Diritti umani di un altro mondo: il potere della parola

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Diritti umani di un altro mondo: il potere della parola
UNIVERSITÀ
DEGLI STUDI
DI BERGAMO
FACOLTÀ DI SCIENZE UMANISTICHE

Master I livello
“Diritti dell’uomo ed etica della cooperazione internazionale”
Classe n.

Diritti umani di un
altro mondo: il
potere della parola

Relatore Prof.ssa Stefania Gandolfi
Prova finale di Alessandra Delli Quadri
                    NOME                   COGNOME

Matricola n. 56746

ANNO
ACCADEMICO
2006/2007
Diritti umani di un altro mondo: il potere della parola
A Rosa Maria

2
INVOCACION MAYA

                   Gran Creador, Tú nos formaste, Corazón del cielo,
Corazón de la Tierra: Te damos gracias por habernos creado Dios del Trueno, Dios de la
                                          lluvia:

     Desde la salida del sol buscamos la paz en el mundo entero. Que haya libertad,
 tranquilidad, salud para todos tus hijos que viven en el Este, donde el sol se levanta. Te
  pedimos también, a la puesta del sol, hacia el Oeste, que todo sufrimiento, toda pena,
                       todo rencor terminen, como el día termina.

Que tu luz ilumine los pensamientos, las vidas de los que lloran, de los que sufren, de los
                      que están oprimidos, de los que no han oído.

 Rogamos hacia el Sur, donde el Corazón del Mar purifica toda corrupción, enfermedad,
                                        pestilencia.

                        Danos fortaleza, para que nuestras voces
                      lleguen a tu corazón, a tus manos y a tus pies.

      Nos postramos delante de Ti con nuestras ofrendas, invocándote día y noche.

Rogamos hacia el Norte, desde los cuatro puntos cardinales de este mundo, confiando en
     que El Corazón del Viento llevará hasta tus oídos la voz, el clamor de tus hijos.

 Oh Gran Creador, Corazón del Cielo, Corazón de la Tierra, nuestra madre:Danos vida,
mucha vida y una existencia útil, para que nuestros pueblos encuentren la paz en todas las
                                   naciones del mundo.

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INDICE

Introduzione: l’uomo al centro dell’universo, il centro dell’universo in ognuno degli
uomini, in ogni frutto che germoglia, in ogni istante del tempo, in ogni posto della terra.
Parole per ricreare il filo rotto della vita, sanare la dignitá violata, recuperare la nostra
pienezza.

   1) la parola al potere

            1.1 la parola del potere: l’ordinamento giuridico nazionale in rapporto al diritto
                maya
            1.2 un’analisi etnolinguistica: centralità della cosmovisione
            1.3 il potere della parola: diritto maya

   2) la parola al cambiamento

            2.1 un’altra lingua, un’altra cultura, un altro diritto
            2.2 ufficializzazione delle lingue maya
            2.3 educazione, etnicità e diritto alla lingua

Conclusione: necessitá di trasformare il concetto di “diritti umani”, di ri-apprenderlo,
approfondirlo alla luce di altre culture. Riconoscere e garantire i diritti umani in quanto
“parola”.

Fonti e Bibliografia

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INTRODUZIONE

Parlo con il professore col quale sto collaborando per il mio tirocinio perché vorrei sapere
come si dice “parola” nella sua lingua, il kaqchikel. Lui mi chiede se lo parlo e poiché, in
realtà, tra le venti lingue maya quelle che mastico un po’ sono k’iché, tz’utijil e q’eqchi’,
mi consiglia di incontrare qualcuno che parli quelle lingue, per evitare di confondermi le
idee e per avere dei riscontri più precisi.
Quando entro dalla porta trionfale, cornice dell’edificio coloniale che corona l’Accademia
di Lingue Maya, non ho la minima idea di cosa chiederò alle persone che incontrerò, sono
confusa perché vorrei che la mia ricerca partisse dal termine “parola”, che mi ha già
accompagnata anche per la stesura della mia amata tesi di laurea, ma allo stesso tempo non
so parola di chi, per dire cosa…
Poi mi ritrovo davanti José e Rosa Maria: comincio a parlare, racconto la mia storia, le
parole che escono dalla mia bocca si fermano a spiegare il fascino che provo per le lingue,
per la possibilità di comunicare, per l’infinita potenzialità di cambiamento insita nelle
parole, nel loro modo di usarle, nella loro potenza. Come se qualcosa mi spingesse a non
andare oltre, a non approfondire, lascio che dai miei puntini di sospensione sorgano le loro
parole, attraverso le loro lingue, k’iché e tz’utujil; lascio che il fiume delle loro voci scorra.
Io prendo appunti. Scrivo in grande sul foglio bianco del quaderno il loro nome e questo fa
da titolo alla fiducia che stiamo costruendo. Rosa Maria poi, mi racconterà che quelle
lettere, il suo nome scritto sul mio quaderno, hanno dato le basi al nostro conoscerci, hanno
fatto da fondamento a un rispetto a priori che, secondo lei, io ho dato alle sue parole. E si
ritorna alla parole, quelle scritte e quelle dette. Alle voci e ai silenzi, gli stessi dai quali
sono partita per scrivere il mio primo lavoro sul Guatemala, paese in cui sono nata, al quale
da poco sono legata anche dal punto di vista professionale: primo luogo al mondo cui ho
sentito d’appartenere, in cui ho potuto esercitare le mie conoscenze, luogo in cui ho potuto
sperimentare la profondità di sapere di cosa stavo parlando, in cui ho avuto la possibilità di
“maneggiare” la mia competenza e di rendermene consapevole. Scorro con la mente i
momenti del master, le materie, il diritto, l’educazione, l’interculturalità…e allora
comincio a entrare in un dialogo con i miei interlocutori, comincio a chiedermi cosa voglio
sapere, cosa mi incuriosisce, cosa vorrei illuminare delle moltissime zone d’ombra che ho
in testa, a chiedere loro come si traduce nelle loro lingue il concetto di diritto, quello di
educazione, come si rende il termine potere o cambiamento.

