Diritti umani di un altro mondo: il potere della parola
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BERGAMO FACOLTÀ DI SCIENZE UMANISTICHE Master I livello “Diritti dell’uomo ed etica della cooperazione internazionale” Classe n. Diritti umani di un altro mondo: il potere della parola Relatore Prof.ssa Stefania Gandolfi Prova finale di Alessandra Delli Quadri NOME COGNOME Matricola n. 56746 ANNO ACCADEMICO 2006/2007
INVOCACION MAYA Gran Creador, Tú nos formaste, Corazón del cielo, Corazón de la Tierra: Te damos gracias por habernos creado Dios del Trueno, Dios de la lluvia: Desde la salida del sol buscamos la paz en el mundo entero. Que haya libertad, tranquilidad, salud para todos tus hijos que viven en el Este, donde el sol se levanta. Te pedimos también, a la puesta del sol, hacia el Oeste, que todo sufrimiento, toda pena, todo rencor terminen, como el día termina. Que tu luz ilumine los pensamientos, las vidas de los que lloran, de los que sufren, de los que están oprimidos, de los que no han oído. Rogamos hacia el Sur, donde el Corazón del Mar purifica toda corrupción, enfermedad, pestilencia. Danos fortaleza, para que nuestras voces lleguen a tu corazón, a tus manos y a tus pies. Nos postramos delante de Ti con nuestras ofrendas, invocándote día y noche. Rogamos hacia el Norte, desde los cuatro puntos cardinales de este mundo, confiando en que El Corazón del Viento llevará hasta tus oídos la voz, el clamor de tus hijos. Oh Gran Creador, Corazón del Cielo, Corazón de la Tierra, nuestra madre:Danos vida, mucha vida y una existencia útil, para que nuestros pueblos encuentren la paz en todas las naciones del mundo. 3
INDICE Introduzione: l’uomo al centro dell’universo, il centro dell’universo in ognuno degli uomini, in ogni frutto che germoglia, in ogni istante del tempo, in ogni posto della terra. Parole per ricreare il filo rotto della vita, sanare la dignitá violata, recuperare la nostra pienezza. 1) la parola al potere 1.1 la parola del potere: l’ordinamento giuridico nazionale in rapporto al diritto maya 1.2 un’analisi etnolinguistica: centralità della cosmovisione 1.3 il potere della parola: diritto maya 2) la parola al cambiamento 2.1 un’altra lingua, un’altra cultura, un altro diritto 2.2 ufficializzazione delle lingue maya 2.3 educazione, etnicità e diritto alla lingua Conclusione: necessitá di trasformare il concetto di “diritti umani”, di ri-apprenderlo, approfondirlo alla luce di altre culture. Riconoscere e garantire i diritti umani in quanto “parola”. Fonti e Bibliografia 4
INTRODUZIONE Parlo con il professore col quale sto collaborando per il mio tirocinio perché vorrei sapere come si dice “parola” nella sua lingua, il kaqchikel. Lui mi chiede se lo parlo e poiché, in realtà, tra le venti lingue maya quelle che mastico un po’ sono k’iché, tz’utijil e q’eqchi’, mi consiglia di incontrare qualcuno che parli quelle lingue, per evitare di confondermi le idee e per avere dei riscontri più precisi. Quando entro dalla porta trionfale, cornice dell’edificio coloniale che corona l’Accademia di Lingue Maya, non ho la minima idea di cosa chiederò alle persone che incontrerò, sono confusa perché vorrei che la mia ricerca partisse dal termine “parola”, che mi ha già accompagnata anche per la stesura della mia amata tesi di laurea, ma allo stesso tempo non so parola di chi, per dire cosa… Poi mi ritrovo davanti José e Rosa Maria: comincio a parlare, racconto la mia storia, le parole che escono dalla mia bocca si fermano a spiegare il fascino che provo per le lingue, per la possibilità di comunicare, per l’infinita potenzialità di cambiamento insita nelle parole, nel loro modo di usarle, nella loro potenza. Come se qualcosa mi spingesse a non andare oltre, a non approfondire, lascio che dai miei puntini di sospensione sorgano le loro parole, attraverso le loro lingue, k’iché e tz’utujil; lascio che il fiume delle loro voci scorra. Io prendo appunti. Scrivo in grande