguatamente una donna che ha dato tanto al nostro Paese.

La terza data è il 9 agosto 2020, esattamente 9 giorni dopo il compimento dei 100 anni da parte di
Franca. Riguarda il suo triste addio alla vita, così, in maniera discreta. Sembra quasi, come se
l’attrice, abbia in qualche modo voluto questo simbolico traguardo e poi se ne sia andata ad obiettivo
raggiunto, quasi come se fosse contenta così e dalla vita non avesse da chiedere più nulla.

Una definizione di Morando Morandini, è rimasta nella storia:

  “Franca Valeri fu l’unica attrice, che con la sua bravura, riuscì a relegare
  Sordi al ruolo di spalla, raggiungendo la sua apoteosi con il ruolo della ricca
  moglie del film “Il vedovo”(1959)”.

Tale definizione, basterebbe da sola a definire quello che è stato il talento interpretativo della
grande Franca Valeri. Non bella, almeno non quanto le varie Sophia Loren, Gina Lollobrigida, ma
dotata di una presenza scenica insuperabile, nonché di una grande duttilità interpretativa. Lei è
stata una delle protagoniste indiscusse della commedia all’italiana e ha al suo attivo numerosi film in
cui descrive i vizi e le virtù degli italiani, visti però attraverso il pungente occhio delle donne, una
specie di alter-ego al femminile di Alberto Sordi, con il quale ha recitato in ben sette film. Sposata
con l’attore e regista Vittorio Caprioli, Franca Valeri arriva al grande successo cinematografico a
metà degli anni ’50. Quello di Franca Valeri è infatti, il primo caso in cui un’attrice comica non
agisce più da comprimaria, ma intorno ad essa si imbastisce tutto un film. Dopo di lei verranno
Sophia Loren, Tina Pica, Marisa Allasio, Virna Lisi e tutto il resto delle grandi attrici italiane.
Insomma, Franca Valeri dimostrò che con la bravura e la padronanza del palcoscenico si potesse
arrivare al livello degli interpreti maschili, sempre più affermati delle donne, in un mondo quale
quello del cinema, altamente maschilista. E dire che non faceva neanche dell’aspetto fisico il suo
cavallo di battaglia, quindi doppiamente brava. Puntava viceversa tutto sulla sua pungente e amara
comicità e sulla capacità di improvvisazione degna dei più grandi attori.

Ad un certo punto, il cinema si arrese davanti alla sua straordinaria bravura, soprattutto quando
l’attrice si dimostrò perfettamente in grado di tener testa sul suo terreno a fenomeni come Alberto
Sordi, Peppino De Filippo e Vittorio De Sica, proprio accanto ai quali ella diede alcuni dei suoi
risultati più brillanti. Fioccano i film importanti, su tutti Il segno di Venere(1955), dove posta al
fianco di attori come Alberto Sordi, Peppino De Filippo, Vittorio De Sica e Sophia Loren, è lei il
centro del film, la vera ragion d’essere della pellicola. E’ lei che attraversa tutto il film e si
accompagna a tutti i personaggi facendo esplodere la sua intelligente e pungente comicità, pervasa
di un’amabile malinconia ben dosata. Una specie di charlot al femminile, a cui in amore non ne va
mai bene una, ma che non perde la fiducia che un giorno vi possa essere un “segno di Venere” anche
per lei. E poi venne Piccola posta(1955), deliziosa commedia all’italiana dove la satira di costume si
unisce ai primi realistici ritratti di preoccupanti italiani tipo. La commedia prende spunto dal
successo delle rubriche di lettere sui rotocalchi femminili, in voga in quegli anni. La Valeri è però
eccezionale, soprattutto nella sequenza in cui si trasforma nella Sabrina di Audrey Hepburn, in una
mirabolante parodia da applausi. E poi che dire, vennero tanti altri film Il bigamo(1956), al fianco di
Marcello Mastroianni e Vittorio De Sica; Mariti in città(1957) , con Nino Taranto e Renato Salvatori;
Il vedovo(1959), con Alberto Sordi; Crimen(1960), al fianco di Nino Manfredi, Vittorio Gassman e
ancora Alberto Sordi; Leoni al sole(1961) e Parigi, o cara(1962), diretti dal marito Vittorio Caprioli;
Gli Onorevoli(1963), con Totò e Peppino De Filippo. In tutto le pellicole interpretate da Franca Valeri
saranno 40 e tutte di ottimo livello, grazie soprattutto alla sua presenza.

