Deliberativa, diretta o partecipativa: quale democrazia per il Movimento 5 stelle?

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Convegno annuale della Società italiana di scienza politica

Firenze, 12-14 settembre 2013

Sezione 4 – Panel 4.3 - Sistema politico italiano

       Deliberativa, diretta o partecipativa: quale democrazia per il
                            Movimento 5 stelle?
                              Antonio Floridia e Rinaldo Vignati

                               (non citare senza il consenso degli autori)

Abstract:

Da più parti – da diversi soggetti politici e sociali e con diverse argomentazioni – la democrazia
rappresentativa è oggi sfidata in tutti i sistemi politici occidentali. In Italia questa sfida negli ultimi
anni si è incarnata in modo particolare nelle proposte del Movimento 5 stelle, il cui leader ha più
volte auspicato un superamento dei partiti e della delega, in favore di un approdo alla democrazia
diretta. Nella visione del Movimento 5 stelle tale approdo sarebbe oggi consentito dalla diffusione
di strumenti informatici che permetterebbero ad ogni cittadino di prendere parte in prima persona
alle decisioni politiche, rendendo quindi inutile l’intermediazione di politici di professione.
A un esame attento delle dichiarazioni e dei documenti del M5S emerge però una pluralità di
riferimenti a concezioni diverse della democrazia.
La relazione intende, in primo luogo, esplorare i legami e le differenze tra l’idea di democrazia
deliberativa, quella di democrazia diretta e quella di democrazia partecipativa. Sulla base di questo
lavoro di chiarificazione concettuale cerca di ricostruire a quale “idea” di democrazia si ispira il
M5S, tanto nelle pratiche effettive che lo caratterizzano, quanto nelle affermazioni di principio che
le accompagnano. In particolare, analizzando le idee istituzionali propugnate dal Movimento, si
potrà valutare come in esse si mescolano, generando più di una contraddizione, tre diverse sfide alla
democrazia rappresentativa: una sfida riformatrice (attraverso il rafforzamento degli strumenti di
democrazia diretta – referendum, petizioni – in un quadro che rimane di natura parlamentare, e anzi
legato a una idea di “centralità del parlamento”), una sfida utopica (il completo superamento della
democrazia rappresentativa attraverso il massiccio uso degli strumenti informatici) e una sfida
plebiscitaria (che si concretizza nell’uso che, fino ad ora, il Movimento ha fatto del web e delle
piazze).

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Premessa

Lo scenario politico di questi anni, segnato dalla crisi economica e dagli effetti della
globalizzazione, si accompagna, sempre più spesso, a una nutrita serie di diagnosi preoccupate sulla
“crisi della democrazia”. Diagnosi, occorre aggiungere, che in molti casi, specie nei discorsi
correnti, appaiono piuttosto vaghe, così come confuse sono anche le terapie che vengono
prospettate. In particolare, non appare ben chiaro quali sono le alternative che veramente si stanno
misurando. Così, a fronte di tendenze che vedono l’affermarsi di moderne forme di “oligarchia”, di
potentati economici o tecno-strutture che sfuggono ad ogni forma di accountability democratica e
che svuotano le sedi “tradizionali” della sovranità, prefigurando un inquietante intreccio tra forme
di dispotismo post-democratico ed una “democrazia acefala” (Tuccari, 2012), sembra che la
risposta, simmetrica, possa essere soltanto quella di un “ritorno al popolo”, o una visione della
democrazia che si appella al recupero di un qualche ruolo diretto ed immediato dei cittadini, al
riscatto di una “sovranità popolare” oggi depredata. E ancora, all’opposto, di fronte ad una lettura
della crisi come crisi di “governabilità”, come impotenza delle istituzioni democratiche ad offrire
risposte “efficaci” e “rapide” alla nuova complessità sociale, la via di fuga sembra poter essere solo
quella di un ulteriore accentramento dei poteri, aggirando regole e procedure, con una sorta di
“illusione decisionista” che sospenda, di fatto, le mediazioni “faticose” e “lente” delle tradizionali
forme della rappresentanza politica.
Sfugge così, a nostro parere, quale sia forse la partita più difficile che si prospetta per “il futuro
della democrazia”: quale interpretazione (e quale concreta traduzione istituzionale) possiamo
immaginare per la democrazia rappresentativa, per quella forma di democrazia, cioè, che rimane
pur sempre l’unico orizzonte possibile entro cui oggi la democrazia (senza aggettivi) può essere
difesa e sviluppata. Così, molte risposte alla “crisi della democrazia” portano alla ricerca di facili
scorciatoie: invece di interrogarsi sulle specifiche risposte che occorre dare a specifici deficit
democratici (ad esempio, come costruire istituzioni democratiche sovra-nazionali; o come costruire
nuove forme di partecipazione dei cittadini ai processi del policy-making; o anche come ripensare il
ruolo dei partiti), si “buttano via” e si svalutano, con una certa faciloneria, concetti e pratiche che, di
una definizione della democrazia, costruiscono pur sempre un caposaldo essenziale: a cominciare
dal concetto di rappresentanza politica.
Il problema serio è che tutto ciò non accade solo nel dibattito accademico o tra gli “addetti ai
lavori”, o in quello giornalistico: accade anche nel “senso comune”, nelle idee correnti che poi
plasmano anche i comportamenti politici ed elettorali. E tutto questo può mettere a serio rischio le
basi di una legittimazione diffusa della democrazia: e sappiamo cosa può accadere quando grandi
masse non sembrano più “credere” nella democrazia.
L’irrompere del Movimento Cinque Stelle sulla scena politica italiana, e le dimensioni con cui ciò è
avvenuto1, possono essere assunti anche come un sintomo di questa fase, insieme confusa e
inquietante, che sembra caratterizzare la stessa percezione della “democrazia”, della sua “crisi” e
delle possibili risposte: nel nostro paese, ovviamente, con particolare acutezza e molte specificità. E
il M5S – che, da un lato, si nutre di questa sfiducia e contribuisce ad alimentarla mentre, dall’altro,
si propone come radicale e utopica risposta a tale sfiducia – può essere visto come un attento
sismografo di questo fenomeno anche da un altro punto di vista: per l’”ideologia” molto composita
che lo caratterizza proprio a proposito della democrazia, delle immagini e delle stesse
“rappresentazioni” che della democrazia vengono proiettate.
Se, per un verso, appare corretto ricordare come la cultura politica che esprime il M5S appare pur
sempre riconducibile ad una matrice definibile, propriamente, come “populista” (Corbetta-
Gualmini, 2013); per altro verso, appare necessario interrogarsi sull’originale impasto di elementi
che ne costituiscono il profilo politico e culturale. Ed una questione decisiva ci sembra quella
dell’idea o del modello di democrazia che hanno in testa non solo Grillo personalmente, o
1
  Sono numerosi gli studi che, prima e dopo le elezioni del febbraio 2013, hanno proposto una lettura del M5s: ci
limitiamo qui a ricordare Corbetta-Gualmini (2013), Bordignon-Ceccarini (2013), Biorcio-Natale (2013)

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Casaleggio, ma anche gli aderenti al Movimento e i suoi “quadri” intermedi, ad iniziare dalla nutrita
pattuglia che il M5S ha eletto in Parlamento.
Nella prima sezione di questo paper, proporremo dapprima alcune sintetiche definizioni che ci
potranno guidare nell’individuazione del modello, o dei modelli, di democrazia che sembrano
ispirare le idee e la prassi del M5S; nella seconda sezione, vedremo come questi “modelli” siano
vissuti e interpretati dal M5S; nella terza parte, ci soffermeremo in particolare sul “pensiero
istituzionale” del movimento.