sul foglio bianco del quaderno il loro nome e questo fa da titolo alla fiducia che stiamo costruendo. Rosa Maria poi, mi racconterà che quelle lettere, il suo nome scritto sul mio quaderno, hanno dato le basi al nostro conoscerci, hanno fatto da fondamento a un rispetto a priori che, secondo lei, io ho dato alle sue parole. E si ritorna alla parole, quelle scritte e quelle dette. Alle voci e ai silenzi, gli stessi dai quali sono partita per scrivere il mio primo lavoro sul Guatemala, paese in cui sono nata, al quale da poco sono legata anche dal punto di vista professionale: primo luogo al mondo cui ho sentito d’appartenere, in cui ho potuto esercitare le mie conoscenze, luogo in cui ho potuto sperimentare la profondità di sapere di cosa stavo parlando, in cui ho avuto la possibilità di “maneggiare” la mia competenza e di rendermene consapevole. Scorro con la mente i momenti del master, le materie, il diritto, l’educazione, l’interculturalità…e allora comincio a entrare in un dialogo con i miei interlocutori, comincio a chiedermi cosa voglio sapere, cosa mi incuriosisce, cosa vorrei illuminare delle moltissime zone d’ombra che ho in testa, a chiedere loro come si traduce nelle loro lingue il concetto di diritto, quello di educazione, come si rende il termine potere o cambiamento. 5
Con Rosa Maria si parla di empoderamiento de la palabra, viene fuori che nelle lingue maya non esiste un termine specifico che indichi la presa di potere da parte di qualcuno, c’è solo il concetto che indica il poter fare qualcosa Ad indicare la presa del potere c’è il concetto moloj ri’il che significa incontro, riunione per rendere consapevoli, per risvegliare, per alzarsi. Allora se per Rosa Maria tz’ilan tz’ij ki xin ixoqil xin iximulew, se la parola è molto silenziosa in Guatemala, è perché c’è un problema di fondo nella società, che è un problema di non comprensione, di difficoltà infinita ad accettare delle diversità insite nel paese, che non sono solo di pelle, di superficie, nel modo di vestire o nel modo di vivere, ma sono nella comprensione delle cose, nei percorsi mentali, nei modi di capire e apprendere la vita tutta e i suoi avvenimenti, nei modi di affrontare, concepire, concettualizzare l’avventura umana e tutto ciò che le sta intorno. Qaton tzi’j, la parola è muta adesso, perché non può competere con dei sistemi, i nostri, quelli occidentali, importati e imposti dal periodo coloniale in avanti, che non si basano più su di essa e sul suo rispetto, ma su teorie e norme lontane dalla morale e perciò puramente formali, estremamente individualiste e soprattutto scritte, fredde, robotiche. Con José invece si ritorna alle origini: ujuk’al ub’oq’och qixim: “Llegó aquí entonces la palabra, vinieron juntos Tepeu y Gucumatz, en la oscuridad, en la noche, y hablaron entre sí, Tepeu y Gucumatz. Hablaron, pues, consultando entre sí y meditando; se pusieron de acuerdo, juntaron sus palabras y su pensamiento”.1 Il Popol Vuh, libro sacro dei maya, ispira anche me, indegna occidentale, e fa si che attorno al concetto espresso dal glifo tzi’j io possa avvolgere il filo dei miei pensieri e della mia ricerca, quello che proverò a sbrogliare in questo discorso: tzi’j come parola, il punto di partenza, tzi’j come dialogare, i passi uno dopo l’altro sulla strada, tzi’j come fare giustizia, il diritto, i diritti umani, il fondamento di relazioni giuste, tzi’j come rispetto, base della vita e fondamento delle relazioni tutte, tzi’j come armonia, equilibrio fra gli uomini e il cosmo, punto di arrivo di queste voci che parlano del futuro attraverso una memoria millenaria e scoprono la ragione d’essere di ciascuno degli uomini. Una ragione che è da cercare e da coltivare come un processo di realizzazione della nostra esistenza di persone e di collettività. Il tessuto della comunicazione è una presenza e attraverso il nostro rispetto, la nostra voce e la nostra energia la riempiamo di significato. La vita, che è comunicazione, si esprime nella parola: deve essere dolce e trasparente, un tessuto che crea legami e che, 1 Popol Vuh, in Página de literatura guatemalteca, http://www.uweb.ucsb.edu/%7Ejce2/popol.html (21/06/2004) 6
