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Amazon: i pacchi sorridono, i lavoratori un po’ meno Ieri mattina ci siamo svegliati in un’Italia sempre più rossa, con ancora maggiori restrizioni alla circolazione e con due notizie principali che hanno calamitato l’attenzione dei media. In realtà la prima, più che una notizia, è una commemorazione: sono infatti passati 100 anni dalla nascita del grande Nino Manfredi, attore simbolo della commedia italiana e del cinema in generale; ma l’altra è per davvero una notizia che merita di essere approfondita. Sto parlando dello sciopero dei dipendenti della logistica e di quelli delle consegne di Amazon Italia, il colosso dell’e-commerce sbarcato nel nostro Paese nel 2010, che oggi conta oltre 40 sedi ed ha 9.500 dipendenti a tempo determinato e altri 15.000 addetti alle consegne. Amazon ieri si è fermata per 24 ore: si tratta, di fatto, del primo stop in Italia di tutta la filiera, e i dipendenti che dalle ore 7, del 22 marzo, hanno incrociato le braccia davanti ai cancelli degli stabilimenti del colosso del commercio elettronico chiedono la solidarietà dei consumatori, invitandoli a evitare acquisti per l’intera giornata. Lo sciopero è stato indetto da Filt Cgil, Fit Cisl, e Uiltrasporti e riguarda tutto il personale dipendente di Amazon Logistica Italia, cui è applicato il CCNL Logistica, Trasporto Merci e Spedizione, Amazon Transport Italia, e di tutte le società di fornitura di servizi di logistica, movimentazione e distribuzione delle merci che operano per Amazon Logistica ed Amazon Transport. Il tavolo di contrattazione con i sindacati di categoria e i lavoratori “si è interrotto bruscamente a causa dell’indisponibilità dell’associazione datoriale ad affrontare positivamente le tematiche poste dal sindacato”, si legge in una nota stampa congiunta dei sindacati. La segretaria confederale della Cgil Tania Scacchetti ha dichiarato in un video: “Amazon può e
deve coniugare lo sviluppo e il profitto con i diritti di chi lavora. Oggi è una giornata molto importante, i lavoratori e le lavoratrici della filiera di Amazon hanno deciso di protestare per rivendicare un normale sistema di relazioni sindacali. Un messaggio importante rispetto alla necessità di parlare di lavoro di qualità”. All’unità delle sigle sindacali fa da contrappunto la divisione delle Associazioni dei Consumatori: da una parte il Codacons, che aderisce all’ iniziativa “non per questioni legate agli stipendi ma perché siano garantite migliori condizioni di lavoro ai dipendenti”, mentre Consumerismo No Profit è invece contraria “a qualsiasi tipo di sciopero che utilizzi i cittadini per rivendicazioni di tipo sindacale. In questo momento di zone rosse estese e di impossibilità di spostamento per gli utenti – ha dichiarato al quotidiano La Stampa Luigi Gabriele, presidente dell’associazione – ritardare le consegne arreca un danno materiale alla collettività”. Ed intanto Amazon ha inviato una lettera rivolta ai clienti della piattaforma di commercio elettronico, dove la country manager di Amazon Italia, Mariangela Marseglia, ha dichiarato: “L’impegno verso i nostri dipendenti e quelli dei fornitori di servizi di consegna è la nostra priorità assoluta. In Amazon rispettiamo il diritto di ogni individuo ad esprimere la propria posizione e voglio ringraziare personalmente i colleghi e i dipendenti dei fornitori dei servizi di consegna che ogni giorno lavorano per assicurare che possiate ricevere i vostri ordini”. Questo sciopero nazionale dell’intera filiera logistica e dei trasporti del colosso Amazon è una sveglia non solo per le Big Tech del web, ma anche per noi cittadini, che, fintamente ignari, ci crogioliamo nella libertà – è un po’ strano dirlo durante un quasi lockdown – che i lavoratori più sfruttati, quelli della cosiddetta Gig Economy, ci regalano ogni giorno. Ne ho parlato più diffusamente in un mio editoriale del giugno 2019, quando un articolo a firma di Massimo Gaggi
sulle pagine de La Lettura n°391 del 26 maggio 2019 aveva attirato la mia attenzione su tutti quei lavoratori della nuova economia digitale che l’antropologa Mary L. Gray e il computer scientist Siddharth Suri hanno definito ghost workers nel loro libro “Ghost Work: How to Stop Silicon Valley from Building a New Global Underclass” (Ghost Work: come fermare la Silicon Valley dalla costruzione di un nuovo sottoproletariato globale), purtroppo non ancora tradotto in italiano. Ricordiamolo sempre: i nostri benefit non sono gratis! La nostra convenienza, le nostre offerte speciali, il nostro 3X2 (come ci ha ricordato anche il giornalista Stefano Liberti in una recente puntata di “Incontri ravvicinati” sulla GDO), la consegna in 24 ore, come se aspettare qualche giorno in più fosse un peccato mortale, è sempre messo in conto a qualcun altro, grava sempre sulle spalle di qualcun altro: a pagare i nostri privilegi – piccoli o grandi che siano – ci sarà sempre qualcun altro che si trova su un gradino ancora più
basso di quella scala sociale che anche noi stiamo tentando di risalire. Prendere consapevolezza di questo è eticamente e moralmente giusto, oltre che sacrosanto, anche perché se i diritti dei lavoratori vengono calpestati o disattesi da un piccolo commerciante che non sa come arrivare a fine mese, non dico che è giustificabile, ma è sicuramente molto meno colposo se a disattendere i diritti dei lavoratori è un colosso che nel 2020 ha fatturato a livello globale un utile netto di 21,3 miliardi di dollari con un incremento rispetto al 2019 del + 38%. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre.
Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter Un secolo di… Nino Manfredi Qualche giorno prima del lockdown dello scorso anno, che ha messo in ginocchio l’Italia e il mondo, ebbi l’onore di intervistare la signora Erminia Manfredi, moglie del compianto Nino, per il libro Il ventennio d’oro del cinema italiano- 4 lustri di illustri, edito da Graus Edizioni. In quell’occasione, così vibrante di emozioni, per un autentico e passionale estimatore di Nino Manfredi, ne uscì un ritratto ancora più vero di quello che è stato l’attore, tra il privato e il pubblico. Alla mia domanda se vi erano differenze tra il Manfredi privato e il Manfredi del cinematografo, la signora Erminia rispose così: “Mio marito, dal punto di vista lavorativo, era l’esatto specchio di quello che lui era nella sua vita privata. Era una persona molto seria e faceva tutto con serietà, nel senso che era molto metodologico e si preparava su tutto. Ad esempio, quando gli proponevano un film, studiava il suo personaggio in maniera tale da entrare completamente nella parte e farla sua. Per esempio, quando ha fatto Geppetto, nel Pinocchio di Comencini, per prepararsi alla parte, pur non avendone l’età, andava di fronte alla nostra casa, a Roma, nel Giardino degli Aranci, a vedere come giocavano i bambini. Il tutto per delineare un Geppetto ancora attivo, desideroso di giocare, che poi grazie a questi “studi” è diventato quel personaggio immortale, che tutti noi continuiamo ancora ad ammirare. Mio marito amava un po’ tutti i personaggi che interpretava, perché in ognuno metteva sempre tutto se stesso e la sua professionalità, ma ad ognuno era in grado di donare sfumature sempre diverse, che fosse Pane e cioccolata o che fosse Brutti, sporchi e cattivi”.
Da questo estratto di quell’intervista, che porto sempre nel cuore, fuoriesce tutta l’essenza di quello che è stato il metodologico Nino Manfredi, che rimane ad oggi, esattamente a 100 anni dalla sua nascita un punto di riferimento assoluto nella storia del cinema italiano e della commedia all’italiana, del quale è ritenuto uno dei “4 mostri”, assieme a Sordi, a Gassman e a Tognazzi. Versatile e incisivo, poliedrico e magnetico, come pochi, nel corso della sua carriera ha alternato con uguale vigore ruoli comici e drammatici di notevole efficacia, risultando probabilmente il più grande di tutti, nella sua capacità di entrare nel ruolo e regalarci personaggi immortali. La signora Erminia, ha parlato dello strepitoso e struggente Geppetto del Pinocchio di Luigi Comencini; ma il tutto va continuato ed ampliato con il Dudù di Operazione San Gennaro; con il meraviglioso padre di famiglia dell’Italia del boom de Il padre di famiglia; o ancora il leggendario Pasquino di Nell’anno del Signore. Ce ne siamo scordati tanti e potremmo continuare per ore, fino a far diventare questo articolo un saggio vero e proprio, magari da pubblicare. Eppure non basterebbe neanche un libro per ricordare la grandezza di un attore, che fa parte del patrimonio storico ed emotivo del nostro Paese: un personaggio familiare, che fa parte di noi stessi, di quello che siamo stati e di quello che siamo. 101 film interpretati, tra il 1949 di Torna a Napoli e il 2003 de La fine di un mistero. In mezzo, 9 David di Donatello (record assoluto al maschile), 6 Nastri d’Argento, 4 Globi d’oro e soprattutto la Palma d’oro a Cannes 1971, come
miglior opera prima per il suo capolavoro emotivo dal titolo Per grazia ricevuta. Basterebbe questo palmares, per inquadrare Nino, anzi Saturnino, perché questo era il suo vero nome all’anagrafe; ma non basta, perché la sua grandezza non è quantificabile in una stima di quanto il suo lavoro abbia influenzato tutta la commedia, durante gli anni del fulgore della commedia all’italiana e anche nei decenni successivi. Alcuni di questi film sopravvivono sulle vette più elevate del nostro cinema; altri ancora navigano più in basso; ma tutti gli oltre 100 delineano quella che è stata la maestria metodologica di Manfredi, il più grande nel tuffarsi nel personaggio regalandoci interpretazioni sempre diverse, ma sempre particolarmente realistiche ed efficaci. Dopo una notevole gavetta, fatta di tante particine sparse qua e là, il meritato successo arriva alla fine degli anni ’50, con titoli come Carmela è una bambola, L’impiegato e Audace colpo dei Soliti Ignoti o Anni ruggenti, che ci consegnano un attore diverso dal classico panorama cinematografico nazionale. E i titoli della seconda metà degli anni ’60, non fanno altro che confermare in pieno quell’intuizione. Proprio in questo decennio, Manfredi mette a segno passo dopo passo numerosi successi, fino a quel 1969, che lo issa come miglior attore italiano dell’annata, per quello che sarà il suo anno mirabilis. Nel solo quinquennio 1964-69 è