§ 1. Diretta, partecipativa e deliberativa: tre profili di democrazia.

Nella prassi, nelle dichiarazioni e nelle affermazioni di principio, con cui Grillo e il M5S hanno
avuto modo di definire il proprio modello di democrazia, due aggettivi sono piuttosto ricorrenti:
ovvero un richiamo alla “democrazia diretta” e alla “democrazia partecipativa” (o “partecipata”).
Ma quel che va subito rilevato è che queste due definizioni sono solo in parte sovrapponibili.
Vi è poi un terzo modello (democrazia “deliberativa”) che non è apertamente evocato, ma che da
vari osservatori viene indicato come una possibile fonte di ispirazione.
Senza in alcun modo poter presumere, in questa sede, di fornire una qualche esaustiva definizione
di questi tre “modelli”, alcune precisazioni introduttive ci sembrano necessarie, al solo fine di
individuare meglio il retroterra di cultura politica a cui poter ricondurre l’”ideologia democratica”
del M5S.
“Democrazia diretta” è un termine su cui, naturalmente, non c’è bisogno qui di soffermarsi più di
tanto2: è un’idea di democrazia che evoca immediatamente l’immagine (o meglio, lo stereotipo)
dell’antica agorà ateniese e con cui si indica una qualche forma di esercizio diretto del potere e
della sovranità da parte dei cittadini. Forme di democrazia diretta sono tutte quelle procedure che
implicano l’annullamento di ogni mediazione nell’esercizio del “potere del popolo”: il prototipo,
per eccellenza, è quello fornito dal referendum, ma rientrano in questa tipologia anche altri istituti,
come il recall (la revoca, per via referendaria, di una carica pubblica assegnata ad un eletto), o
anche le procedure di proposta di legge di iniziativa popolare, laddove si affermi l’obbligo che esse
siano sottoposte, ancora una volta, ad un diretto voto popolare. Una democrazia “diretta” trova il
suo termine concettuale opposto nella democrazia “rappresentativa”: e, com’è noto, tutte le teorie
che si appellano alla democrazia “diretta” hanno trovato alimento nella critica al ruolo e alla
funzione della “rappresentanza”, attingendo in particolare alle posizioni di Rousseau.3
In questa visione “direttistica” della democrazia, centrale appare l’idea che ogni forma di
rappresentanza politica conduca inevitabilmente alla separazione, al distacco, degli eletti dal
popolo. E da qui, dunque, le contromisure: quelle che portano ad una visione della rappresentanza
come delega vincolata e funzionale. Una concezione ben presente anche agli albori della moderna
democrazia rappresentativa, ad esempio nel dibattito tra i Founding Fathers della democrazia
americana, e in particolare nelle posizioni delle correnti anti-federaliste (cfr. Manin, 2010).
L’espressione “democrazia partecipativa” è tornata alla ribalta soprattutto con i movimenti new
global dei primi anni Duemila; tuttavia, se vogliamo tornare alle origini, ci dovremmo spostare più
indietro nel tempo, negli Stati Uniti, e negli anni Sessanta del Novecento: è allora che nasce e si
sviluppa un modello di participatory democracy, che trarrà ispirazione dai grandi movimenti
giovanili di quel decennio e, negli USA, in particolare, dalla mobilitazione studentesca contro la
guerra nel Vietnam. Tra i tratti costitutivi di questo modello teorico (che poi troverà una sintesi in

2
  Per una introduzione alle diverse forme e ai diversi istituti della democrazia diretta, con espliciti intenti applicativi,
rimandiamo a V. Beramendi et alii, Direct democracy. The international Idea Handbook, IDEA – International Institute
for democratic and electoral assistance, Stokholm, 2008.
3
  Su partecipazione e rappresentanza in Rousseau, e in generale per una riflessione teorica e normativa sul tema della
democrazia rappresentativa, si veda Urbinati, 2010a. Sulla connessione diretta, in Rousseau, tra “volontà” e
“decisione”, senza alcuna dimensione propriamente deliberativa, cfr. Manin (1987).