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Con Rosa Maria si parla di empoderamiento de la palabra, viene fuori che nelle lingue
maya non esiste un termine specifico che indichi la presa di potere da parte di qualcuno,
c’è solo il concetto che indica il poter fare qualcosa Ad indicare la presa del potere c’è il
concetto moloj ri’il che significa incontro, riunione per rendere consapevoli, per
risvegliare, per alzarsi. Allora se per Rosa Maria tz’ilan tz’ij ki xin ixoqil xin iximulew, se la
parola è molto silenziosa in Guatemala, è perché c’è un problema di fondo nella società,
che è un problema di non comprensione, di difficoltà infinita ad accettare delle diversità
insite nel paese, che non sono solo di pelle, di superficie, nel modo di vestire o nel modo di
vivere, ma sono nella comprensione delle cose, nei percorsi mentali, nei modi di capire e
apprendere la vita tutta e i suoi avvenimenti, nei modi di affrontare, concepire,
concettualizzare l’avventura umana e tutto ciò che le sta intorno.
Qaton tzi’j, la parola è muta adesso, perché non può competere con dei sistemi, i nostri,
quelli occidentali, importati e imposti dal periodo coloniale in avanti, che non si basano più
su di essa e sul suo rispetto, ma su teorie e norme lontane dalla morale e perciò puramente
formali, estremamente individualiste e soprattutto scritte, fredde, robotiche.
Con José invece si ritorna alle origini: ujuk’al ub’oq’och qixim:

               “Llegó aquí entonces la palabra, vinieron juntos Tepeu y Gucumatz, en la oscuridad, en la
               noche, y hablaron entre sí, Tepeu y Gucumatz. Hablaron, pues, consultando entre sí y
               meditando; se pusieron de acuerdo, juntaron sus palabras y su pensamiento”.1

Il Popol Vuh, libro sacro dei maya, ispira anche me, indegna occidentale, e fa si che
attorno al concetto espresso dal glifo tzi’j io possa avvolgere il filo dei miei pensieri e
della mia ricerca, quello che proverò a sbrogliare in questo discorso: tzi’j come parola, il
punto di partenza, tzi’j come dialogare, i passi uno dopo l’altro sulla strada, tzi’j come fare
giustizia, il diritto, i diritti umani, il fondamento di relazioni giuste, tzi’j come rispetto, base
della vita e fondamento delle relazioni tutte, tzi’j come armonia, equilibrio fra gli uomini e
il cosmo, punto di arrivo di queste voci che parlano del futuro attraverso una memoria
millenaria e scoprono la ragione d’essere di ciascuno degli uomini. Una ragione che è da
cercare e da coltivare come un processo di realizzazione della nostra esistenza di persone e
di collettività. Il tessuto della comunicazione è una presenza e attraverso il nostro rispetto,
la nostra voce e la nostra energia la riempiamo di significato. La vita, che è comunicazione,
si esprime nella parola: deve essere dolce e trasparente, un tessuto che crea legami e che,

1
    Popol Vuh, in Página de literatura guatemalteca, http://www.uweb.ucsb.edu/%7Ejce2/popol.html
           (21/06/2004)

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quando è autentica e significativa, ci ricorda che non siamo altro che grani di mais, anche
noi, gente di altri colori…grani di mais e ci ricorda che l’uomo è al centro dell’universo e il
centro dell’universo é in ognuno degli uomini, in ogni frutto che germoglia, in ogni istante
del tempo, in ogni posto della terra.

                                          CAPITOLO PRIMO
LA PAROLA AL POTERE
In ogni momento della nostra vita le parole sono filtro per i nostri pensieri. Ogni volta che
pensiamo, identifichiamo e intuiamo cerchiamo anche una forma razionale da dare alle
nostre idee, e lo facciamo attraverso le parole. Tutte le azioni umane, dall’articolazione del
pensiero in una mente fino alla creazione di una cultura in una comunità, sono legate anche
a segni cui corrispondono suoni, capaci di rappresentare il mondo. La prima cosa che
facciamo di fronte ad una realtà sconosciuta è quella di nominarla, e quando questa ha un
nome, la sentiamo più vicina, ne abbiamo meno paura
                “Los sistemas de representación simbólicos que conforman las culturas son los resultantes de
                modos específicos de apropiarse la naturaleza y de ubicarse en ella y relacionarse con ella.”2

La parola libera, rende l’uomo l’unico essere sulla terra ad essere consapevole di ciò di cui
è consapevole. Ma la parola non ha solo il potere di sciogliere timori e illuminare oscurità,
non ha solo il potere di costruire, ma anche l’infinito pesante potere di distruggere. La
parola risuona nei nostri cervelli e vi si instaura come bene o come male. Riceviamo e
pronunciamo continuamente parole che ci motivano o ci fanno male, ci dequalificano o ci
rinnovano. Esse sono il mezzo con il quale ci relazioniamo con il mondo e sono, quindi,
fondamentali per creare relazioni sociali: organizzate nel discorso, le parole, possono
essere concepite come la pratica sociale per eccellenza, quella da cui nascono tutte le altre.
In questa ottica, il discorso assume due ruoli centrali: il primo nella trasmissione delle idee
e nella legittimazione di saperi, valori e ideologie; il secondo nel mantenimento dell’ordine
sociale, dello status quo.
Quando, con delle parole, si tramanda una storia come modello da seguire o si scrive una
poesia alla vita, una preghiera di ringraziamento, tutte le volte che si dà un consiglio o si
consola qualcuno, si denuncia un’ingiustizia o si fa conoscere qualcosa di sconosciuto,
allora, in questi casi, la parola porta implicita dentro a se stessa e al suo significato

2
    Arturo Arias, La identidad de la palabra, Artemis Edinter, Guatemala, 1998

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un’autenticità profonda, prende valore di promessa, ha importanza sia per chi la dice, sia
per chi la riceve.
D’altra parte però il discorso viene anche usato per soffocare questa autenticità, per creare
omogeneità tra i punti di vista e appiattire la società. In questo caso, allora, la parola è
svuotata del suo significato primordiale per diventare strumento di un potere prestabilito,
che agisce imponendo un proprio ordine e mantenendo specifiche differenze e
disuguaglianze tra i gruppi umani. La cultura dominante, che ne nasce, contribuisce
all’integrazione di chi ne fa parte, assicurando una comunicazione immediata a tutti i suoi
membri ed emarginando tutti gli altri, e produce un effetto ideologico perché, pur
presentandosi come cultura che unisce, è, di fatto, cultura che separa da ciò che è Altro e
che legittima disparità, obbligando tutte le culture a definirsi e a identificarsi in essa. Le
due importanti funzioni della parola sono quindi di liberare o opprimere, aprire o chiudere
possibilità, riempire di senso o svalutare. Quando parlare è sinonimo di comunicare, inter-
comunicare e dialogare allora trasmette e crea culture, le mette in comunicazione e
stabilisce valori comuni; quando parlare è sinonimo di imporre e riprodurre ideologie ha lo
specifico fine ultimo di impedire a determinati gruppi sociali non solo l’accesso ai mezzi di
comunicazione e, di conseguenza ,l’ampliamento delle proprie relazioni sociali, ma anche
la notevole limitazione delle possibilità di legittimazione delle culture di cui quei gruppi
sono portatori, avvallando e permettendo differenze sociali, dequalificando e sminuendo la
costruzione e la difesa dell’identità.
I discorsi ordinano, organizzano e istituiscono l’interpretazione che diamo degli
avvenimenti e portano in sé opinioni, valori e ideologie e hanno, quindi, un potere
generatore sia di interessanti scambi, stimoli e novità che di disuguaglianza. Insieme a
discorsi “legittimati” troviamo perciò anche discorsi “delegittimati”, accanto a discorsi
“autorizzati”, discorsi “non autorizzati” e la società continua, così, ad essere divisa da
tensioni e scontri, nei quali esistono dei gruppi dominanti e dei gruppi dominati, elite ed
emarginati. Questo dis-ordine sociale proviene e si genera dalla proiezione di tali
differenze sull’universo discorsivo, che continua a riprodurle, le mantiene e spesso ne
impedisce il superamento.
La produzione discorsiva nelle nostre società è regolata da norme e restrizioni a cui
l’organizzazione delle parole deve sottostare nei diversi contesti in cui viene usata.
Avviene allora, che i gruppi sociali emarginati, inventano modi per far sopravvivere la loro
parola ai discorsi dominanti. Si insinuano nei meandri della cultura di massa e spesso sono
anche capaci di minarla dal punto di vista sia linguistico, “sporcandola” di prestiti, calchi e