protagonista di oltre 20 film, tra film a episodi come Le bambole o I cuori infranti e lungometraggi interamente basati sulle sue straordinarie capacità di attore a tutto tondo, quali Straziami, ma di baci saziami, Italian secret service e Operazione San Gennaro, ambientato all’ombra del Vesuvio e impreziosito da un prestigioso intervento del grande Totò; per finire con Il padre di famiglia, uno dei migliori Manfredi di sempre, perfetto nel tratteggiare, come già anticipato sopra, il ritratto di un padre di famiglia alle prese con tutte le problematiche sociali e lavorative degli anni ‘60. Un piccolo gioiello diretto dal regista Nanni Loy. Ma soffermiamoci un attimo su Italian secret service del 1967, un sottovalutato, ma divertente incrocio tra commedia all’italiana e parodia dei film di spionaggio americani. È il momento migliore della carriera di Nino Manfredi che addirittura nel 1968 si aggiudica due David di Donatello ex- aecquo sia per Italian secret service che per Il padre di famiglia. Caso più unico che raro nella storia della cinematografia mondiale: un ex-aecquo con se stesso. Ciò sta a significare che le sue interpretazioni, ormai, sono tutte di enorme spessore ed è forse l’attore più richiesto del panorama italiano, tra la seconda metà degli anni ’60 e i primi anni ’70. Infatti, è proprio in questo periodo, che l’attore prende piena consapevolezza di sé, dopo anni di gavetta, entrando sull’accogliente carro della commedia all’italiana. Anno dopo anno l’attore scala le vette, pur mantenendo un profilo basso, ravvisabile rispetto agli ingaggi medi degli altri colleghi del periodo: Mastroianni 120 milioni di lire, Tognazzi 50 e Manfredi (si fa per dire) soltanto 30, anche se con un movimento oscillatorio. Infatti, a seconda del suo gradimento rispetto alla sceneggiatura era consono alzare o diminuire la richiesta, tenendo in mente vari fattori, quali lo studio approfondito del personaggio e i giorni di impegno sul set. Non c’è da sorprendersi, il tutto rientrava in quella grande attenzione che il professionista Manfredi, diffondeva nel suo lavoro: metodo, precisione e orgoglio. Molto spesso era solito inserire con grande vigore, modifiche in seno di sceneggiatura, attirando non di rado, polemiche accese con il regista di turno, quanto più era qualificato il secondo, tanto meno era disposto a cedere il passo. E così, ad esempio sul set di Nudo di donna, nel 1981, avviene un proverbiale e acceso diverbio tra Nino Manfredi e il regista Alberto Lattuada, con quest’ultimo che decide di abbandonare anzitempo il set, e il primo che prenderà le redini del lavoro portandolo a
compimento. Tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’80, Manfredi continua quel processo di maturazione, che lo rende uno degli attori più amati del panorama nazionale. Nominiamo, dunque, le sue migliori pellicole. Nel 1969 è impegnato sul set di Straziami, ma di baci saziami (1968), gioiellino di comicità paradossale e popolana, tutta giocata sul gusto per il calco filologico e deformante della subcultura popolare, del patetico da fotoromanzo e del romanticismo da festival di Sanremo, che contiene alcune delle più belle battute degli sceneggiatori Age e Scarpelli. Il trio di protagonisti è semplicemente sublime: Manfredi, Tiffin e Tognazzi; mentre il regista è Dino Risi. L’elenco delle interpretazioni memorabili di Nino Manfredi, strettamente nell’ambito del film a episodi, del quale, va quì ricordato, Manfredi fu uno dei massimi specialisti, si arricchisce nel 1969, di un film Vedo nudo, diretto anch’esso da Dino Risi, che rimane, come film corale, uno dei migliori assoli dell’attore romano. Il migliore dei sette sketch che lo compongono è proprio l’ultimo, ovvero quello che dà il titolo al film e che è rimasto nella memoria collettiva. E’ la storia di un pubblicitario che vede denudate tutte le donne che incontra, ma quando crede di essere guarito la stessa devianza psichica si manifesta con gli uomini. L’episodio, il più divertente del film corale, si basa tutto sulla prova del grande Nino Manfredi e sulle sue espressioni facciali alle prese con le visioni “nude”, che sono da antologia della risata e da scuola di recitazione. Un cortometraggio molto conosciuto anche all’estero, dato anche il grande successo commerciale del film, tanto che pare sia stato preso ad esempio, quando nel 2000 la regista Nancy Meyers ad Hollywood firmò la pellicola What women want, con Mel Gibson. Anche quella è la storia di un pubblicitario alle prese con l’altro sesso, ma stavolta invece di vederle nude, acquista il potere “magico” di ascoltare il loro pensiero. Una prova in più del fatto che il cinema americano, ha spesso tratto spunto da quello italiano, sempre precursore dei tempi. Quello stesso anno l’attore prende parte a Nell’anno del Signore, campione di incassi della
stagione, il quale può essere considerato come il più grande film in costume della storia del cinema italiano. In un cast a dir poco eccelso – Sordi, Tognazzi, la Cardinale, Salerno – si staglia l’interpretazione del vero protagonista del film: Nino Manfredi. Sublime nel tratteggiare Pasquino, il ciabattino, lo storico autore di invettive contro il Papa, nella Roma papalina del 1825. La splendida interpretazione gli valse sia il Nastro d’argento che il David di Donatello come miglior attore protagonista della stagione 1969. Fu proprio con questo film che Manfredi e Magni iniziarono una fruttuosa e redditizia collaborazione, consolidatasi negli anni con In nome del Papa Re (1977) e In nome del popolo sovrano (1991), secondo e terzo capitolo della trilogia sulla Roma papalina di metà Ottocento, focalizzando l’attenzione sul rapporto tra clero pontificio, aristocrazia e popolo. Proprio Nell’anno del Signore rappresenta il primo capitolo di questa trilogia con almeno una perla destinata a entrare nella storia