                                                             3
alcuni testi: Pateman, 1970; MacPherson, 1977, Barber, 1984) vi era – anche in questo caso - il
rifiuto radicale della rappresentanza, di cui si sottolineavano gli effetti perversi: in particolare,
l’atrofizzazione delle capacità politiche degli individui, gli incentivi all’apatia e alla passività. Come
antidoto a tutto ciò, la participatory democracy esaltava le possibili virtù di una cittadinanza attiva
che doveva e poteva essere educata ed alimentata da forme dirette di empowerment, dall’esercizio
(anche parziale) di una diretta responsabilità di autonomia, autogoverno e autodeterminazione. Al
centro, vi era dunque una visione della democrazia come democrazia locale e comunitaria, fondata
sulla diretta partecipazione del cittadino alla formazione delle scelte collettive e sulla diffidenza e
l’ostilità nei confronti di tutto ciò che appare proprio di un’élite politica, intellettuale o economica,
lontana e prevaricatrice.
La ripresa più recente dei richiami alla “democrazia partecipativa” si produce sull’onda dei
movimenti di critica alla globalizzazione: contro la logica del “pensiero unico”, occorreva attivare
un protagonismo sociale “dal basso” e la “democrazia partecipativa”, in questo senso, diviene lo
strumento attraverso cui si costituisce una nuova soggettività sociale critica ed antagonistica. Torna,
quindi, in forme rinnovate, l’idea di un empowerment delle società locali, oggi contro i processi di
omologazione indotti dalla globalizzazione, e torna l’idea che le comunità locali si possano e
debbano autogovernare, attraverso forme “dirette” di democrazia, e che si debbano in tal modo
riappropriare del proprio destino4.
Tuttavia, a differenza delle visioni che possiamo propriamente ricondurre ad una visione “diretta”
della democrazia, le più recenti elaborazioni di un modello di “democrazia partecipativa” tendono a
proporre una qualche forma di coesistenza o di complementarietà con le istituzioni della democrazia
rappresentativa: le forme e i processi di “democrazia partecipativa”, così, tendono ad essere viste
come quelle in cui i cittadini esercitano una qualche forme di “pressione” (Bobbio-Pomatto, 2007),
o costruiscono una relazione diretta con i processi decisionali propri delle istituzioni attraverso un
loro intervento all’interno di tali processi (Allegretti U., 2010 e 2011).
La “democrazia deliberativa”, infine, è tutt’altra cosa. Si tratta di un termine che solo da qualche
tempo sta entrando in un dibattito politico e culturale più ampio, ma che certo in Italia non è
ancora di uso comune (come comincia ad accadere altrove: ad esempio, il Presidente Obama l’ha
citata in uno dei suoi più famosi discorsi) 5. Questa corrente del pensiero democratico
contemporaneo, che ha vissuto e vive un grande sviluppo, è oramai definibile come un campo
teorico al cui interno convivono e si confrontano anche concezioni e teorie piuttosto diversificate
(Floridia, 2013a): tuttavia, possiamo trovare una possibile definizione unificante, attraverso cui
cogliere il tratto specifico e caratterizzante di questa concezione della democrazia. E il punto
cruciale è quello di una contrapposizione tra una concezione “aggregativa” (ovvero, l’idea che le
preferenze degli individui possano e debbano essere solo “contate”, assunte come “date” e come
espressione “diretta” della loro volontà) e una concezione “trasformativa” e “discorsiva” della
democrazia (ovvero, l’idea che le preferenze degli individui non sono “esogene”, ma possono
formarsi e trasformarsi nel corso stesso di un processo e di una procedura deliberativa). Una
procedura democratica deliberativa si fonda sulla discussione pubblica, sullo scambio di ragioni e
di argomenti, e può ambire ad ottenere un consenso razionale e una soluzione condivisa, o
produrre decisioni migliori; ma può anche limitarsi a circoscrivere le ragioni di un disaccordo o di
un conflitto, a renderlo produttivo, individuando possibili punti di equilibrio e di compromesso. A
partire da questo modello normativo, si sono poi creati, diffusi e sperimentati una gran varietà di
modelli partecipativi6 che a questo ideale regolativo si sono ispirati. Vi sono dunque forme di
4
  In Italia, il testo più ricco e significativo, che meglio riassume questa prospettiva teorica e politica, è quello di
Alberto Magnaghi (2010, prima ed. 2000).
5
  “What the framework of our Constitution can do is organize the way in which we argue about our future. All of its
elaborate machinery –its separation of powers and checks and balances and federalist principles and Bill of Right – are
designed to force us into a conversation, a “deliberative democracy” in which all citizens are required to engage in a
process of testing their ideas against an external reality, persuading others of their point of view, and building shifting
alliances of consent” (Barack Obama, 2006).
6
  Basti qui citare solo uno dei più noti, il Deliberative Poll, ideato da James Fishkin (1991, 2002).

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partecipazione in cui vi può essere una più o meno ampia dimensione deliberativa; ma non tutte le
forme di deliberazione sono “partecipative”, e non tutte le forme di partecipazione sono
deliberative7.
Ebbene, “deliberare” significa, classicamente, soppesare i pro e i contro delle possibili soluzioni ad
un problema collettivo: un processo di formazione discorsiva delle opinioni e dei giudizi politici che
si pone, evidentemente, in radicale antitesi ad ogni concezione immediata della democrazia (in tutte
le sue possibili varianti: plebiscitaria, “diretta”; ma anche “tecnocratica”, laddove si ritiene che non
vi sia spazio per la scelta e il dialogo, che vi siano decisioni “obbligate”, e che dunque bisogna solo
scegliere e affidarsi ai più “competenti”). E nette sono anche le differenze non solo rispetto alla
concezione “classica” della “democrazia partecipativa”, ma anche rispetto alle sue più recenti
versioni, sebbene vi possano essere delle parziali sovrapposizioni (laddove si ritiene che la
“partecipazione” possa e debba assumere forme prevalentemente “deliberative”)8.
A partire da queste definizioni, si può ben comprendere anche come non sia possibile alcuna
immediata identificazione tra “democrazia partecipativa” e “democrazia deliberativa”: la prima si
fonda sull’azione diretta di cittadini che acquisiscono o cercano di esercitare una qualche influenza
sulle decisioni istituzionali; la seconda, invece, punta soprattutto sullo scambio argomentativo e
sulla discussione pubblica che precedono una decisione, e vedono la deliberazione come fase di un
processo di costruzione dialogica e discorsiva di decisioni che spetta comunque alle legittime
istituzioni democratiche assumere.
Ebbene, alla luce di queste sommarie definizioni, cosa possiamo dire dell’”idea” di democrazia che
sembra ispirare la prassi e l’ideologia del M5S?

§ 2. Idee e immagini della democrazia nel M5S: un’ideologia composita

Uno dei tratti che forse maggiormente, e sin dall’inizio hanno caratterizzato la cultura politica del
M5S è il richiamo alla “partecipazione diretta”, quella dei cittadini alla gestione della cosa pubblica
ma anche quella degli stessi aderenti alla definizione e alla gestione dei programmi politici del
Movimento. Vedremo poi alcuni testi e documenti che ci possono meglio far comprendere quale
impasto di idee e suggestioni si nascondano dietro quello che ci sembra lo slogan caratteristico
dell’approccio “grillino” alla democrazia: l’idea che “ognuno vale uno”. Ma, possiamo intanto
chiederci: a quale “aggettivo”, tra quelli che comunemente si affiancano alla “democrazia”, sono
riconducibili le idee e la prassi del M5S?
Come dicevamo, sono due, soprattutto, le qualificazioni della democrazia evocate più
frequentemente nei testi del M5S o nei discorsi di Grillo: “diretta” o “partecipativa”.
Nell’ideologia del M5S, l’immagine dell’agorà viene riattualizzata alla luce delle potenzialità della
nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Di per sé questa suggestione non è una
novità: già negli anni Settanta, come aveva rilevato Sartori9, di fronte alle prime sperimentazioni

7
  “Partecipazione”, come è ben evidente, è termine che “copre” molti possibili fenomeni (per una trattazione esaustiva
rimandiamo a Raniolo 2008): può essere distinta per la sfera in cui si esprime (politica, sociale, economica, ecc.), e per
le forme che assume: idealmente, possiamo collocare tali forme lungo un continuum che vede, da una parte, tutte le
forme di una prassi sociale e politica conflittuale e antagonistica e, all’estremo opposto, tutte le forme di cooperazione
solidale, le forme di auto-organizzazione della società civile attraverso cui gli individui affrontano problemi comuni o
gestiscono beni comuni. In mezzo, tra questi due poli, si può esprimere una ricchissima e variegata serie di possibili
forme ed espressioni di partecipazione: la protesta, la denuncia, l’advocacy, la rivendicazione,…; e vi possono anche
essere, ovviamente, ibridazioni e sovrapposizioni. E all’interno di queste possibili forme ed espressioni partecipative vi
può essere anche, in varia misura, una dimensione deliberativa, ovvero una partecipazione fondata sullo scambio
argomentativo e la ricerca di soluzioni condivise, anche attraverso l’attivazione di meccanismi di apprendimento
collettivo.
8
  Sulla diversa “genealogia” teorica della “democrazia partecipativa” e della “democrazia deliberativa”, e sul rapporto
tra partecipazione, deliberazione e forme del policy-making, ci permettiamo di rinviare ad alcuni recenti lavori (Floridia,
2013b e 2013c)
9
  Il ben noto articolo di Sartori sul “sistema dei comitati” risale a quarant’anni fa (Sartori 1974) e partiva proprio dalla
constatazione che la possibilità tecnologica di consultazioni referendarie quotidiane era di imminente realizzazione