quando è autentica e significativa, ci ricorda che non siamo altro che grani di mais, anche noi, gente di altri colori…grani di mais e ci ricorda che l’uomo è al centro dell’universo e il centro dell’universo é in ognuno degli uomini, in ogni frutto che germoglia, in ogni istante del tempo, in ogni posto della terra. CAPITOLO PRIMO LA PAROLA AL POTERE In ogni momento della nostra vita le parole sono filtro per i nostri pensieri. Ogni volta che pensiamo, identifichiamo e intuiamo cerchiamo anche una forma razionale da dare alle nostre idee, e lo facciamo attraverso le parole. Tutte le azioni umane, dall’articolazione del pensiero in una mente fino alla creazione di una cultura in una comunità, sono legate anche a segni cui corrispondono suoni, capaci di rappresentare il mondo. La prima cosa che facciamo di fronte ad una realtà sconosciuta è quella di nominarla, e quando questa ha un nome, la sentiamo più vicina, ne abbiamo meno paura “Los sistemas de representación simbólicos que conforman las culturas son los resultantes de modos específicos de apropiarse la naturaleza y de ubicarse en ella y relacionarse con ella.”2 La parola libera, rende l’uomo l’unico essere sulla terra ad essere consapevole di ciò di cui è consapevole. Ma la parola non ha solo il potere di sciogliere timori e illuminare oscurità, non ha solo il potere di costruire, ma anche l’infinito pesante potere di distruggere. La parola risuona nei nostri cervelli e vi si instaura come bene o come male. Riceviamo e pronunciamo continuamente parole che ci motivano o ci fanno male, ci dequalificano o ci rinnovano. Esse sono il mezzo con il quale ci relazioniamo con il mondo e sono, quindi, fondamentali per creare relazioni sociali: organizzate nel discorso, le parole, possono essere concepite come la pratica sociale per eccellenza, quella da cui nascono tutte le altre. In questa ottica, il discorso assume due ruoli centrali: il primo nella trasmissione delle idee e nella legittimazione di saperi, valori e ideologie; il secondo nel mantenimento dell’ordine sociale, dello status quo. Quando, con delle parole, si tramanda una storia come modello da seguire o si scrive una poesia alla vita, una preghiera di ringraziamento, tutte le volte che si dà un consiglio o si consola qualcuno, si denuncia un’ingiustizia o si fa conoscere qualcosa di sconosciuto, allora, in questi casi, la parola porta implicita dentro a se stessa e al suo significato 2 Arturo Arias, La identidad de la palabra, Artemis Edinter, Guatemala, 1998 7
un’autenticità profonda, prende valore di promessa, ha importanza sia per chi la dice, sia per chi la riceve. D’altra parte però il discorso viene anche usato per soffocare questa autenticità, per creare omogeneità tra i punti di vista e appiattire la società. In questo caso, allora, la parola è svuotata del suo significato primordiale per diventare strumento di un potere prestabilito, che agisce imponendo un proprio ordine e mantenendo specifiche differenze e disuguaglianze tra i gruppi umani. La cultura dominante, che ne nasce, contribuisce all’integrazione di chi ne fa parte, assicurando una comunicazione immediata a tutti i suoi membri ed emarginando tutti gli altri, e produce un effetto ideologico perché, pur presentandosi come cultura che unisce, è, di fatto, cultura che separa da ciò che è Altro e che legittima disparità, obbligando tutte le culture a definirsi e a identificarsi in essa. Le due importanti funzioni della parola sono quindi di liberare o opprimere, aprire o chiudere possibilità, riempire di senso o svalutare. Quando parlare è sinonimo di comunicare, inter- comunicare e dialogare allora trasmette e crea culture, le mette in comunicazione e stabilisce valori comuni; quando parlare