del cinema. Esattamente la scena finale –quando Pasquino intuisce che il potere trae forza dalla sua mancanza di emotività, rispetto al popolo che “c’ha er core” – è geniale e allo stesso tempo commovente. Spiega al suo discepolo interpretato da Pippo Franco che “…li morti così con una burla de processo pesano più peggio e cor tempo diventano la cattiva coscienza del padrone… perché solo sul sangue versato viaggia la barca della rivoluzione”. Insomma, sacrificare due carbonari per risvegliare la coscienza del popolo: i primi vaggiti d’Italia 35 anni prima di Garibaldi, in un film realizzato all’alba dei tumulti che caratterizzeranno gli anni ’70 e che il cinema nazionale ha prontamente descritto. Procedendo velocemente, negli anni ’70, vanno citate altre memorabili interpretazioni. Come Per grazia ricevuta (1971), che segna l’esordio in un lungometraggio di Nino Manfredi come regista, il quale è comunque anche il protagonista del film, con una regia dal sapore naif e un soggetto indubitabilmente nostrano e originale, a metà tra spiritualità e psicoanalisi, sulle conseguenze della cattiva educazione religiosa. Record di incassi della stagione 1970/71. Nino Manfredi, come già accennato sopra, vinse la prestigiosa “Palma d’oro” al Festival di Cannes per la miglior opera prima. Molte scene rimaste nella storia. Capolavoro senza tempo, esattamente come C’eravamo tanto amati (1974), di Ettore Scola, omaggio nostalgico, amaro e sincero al cinema italiano e più in generale ad un pezzo di storia e al tempo che passa inesorabile. Abbiamo poi anche Pane e cioccolata (1974), a detta di molti, il miglior film della carriera di Nino Manfredi. Elogio dell’italiano all’estero con tante scene entrate nell’immaginario popolare. Manfredi si supera, in un’interpretazione attenta e precisa e vince con merito il David di donatello come miglior attore protagonista. In ultimo citiamo, alcuni film che rientrano nel Manfredi più strettamente drammatico. Un esempio su tutti, Brutti, sporchi e cattivi (1976), un film volutamente sgradevole, ambientato in una borgata degradata della capitale, dove Manfredi offre un’ottima prova della sua straordinaria poliedricità. E poi abbiamo gli ultimi grandi “fuochi”, scintille di grande cinema d’autore. Parliamo de Il giocattolo (1979), splendido apologo sulla violenza privata, con un Manfredi drammatico che convince appieno; e soprattutto Cafe express (1980), nei panni del venditore abusivo di caffè sui treni Michele Abbagnano, a detta di molti la sua interpretazione più intensa e sofferta. E per questo film Manfredi vinse l’ennesimo Nastro d’argento della sua sfolgorante carriera. Insomma, fa davvero piacere, che nonostante stiamo vivendo un 2021 complicatissimo, le
celebrazioni in onore di Nino Manfredi, siano molteplici in tutto il nostro Paese: pubblicazioni, documentari inediti, omaggi televisivi e numerosi articoli a lui dedicati. Questo vuol dire, che abbiamo ancora una speranza. Abbiamo ancora la speranza che la cultura possa elevarci, che la cultura possa educarci e che quindi la memoria di chi ha reso grande questo nostro martoriato Paese, non si perda mai, nell’oblio degli abulici tempi moderni. Perciò dobbiamo gridare con forza CIAO NINO ovunque lui sia…e studiarlo, amarlo al pari degli altri suoi colleghi, perché appassionarsi al nostro cinema vuol dire imparare qualcosa di più su di noi e vuol dire fare cultura, quella con la C maiuscola. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre. Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter L’Italia di nuovo in lockdown: l’inferno vero è la ripetizione, l’eterno ritorno dell’eguale E rieccoci qua, proprio da dove eravamo partiti, dopo un anno dal primo lockdown cominciato il 9 marzo 2020, rieccoci in un gigantesco loop temporale, tornati al punto di partenza. Come ho scritto nel mio ultimo editoriale, quello di febbraio 2021, mi sento come Bill Murray nel film “Ricomincio da capo” (Groundhog Day) del 1993, diretto da Harold Ramis, o, se preferite il cinema italiano, come Antonio Albanese nel remake del film di Ramis, “È già ieri” del 2004, diretto da Giulio Manfredonia. Sarà che in entrambi i film il protagonista è un giornalista, il mio processo di
identificazione è ancora più marcato. Da lunedì 15 marzo gran parte dell’Italia, compresa la mia regione, la Puglia, saranno “Zona Rossa”, con pesanti limitazioni alla circolazione e alle libertà personali. Dopo 1 anno e 6 giorni, nulla è cambiato, se non il fatto che sono arrivati i vaccini, ben 4, contando l’approvazione da parte dell’EMA per il vaccino monodose della Johnson & Johnson. Cosa faremo in questo nuovo lockdown? Canteremo dai balconi? Disegneremo cartelloni con le scritte: Tutto andrà bene? Faremo lunghi applausi a medici ed infermieri? No, non credo che questa volta lo faremo. Quando l’Italia decise di adottare per prima a livello europeo le stringenti misure del lockdown, fummo lodati a livello internazionale, in primis dall’OMS, anche se recenti studi scientifici, inchieste e processi nella gestione dell’emergenza sanitaria, soprattutto in Lombardia, stanno rivelando che forse le misure dovevano essere adottate già da fine febbraio 2020; comunque sia, sembrava che l’Italia a guida Conte, ma soprattutto noi Italiani, stessimo facendo i passi giusti e nella giusta direzione.