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della televisione via cavo, e alle possibilità di interattività che esse offrivano, avevano ripreso fiato
quelle idee riduttive della democrazia rappresentativa che ne fondavano la legittimità, e ne
spiegavano le stesse origini, sulla base della sola impraticabilità delle forme di democrazia diretta
nelle condizioni di un grande e popoloso stato nazionale. La democrazia rappresentativa come un
ripiego, insomma, che miracolosamente, grazie alle nuove tecnologie che permettono di superare le
barriere del tempo e dello spazio, poteva essere oramai superato, dando nuova linfa all’esercizio
diretto della sovranità popolare.
Certamente, oggi, Internet offre nuove potenzialità, impensabili fino a pochi anni fa: ma il principio
rimane lo stesso, ovvero l’idea che la democrazia “vera” non ha bisogno di mediazioni; e che tutto
ciò che può far “saltare” questi “filtri”, tutto ciò che può favorire l’espressione diretta della
“volontà” dei cittadini, sia da salutare come un passo avanti verso una piena “democrazia
realizzata”. Insomma, una sorta di ideale rousseauiano in salsa tecnologica.
Questa idea di democrazia diretta, nella moderna visione internettiana, presuppone individui
atomizzati che, di fronte allo schermo del computer, “votano” e “decidono”, con scarsissime o nulle
possibilità di scambio dialogico, attraverso una relazione uno-tutti (il commento che viene postato,
su quel che dice il detentore del potere di agenda) o attraverso una molteplicità irrelata di relazioni
binarie (il commento su un altro commento: con scarse possibilità di comprendere, per un terzo, ciò
che i due interlocutori si stanno dicendo).
Il rifiuto della mediazione è centrale nell’ideologia e nello stesso linguaggio del M5S: gli eletti non
sono rappresentanti politici, espressione di una comunanza di idee, valori e interessi, ma portavoce
dei cittadini, i quali “direttamente” danno “direttive” e “istruzioni” agli eletti, li controllano, li
possono revocare, mettere sotto “accusa”, e costantemente richiamare “all’ordine”, ovvero
all’umiltà di chi si deve sentire solo provvisoriamente chiamato a svolgere un ruolo pubblico. Nel
M5S questo approccio, come mostrano i casi di espulsione, si presenta anche con tratti
pesantemente inquisitori: eppure, giustificati (anche da molti aderenti) con la motivazione che le
“regole” vanno rispettate, ovvero che se un eletto mostra una qualche forma di autonomia, questo è
un segno di un’arroganza individualistica, che spezza le regole che una comunità si è data:
un’ideologia comunitarista, insomma, che sanziona la hybris del singolo individuo.
I cittadini sono i “datori di lavoro” dei parlamentari, si legge nel blog di Grillo il 3 marzo 2013, alla
vigilia della prima riunione dei neo-eletti, e il modello che regola il rapporto tra elettori ed eletti
dovrebbe essere piuttosto quello di un contratto.
E da qui, quindi, anche il principio della rotazione delle cariche: se tutti i cittadini in quanto tali
sono, in linea di principio (secondo il dogma di fondo di ogni populismo) capaci di esercitare
funzioni di governo (e se queste funzioni – in fondo – non sono poi così complicate: basta studiare i
problemi, discuterne e risolverli, contro ogni idea di “complessità sociale”) -, allora è un principio
democratico basilare quello del “ricambio” costante, di un perenne turn over, anche a fini
“pedagogici”, onde evitare che il possesso prolungato di una carica esponga al rischio della
“corruzione” morale. E si inscrivono in questa logica anche altre proposte di matrice “direttistica”
che il M5S evoca nei suoi programmi: l’iniziativa legislativa popolare, il referendum senza quorum,
o il richiamo all’istituto del recall, ovvero la revocabilità degli eletti tramite referendum10.

(“tornando a casa potremmo sedere ogni sera davanti a un video che pone i quesiti ai quali rispondiamo sì e no
semplicemente premendo due tasti”, Sartori 1974, 39): tale scenario, per Sartori, non rappresentava però la piena
realizzazione della democrazia – come ingenuamente pensano Grillo e Casaleggio – ma una fonte di problemi (“il
referendum non è un buon metodo di risoluzione dei conflitti [poiché] lascia le minoranze ‘intense’ e/o informate alla
mercé di maggioranze mobilitabili che sono tali in quanto punto o malissimo informate” (ibidem, 38).
10
    Il recall fu uno degli istituti proposti e introdotti negli Stati Uniti dai forti movimenti populistici che si svilupparono
nel corso della Progressive Era, ovvero in quel periodo della storia politica americana che va dall’ultimo decennio
dell’Ottocento alla Prima Guerra mondiale (Calise, 1989; Testi, 2008; Bergamini, 2002; Melchionda, 2005). In
particolare, in quegli anni, a fronte dell’invadenza dei boss e delle party machines e alle degenerazioni dello spoils
system, si produsse una reazione che promosse, e in parte riuscì ad introdurre nella pratica istituzionale americana,
alcune rilevanti innovazioni: le primarie aperte, ma poi anche varie forme di democrazia diretta, i referendum ed altri
istituti, come appunto quello del recall, (su cui, cfr. Ronchi, 2009). Da segnalare il giudizio che, su questo istituto, ha

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Come abbiamo detto, altrettanto frequente nel discorso del M5S è poi il richiamo alla “democrazia
partecipativa”: si tratta di un’evocazione significativa, che ci può suggerire anche alcuni elementi di
una possibile “genealogia” dell’approccio “grillino” alla democrazia. Ma con alcuni caveat teorici
e terminologici.
Possiamo dire che, rispetto alla definizione e alle varie versioni della “democrazia partecipativa”
che abbiamo sopra richiamato, il canale attraverso cui questo richiamo è entrato nella cultura
politica del M5S può essere individuato nelle molte reti locali di attivismo civico che nell’ultimo
decennio sono nate intorno alla contestazione delle scelte sulle grandi opere infrastrutturali o sui
grandi impianti di trattamento dei rifiuti, o che si sono sviluppate intorno al tema dell’acqua come
bene comune, o intorno ad iniziative che si ispirano al filone del consumerismo, ossia ad una cultura
critica del consumo. Si può comprendere così come, negli stessi programmi amministrativi del
M5S, sia frequente il richiamo ad un particolare istituto partecipativo, il Bilancio Partecipativo,
ideato nella città brasiliana di Porto Alegre nella seconda metà degli Anni Novanta, che della nuova
“democrazia partecipativa” rappresenta per molti versi l’emblema. Le reti locali che si sono
costruite attorno a questi temi ci sembra che costituiscano, in molti casi, l’humus su cui si sono
coagulati i primi nuclei del M5S e su cui lo stesso Grillo, nella prima fase delle sue campagne, ha
molto insistito. Sono temi e ispirazioni che possiamo ben cogliere anche nella biografia politica di
molti militanti ed eletti del M5S: espressioni di un diffuso tessuto associativo che ha trovato, grazie
al M5S, un canale di accesso alle istituzioni e un canale di mobilitazione e partecipazione politica.
Sono dunque due gli assi su cui si muove la particolare “ideologia democratica” del M5S:
     a) una certa visione della democrazia “diretta”, alimentata (soprattutto nelle idee di
        Casaleggio) da una variegata letteratura sulla teoria dei network e da una sorta di
        propensione futurologica del personaggio: recentemente, lo stesso Casaleggio ha fornito una
        sorta di bibliografia sulle sue fonti, che ci pare comprenda autori e testi di qualità scientifica
        e intellettuale piuttosto diseguale, ma il cui tratto unificante può forse può essere individuato
        in una visione del cambiamento sociale indotto e guidato dalle nuove tecnologie della
        comunicazione, costruito attraverso reti orizzontali in grado di annullare gerarchie e
        mediazioni e attraverso fenomeni sistemici “emergenti” che nascono da mutamenti
        molecolari dei comportamenti individuali11.