Ma soprattutto, degli anni ’60 saranno memorabili i due film diretti dal marito, ritratti di donna
davvero sublimi. Parigi o cara, considerato un autentico cult movie e uno dei film maggiormente
kitsch della commedia all’italiana è il film preferito di Franca Valeri. La stessa Franca è strepitosa
nel disegnare un personaggio indimenticabile, vero figlio del boom economico, con le sue manie di
rispettabilità e di ordine piccolo-borghese. E’ la storia di una prostituta romana che si trasferisce da
Roma a Parigi, descritta da Vittorio Caprioli con un tono di affetto e acuta ironia, evitando sia il
grottesco spinto, sia il patetismo moralista. Ma se dà spazio alle capacità di mattatrice di quella che
all’epoca era sua moglie, possiede un occhio straordinario nel descrivere due città, viste sempre
dalla prospettiva di chi è condannato alla periferia. Un piccolo ritratto di donna, davvero
memorabile. Esattamente come lo sarà il successivo Leoni al sole. Un film molto riuscito, una specie
di Vitelloni ambientato nel Golfo di Napoli, con un’ironica e quasi nostalgica descrizione della fauna
vacanziera a Positano. Senza attori di grande richiamo, tranne la Valeri che inebria la pellicola, il
film è stato inserito nella lista dei 100 film italiani da salvare.

Ho qui citato, solo alcuni dei capolavori che hanno visto Franca Valeri, sempre perfetta protagonista,
senza però scordarci dell’importanza che ella ha rivestito anche nello sviluppo della nostra
televisione verso il varietà. Da metà degli anni ’60 infatti, il volto della Valeri, diventa uno dei più
utilizzati dalla Rai, non solo in varietà storici come Studio Uno e Sabato sera; ma anche
partecipando alla fertile stagione degli sceneggiati televisivi degli anni ’70. Nel 1974 scrive e
interpreta la miniserie in quattro puntate Sì, vendetta…, diretta da Marco Ferrero. La vicenda è una
riflessione sul mondo degli anni settanta, sui cambiamenti avvenuti in seno alla società italiana in
conseguenza alla rivoluzione sessuale, vissuta attraverso gli occhi di una signora borghese e della di
lei figlia hippy. Ogni episodio infatti affronta un argomento diverso (l’emancipazione dei ragazzi
italiani, il femminismo, il rapporto della borghesia con le mode dei giovani, ecc.), attraverso
personaggi femminili, in parte già affrontati precedentemente da Franca Valeri nei suoi sketch
recitati in teatro. Franca Valeri insomma piaceva, perché rappresentava la normalità delle donne
italiane, in fondo le varie Sophia Loren, Gina Lollobrigida, Marisa Allasio, erano bellone da
copertina, perciò lontane anni luce da quella che era la normalità delle donne italiche. Franca era
specializzata nelle parti di zitella irrecuperabile o moglie opprimente, strepitosa ad esempio come
moglie petulante di Manfredi in Crimen. Proveniva dalla scuola del gruppo teatrale detto dei Gobbi,
con Vittorio Caprioli, Alberto Bonucci e Luciano Salce, e lì aveva imparato l’arte
dell’improvvisazione, nonché la capacità di scrivere testi e sceneggiature di grande interesse.

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Addio a Michel Piccoli: l’attore “europeo”
per eccellenza
E’ morto a 94 anni l’attore francese Michel Piccoli, ma tanto caro anche al cinema italiano: tanti
film di Buñuel e Ferreri e anche di Godard e Hitchcock.

Qui da noi, lo ricordiamo soprattutto, per essere stato uno dei quattro romantici goliardi che hanno
scelto di morire in un’orgia di cibo e di sesso, in una villa fuori Parigi. Con lui troviamo Marcello
Mastroianni, Ugo Tognazzi e Philippe Noiret, e il film è La grande abbuffata, il capolavoro assoluto
di Marco Ferreri. Allegoria della società borghese maschile destinata all’autodistruzione, film
scandalo e tra gli apici della carriera di tutti e 4 gli attori, è uno dei più radicali atti d’accusa contro
il consumismo mai stati fatti, un saggio da manuale sugli intrecci tra eros, thanatos, il cibo e gli
escrementi. Ma nello stesso tempo è anche la storia di una grande amicizia che va all’estremo, fino
all’autodistruzione.