P h o t o b y H a k a n N u r a l o n U n s p l a s h A guidarci, a farci rispettare le regole fu soprattutto la paura, che in caso di epidemie è sicuramente un’ottima consigliera. Ma poi il primo lockdown è finito e con l’Inizio della cosiddetta “Fase 2” si è aperto tutto, e dal 4 maggio abbiamo assistito al “liberi tutti”: gli assembramenti sono diventati la regola. Eppure la
stragrande maggioranza dei medici, virologhi ed epidemiologhi ci aveva avvertito che il virus circolava ancora, che le regole di distanziamento sociale, igiene, prevenzione e precauzione vigevano ancora e che avremmo dovuto affrontare una primavera inoltrata e, soprattutto, un’estate con senso di responsabilità. Ma noi abbiamo preferito ascoltare quei due, tre medici al massimo, che invece dicevano il contrario, che ormai il virus era sconfitto o, come ha fatto Zangrillo, che il virus era “clinicamente morto”. Già, “clinicamente morto”, come se questa affermazione fosse rivolta ad una platea di medici e addetti ai lavori e non, come invece è stato, ad un pubblico indistinto, per cultura ed istruzione, che ovviamente ha pensato – semplicemente – che il pericolo fosse scampato. Il tutto ovviamente in barba alle più elementari regole della comunicazione, che, come ci ricordano Paul Watzlawick e la Scuola di Palo Alto, agisce sempre su due piani: un piano del contenuto, ossia “ciò che diciamo”, ed un piano della relazione (la maniera, il modo, il tempo e le modalità), ossia il “come lo diciamo”, e che nella comunicazione umana il piano della relazione è non solo prevalente, ma condiziona pesantemente anche la maniera in cui “comprendiamo” il piano del contenuto. Zangrillo e gli altri sparuti medici del liberi tutti – ignorando la dinamica della comunicazione umana – hanno fornito una scusa a tutti quegli Italiani, la maggior parte, che non vedeva l’ora di uscire da due mesi di isolamento per poter godere nuovamente della propria libertà. All’inizio, complice la bella stagione e il fatto che all’aperto il virus, effettivamente, circolasse meno, sembrava davvero che tutto fosse passato, che il Coronavirus fosse ormai sconfitto, ma i contagi non si sono mai fermati, il virus ha continuato a circolare e ad evolversi, e con l’arrivo del primo freddo abbiamo assistito alla cosiddetta “2° ondata” che, in realtà e con il senno di poi, era molto più probabilmente il riacuirsi della 1°. P h o t o b y E r i k M c l e a n o
n Unsplash E tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre la nostra vita è diventata a colori come l’Italia, con zone rosse, arancioni e gialle che abbiamo cominciato a subire, ma non a capire del tutto, e le nostre vite, benché l’Italia fosse tutta a colori, è diventata grigia ed in qualche caso nera. La seconda ondata è stata peggiore della prima, e in molti si sono ammalati, tutta l’Europa è diventata uno dei punti più caldi della pandemia. La cosa peggiore è che il virus durante l’estate non solo ha continuato a diffondersi, ma, come abbiamo scoperto, si è evoluto, è mutato, imparando a sfruttare tutte le debolezze dell’uomo. La variante inglese del Coronavirus, identificata da uno studio dell’Università di Bologna, già ad ottobre dell’anno scorso, ha, secondo l’ISS, una trasmissibilità superiore del 37% rispetto al ceppo originario, ma alcuni studi, meno ottimistici, dicono anche del 70%. Il nostro Natale è stato quantomeno anomalo, blindato nelle nostre abitazioni, abbiamo riscoperto una festività, anzi la festività per antonomasia, circondati dal calore familiare, e questo è stata una cosa buona. Certo il commercio ne ha risentito, per non parlare dei settori della ristorazione ed alberghiero, che continuano a soffrire come pochi altri in Italia. Ridendo e scherzando dopo l’Epifania, siamo tornati tutti gialli per una manciata di giorni e poi di nuovo nelle fasce colorate che i nostri indici di contagio, ricovero e morte ci consentivano. L’arrivo dei vaccini, dal 27 dicembre, ha rappresentato il vero regalo della scienza a tutti noi. Ma intanto alla paura si sono sostituite altre emozioni, per prima ha fatto capolino la rassegnazione, che come un subdolo alfiere ha aperto la strada alla negazione ed al menefreghismo, che sono diventati i veri e migliori vettori del virus. P h o t o b y G l e n C a r r i e o n