recentemente formulato Augusto Barbera, proprio in un’intervista dedicata al M5S: “D: Quanto alla possibilità di
sfiduciare i parlamentari attraverso referendum locali?” R: “Immagino che Casaleggio si riferisca all'istituto del recall.
Che ha dato pessima prova in alcuni Stati degli Usa. L'unico Paese nel quale ha funzionato è l'Urss, con le teorie
marxiste della democrazia diretta, reinterpretate da Lenin” (Corriere della Sera, 24 giugno 2013).
11
   Nella sua intervista a “La lettura”(“Corriere della Sera” del 23 giugno 2013), Casaleggio si limita a fornire un elenco
di nomi e di titoli (alcuni dei quali già presenti in un precedente volume dello stesso autore – Casaleggio 2004). E’
utile, quindi, una sommaria indagine su questi autori: Steven Johnson, con il suo libro del 2001 Emergence. The
connected lives of Ants, Brains, Cities, and Software. Johnson è definito da Wikipedia “an American popular science
and media theorist”; il tema del suo libro, fortemente segnato da un approccio biologistico che gli permette di passare
dall’organizzazione sociale delle formiche alla realtà del web, è quello dell’”emergenza”, definita come la capacità
degli organismi di più basso livello di produrre meccanismi di autoorganizzazione sempre più complessi e sofisticati; b)
Duncan Watts, con il suo libro Six Degrees. The Science of a Connected Age (2004). Watts, laureato in fisica e già
professore di sociologia alla Columbia, lavora oggi al centro di ricerca della Microsoft; al centro del suo lavoro la teoria
dei network; c) lo scrittore e blogger Howard Rheingold, autore di Smart Mobs: The Next Social Revolution (2002): una
“smart mob”, a differenza di una “folla” come solitamente intesa, è un gruppo che si comporta in modo intelligente ed
efficiente grazie alla crescita esponenziale dei link del proprio network comunicativo, mettendosi in grado di connettere
volumi sempre maggiori di informazioni e costruendo così, nello stesso tempo, nuove forme di azione e di
coordinamento sociale; d) il giornalista canadese Malcolm Gladwell, con il suo libro The Tipping Point: How Little
Things Can Make a Big Difference (2000), un testo in cui si analizzano i meccanismi “incrementali” dei cambiamenti in
tutti gli aspetti della vita sociale, individuandone tre particolari “agenti”: gli individui che agiscono come “connettori”
(coloro che hanno una particolare abilità nel mettere in comunicazione mondi sociali lontani), gli “agenti di mercato”
(coloro che possiedono e sanno gestire le informazioni) e i “venditori” (coloro che hanno particolare abilità persuasive e
carismatiche nel convincere gli altri); Lawrence Lessig, giurista statunitense, direttore della Edmond J. Safra
Foundation Center for Ethics dell'Università di Harvard, fondatore dello Stanford Center for Internet and Society,
fondatore e amministratore della ONG Creative Commons: il suo libro Free Culture (2004) è un testo in cui si
affrontano i temi della proprietà intellettuale e del software libero; Albert-Laszlo Barabasi, con il suo libro Linked. The

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b) alcune suggestioni che provengono da più recenti pratiche ed elaborazioni sulla “democrazia
       partecipativa”, che hanno trovato ispirazione ed espressione in alcuni movimenti degli anni
       Duemila.

Nell’uno e nell’altro caso, un punto di contatto può essere individuato in una sorta di “ideologia del
cittadino comune”, oppresso da élite politiche, economiche e scientifico-tecnocratiche, chiamato al
riscatto in nome di una riappropriazione diretta del proprio potere (resa oggi possibile anche dalla
rivoluzione delle ICT). In questo senso, l’ideologia del M5S può essere comunque definita
“populista”, appartiene alla “famiglia” dei populismi, soprattutto per una concezione che fa da
trama sottesa all’intera sua elaborazione politica: ovvero, una concezione “dicotomica” della
società, che vede da una parte un corpo indistinto di “governanti” e dall’altra un altrettanto
indistinto corpo di “cittadini” – laddove, va da sé, si tratta di una rappresentazione del tutto
immaginaria della realtà, segnata da fratture e tensioni dentro il mondo della politica e delle
istituzioni, ma anche e nondimeno da identità plurime e contraddittorie degli stessi “cittadini”,
portatori di interessi tra loro contrastanti e conflittuali (un aspetto, questo, che viene del tutto
oscurato dalla “narrazione” grillina).
Questa ibridazione, tuttavia, si produce all’interno di una cultura politica che può essere anche letta
e interpretata anche alla luce di altre categorie teoriche. In particolare, ci sembra utile quella
proposta da Rosanvallon (2008), la contro-democrazia: nel momento in cui la politica entra
“nell’era della sfiducia” (questo il sotto-titolo del lavoro dello studioso francese), ai “cittadini”
rimane solo un potere negativo, fatto di controllo, sorveglianza e punizione nei confronti dei
governanti. E i cittadini possono essere solo giudici del potere, non attori politici che contribuiscono
democraticamente alla sua costruzione12. La famosa metafora dell’”apriscatole”, proposta da Grillo,
in fondo, risponde a questa logica: andremo in Parlamento per smascherarli, per denunciare le loro
malefatte (e non per “governare”, men che meno insieme agli “altri”).
E’ una visione “impolitica” della democrazia, che può evocare anche altre lontane ascendenze: la
polemica contro i “partiti” è un altro tassello di questa visione di una democrazia senza mediazioni.
I partiti, in questa ottica, sono intrinsecamente “fazioni”, e non soggetti che propongono una
propria visione del “bene comune” e cercano di affermarla nel confronto con altre visioni di tale
“bene”. E i “cittadini”, in quanto tali, non hanno alcun bisogno di questi “filtri”: tra la loro
“volontà” e la “decisione” vi può essere un circuito diretto e immediato di connessioni. La stessa
selezione della leadership, in questo quadro, avviene al di fuori di una qualsiasi logica in cui entrino
in gioco le idee e le visioni politiche, o le immagini dei diversi progetti di società che si
confrontano: nell’epoca della “democrazia digitale”, ha affermato recentemente Casaleggio,

“la selezione deve essere fatta “dal basso”, dai cittadini, che propongono le persone più adatte e di cui
conoscono la storia e le competenze. Va considerato che il concetto di leadership è estraneo alla democrazia
diretta. I movimenti di democrazia diretta rifiutano il concetto di leader”13 (corsivo nostro).