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indigenismi, ma anche dal punto di vista politico, assumendo un ruolo di resistenza,
compromettendo l’ordine prestabilito, di cui è portatrice e testimone fedele la parola
ufficiale; interpretano gli avvenimenti, le relazioni sociali e l’ordine politico in modo
completamente diverso, non meno giusto o legittimabile, solo diverso.
Il linguaggio dunque gioca un ruolo importante nei meccanismi di produzione dell’ordine
sociale, ma allo stesso tempo dà agli uomini la possibilità di esprimere il loro rifiuto di quel
ordine globale, con l’espressione di altre parole, nuove, che dicono concetti alternativi, che
portano nuovi significati. Possiamo dire allora che esiste una parola del potere ma esiste
anche un potere della parola. Il metadiscorso che voglio intraprendere parte proprio da qui:
entrare nell’universo del diritto non dal punto di vista tradizionale e occidentale, quello
dominante, ma mettendomi dalla parte dei gruppi emarginati di uno specifico paese che è il
Guatemala, dalla parte della parola negata, rifiutata, oppressa, che è invece una parola vera,
autentica, esistente a cui milioni di persone fanno ogni giorno riferimento, come punto di
partenza per stabilire relazioni, superare controversie, dialogare, tramandare il passato nella
visione di un miglioramento del futuro
             “El desafío contemporáneo sigue siendo la comprensión profunda de las múltiples
             manifestaciones de la vida y su evolución, para esclareces el sentido de los procesos humanos
             que estamos viviendo.”3

3
 Raxalaj Mayab’ K’aslemalil, Cosmovisión Maya, plenitud de la vida, Isabel Aguilar Umaña Editora,
Guatemala, 2006

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1.1 LA PAROLA DEL POTERE: L’ORDINAMENTO GIURIDICO NAZIONALE
IN RAPPORTO AL DIRITTO MAYA

Concetti come popolo, nazione, stato sono importanti perché fanno riferimento alle forme
sociali, politiche, culturali e giuridiche che organizzano e regolano la convivenza umana.
La forma più semplice per giungere al concetto di nazione è pensarla come convivenza,
mentre il concetto di popolo comprende una storia più ampia, include non solo i vivi qui ed
oggi, ma anche gli antenati e i discendenti, comprende numerose generazioni unite dal
vincolo della loro memoria comune. Le radici dello stato invece sono le sue istituzioni:
considerare lo stato da questo punto di vista significa prendere coscienza del fatto che
nell’attualità, e soprattutto in quella guatemalteca, che è il luogo da cui voglio partire per
sciogliere i nodi legati alle idee di parola e potere in relazione al diritto, le politiche
governative si propongono di imporre il proprio sistema di norme per organizzare le
relazioni tra le persone, senza rispettare e senza regolare le relazioni tra i diversi gruppi
sociali che compongono il paese.
Il Guatemala è un piccolo paese che si estende su circa 108 mila km2, è situato alla metà
del continente americano, bagnato dal Mar dei Carabi e dal Pacifico. Dei suoi dodici
milioni di abitanti, il 61% discende dagli antichi maya. Il popolo dei maya è diviso al suo
interno in ventitrè etnie diverse corrispondenti ad altrettante comunità linguistiche: achi,
akateca, awakateka, chalchiteka, ch’orti’, chuj, itza’, ixil, jakateko, poptí, kaqchikel,
k’iche’, mam, mopan, poqomam, poqomchi’, q’anjob’al, q’eqchi’, sakapulteka,
sipakapense, tektiteka, tz’utujil, usanteka; a comporre la societá guatemalteca nel suo
complesso ci sono poi i ladinos (diretti discendenti dei colonizzatori spagnoli), gli xinca,
dell’oriente del paese e i garifuna, che vivono soprattutto nel nord, hanno pelle nera e sono
discendenti di schiavi deportati nelle Americhe.
In questo tipo di società, la prima cosa che va affrontata per iniziare l’analisi che intendo
condurre è il vincolo tra cultura e diritto e la relazione tra oralità, scrittura e diritto, che
spesso è sconosciuta e non viene presa in considerazione tanto che spesso fa da a
incomprensioni ed esclusione sociale.
La riflessione può partire dalla negazione cui è sottoposta l’identità maya nella sua
espressione giuridica e dal fatto che in molti paesi dell’America Latina, la problematica
giuridica costituisce la prova della presenza di privilegi sociali e politici e della
discriminazione.

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Nelle nostre società diritti umani e ordinamento giuridico paiono legati in modo chiaro ed
esplicito. Dalla concettualizzazione dei diritti umani, che oggi è abbastanza sviluppata ed è
capace di esprimere anche l’itinerario dei valori della modernità, si comprendono i diritti
economici, sociali e culturali. Ma il problema in Guatemala non è tanto il non
riconoscimento da parte della popolazione di questi diritti, quanto l’incapacità e la non
volontà dei governi, ma anche di molti organismi internazionali, che si vantano di portare i
diritti umani laddove non ci sono, di riconoscere un ordinamento giuridico che esiste, che è
codificato in norme e comportamenti, che ha valore per gran parte della popolazione
indigena, che in esso è cresciuta e che con esso si confronta quotidianamente.
L’ordinamento giuridico maya è semplicemente diverso, Altro dall’ordinamento giuridico
per eccellenza, portatore del concetto e del linguaggio dei cosiddetti diritti umani.
Accettare una tanto scomoda e complicata presenza implica da parte dei governi e delle
istituzioni il superamento dei diritti pensati e basati su criteri individualisti tendenti a
distanziarsi progressivamente dalla cultura. La tradizione individualista, in paesi come il
Guatemala, non può non essere considerata che ad un livello puramente formale e non si
adatta alla quotidianità, in quanto nega l’esistenza di entità collettive differenziate da forme
proprie di esistenza sociale. Nascono qui situazioni di conflitto di leggi ma non solo: si
rivela chiaramente la tensione tra l’ordine giuridico maya e il diritto nazionale che va
aggravandosi a causa del fatto che il diritto nazionale vigente è diffusamente poco
conosciuto, interpretato male e quando è applicato lo è solo a livello locale. Dall’altra parte
anche il diritto nazionale viene applicato con procedimenti, giudici ed istituzioni che non si
identificano e non condividono il sistema etico-morale delle comunità, né tanto meno
parlano la lingua indigena. Basandosi su di una visione individualista e monoculturale, che
sta alla base della propria legislazione e delle proprie istituzioni, lo stato guatemalteco non
riconosce nessun ordine particolare e nel momento in cui si trova di fronte a queste norme
sa che questo ordine non è il suo, non lo riconosce, non lo rispetta e non lo garantisce.
Ancora una volta, questo comportamento dà luogo a una profonda differenziazione e di
conseguenza a nuove discriminazioni, tanto che si arriva a chiamare “diritto” le norme
dello stato e “costume” le norme maya. Questo problema si risolverà solo nel momento in
cui lo stato si convincerà della corrispondenza tra stato di diritto e democrazia. Solo allora
potrà nascere uno stato democratico di diritto. Per il popolo maya il riconoscimento del suo
ordine giuridico è fondamentale per la difesa della propria vita e soprattutto dei propri beni
e del proprio immenso patrimonio culturale. La difesa della vita e dell’eredità storica non
può avvenire senza la custodia e la protezione del sistema di norme cui fa riferimento.