Unsplash In tutta questa confusione, non ci siamo fatti mancare niente, neanche una crisi di governo, ed allora l’incertezza e lo spaesamento si sono andati ad aggiungere a negazione e menefreghismo, e tutti insieme, al pari dei quattro cavalieri dell’Apocalisse, hanno portato morte e devastazione un po’ ovunque nel nostro Paese, anche in quelle zone, come il sud Italia, che erano state in parte risparmiate dalla prima ondata. Ed eccoci qui, mentre scrivo questo articolo, in questa domenica 14 marzo, alla vigilia di un nuovo lockdown, con molti rimpianti, tante speranze di miglioramento disilluse, di nuovo alle prese con una forte limitazione delle nostre libertà personali e con la consapevolezza che “tutto è andato male”, che a migliorare, cambiare ed evolvere è stato solo il Coronavirus e che noi, tutti noi, non solo i nostri politici, i medici negazionisti, i novax, i complottisti, tutti noi siamo regrediti ed involuti, e che se adesso andiamo alla ricerca di un colpevole, non resta che guardarci allo specchio. Perché il coronavirus aveva bisogno del nostro aiuto per diffondersi in questa maniera e noi, chi più chi meno, glielo abbiamo dato e con un inconsapevole entusiasmo. Dopo un anno di restrizioni, tornare al punto di partenza è la dimostrazione lampante del fallimento come singoli, come comunità e come Paese. Avremmo dovuto “capitalizzare” il vantaggio che avevamo accumulato dopo il primo lockdown, invece in poco più di quattro mesi lo abbiamo totalmente dissipato, ci siamo comportati come quei giovani sprovveduti rampolli che, avendo ricevuto in dote una grossa eredità, la spendono senza ritegno e da un giorno all’altro si ritrovano più poveri di prima, se non addirittura con i debiti. Personalmente ho cercato – non sempre riuscendoci – di rispettare le regole, ho cercato di fare del mio meglio per essere parte della soluzione e non parte del problema, ma non è servito a nulla, perché dopo un anno rieccomi qua come un criceto sulla sua ruota, in questo loop infernale, con due sole consapevolezze: la prima è quella di aver compreso finalmente il re del brivido Stephen King quando scrisse: “Una versione dell’inferno è quella in cui sei condannato a fare sempre la stessa cosa. […] Esiste anche l’idea che l’inferno siano gli altri. La mia è che l’inferno potrebbe essere ripetizione”. La seconda consapevolezza è che, nonostante tutti i miei sforzi, anche questo 4 aprile passerò il mio 48° compleanno, il secondo dopo quello dell’anno scorso, da solo in casa, lontano dagli affetti, dalla famiglia, e senza la possibilità di offrire da bere né ad amici né a parenti.
U n a s c e n a d e l f i lm Donnie Darko, con Jake Gyllenhaal, Jena Malone ed il coniglio Frank Il tutto con l’aggravante che quest’anno il mio compleanno, coincidendo con la Pasqua, mi sembra ancora più beffardo, il coniglietto pasquale quest’anno mi pare avere le fattezze inquietanti del coniglio antropomorfo Frank, che tormentava le allucinazioni di Donnie Darko (alias Jake Gyllenhaal) nell’omonimo film del 2001 diretto da Richard Kelly. E se non vi ricordate la pellicola o il coniglio Frank, cliccate su questo link e recuperate assolutamente il film, che merita più di una visione. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre. Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter
NONPROFIT DAY 2021 Dan Pallotta vs Stefano Zamagni: è stata sfida vera fra due maniere di intendere il nonprofit Conclusosi esattamente una settimana fa, il NonProfit Day 2021 ha riscontrato un successo di pubblico ben oltre le aspettative e gli stessi numeri, che comunque sono incredibili: 4 ore di diretta, 4.732 persone collegate, 1.531 commenti in chat, 2 big del nonprofit di livello mondiale, 4 commentatori, tutti esperti del nonprofit italiano, 2 conduttori, 1 teatro, “Il Piccolo” di Forlì, come location della regia remota dell’evento. Noi di Smart Marketing eravamo media partner dell’evento e io stesso ho partecipato come spettatore a questo appuntamento che era sostanzialmente diviso in due grandi blocchi. Un primo che comprendeva la presentazione della location, il teatro “Il Piccolo” di Forlì, ovviamente senza pubblico, nel quale i bravi e spigliati Valerio Melandri (Professore e Direttore Master in Fundraising Università di Bologna e Fondatore Associazione Festival del Fundraising) e Stefano Malfatti (Direttore raccolta fondi Istituto Serafico di Assisi e Presidente Associazione Festival del Fundraising), hanno condotto, coadiuvati da un ottimo staff tecnico dietro le quinte, l’intero evento, presentando il programma, la scaletta degli interventi e gli sponsor e i partner tecnici. I commentatori della “grande sfida del nonprofit” sono un poker d’assi del non profit italiano: Alessandro Betti (Direttore raccolta fondi Fondazione Telethon), Giancarla Pancione (Direttore marketing & fundraising Save The Children Italia), Niccolò Contucci (Direttore generale Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro) e Valentina Melis (Giornalista del Gruppo Il Sole24 Ore); mancava invece, bloccata da un imprevisto, Elisabetta Soglio (Giornalista del Corriere della Sera, Responsabile dell’inserto Buone Notizie). Sempre nel primo blocco ci sono stati i due interventi dei big del nonprofit: da una parte Dan