Come si vede, un’ideologia che affida il ruolo di motore della storia al cambiamento tecnologico
non può che avere un preciso pendant: il governo dei sapienti e dei competenti, con una democrazia
ridotta alla selezione dei più “adatti”, dei più “capaci” e “affidabili” (e non di coloro che esprimono
e rappresentano le nostre idee).
Nel pensiero di Grillo e Casaleggio, peraltro, è ricorrente una contraddizione rispetto agli “esperti”.
Da un lato, è infatti costante il richiamo agli “esperti” (“i maggiori esperti del mondo…”) per

New Science of Network (2002): fisico di origini ungheresi, professore presso l'università di Notre Dame e direttore del
CCNR (Center for Complex Network Research) alla Northeastern University. Come si può notare, peraltro, - ad
eccezione del giurista Lessig – si tratta soprattutto di studiosi di formazione scientifica (fisici, in particolare) che
tendono ad “estendere” il paradigma epistemologico del network ai fenomeni del cambiamento sociale.
12
   Per una critica delle tesi di Rosanvallon, cfr. Urbinati, 2010.
13
   “La democrazia va rifondata”, intervista a G. Casaleggio, a cura di S. Danna, “La lettura”, Il Corriere della sera, 23
giugno 2013:

                                                           8
avallare le proposte avanzate dal blog, e la contrapposizione dell’expertise all’incompetenza dei
parlamentari eletti, finendo quindi per sposare implicitamente un superamento tecnocratico della
democrazia rappresentativa.
Dall’altro, però, non è rara una presa di distanza dagli esperti (che diventano “i cosiddetti esperti”)
quando queste si discostano dalle posizioni dello stesso Grillo – il quale, in materia scientifica, ad
esempio in campo medico, ha spesso sposato posizioni eterodosse o marginali, denunciando le
posizioni predominanti come succubi dei grandi interessi economici: in questi casi viene invocata
una democrazia diretta basata sul web che “prende decisioni in tempo reale senza delegarle ai
cosiddetti esperti” (Siamo in guerra, p. 172).
Se questo è il quadro teorico – sommariamente delineato - dentro cui possiamo cercare di
comprendere la “narrazione” del M5S, il nostro discorso non sarebbe completo se non rivolgessimo
la nostra attenzione anche ad un’altra concezione della democrazia che pure, a proposito del M5S, è
stata richiamata: la democrazia deliberativa.
E su questo punto occorre essere molto netti: una concezione “deliberativa” della democrazia
appare radicalmente estranea al M5S, un movimento che nella sua “ideologia” si ispira al alcuni
classici topoi della democrazia “diretta” o ad alcuni tratti di una più recente visione “partecipativa”
della democrazia; ma che poi, soprattutto, nella sua prassi, vede all’opera tratti molto profondi di
“plebiscitarismo”. Non è certo “deliberativo”, ad esempio, il rapporto tra il leader e la folla, che
abbiamo visto all’opera nei grandi comizi tenutisi durante la campagna elettorale; e certo non
presenta alcun tratto di scambio razionale e argomentativo lo stile leaderistico con cui Grillo lancia i
suoi diktat, o impone certi comportamenti ai gruppi parlamentari. Ma, soprattutto, non è
“deliberativo” l’uso della Rete e del blog: anzi, proprio assumendo le possibili diverse concezioni
della E-democracy (Lusoli, 2007), ovvero “deliberativa”, “comunitaristica” o “direttistica”, se la
prassi del M5S presenta alcuni tratti di tipo “comunitaristico” (soprattutto nei meet-up locali) 14, è
soprattutto alla versione “plebiscitaria” che si ispira concretamente l’uso della Rete da parte di
Grillo: un uso unidirezionale, in cui “uno” comunica e gli altri di fatto “commentano” soltanto.
Centinaia di “post” sui quali, al massimo, e casualmente, si può cliccare sul pulsante “mi
piace”…una discussione frammentata, atomizzata, l’opposto di una qualsiasi discussione razionale
e argomentata. E non sembra nemmeno propriamente “deliberativa” la prassi che conduce ad
impedire che una discussione sulle scelte del Movimento possa avvenire pubblicamente, attraverso i
molteplici possibili canali attraverso cui si forma una sfera pubblica (a dispetto della retorica dello
streaming: che semmai vale come controllo occhiuto sui propri eletti, quando si entra in contatto
con gli altri e si rischia di restarne contaminati…).
Se questo è il quadro teorico generale che occorre tener presente, è possibile tuttavia anche
distinguere tra una concezione deliberativa della democrazia, in generale, e le tecniche o le
metodologie di tipo deliberativo che a tale visione si ispirano e che possono essere assunte come
modello nella costruzione di singoli processi decisionali. Detto questo e chiarito questo possibile
punto di equivoco, si può anche dire che, su scala locale, nel concreto strutturarsi dei processi
decisionali attraverso cui i nuclei di attivisti e militanti definiscono le proprie posizioni, è possibile
individuare un’eco delle metodologie di discussione di ispirazione deliberativa, soprattutto quando
si tenta di giungere a soluzioni condivise attraverso la discussione e il dialogo e, solo in ultima
istanza, attraverso il voto. Questo dato ci riporta ad una delle matrici che, come abbiamo ricordato
sopra, caratterizza la cultura politica di molti “quadri” locali del M5S e le esperienze politiche da
cui provengono, ossia quel fiume carsico che muove dai movimenti “per una globalizzazione dal
basso” dei primi anni Duemila. Movimenti e associazioni (cfr. Della Porta, 2005), che hanno in
effetti sperimentato in qualche caso, al proprio interno, procedure di tipo deliberativo: definibili
come tali nella misura si strutturano per via “consensuale”; ovvero, attraverso una discussione (dai
tempi tendenzialmente indefiniti), che si conclude solo quando si raggiunge un accordo o comunque
si profila una soluzione su cui nessuno pone apertamente un qualche veto. Ma si tratta solo di una

14
     Si veda, ad esempio, la descrizione del modo di operare dei meet-up in Greblo (2011, pp. 70-81) e in Milic (2008).