è sinonimo di imporre e riprodurre ideologie ha lo specifico fine ultimo di impedire a determinati gruppi sociali non solo l’accesso ai mezzi di comunicazione e, di conseguenza ,l’ampliamento delle proprie relazioni sociali, ma anche la notevole limitazione delle possibilità di legittimazione delle culture di cui quei gruppi sono portatori, avvallando e permettendo differenze sociali, dequalificando e sminuendo la costruzione e la difesa dell’identità. I discorsi ordinano, organizzano e istituiscono l’interpretazione che diamo degli avvenimenti e portano in sé opinioni, valori e ideologie e hanno, quindi, un potere generatore sia di interessanti scambi, stimoli e novità che di disuguaglianza. Insieme a discorsi “legittimati” troviamo perciò anche discorsi “delegittimati”, accanto a discorsi “autorizzati”, discorsi “non autorizzati” e la società continua, così, ad essere divisa da tensioni e scontri, nei quali esistono dei gruppi dominanti e dei gruppi dominati, elite ed emarginati. Questo dis-ordine sociale proviene e si genera dalla proiezione di tali differenze sull’universo discorsivo, che continua a riprodurle, le mantiene e spesso ne impedisce il superamento. La produzione discorsiva nelle nostre società è regolata da norme e restrizioni a cui l’organizzazione delle parole deve sottostare nei diversi contesti in cui viene usata. Avviene allora, che i gruppi sociali emarginati, inventano modi per far sopravvivere la loro parola ai discorsi dominanti. Si insinuano nei meandri della cultura di massa e spesso sono anche capaci di minarla dal punto di vista sia linguistico, “sporcandola” di prestiti, calchi e 8
indigenismi, ma anche dal punto di vista politico, assumendo un ruolo di resistenza, compromettendo l’ordine prestabilito, di cui è portatrice e testimone fedele la parola ufficiale; interpretano gli avvenimenti, le relazioni sociali e l’ordine politico in modo completamente diverso, non meno giusto o legittimabile, solo diverso. Il linguaggio dunque gioca un ruolo importante nei meccanismi di produzione dell’ordine sociale, ma allo stesso tempo dà agli uomini la possibilità di esprimere il loro rifiuto di quel ordine globale, con l’espressione di altre parole, nuove, che dicono concetti alternativi, che portano nuovi significati. Possiamo dire allora che esiste una parola del potere ma esiste anche un potere della parola. Il metadiscorso che voglio intraprendere parte proprio da qui: entrare nell’universo del diritto non dal punto di vista tradizionale e occidentale, quello dominante, ma mettendomi dalla parte dei gruppi emarginati di uno specifico paese che è il Guatemala, dalla parte della parola negata, rifiutata, oppressa, che è invece una parola vera, autentica, esistente a cui milioni di persone fanno ogni giorno riferimento, come punto di partenza per stabilire relazioni, superare controversie, dialogare, tramandare il passato nella visione di un miglioramento del futuro “El desafío contemporáneo sigue siendo la comprensión profunda de las múltiples manifestaciones de la vida y su evolución, para esclareces el sentido de los procesos humanos que estamos viviendo.”3 3 Raxalaj Mayab’ K’aslemalil, Cosmovisión Maya, plenitud de la vida, Isabel Aguilar Umaña Editora, Guatemala, 2006 9
1.1 LA PAROLA DEL POTERE: L’ORDINAMENTO GIURIDICO NAZIONALE IN RAPPORTO AL DIRITTO MAYA Concetti come popolo, nazione, stato sono importanti perché fanno riferimento alle forme sociali, politiche, culturali e giuridiche che organizzano e regolano la convivenza umana. La forma più semplice per giungere al concetto di nazione è pensarla come convivenza, mentre il concetto di popolo comprende una storia più ampia, include non solo i vivi qui ed oggi, ma anche gli antenati e i discendenti, comprende numerose generazioni unite dal vincolo della loro memoria comune. Le radici dello stato invece sono le sue istituzioni: considerare lo stato da questo punto di vista significa prendere coscienza