                                              11
È importante anche considerare il concett di diritti umani in sé se per costruire il contesto
nel quale deve inserirsi, vivere e lottare per la sopravvivenza il diritto maya. Anche se
diritti umani e diritti indigeni sono stati relazionati da relativamente poco tempo, dalla
Rivoluzione Francese in poi tutte le dichiarazioni sui Diritti dell’Uomo hanno usato come
terminologia quella dei diritti umani. Usare i concetti di diritti umani e diritti indigeni
implica il dover fare delle considerazioni e delle distinzioni perché attualmente questi
ultimi stanno assumendo un’importanza diversa e si impone la necessità di specificarli
sempre meglio.
I diritti umani fondamentali sono il diritto alla vita, il diritto all’alimentazione, il diritto alla
libertà. In paesi come il Guatemala va sottolineata l’esistenza di diritti umani più specifici
come il diritto all’educazione, all’organizzazione, alla proprietà della terra, all’identità, ad
essere giudicato nella propria lingua. In Guatemala, tutti i documenti riferiti a questi diritti
si sono via via concretizzati sottoforma di garanzie che sono state poi raccolte nella loro
totalità sia nella Costituzione del 1985 che in alcune convenzioni internazionali che lo stato
del Guatemala ha sottoscritto. Tra tutti questi diritti umani dichiarati e proclamati sono
davvero pochi, però, quei precetti che hanno una pratica quotidiana. Forse le cause vanno
cercate nelle caratteristiche etniche del paese che complessificano, come abbiamo visto,
una società già indebolita da anni di scontro armato, corruzione e oppressione economica.
Esistono poi i diritti indigeni che, specialmente nella realtà guatemalteca, vanno considerati
nella loro totalità e nelle loro molteplici sfaccettature.
In Guatemala dunque, realtà etnica e normativa paiono non essere compatibili. Nella
Costituzione del 1985 quattro sono gli articoli dedicati alla situazione etnica del paese.
Quattro articoli si riferiscono alla situazione sociale della maggioranza della popolazione:

                “Il Guatemala è costituito da diversi gruppi etnici fra i quali sono compresi I gruppi indigeni di
                ascendenza maya. Lo Stato riconosce, rispetta e promuove le loro forme di vita, i costumi, le
                tradizioni, le forme di organizzazione sociale, l’uso degli abiti indigeni per l’uomo e per la
                donna, la lingua e i dialetti.”4

Queste norme, inoltre, si riferiscono a diritti specifici, cioè il diritto all’identità, alla pratica
dei propri usi e costumi, all’uso dell’abito indigeno e alla lingua. È impensabile pretendere
di credere che lo stato guatemalteco usando sia il suo sistema di norme che gli strumenti
internazionali per la protezione dei diritti umani voglia costruire una base multiculturale
per creare uno stato interculturale. Il semplice fatto che il diritto maya sia ancora
considerato “diritto consuetudinario” implica due aspetti, ideologico ed epistemologico,

4
    Le costituzioni del Centro-America, trad. E. Ceccherini, Giuffrè Editore, Milano, 2001

                                                        12
che spiegano il livello di discriminazione che l’uso di questa terminologia racchiude. Dal
punto di vista ideologico, categorizzare e classificare l’ordinamento giuridico maya con il
termine di “costume”, abbassandolo quindi ad essere fonte secondaria del diritto, equivale
a una pratica politica che esprime disuguaglianza e inequità non solo applicata in sede di
giudizio, ma che si insinua anche all’interno della società. Dal punto di vista
epistemologico, considerare il diritto maya un “costume” indica non solo l’ignoranza di chi
usa questa concettualizzazione sbagliata, ma anche il completo disinteresse ad una sua
definizione rigorosa e alla comprensione della sua struttura. Nel caso dei maya l’ordine
giuridico è appoggiato al sistema etico morale della loro intera cultura e ciò continua a
significare rifiuto e negazione dell’identità di tutto il popolo. A fondamento di tali
affermazioni basti dire che il “costume” è sempre stato visto da parte dello stato come
l’unico spazio che ha avuto il diritto maya per poter essere riconosciuto. Tuttavia la realtà
giuridica indigena è molto più di questa emarginazione, è un’identità, una cultura e
rispecchia la forma mentale di un popolo.

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1.2 UN’ANALISI ETNOLINGUISTICA: CENTRALITÁ DELLA
COSMOVISIONE

Prima di entrare nel merito dell’ordinamento giuridico maya vero e proprio, è utile cercare
di avvicinarsi in modo competente alla cosmovisione, un insieme articolato di idee,
relazionate tra di loro in modo coerente, con il quale gli individui e i gruppi sociali
indigeni, in un determinato momento storico, decidono di spiegare, apprendere,
organizzare e ordinare l’universo. Poiché l’analisi linguistica e un minimo di dominio della
lingua sono fondamentali per l’analisi del sistema giuridico è necessario un approccio
“etnolinguistico”, che possa cioè chiarire le relazioni logiche che sono nascoste nelle
parole, base della cultura e della cosmovisione, tradizionalmente orale, e nei loro
significati.
La normativa maya ha una sua propria identità. Le categorie etico-morali che articolano il
sistema sociale simbolizzano e sacralizzano alcune parti della cosmovisione ed è quindi
importante fare delle considerazioni a riguardo.
La visione maya del mondo è basata sul fatto che tutto quello che sta attorno a noi ha il suo
ucholaaj, la sua profondità: questo termine esprime, in realtà, un universo semantico
molto più complesso che si riferisce alle norme ed é legato a tutte le conoscenze che un
popolo possiede e attraverso le quali si organizza. In questo contesto, le relazioni tra le
persone e la divinità, le persone e la natura e delle persone tra di loro sono soggette allo
stesso ordinamento e la conservazione di quest’ordine si caratterizza per il mantenimento
di una situazione di equilibrio con il fine di garantire l’utizil, da utz che vuol dire buono e
il, che indica l’astratto, cioè il benestare. Ma le relazioni di diritto per i maya stanno anche
nelle forme d’esistenza sociale e nelle rappresentazioni mentali che articolano i rapporti tra
sociale, naturale e sacro, nei luoghi e nei momenti in cui questi si esprimono. Tutti i
fenomeni e le azioni compiute all’interno della natura sono sacre. Il sacro nella cultura
maya non è segno di intoccabilità, ma è qualcosa di più e di più profondo: è lo xjan, cioè il
divieto, un divieto che allude più al non tentare di alterare l’essenza delle cose e dei
fenomeni, che è appunto sacra, che all’imposizione di un comportamento. Nel caso della
relazione tra le persone e la natura, la persona dipende dalla natura e la cura della natura
dipende in gran parte dall’essere umano ed è proprio nella pratica della dipendenza e
indipendenza tra natura e persona che si trovano sostenibilità o alterazione della vita.
Un altro concetto fondamentale è quello di complementarietà, che è la base
dell’autoregolamentazione comunitaria e per questo spesso si fa riferimento alla necessità
degli altri esseri della natura o delle altre persone per completare le proprie azioni. Se