Pallotta, imprenditore, scrittore e attivista umanitario americano, autore del Ted Talk più visto nella storia del nonprofit, intervistato da Valerio Melandri, e dall’altra Stefano Zamagni, il più importante economista e garante del nonprofit italiano, inventore delle Onlus, Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, che invece ha tenuto una sorta di lectio magistralis sulle differenze fra il nonprofit americano e quello italiano. Ma assai più rilevante è stato il secondo blocco, nel quale la sfida fra Dan Pallotta e Stefano Zamagni si è accesa ben oltre le aspettative: i due relatori si sono confrontati in uno scontro, che a tratti è stato anche duro e aspro e non ha risparmiato anche qualche critica sul piano personale – esecrabile – da parte del prof. Zamagni all’indirizzo di Pallotta; ma questo ha acceso anche le 4.732 persone collegate in chat, che hanno prodotto più della metà dei 1.531 commenti proprio in questo blocco. Infine, i 4 assi del nonprofit italiano hanno tentato una sintesi fra i due pensieri dei relatori principali, che non erano poi così distanti come la discussione poteva far pensare. Il punto vero, come hanno rilevato molti partecipanti in chat, fra cui anche il sottoscritto, non è chi ha ragione o meno, quale sia la filosofia migliore, quale l’approccio più consono; nel fundraising, e nel marketing, così come nella vita, si cerca di fare il meglio che si può con gli strumenti e gli approcci che si sono studiati ed affinati negli anni, costruendo la propria strategia a seconda del cliente, del contesto e del periodo in cui operiamo. Pensate a quest’ultimo anno di pandemia, quante cose che utilizzavamo un tempo non vanno più bene, quanti strumenti sono ormai obsoleti, quante strategie inutili. Il fundraising ed il mondo del nonprofit sono – anche al netto della pandemia – processi umani e quindi dinamici, credere che ciò che ho imparato una volta vada bene per sempre è illusorio e anche pericoloso. L’unica strada è studiare tanto, aggiornarsi sempre e verificare costantemente sul campo le proprie strategie. Come diceva il grande psichiatra, psicoanalista e antropologo Carl Gustav Jung, riferendosi alla psicologia: “Impara tutto quello che puoi sulla teoria, ma quando sei di fronte all’altro dimentica il manuale”. Visto il successo di questa frizzante edizione del Nonprofit Day, cresce ancora più l’attesa per il Festival del Fundraising 2021, il più importante momento di confronto e formazione per il mondo del nonprofit e fundraising, che si svolgerà il 9, 10 ed 11 giugno dal vivo a Riccione e online, e per il quale sono già aperte le iscrizioni: https://rebrand.ly/iscriviti_al_festival Smart Marketing è felice di essere media partner del Nonprofit Day: l’evento online che ha permesso di porre le basi per il nuovo modo di pensare il nonprofit e al suo ruolo nel mondo post Covid-19. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre.
Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter Kubrick, Rossini e Winelivery tutti insieme in uno spot che omaggia il cinema, la libertà e l’allegria e rompe qualche tabù Da pochi giorni sugli schermi televisivi italiani si può vedere uno spot davvero geniale e divertente, che in un timelapse sulle festose note del Guglielmo Tell di Rossini vede un ragazzo e due ragazze consumare un rapporto sessuale all’insegna della libertà e dell’allegria, ma scandito, e opportunamente coperto nelle scene più scabrose, dal timer impostato a 30 minuti su di uno smartphone in primo piano. Molti, se non tutti, avranno riconosciuto nello spot una delle scene più emblematiche del capolavoro di Stanley Kubrick “Arancia Meccanica” del 1971, che proprio quest’anno compie 50 anni, e del quale la pubblicità in questione rappresenta un bellissimo omaggio. Un film che dimostra ancora la sua freschezza e potenza espressiva tipica di quei capolavori che non invecchiano mai.
Il commercial è quello della nota startup Winelivery, nata nel 2016 a Milano, dove si ritaglia un segmento molto particolareggiato del delivery, quello della consegna a domicilio delle bevande alcoliche in 30 minuti, sempre alla giusta temperatura. L’azienda, giovane e determinata, attraverso delle campagne di marketing ben studiate, in poche anni esplode, raggiungendo, ad oggi, oltre 60 città e andando di fatto a creare da zero un segmento del quale è leader. Lo spot che omaggia uno dei più grandi capolavori di Stanley Kubrick e della cinematografia mondiale è frutto della genialità di H-57 Creative Station; Marco Dalbesio, Ceo & Partner dell’agenzia, a tal proposito ha dichiarato: “Cosa si può fare in 30 minuti? Tantissime cose, e una di queste è scardinare un tabù pubblicitario. Ci è venuto spontaneo pensare alla scena di Arancia Meccanica, in cui il protagonista porta a casa le due ragazze conosciute poco prima. Gli ingredienti erano già tutti lì: musica, gioia, divertimento, inquadratura mozzafiato, ambientazione futuristica, ma soprattutto ironia… tanta, tanta ironia. Ringraziamo Winelivery per averci creduto e seguito con coraggio, non è da tutti”. Noi di Smart Marketing, da sempre appassionati di cinema e pubblicità, tanto da aver dedicato all’argomento una rubrica, diversi articoli e in ultimo una recente puntata del nostro format “Incontri ravvicinati”, abbiamo contatto Andrea Antinori, Founder & Ufficio Stampa di Winelivery, alla quale abbiamo rivolto alcune domande su questo spot e sulla loro azienda dalla spiccata personalità e dalla forte carica di innovazione.