del fatto che nell’attualità, e soprattutto in quella guatemalteca, che è il luogo da cui voglio partire per sciogliere i nodi legati alle idee di parola e potere in relazione al diritto, le politiche governative si propongono di imporre il proprio sistema di norme per organizzare le relazioni tra le persone, senza rispettare e senza regolare le relazioni tra i diversi gruppi sociali che compongono il paese. Il Guatemala è un piccolo paese che si estende su circa 108 mila km2, è situato alla metà del continente americano, bagnato dal Mar dei Carabi e dal Pacifico. Dei suoi dodici milioni di abitanti, il 61% discende dagli antichi maya. Il popolo dei maya è diviso al suo interno in ventitrè etnie diverse corrispondenti ad altrettante comunità linguistiche: achi, akateca, awakateka, chalchiteka, ch’orti’, chuj, itza’, ixil, jakateko, poptí, kaqchikel, k’iche’, mam, mopan, poqomam, poqomchi’, q’anjob’al, q’eqchi’, sakapulteka, sipakapense, tektiteka, tz’utujil, usanteka; a comporre la societá guatemalteca nel suo complesso ci sono poi i ladinos (diretti discendenti dei colonizzatori spagnoli), gli xinca, dell’oriente del paese e i garifuna, che vivono soprattutto nel nord, hanno pelle nera e sono discendenti di schiavi deportati nelle Americhe. In questo tipo di società, la prima cosa che va affrontata per iniziare l’analisi che intendo condurre è il vincolo tra cultura e diritto e la relazione tra oralità, scrittura e diritto, che spesso è sconosciuta e non viene presa in considerazione tanto che spesso fa da a incomprensioni ed esclusione sociale. La riflessione può partire dalla negazione cui è sottoposta l’identità maya nella sua espressione giuridica e dal fatto che in molti paesi dell’America Latina, la problematica giuridica costituisce la prova della presenza di privilegi sociali e politici e della discriminazione. 10
Nelle nostre società diritti umani e ordinamento giuridico paiono legati in modo chiaro ed esplicito. Dalla concettualizzazione dei diritti umani, che oggi è abbastanza sviluppata ed è capace di esprimere anche l’itinerario dei valori della modernità, si comprendono i diritti economici, sociali e culturali. Ma il problema in Guatemala non è tanto il non riconoscimento da parte della popolazione di questi diritti, quanto l’incapacità e la non volontà dei governi, ma anche di molti organismi internazionali, che si vantano di portare i diritti umani laddove non ci sono, di riconoscere un ordinamento giuridico che esiste, che è codificato in norme e comportamenti, che ha valore per gran parte della popolazione indigena, che in esso è cresciuta e che con esso si confronta quotidianamente. L’ordinamento giuridico maya è semplicemente diverso, Altro dall’ordinamento giuridico per eccellenza, portatore del concetto e del linguaggio dei cosiddetti diritti umani. Accettare una tanto scomoda e complicata presenza implica da parte dei governi e delle istituzioni il superamento dei diritti pensati e basati su criteri individualisti tendenti a distanziarsi progressivamente dalla cultura. La tradizione individualista, in paesi come il Guatemala, non può non essere considerata che ad un livello puramente formale e non si adatta alla quotidianità, in quanto nega l’esistenza di entità collettive differenziate da forme proprie di esistenza sociale. Nascono qui situazioni di conflitto di leggi ma non solo: si rivela chiaramente la tensione tra l’ordine giuridico maya e il diritto nazionale che va aggravandosi a causa del fatto che il diritto nazionale vigente è diffusamente poco conosciuto, interpretato male e quando è applicato lo è solo a livello locale. Dall’altra parte anche il diritto nazionale viene applicato con procedimenti, giudici ed istituzioni che non si identificano e non condividono il sistema etico-morale delle comunità, né tanto meno parlano la lingua indigena. Basandosi su di una visione individualista e monoculturale, che sta alla base della propria legislazione