                                              14
kyajb’en txqantl xjal qe, le altre persone mi completano, allora vuol dire che le cose e le
persone, prese separatamente, hanno una forza d’azione incompleta. Il principio della
complementarità è direttamente relazionato all’aspetto del dualismo, in cui si manifestano
vita e morte, felicità e tristezza, rappresentate sui tessuti da un uccello dalla doppia testa o
dal doppio sguardo, che vede il bene e il male, direttamente relazionato al fatto che nella
natura non esistono cose univoche.
Nelle dualità ordine-caos, macchia-purificazione, rispetto-negligenza, il sacro assume un
ruolo fondamentale, perciò le società maya si articolano su categorie morali a partire da
questa nozione. Tiox è un termine generale, che fa riferimento al sacro e ai luoghi in cui
questo viene manifestato o si manifesta, ma che significa anche ringraziare, qualcosa di
più, dunque, del semplice concetto di sacro, che ne aggiunge profondità e possibilità
espressive. Solo con l’approccio a questi primi termini, si può intuire che per capire il
fenomeno giuridico maya bisogna fare uno sforzo di allargamento del pensiero e degli
orizzonti mentali e vedere i concetti normativi legati indissolubilmente all’immaginario di
un ordine sociale che é fatto di ricerca di un equilibrio e di un’armonia basati sul rispetto.
La coscienza del Creatore Formatore, dell’Universo, si manifesta nell’equilibrio delle sue
parti. Un equilibrio che è strutturale, organico e funzionale: le galassie, il padre Sole, la
madre Terra, la nonna Luna vivono in equilibrio ed è grazie a questo equilibrio che
esistono i loro figli e figlie e la loro esistenza è identificata in un tessuto di relazioni, di
reciprocità e di collettività che si tesse a sua volta in un’unica coscienza. Essere stella,
galassia, pietra, pianta o persona ha la sua ragione. Essere donna o uomo, bambina,
giovane, anziano, essere madre o padre ha il suo motivo. Accettare la propria natura è
vivere in uno stato di equilibrio e armonia. La ragione d’essere si scopre, si trova, si coltiva
e questo processo rappresenta la realizzazione della nostra esistenza come persone e come
collettività.

                Para continuar viviendo es necesario redescubrir nuestra razón de ser personal, familiar,
                colectiva y social. Redescubrir nuestra razón de ser como humanidad. Sólo así recuperamos la
                autoridad perdida con nosotros mismos, con y en la familia, en la sociedad, e con la
                Naturaleza, para volver a vivir la vida en equilibrio y armonía, fundamentados en el respeto.5

I nonni raccontano che l’ordine, il benestare di una persona, della comunità e dalla natura,
è minacciato dalle trasgressioni, awas, cioè mancanze, difetti. Awas sono quei fattori che
attraggono la vita quotidiana verso lo squilibrio. È in questa concezione della vita, soggetta
alla condizione di equilibrio, che i principi del sistema etico danno alla cultura

5
    Raxalaj Mayab’ K’aslemalil, op.cit.

                                                      15
l’importanza di categoria fondante dell’ordine sociale, naturale e sacro e attraverso di essa
le attitudini, che sono il cuore dei comportamenti che la comunità si aspetta da una
persona, vengono interiorizzate. Ci troviamo, a questo punto, di fronte a una concezione
del “dover essere” e dei principi di natura etico-morale che normano la coesistenza e che
sono espressi attraverso un sistema sanzionato oralmente e relazionalmente. Ci troviamo di
fronte a un universo semantico che lega “conoscenza” con “visione di ciò che ha un valore
ed è amato più che temuto nella comunità”. Per questo bisogna considerare che la vita è
concepita dai maya non come proprietà ma come data in prestito dalla divinità, che la
conoscenza, uchomb’al, da chom, che significa grasso e b’al, termine appartenente al
campo semantico degli strumenti, indica ciò con cui ci si ingrandisce e fa riferimento alla
saggezza come modalità di crescita umana. In questo senso la vita quotidiana è connotata
dalla nozione di tik, cioè seminare, piantare, stare diritto. È proprio questa la forma di
sviluppo che assume la normativa nell’individuo: portare seminato dentro ciò che madri e
padri hanno insegnato a ciascuno. Conoscenza, destino, direzione e azione come servizio
sono tutte parole che fanno riferimento al benestare. Il comportamento per i maya è di
vitale importanza nell’esercizio delle sue attività personali e comunitarie e quindi si è
creato un sistema di riflessione, apprendimento e applicazione delle norme di
comportamento. Si può dire che i principali punti di rifermimento sono undici:
   1) Ch’xaw, avere vergogna: la persona non è un essere perfetto, però può
       perfezionarsi, può commettere errori e avere la capacità di riconoscere il suo errore
       e nel momento in cui lo riconosce provare vergogna, cioè interiorizzare l’errore per
       non ripeterlo.
   2) Okslab’l, credere: si considera una norma il credere nei consigli che vengono
       trasmessi, perché generalmente sono valorizzati dall’esperienza di nonni e padri e
       danno benefici personali per la convivenza armonica all’interno della comunità.
       Quei consigli possiedono credibilità, veridicità e autenticità così come le
       possiedono tutti gli elementi della natura.
   3) Nimb’il, capire e vivere la grandezza: captare la grandezza e la meraviglia della vita
       degli esseri nel cosmo, vivere la grandezza e la crescita di ciascuno degli esseri
       della terra. Come norma di comportamento si enfatizza nel riconoscimento della
       grandezza delle persone, soprattutto gli anziani.
   4) Xjanil, la sacralità e lo spirito in ogni cosa: l’esistenza di tutto ciò che c’è nella
       natura, poiché appartiene a un tutto, deve provocare e dare rispetto, adorazione e