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parziale sovrapposizione, tra questa matrice di cultura politica e le pratiche e i modelli sostenuti dal
M5S: le metodologie deliberative, in particolare, non prevedono il ricorso al voto, se non come
extrema ratio; mentre l’”ideologia democratica” del M5S, al contrario, indulge molto alle
suggestioni di una democrazia “diretta” in cui il voto attraverso il web può giocare un grande ruolo
e, al contrario, la dimensione dello scambio dialogico è pressoché assente o del tutto subordinata.
Democrazia “diretta” e “partecipativa”, dunque, non sono evocazioni strumentali: nella prassi e
nell’ideologia del M5S rappresentano effettivamente termini e modelli che corrispondono ad una
cultura politica che ha ispirato le genesi di questo movimento e ne caratterizza la cultura politica15.
Eppure, evidentemente, il M5S non è riducibile solo ad una tale ispirazione: nel M5S, fino ad oggi,
hanno convissuto, da un lato, pratiche politiche locali ispirate ad una tale visione “partecipativa”
della democrazia e, dall’altro, una presenza politica e mediatica accentrata, che evoca al contrario
un modello plebiscitario di democrazia; ovvero, un’idea di democrazia che si fonda sul rapporto
diretto e immediato tra il leader e la folla, e sulla capacità empatica del Capo di farsi interprete dello
“spirito del popolo”, di farsene esso stesso espressione, di “presentare” (e non “rappresentare”
politicamente) sulla scena pubblica le sue aspirazioni, di esprimerne i risentimenti e di riscattarne e
vendicarne le sofferenze (ed in questo, crediamo, sia da individuare il tratto più profondo di una
concezione populistica della politica; non l’espressione di una qualche forma di anti-politica).

§. 3 Il pensiero istituzionale di Grillo e Casaleggio

     Proprio perché composita è la matrice di cultura politica che ne ispira i comportamenti, non è
facile definire la posizione istituzionale di Grillo e del M5S. Nei suoi spettacoli, comizi, libri o post
sul blog, Grillo ha spesso espresso opinioni sul sistema democratico e/o sull’architettura
costituzionale del nostro paese. Ma, a lungo, Grillo è stato reputato un “clown” che non meritava di
essere preso seriamente. I suoi discorsi sono quindi stati relegati tra la retorica propagandistica e
non sono mai stati considerati come proposte politiche a cui dedicare analisi approfondite. Ci pare,
però, che leggere con attenzione questi discorsi possa aiutare a comprendere la natura di una delle
sfide alla democrazia rappresentativa più efficaci tra quelle che si sono affacciate sul panorama
europeo nel corso degli ultimi decenni. E aiuti a comprendere il sostrato culturale che ha favorito la
sua nascita e il suo sviluppo.
     Naturalmente, l’analisi deve essere condotta con molta cautela, dato che la prevalente finalità
propagandistica di questi discorsi fa sì che essi contengano elementi spesso contradditori che
rendono difficile una loro sistematizzazione. Partiamo proprio dalla vaghezza del “programma”
istituzionale del M5S. Grillo usa spesso alcune parole d’ordine “evocative” (“democrazia diretta”,
“partecipazione”, “uno vale uno”, ecc.) ma tutte queste parole rimangono avvolte da un alone di
indeterminatezza, senza un contenuto chiaro e univoco. Un esempio evidente è il sistema elettorale,
tema cardine di qualsiasi discorso sull’architettura istituzionale italiana e della sua riforma. Grillo
ha spesso urlato la sua opposizione all’attuale legge elettorale, facendo di questo una delle battaglie
più identificanti di una fase del suo movimento, ma non ha mai detto una parola precisa su quale
sistema elettorale preferisse (e perché) 16.
     Da buon “demagogo” e leader populista Grillo sa bene dove tira il vento (la rabbia verso i
politici e i costi della politica, ecc.) e sa stuzzicare gli istinti che attendono di essere stuzzicati. Le
prese di posizione di Grillo sono spesso semplicistiche (come nell’attacco rivolto all’articolo 67
della costituzione italiana che proibisce qualsiasi mandato imperativo), volgari e talvolta in esplicito
contrasto con l’idea della “democrazia dei moderni”, ma sono costruiti su una robusta base di senso
comune consolidatasi nel corso dell’ultimo ventennio. La nascita e la crescita del M5S avvengono
sostanzialmente in contemporanea col successo enorme del libro La casta, che descriveva in termini
molto critici il cattivo uso del denaro pubblico dei partiti. Questa coincidenza temporale è indicativa

15
   Sull’ambiguità del richiamo alla “democrazia partecipativa” nel M5S, si sofferma Greblo (2011, pp. 103 e ss.).
16
   Le cronache politiche del mese di agosto 2013, da ultimo, ci consegnano una certa confusione in materia: con Grillo
stesso che sembra voler “salvare” il Porcellum e rimandare la sua riforma al momento in cui il M5S potrà governare.

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di un clima d’opinione composito che il M5S ha saputo sfruttare politicamente facendosene
imprenditore. Occorre riconoscere, d’altra parte, nel momento in cui si sottolinea la distanza di certe
prese di posizione dai principi della democrazia rappresentativa, che esse hanno anche trovato un
terreno fertile che ne hanno alimentato la plausibilità: la libertà dal mandato imperativo è, in effetti,
uno dei principi fondamentali della democrazia come viene intesa dai moderni, ma in Italia nel
corso degli ultimi anni è stata spesso usata per le pratiche trasformistiche più disinvolte17.
    Non è dunque facile separare la mera propaganda e i reali contenuti della concezione della
democrazia di Grillo. Il fulcro del suo “pensiero costituzionale” è la nozione di “democrazia
diretta”. Una nozione di per sé non priva di ambiguità e che Grillo carica di contenuti assai
diversificati e persino contraddittori. Nel pensiero di Grillo18, la democrazia diretta è oggi resa
possibile dalla vasta diffusione della Rete, che porta con sé dei processi di “disintermediazione” in
ogni campo dell’agire umano, dalla politica, al giornalismo, all’economia.

“Il temine democrazia diretta descrive un nuovo rapporto tra i cittadini ed i loro rappresentanti,
un’evoluzione del sistema democratico più che un suo superamento. La democrazia attuale opera sul
principio della delega, non di partecipazione diretta: con il voto si esaurisce il rapporto degli elettori con i
candidati e con le scelte che verranno da questi attuate. Si vota senza essere informati, per abitudine, per
simpatia. …La Rete ridefinisce il rapporto tra cittadino e politica consentendo l’accesso all’informazione in
tempo reale su un qualsiasi fatto, ed il controllo sui processi attivati dal governo centrale o locale. La
democrazia diretta introduce la centralità del cittadino” (G. Casaleggio, Web ergo sum, pp. 23-25).