e delle proprie istituzioni, lo stato guatemalteco non riconosce nessun ordine particolare e nel momento in cui si trova di fronte a queste norme sa che questo ordine non è il suo, non lo riconosce, non lo rispetta e non lo garantisce. Ancora una volta, questo comportamento dà luogo a una profonda differenziazione e di conseguenza a nuove discriminazioni, tanto che si arriva a chiamare “diritto” le norme dello stato e “costume” le norme maya. Questo problema si risolverà solo nel momento in cui lo stato si convincerà della corrispondenza tra stato di diritto e democrazia. Solo allora potrà nascere uno stato democratico di diritto. Per il popolo maya il riconoscimento del suo ordine giuridico è fondamentale per la difesa della propria vita e soprattutto dei propri beni e del proprio immenso patrimonio culturale. La difesa della vita e dell’eredità storica non può avvenire senza la custodia e la protezione del sistema di norme cui fa riferimento. 11
È importante anche considerare il concett di diritti umani in sé se per costruire il contesto nel quale deve inserirsi, vivere e lottare per la sopravvivenza il diritto maya. Anche se diritti umani e diritti indigeni sono stati relazionati da relativamente poco tempo, dalla Rivoluzione Francese in poi tutte le dichiarazioni sui Diritti dell’Uomo hanno usato come terminologia quella dei diritti umani. Usare i concetti di diritti umani e diritti indigeni implica il dover fare delle considerazioni e delle distinzioni perché attualmente questi ultimi stanno assumendo un’importanza diversa e si impone la necessità di specificarli sempre meglio. I diritti umani fondamentali sono il diritto alla vita, il diritto all’alimentazione, il diritto alla libertà. In paesi come il Guatemala va sottolineata l’esistenza di diritti umani più specifici come il diritto all’educazione, all’organizzazione, alla proprietà della terra, all’identità, ad essere giudicato nella propria lingua. In Guatemala, tutti i documenti riferiti a questi diritti si sono via via concretizzati sottoforma di garanzie che sono state poi raccolte nella loro totalità sia nella Costituzione del 1985 che in alcune convenzioni internazionali che lo stato del Guatemala ha sottoscritto. Tra tutti questi diritti umani dichiarati e proclamati sono davvero pochi, però, quei precetti che hanno una pratica quotidiana. Forse le cause vanno cercate nelle caratteristiche etniche del paese che complessificano, come abbiamo visto, una società già indebolita da anni di scontro armato, corruzione e oppressione economica. Esistono poi i diritti indigeni che, specialmente nella realtà guatemalteca, vanno considerati nella loro totalità e nelle loro molteplici sfaccettature. In Guatemala dunque, realtà etnica e normativa paiono non essere compatibili. Nella Costituzione del 1985 quattro sono gli articoli dedicati alla situazione etnica del paese. Quattro articoli si riferiscono alla situazione sociale della maggioranza della popolazione: “Il Guatemala è costituito da diversi gruppi etnici fra i quali sono compresi I gruppi indigeni di ascendenza maya. Lo Stato riconosce, rispetta e promuove le loro forme di vita, i costumi, le tradizioni, le forme di organizzazione sociale, l’uso degli abiti indigeni per l’uomo e per la donna, la lingua e i dialetti.”4 Queste norme, inoltre, si riferiscono a diritti specifici, cioè il diritto all’identità, alla pratica dei propri usi e costumi, all’uso dell’abito indigeno e alla lingua. È impensabile pretendere di credere che lo stato guatemalteco usando sia il suo sistema di norme che gli strumenti internazionali per la protezione dei diritti umani voglia costruire una base multiculturale per creare uno stato interculturale. Il semplice fatto che il diritto maya sia ancora considerato “diritto consuetudinario” implica due aspetti, ideologico ed epistemologico, 4 Le costituzioni del Centro-America, trad. E. Ceccherini, Giuffrè Editore, Milano, 2001 12