                                             16
ammirazione. Bisogna essere consapevoli del fatto che tutto ciò che esiste è sacro,
       vivendo in armonia e evitando azioni di violenza o di interruzione della vita.
   5) B’anpun b’iyi, avere vari nomi come potenzialità: le persone possiedono vari nomi
       che sono legati alle qualità che hanno, doni e potenzialità che la vita ha dato a
       ciascuno attraverso i genitori. Quando qualcuno non esercita le proprie potenzialità
       gli si dice, per esempio, “ma naq jun tb’iya”, cioè “hai forse solo un nome?”,
       un’espressione che si dice anche nel momento in cui è necessario ricordarsi dei
       propri nomi, per avere creatività, ossia capacità di creare soluzioni. Saper
       approfittare della potenzialità della molteplicità che ciascuna persona possiede,
       significa capire e praticare la spiritualità come valore.
   6) B’inb, ascoltare: le persone devono avere voce e opinione rispetto ai diversi aspetti
       della vita, ma devono anche avere la capacità di ascoltare quello che dicono gli
       anziani, o i genitori e tutte le persone di buona volontà. Saper ascoltare vuol dire
       prendere in considerazione i consigli degli altri, soprattutto l’ esperienza che questi
       possono trasmettere.
   7) B’inch, fare: la capacità di fare implica il “saper lavorare” e il saperlo fare bene.
       Occorre considerare in questo concetto anche la buona conclusione di ciò che si ha
       iniziato. Qualsiasi cosa qualcuno è capace di fare, questi ha l’obbligo morale di
       condividerlo e insegnarlo a chi è interessato ad impararlo.
   8) Chjonb’il, ringraziare: il ringraziamento nasce a partire dalla comprensione del
       fatto che dipendiamo in modi diversi gli uni dagli altri, come elementi della natura
       e del cosmo.
   9) Aq’pub’l, condividere: è importante condividere con gli altri ciò che si ha perché
       questo collabora al mantenimento dell’armonia e significa aver preso coscienza
       della necessità di vivere con altri esseri.
   10) Junxk’ujbajil, prendere decisioni: cioè fare azioni determinate senza dubitare
       troppo e nel caso di dubbio non agire per niente.
   11) Q’uqb’al k’u’j, è un valore che consiste nel saper confortare e animare gli altri,
       inteso anche come saper dimostrare buone attitudini per far si che si rafforzi la
       fiducia nelle persone.
Per segnalare il perché di una norma si usa l’espressione k’o rutzil, avere benestare. Con
questa espressione si spiegano anche le qualità di sacro e di benestare che accompagnano
le norme. Il ruolo centrale qui lo gioca l’organizzazione delle relazioni sociali, poiché
mediano tra i concetti che il sistema etico introduce: la vergogna, k’ixibal, il rispetto e

                                               17
l’obbedienza, nimanik, entrambi legati al ucholaaj, cioè alla conservazione dell’ordine. Per
vergogna si intende un sentimento potente che ferisce la mente in modo doloroso: k’ixibal
infatti è composto letteralmente da k’iix che vuol dire spina e b’al, strumentale. Si basa su
una classificazione binaria dell’azione sociale che oppone utz (buono, desiderabile) a
etzelaal (rotto, difettoso).
Il rispetto, invece, è un’attitudine di obbedienza. È presente in tutti gli ambiti della vita,
nelle formule di ringraziamento, per salutare, per seguire ordini e istruzioni. Così, per
esempio, dopo un pasto tutti i membri della famiglia ringraziano, attraverso formule
differenziate: i bambini dicono grazie, maltyosh taa’t agli adulti, cominciando dalla
persona più anziana, mettendo le mani sulle loro braccia, e questi risponderanno con tyox,
cioè “Dio ce l’ha dato”, mettendo le mani sulla testa dei bimbi. Questa usanza di rispetto è
d’origine indigena, ma viene usata molto anche in altri ambiti, con una formula che può
essere tradotta poco precisamente con il nostro “buon appetito” e che in spagnolo si rende
con “buen provecho”, concetto anch’esso legato al sacro e al rispetto per chi ha donato il
cibo e per chi l’ha preparato, più che alle buone maniere.
La relazione tra sistema culturale e sistema giuridico, dunque, va rimessa inevitabilmente
al problema della moralità, alle concezioni particolari del diritto come componente basilare
dell’identità del popolo. Due concetti mi sembrano utili per sostenere che l’ordine giuridico
maya abbia un’identità propria, completamente differenziata dal diritto nazionale statale:
innanzitutto il diritto maya è da intendersi come espressione di un sistema culturale
specifico, di una particolare morale e di una diversa evoluzione politica; inoltre si può
parlare di diritto solo nel momento in cui si ha un insieme di norme integrate in un ordine e
le condotte non fanno riferimento solo a una norma isolata, ma ad un insieme di norme
coordinate tra loro; non può esistere una norma da sola e quindi unita alle altre forma un
sistema normativo.
C’è da dire anche che non tutto quello che c’è nella tradizione o nella cultura può o deve
essere considerato norma. Tuttavia, in questo mondo, la cultura ha un ruolo fondamentale.
In occidente si parla di ordine giuridico perché esistono ordini non giuridici (come quello
morale per esempio o quello delle convenzioni sociali), cioè tutto ciò che è giuridico è
anche un fenomeno morale, ma non è detto che tutto ciò che è morale sia giuridico e questo
indica un progressivo allontanamento dalla cultura del fenomeno giuridico e uno sviluppo
che ha portato alla gerarchizzazione del sistema di valori a cui fare riferimento e alla
separazione tra diritto e morale.

                                             18
I maya invece, definiscono una forma di pensare e vivere il diritto in cui c’è la tendenza
all’abolizione della separazione tra diritto e morale: ciò che è legittimo è morale e il
sistema giuridico si comprende sulla base dell’ordine sociale naturale e sacro su cui si
fondano le relazioni comunitarie. È per questo forse che per stabilire un’ingiustizia occorre
far riferimento all’invocazione del sacro. Non esiste, in tutto questo, una gerarchia di valori
ma un sistema etico, che fa da orizzonte alle relazioni e alle situazioni umane. Bisogna
pensare l’etica come lo spazio in cui le abitudini della vita nutrono doveri e responsabilità,
l’etica protegge il dovere come il valore più alto di una persona e la moralità rappresenta
una concezione del mondo, la cosmovisione appunto, da cui emergono tutti i principi
filosofici contenuti nella cultura. Si tratta dunque, di un processo che fa riferimento a una
storia che non mostra altro che le potenzialità che l’uomo possiede di creare una cultura
capace di dare risposte proprie a problemi e situazioni universali della vita quotidiana, per i
quali ogni società elabora le sue regole.