https://www.youtube.com/watch?v=bCxcjIXWMd4
Ma il grande attore francese, non è soltanto il film di Marco Ferreri o il successivo Non toccare la
donna bianca, altro capolavoro, stavolta misconosciuto, con lo stesso cast del precedente film; lui è
infatti gran parte del cinema d’autore europeo del 900, raggiungendo la cifra record di 230 film
interpretati. Lo aiutava senza dubbio, una grandissima duttilità interpretativa, ma anche la capacità
di intessere relazioni amicali, che andavano al di là della semplice collaborazione lavorativa. Sapeva
diventare molto amico di tutti i colleghi o gli autori con i quali lavorava e la sua carriera è piena
zeppa di film “impegnati”.

  Scopri la nostra rubrica dedicata al Cinema.

Fu nel 1963 che ottenne la celebrità grazie a Il disprezzo di Jean-Luc Godard: il film franco-
italiano, adattamento del romanzo omonimo di Alberto Moravia, mette in scena una coppia unita
formata da lui e da Brigitte Bardot che, dopo l’incontro con il produttore Jack Palance, vivrà
incomprensioni, disprezzo e alla fine la separazione.

Michel Piccoli è stato diretto dai più grandi registi del ‘900, tra cui Jean Renoir (French Cancan,
1954), Claude Chabrol (Dieci incredibili giorni, 1971 e L’amico di famiglia, 1973), Alan Resnais
(La guerra è finita, 1965), Roger Vadim (La grande preda, 1965), Louis Malle (Atlantic City,
U.S.A., 1980) Alfred Hitchcock (Topaz, 1969).

https://www.youtube.com/watch?v=ep1FdLjgUJY

Nel 1980 avviene la sua consacrazione a livello internazionale, con la vittoria del premio per
il miglior attore al Festival di Cannes per Salto nel vuoto di Marco Bellocchio, in cui interpreta
un giudice complessato alle prese con la sorella psicotica Anouk Aimée (premiata anche lei) che si
innamora dell’imputato Michele Placido. In Italia è stato ancora anche l’ispettore
Ginko nel Diabolik (1968) di Mario Bava, e ha recitato per Elio Petri in Todo modo (1976), Sergio
Corbucci in Giallo napoletano (1978), Ettore Scola ne Il mondo nuovo (1982), Liliana Cavani
in Oltre la porta (1982), Sergio Castellitto in Libero Burro (1999).

Si diceva sopra, che Piccoli fu in grado, grazie ad un’umiltà, che rendeva l’invidia avulsa dal suo
modo di fare e di rapportarsi, di intessere rapporti di amicizia che andavano al di là del lavoro,
venendo spesso chiamato da registi d’autore. Tra le sue collaborazioni più stabili spiccano i 7 film
con Luis Buñuel, da Il diario di una cameriera (1964) a Bella di giorno (1967) da Il fascino discreto
della borghesia (1972) a Il fantasma della libertà (1974); 7 sono anche quelli con Marco Ferreri,
da Dillinger è morto (1969) a La cagna (1972), passando per i già citati La grande abbuffata (1973) e
Non toccare la donna bianca (1974); 5 con Claude Sautet, da L’amante (1970) a Il commissario
Pelissier (1971) a È simpatico, ma gli romperei il muso (1972); e 4 con Manoel de Oliveira,
da Ritorno a casa (2001) a Bella sempre (2006).

https://www.youtube.com/watch?v=wzXN3Te_WXU

Ha anche recitato 8 volte al fianco di Romy Schneider, da Trio infernale (1974) a La signora è di
passaggio (1982) ai sopracitati film di Sautet, rivelando poi nel 2015 di aver avuto una storia con lei
«Lei e io abbiamo avuto la debolezza di indulgere in gesti che non erano sempre molto onesti».

Nonostante una lunga carriera, Piccoli ha conservato un certo successo negli anni ’90 e 2000,
acquisendo una forma di autorità e saggezza, ben rilevata da Nanni Moretti che gli ha offerto nel
2011 l’ultimo grande ruolo in Habemus Papam, dove incarna un Papa dubbioso che si chiede se
non sia troppo per un uomo incarnare la fede e la speranza di un’intera religione e di milioni di
fedeli. Questa interpretazione gli ha consegnato il David di Donatello come miglior attore
protagonista l’anno successivo, a chiusura di una carriera eccezionale cui probabilmente mancava
solamente, il nostro maggiore premio nazionale.

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