    Sotto questo aspetto, le prese di posizione di Grillo e Casaleggio sfociano facilmente in un
utopismo naïf, che mai – o quasi mai – considera i possibili pericoli per la democrazia che possono
nascere dalla Rete (pericoli su cui hanno riflettuto teorici quali Morozov 2011; Rodotà 2004;
Formenti 2008) 19.
    Questa idea radicale di democrazia diretta, nel quale ogni tipo di intermediazione tra i cittadini e
le istituzioni scompare, è l’orizzonte finale della proposta politica di Grillo. Una volta raggiunto
questo orizzonte, persino il M5S, strumento di un inevitabile processo storico, è destinato a
scomparire.
    Indicato questo orizzonte, l’osservazione più ravvicinata della storia del M5S evidenzia due tipi
di contraddizioni. Una tra i discorsi che hanno preceduto e poi seguito l’entrata in parlamento.
L’altra tra la propaganda del partito e i modi in cui Grillo e Casaleggio hanno esercitato la loro
leadership. I due leader, infatti, parlano della rivoluzione della rete, considerano la rete quale
strumento di democrazia diretta, ma fino ad ora l’hanno utilizzata come strumento plebiscitario.
L’hanno cioè utilizzata per “atomizzare” gli aderenti al partito, evitando che si formassero e
consolidassero gruppi o fazioni al loro interno. Sino ad ora non hanno mai provato a usare (a parte
qualche caso locale) le potenzialità della Rete come strumento deliberativo (attraverso strumenti
quali Liquid feedback o altri software). Da questo punto di vista, un documento pubblicato da alcuni

17
   Le ricerche di L. Verzichelli (si veda, ad esempio, Cambiare casacca, o della fluidità parlamentare, in “Il mulino”, n.
388, XLIX, 2000, pp. 273-284) hanno dettagliatamente documentato la frequenza e la disinvoltura con cui i
parlamentari, nel corso delle ultime legislature, hanno cambiato gruppo di appartenenza.
18
   Quando parliamo del pensiero di Grillo, ci riferiamo anche alle idee di Gianroberto Casaleggio.
19
   Solo recentemente Grillo e Casaleggio hanno iniziato a riconoscere alcuni possibili pericoli insiti nella Rete e alcune
difficoltà a tradurre in pratica le speranze di radicale cambiamento della politica attraverso la rete. Se nell’intervista
rilasciata al “Corriere della sera – La Lettura” (23 giugno 2013), Casaleggio riconosce che “gli effetti di internet sulla
società” “possono essere positivi ma anche negativi”: “la Rete rende possibili due estremi: la democrazia diretta con la
partecipazione collettiva e l’accesso a un’informazione non mediata oppure una neo-dittatura orwelliana in cui si crede
di conoscere la verità e di essere liberi, mentre si ubbidisce inconsapevolmente a regole dettate da un’organizzazione
superiore”. Più prosaicamente, Grillo, prendendosela con i “troll” che infestano il blog, avrebbe messo in luce come, sul
piano pratico, la traduzione dei principi di rinnovamento debba affrontare difficoltà che li possono snaturare.
L’annullamento della prima votazione delle “Quirinarie”, per motivi non meglio precisati, è indicativa dello stesso
genere di difficoltà.

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attivisti del M5S laziale fornisce una interessante elaborazione dello stato critico della democrazia
interna al movimento:

“al momento gli eletti del M5S non hanno modo di consultare o interagire in modo efficace con I cittadini e
con gli iscritti al M5S. Inoltre le decisioni interne dei vari movimenti locali non vengono prese
democraticamente se non in rari casi… Il movimento si è fino ad ora trascinato in un limbo in cui non è né
gerarchico, né democratico: praticamente il far west”.

    Riguardo alla costituzione italiana, Grillo ha spesso insistito in una sorta di “culto”. Nel suo
armamentario retorico si può spesso trovare l’idea (tipica, a lungo, di alcune componenti della
sinistra) della costituzione “tradita” dai partiti politici (sia di destra che di sinistra) 20. Questo culto
della costituzione è frequentemente legato alla celebrazione di alcune figure del passato (Pertini,
Berlinguer, etc.), indicate quali esempi di virtù – onestà, dedizione, capacità di essere in sintonia col
popolo – scomparse nel ceto politico odierno 21.
    D’altra parte, lo stesso Grillo non ha esitato ad assumere posizioni di radicale riforma.
    Un primo tema che aiuta a illuminare il pensiero di Grillo nel campo istituzionale è la relazione
tra il governo e il parlamento. Su questo tema le dichiarazioni fatte dopo l’ingresso del M5S in
parlamento coincidono con le prese di posizioni avanzate in precedenza. Molte volte, Grillo ha
citato il Belgio – che, come noto, rimase per mesi senza un governo nel pieno dei poteri – come un
esempio positivo:

“il Belgio è stato per mesi senza governo, ma la sua economia è migliorata e il suo Pil è cresciuto: un caso
evidente di autogoverno di successo dei cittadini, non mediato dai partiti” (Casaleggio & Grillo 2012, 127).

    Nel suo spettacolo Incantesimi Grillo riduce il governo a un ruolo di natura puramente
“esecutiva”. A suo parere, il governo non è il vertice e la guida di una maggioranza parlamentare,
ma solo il vertice della burocrazia dello stato. Il suo principale compito non è dunque di proporre
leggi che il parlamento dovrà poi approvare, ma di controllare il funzionamento
dell’amministrazione dello stato. Un chiaro esempio di questa posizione si trova nella dichiarazione
(28 marzo) che spiegava il rifiuto di aderire alla proposta del PD di formare un “governo di
cambiamento”):

“Se l'Italia è senza governo (in realtà è in carica il governo Monti) ha però un Parlamento che può già
operare per cambiare il Paese. Non è necessario un governo per una nuova legge elettorale o per avviare
misure urgenti per le PMI o per i tagli delle Province. Il Parlamento le può discutere e approvare se solo
volesse sin da domani. Si fa passare l'idea che senza Governo il Paese è immobile, congelato, in balia dello
spread, delle agenzie, ma si tace sul fatto che le leggi per le riforme possono essere discusse e approvate
senza la necessità di un governo in carica”.

    Questa posizione contrasta in modo radicale con le idee che hanno ispirato i principali tentativi
di riforma istituzionale degli ultimi due decenni (basati sull’idea di un rafforzamento del governo).
Si può dunque dire che Grillo faccia propria una versione estremizzata di quel principio della
“centralità del parlamento” che ha costituito una delle più influenti interpretazioni della costituzione

20
   Soprattutto nel corso degli anni Cinquanta, l’argomento della “costituzione tradita” o “incompiuta” è stato molto
presente nelle posizioni del Pci.
21
   www.beppegrillo.it, A riveder le stelle, p. 17. Nello spettacolo registrato nel dvd Beppegrillo.it, Grillo elogia la
semplicità e la comprensibilità della costituzione italiana, mettendo ad esempio a confronto la semplicità e la chiarezza
dell’articolo 70 con la confusione della revisione dello stesso articolo proposta dal centro-destra nel 2005. L’ideologia
di Grillo (non solo nell’ambito istituzionale) è un curioso mix tra modernismo senza freni (l’enfasi sull’innovazione
tecnologica, la Rete) e nostalgia per le virtù del passato. Questa nostalgia è un tratto tipico di molti partiti populisti che
in tal modo individuano una sorta di età dell’oro da contrapporre al presente.

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