                                              19
1.3 IL POTERE DELLA PAROLA: DIRITTO MAYA

L’ordine giuridico maya, dunque, ha una propria identità. Sono cinque le cose che possono
essere sottolineate come sue caratteristiche peculiari:
    •    È un fatto orale: mentre il diritto dello Stato è scritto, l’ordine giuridico maya trova
         nella parola la sua forma di trasmissione, espressione ed esistenza; katzij è il
         termine che fa riferimento alla storia, alla luce, alla verità e alla norma.
    •    È codificato nella cultura, quindi fa parte delle pratiche culturali e delle forme
         d’esistenza sociale. Infatti i suoi principi giuridici vengono espressi nelle
         esperienze sociali e spirituali, nella visione del mondo, nell’ordine etico-morale e
         nella lingua.
    •    Costituisce un sapere diffuso, proprio grazie al fatto che le norme e i
         comportamenti fanno parte di una conoscenza seminata dalle madri e dai padri in
         ognuno, vengono insegnati per tutta la durata della vita. Non c’è posto per
         intermediari né possono nascere conflitti di natura sociale.
    •    Ha una sua specifica classificazione che non può essere messa a confronto con le
         categorizzazioni delle norme che organizzano il diritto positivo, che prese fuori
         dalla loro cultura d’origine perdono la loro maggior utilità.
    •    Ha una funzione e una missione finalizzate all’integrazione, alla convivenza e
         all’autonomia di comunità, famiglie e gruppi. La sua giurisdizione è la sfera
         familiare e comunitaria a fronte di un sistema ufficiale basato su un diritto positivo
         che fa riferimento invece all’individuo. Lo Stato è obbligato a stabilire una politica
         di riconoscimento di questo ordine giuridico come è stato deciso con la firma degli
         Accordi di Pace:

             “El gobierno se comprometió a tipificar la discriminación racial como delito, a promover la
             revisión de la legislación vigente eliminando toda disposición que implique discriminación, a
             divulgar los derechos de los pueblos indígenas por la vía de la educación y a promover su
             defensa a través de defensoría indígenas.
             En el mismo sentido, se establece el compromiso de oficializar lod idiomas indígenas,
             reconocer y respetar su espiritualidad, y tomar otras medidas en contra de la discriminación
             en el uso del traje indígena. También se asumen una serie de compromisos para orientar las
             políticas públicas, tomando en cuenta la dimensión cultural y el accesso de los pueblos
             indígenas a los servicios sociales.”6

    C’è ancora, comunque, la forte necessità di un dialogo e di un reciproco
    riconoscimento tra normativa maya, normativa nazionale e normativa internazionale.

6
 PDHG, Desarrollo humano e inclusión en tiempos de paz 2, Cumplimiento e institucionalización de los
compromisos contraídos por el Estado en los Acuerdo de Paz, CODELACE, Guatemala, 2006

                                                   20
Storicamente, i maya fanno parte di un popolo particolare e per questo devono essere
riconosciuti come tali dalla società guatemalteca. Il popolo maya deve essere considerato
dal punto di vista della continuità della sua cultura e della cosmovisione originale,
espressione di una particolare forma di pensare il mondo e di conseguenza anche la
normativa.
L’ordine giuridico maya si costruisce sulla visione della comunità e della relazione che
ogni persona instaura con “l’altro”, che è il punto di partenza per costituire l’ordine e
l’armonia nel cosmo e che, perciò, non cerca soddisfazione nelle necessità individuali, ma
in quelle del gruppo. Per questo, anche la normativa entra a far parte di tutte quelle
conoscenze tramandate oralmente che creano la cultura e l’unità del popolo.
L’idea che la storia orale sia una fonte importante per lo studio della storia è ormai un fatto
acquisito: le testimonianze che, relazionando il passato e il presente, vengono trasmesse di
generazione in generazione tra i membri di una determinata entità sociale, entrano di diritto
tra le fonti storiche, in quanto la trasmissione orale costituisce un vero e proprio sistema di
informazione. L’oralità è di conseguenza, una parte viva e dinamica all’interno della
società maya e il suo ruolo è molto importante anche nella trasmissione e nella
codificazione del sistema giuridico. In questo contesto, è necessario cercare il recupero e lo
sviluppo non solo della comprensione dell’ordine in cui la norma viene trasmessa, ma
anche come ho già sottolineato, dell’identità. In questo modo la trasmissione orale delle
norme in un determinato contesto sociale, rappresenta anche la trasmissione di un sistema
di valori, di significati e rappresentazioni che legano tutti gli uomini fra loro, gli uomini
con la natura e gli uomini con la divinità. Ne nasce un deposito sistematico e organizzato di
valori, simboli, norme, spiegazioni, riti propri di questa società, che ha scelto nel corso dei
secoli una specifica forma organizzativa basata sulla parola, per cui la comunicazione è il
fenomeno più importante e la lingua uno dei codici più utilizzato, interiorizzato a tal punto
da diventare spirituale e mistico.
L’oralità come sistema d’informazione riesce anche a costituire forme specifiche di
insegnamento e conservazione della normativa che regge le relazioni sociali: esistono,
infatti, forme per mettere in ordine e trasmettere sistematicamente le norme. Il processo di
socializzazione che prende forma assume a questo punto dimensioni totalizzanti, perché è
presente in ogni ambito della vita, nel gioco e nel lavoro, nell’osservazione e nella
riflessione, nei riti e in tutti i livelli del discorso. È la realtà stessa che viene messa in
costante relazione con il carattere della società nella quale si manifesta. Dunque, l’oralità
non solo spiega e conserva, ma dà all’organizzazione sociale un significato e una direzione.

                                              21
È parte integrante delle comunità e del popolo maya e la parola, il suo nucleo centrale,
prende vita in ogni momento, nei rituali, nelle feste, nella quotidianità ed è quindi un fatto
unico e totalizzante in cui si manifestano e si integrano il possibile, l’immaginario, l’ideale
e la morale. Sono proprio questi gli elementi che vengono concentrati nelle norme e
concretizzati nella pratica sociale: l’oralità nel sistema maya può essere considerato un
fenomeno contrario al sistema giuridico statale occidentale, che si organizza e trasmette le
sue norme attraverso un sistema specificamente scritto ed entra solo alla lontana nelle
pratiche sociali quotidiane.
L’ordine normativo maya di conseguenza non può che essere visto come un fatto storico,
perché nel passato sono state create e stabilizzate le norme che reggono la vita attuale. In
questo contesto passato e presente sono in continuo dialogo: la struttura logica del presente
è nella struttura logica del passato e viceversa. Nel corso della storia si sono configurati i
valori e i modi in cui la realtà viene concepita, i paradigmi che gli uomini cercano di
seguire nella loro vita. Attraverso questo dialogo i popoli e, in questo caso, il popolo maya,
acquisiscono una personalità strutturata e specifica, trovano una loro logica interna che
permette il superamento delle difficoltà storiche, ne permette la resistenza e l’affermazione.
La costruzione della norma però non è da considerarsi statica. Al contrario, il popolo
costruisce continuamente la sua storia e crea nuovi ideali e forme di comportamento,
rinnovando l’esperienza che man mano va assumendo come propria.
Parallelamente è impossibile pensare ad una realtà che cambia e si rinnova se il popolo che
la vive non possiede una logica interna che gli permette di costruire la sua vita in base alle
vicende storiche e spirituali di cui è testimone. In questa analisi, quindi, si possono
delineare due centri d’interesse: la costituzione della norma e la trasmissione.
Come ho già accennato nel capitolo precedente, tre elementi sono fondamentali per la
costruzione della normativa e dell’ordine giuridico maya: il sacro, l’equilibrio e la
comunità.
Tyox, il sacro, non è più solo categoria religiosa, ma assume un carattere specifico di
relazione sociale globale totalizzante perché è presente in tutti i livelli della realtà sociale,
nei cicli della vita rituale, nella quotidianità, nell’agricoltura, nel lavoro, nella famiglia,
nelle istituzioni civili. È parte integrante della realtà umana nella relazione che questa ha
con gli altri e con l’ambiente ed è rappresentata nei simboli, nella natura, negli antenati e
nei comportamenti umani. La vita sociale stessa impone relazioni sacralizzate tanto che il
sacro diventa proprio uno degli ideali della vita comunitaria maya. In esso si manifesta la
morale, l’etica, l’estetica e la prescrizione delle norme è intimamente legata alla percezione