Veniamo subito al sodo, come vi è venuto in mente di realizzare uno spot così geniale ed anche irriverente, che da una parte omaggia il cinema e dall’altra attacca frontalmente, ma ironicamente, un tabù come quello del sesso, per giunta di gruppo? La scintilla scaturisce dal brief stesso: la consegna in 30 minuti, e qui lascio la parola a Marco Dalbesio di H -57: “In fase di brainstorming abbiamo pensato a cosa si potrebbe fare nel lasso di tempo che intercorre tra ordinazione e consegna: la mente è corsa subito all’aria del Guglielmo Tell di Rossini e immediatamente dopo alla scena a cui è abbinata: Arancia Meccanica. Kubrick: IL maestro. Quella scena, impressa indelebilmente nelle nostre menti, conteneva esattamente già tutti gli ingredienti per la nostra campagna, incluso l’espediente di accelerare ciò che accade, per dare da un lato un senso di compiutezza al racconto e dall’altro stemperare con ironia ciò che viene rappresentato. Compreso il sesso a tre, che abbiamo voluto preservare – coi dovuti accorgimenti, per evitare la volgarità – per risultare il più fedeli possibile al film. Sicuramente un bello sdoganamento per il mainstream.” Lo spot spiega con intelligenza e provocazione come impegnare “creativamente” il tempo che intercorre da quando effettuiamo l’ordine sull’app di Winelivery a quando lo stesso ci viene consegnato a casa. Vi rendete conto che in un Paese ancora “bigotto” come l’Italia questo spot avrà un effetto ancora più dirompente? Con questo spot abbiamo fatto un’iperbole della nozione di “occupare il tempo”, rendendo al contempo l’idea di servizio grazie al brindisi di chiusura. Per emergere dal mare magnum pubblicitario c’è sempre più bisogno di idee, creatività, ironia, autoironia, capacità di rompere gli schemi e di mettersi in gioco. In una parola sola: coraggio, sia da parte dell’agenzia pubblicitaria che studia e produce la campagna, che del cliente che la commissiona e approva. Quando si riesce a coniugare coerentemente tutti questi elementi al prodotto/servizio oggetto della comunicazione, il gioco è fatto.
Cosa dire di un film come Arancia Meccanica, che ancora oggi non solo non pare per nulla invecchiato, ma rappresenta addirittura una fonte di stimoli e visioni iconiche per i creativi di mezzo mondo, a dispetto dei suoi 50 anni? Arancia Meccanica è un capolavoro senza tempo da ogni punto di vista lo si consideri, prova ne sia che è venuto subito e contemporaneamente a tutti noi in mente come fonte di ispirazione. La curiosità legata al film è che è stato trasmesso in tv proprio la sera prima di girare lo spot: lo abbiamo preso come un segno del destino. In ultimo, dott.ssa Antinori, vorremmo che ci parlasse della sua azienda e di come ha affrontato quest’ultimo anno, ma pure questo inizio 2021, contraddistinti dall’emergenza sanitaria della pandemia da Coronavirus. Nell’anno appena passato ci sono state quelle che noi definiamo le “Olimpiadi della delivery” un periodo molto complesso ma anche davvero stimolante per tutte quelle realtà che, come noi, si occupano di consegne a domicilio. Abbiamo quindi preso il testimone e iniziato la nostra corsa ottenendo nel 2020 risultati davvero importanti: grazie alle oltre 750 mila app scaricate abbiamo raggiunto un tasso di penetrazione superiore all’1.2% sulla popolazione italiana, chiudendo l’anno con 7.5 milioni di euro di fatturato, 6 volte quello del 2019. Tutto questo consegnando in meno di 30 minuti, una bottiglia alla volta e bussando alle case degli Italiani con il loro drink preferito pronto da stappare! Per il 2021 ci auguriamo di uscire al più presto da questa situazione, certi che, continuando a dimostrare la validità del nostro servizio, i nostri clienti continueranno a restare al
nostro fianco facendo raggiungere all’azienda risultati ancora migliori. Che altro dire su questo spot? Forse un’ultima cosa c’è, questo geniale spot non solo rappresenta un ottimo esempio di creatività e coraggio da parte dell’azienda che l’ha promosso, Winelivery, e da parte dell’agenzia che lo ha realizzato, H-57, ma sarà l’occasione per molti che lo hanno visto, e penso soprattutto alle nuove generazioni, di riscoprire, grazie ad esso, un capolavoro della cinematografia mondiale come Arancia Meccanica. Un film che già 50 anni fa ha anticipato le tensioni e le inquietudini che percorrevano la società di allora (il film esce negli anni ’70), calandole in un futuro dispotico e violento che assomiglia molto, troppo, al nostro presente. Un destino questo che spetta solo a quei capolavori che diventano a tutti gli effetti dei media franchise o, per dirla in maniera più semplice, patrimonio iconografico dell’umanità.
Andrea Antinori Nata a Sondrio (SO) nel 1988, vissuta un po’ ovunque ma attualmente in pianta stabile a Milano. Dal 2016 è founder di Winelivery, L’App per bere!, dove, in principio si occupa di marketing e comunicazione e attualmente dell’Ufficio Stampa e PR. Grande appassionata di vino e tecnologia supporta l’azienda anche nello sviluppo di idee creative sia per la comunicazione che per la parte digital. Contatto: https://www.linkedin.com/in/andrea-antinori/ Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre. Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter
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