                                               22
di un archetipo di vita armonica, basata sul rispetto in un sistema etico specifico. Gli ambiti
del sacro vanno dagli atti umani agli oggetti concreti, comprendendo naturalmente le
divinità, con le quali l’uomo mantiene una relazione costante in tutti i momenti della sua
vita religiosa e sociale. Sono sacri gli altari, le grotte, le chiese, i monti, la natura, il mais,
la terra dove sono stati sepolti gli antenati, il cibo. Sono sacre le divinità essenziali e
immanenti, santi delle confraternite, i guardiani delle croci, le divinità che abitano le grotte,
il Sole, la Terra, il Mondo. Tutte queste divinità intervengono nella vita dell’umanità
soprattutto quando l’equilibrio sociale, personale e della natura viene alterato. Allora esse
intervengono per ristabilire l’armonia, poiché la loro stessa armonia con gli uomini è segno
di equilibrio e benestare.
L’ordine giuridico maya, quindi, identifica sistema di norme per l’esercizio dell’autorità e
del potere che cercano il “dover essere” nel popolo a partire dai principi di relazione che
esso persegue come società. Questi ideali sono profondamente legati a un prototipo di vita
rivolta verso ciò che è morale, utile, rivolta al servizio e al rispetto verso il sacro, per
l’esistenza piena di una vita sociale equilibrata. Il “dover essere” delle persone si combina
con le rappresentazioni della comunità, che essi creano attraverso la vita concreta,
quotidiana, rituale e attraverso la conoscenza della loro storia. In questo senso il “dover
essere” è permesso dalla società stessa grazie ai suoi valori e alle immagini che ha costruito
storicamente e che tramanda a tutti i suoi membri:

             “En el rito indígena, la reconciliación y el convivir en paz requieren lo siguiente:
         -   Que se sepa la totalidad de la culpa
         -   Que el/la culpable sientan lo que han cometido
         -   Que todos los afectados aprueben la reconcilación
         -   Que el/la culpable acepte el castigo agradeciéndolo
         -   Que se pida a las fuerzas espirituales, acompañar al/a la culpable y los demás afectados en el
             camino juntos con los demá, y apoyarlos.”7

La percezione del sacro come punto di riferimento per il comportamento è possibile solo
con una condotta sociale e personale equilibrata. L’equilibrio è uno dei punti focali su cui
si fonda la vita sociale dei maya. Non è equilibrio in particolari situazioni o momenti della
vita, ma è equilibrio in ogni cosa che si fa, nella globalità dell’esistenza. L’equità si cerca
nelle relazioni sociali, nelle condizioni biologiche della vita umana, nella relazione con le
divinità, nel comportamento quotidiano e nel rapporto con la natura. Nel concetto di
equilibrio assume grande importanza la dialettica ordine-caos, macchia-purificazione,
fresco-freddo, caldo-tiepido che denotano stati di equilibrio e di crisi nella vita della

7
 Eva Kalny, La ley que llevamos en el corazón, una aproximación antropológica a los derechos humanos y
normas familiares en dos comunidades Mayas (Sacapulas, Quiché), AVANCSO, Guatemala, 2003

                                                   23
comunità. Queste dualità possono anche rappresentare stati di trasgressione o
mantenimento dell’ideale armonia sociale e sono fonti di un ordine che viene
continuamente cercato a tutti i livelli della vita. La particolarità di queste combinazioni
binarie sta nelle forme pratiche che assumono: non sono lotta tra ordine e caos, ma armonia
tra gli elementi, che concretamente si raggiunge soprattutto assumendo un comportamento
di rispetto e vergogna.
La relazione sociale idealizzata nel sacro e nell’armonia si concretizza nella vita
comunitaria. La comunità è lo spazio vitale in cui tutto si crea, si sviluppa, si tramanda e si
attua, perciò tutte le norme esistenti sono state create innanzitutto con il fine di proteggere
la comunità, i cui membri sono legati tra loro a partire dal fatto che vivono in uno spazio
determinato e che hanno sviluppato un immaginario comune e un senso di appartenenza.
La normativa maya però non è comunitaria nella sua origine, ma solo nella sua esistenza,
questo significa che esistono elementi comuni tra le varie etnie ma ciascuna comunità ha
sistematizzato e organizzato i propri principi. L’elemento comunitario è ciò che dà vitalità
alla convivenza umana, dunque le norme vengono costruite sulla sua base, a differenza
della normativa statale che, invece, dà priorità alla protezione della libertà individuale e dà
importanza alla comunità solo in relazione alle possibilità che questa lascia all’individuo di
realizzarsi.
La prescrizione della norma, della trasgressione e della pena gioca un ruolo fondamentale
in tutto il sistema giuridico. Tra i kaqchikeles, per esempio, la nozione fondamentale che
esprime questo sistema di ordine-tragressione è la parola xajan. Tutte le volte che si
“consegna” la parola xajan lo si fa come fosse un’avvertenza rispetto a ciò che non
bisognerebbe fare, un avviso che indica atti biasimati dalle divinità, dalla società e dalle
autorità.
Sul concetto di xajan è necessario fare una precisazione: attualmente xajan si usa per
tradurre “peccato”. Il peccato nella religione cristiana è la trasgressione a un
comandamento di Dio, cioè indica una situazione legata al peccato originale, la cui
conseguenza necessaria è la morte eterna. Per i maya lo xajan fa riferimento a tutte le
norme che regolano le relazioni sociali, con la natura e con le divinità. Quindi, la
trasgressione espressa in xajan non significa sempre morte, ma fa più spesso riferimento
alla ricerca del ristabilimento dell’armonia persa.

               “Nella religione Maya non esiste questo concetto di peccato originale perchè non c’è un Dio
               fuori da questo mondo che dia dei comandamenti all’uomo. È per questo che nelle cerimonie
               della religione maya si chiede rispetto, si chiede perdono, non a Dio, ma al compagno, al
               fratello, alla madre, al padre, agli amici che sono coloro con i quali ognuno vive e contro i

                                                     24
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