che spiegano il livello di discriminazione che l’uso di questa terminologia racchiude. Dal punto di vista ideologico, categorizzare e classificare l’ordinamento giuridico maya con il termine di “costume”, abbassandolo quindi ad essere fonte secondaria del diritto, equivale a una pratica politica che esprime disuguaglianza e inequità non solo applicata in sede di giudizio, ma che si insinua anche all’interno della società. Dal punto di vista epistemologico, considerare il diritto maya un “costume” indica non solo l’ignoranza di chi usa questa concettualizzazione sbagliata, ma anche il completo disinteresse ad una sua definizione rigorosa e alla comprensione della sua struttura. Nel caso dei maya l’ordine giuridico è appoggiato al sistema etico morale della loro intera cultura e ciò continua a significare rifiuto e negazione dell’identità di tutto il popolo. A fondamento di tali affermazioni basti dire che il “costume” è sempre stato visto da parte dello stato come l’unico spazio che ha avuto il diritto maya per poter essere riconosciuto. Tuttavia la realtà giuridica indigena è molto più di questa emarginazione, è un’identità, una cultura e rispecchia la forma mentale di un popolo. 13
1.2 UN’ANALISI ETNOLINGUISTICA: CENTRALITÁ DELLA COSMOVISIONE Prima di entrare nel merito dell’ordinamento giuridico maya vero e proprio, è utile cercare di avvicinarsi in modo competente alla cosmovisione, un insieme articolato di idee, relazionate tra di loro in modo coerente, con il quale gli individui e i gruppi sociali indigeni, in un determinato momento storico, decidono di spiegare, apprendere, organizzare e ordinare l’universo. Poiché l’analisi linguistica e un minimo di dominio della lingua sono fondamentali per l’analisi del sistema giuridico è necessario un approccio “etnolinguistico”, che possa cioè chiarire le relazioni logiche che sono nascoste nelle parole, base della cultura e della cosmovisione, tradizionalmente orale, e nei loro significati. La normativa maya ha una sua propria identità. Le categorie etico-morali che articolano il sistema sociale simbolizzano e sacralizzano alcune parti della cosmovisione ed è quindi importante fare delle considerazioni a riguardo. La visione maya del mondo è basata sul fatto che tutto quello che sta attorno a noi ha il suo ucholaaj, la sua profondità: questo termine esprime, in realtà, un universo semantico molto più complesso che si riferisce alle norme ed é legato a tutte le conoscenze che un popolo possiede e attraverso le quali si organizza. In questo contesto, le relazioni tra le persone e la divinità, le persone e la natura e delle persone tra di loro sono soggette allo stesso ordinamento e la conservazione di quest’ordine si caratterizza per il mantenimento di una situazione di equilibrio con il fine di garantire l’utizil, da utz che vuol dire buono e il, che indica l’astratto, cioè il benestare. Ma le relazioni di diritto per i maya stanno anche nelle forme d’esistenza sociale e nelle rappresentazioni mentali che articolano i rapporti tra sociale, naturale e sacro, nei luoghi e nei momenti in cui questi si esprimono. Tutti i fenomeni e le azioni compiute all’interno della natura sono sacre. Il sacro nella cultura maya non è segno di intoccabilità, ma è qualcosa di più e di più profondo: è lo xjan, cioè il divieto, un divieto che allude più al non tentare di alterare l’essenza delle cose e dei fenomeni, che è appunto sacra, che all’imposizione di un comportamento. Nel caso della relazione tra le persone e la natura, la persona dipende dalla natura e la cura della natura dipende in gran parte dall’essere umano ed è proprio nella pratica della dipendenza e indipendenza tra natura e persona che si trovano sostenibilità o alterazione della vita. Un altro concetto fondamentale è quello di complementarietà, che è la base dell’autoregolamentazione comunitaria e per questo spesso si fa riferimento alla necessità degli altri esseri della natura o delle altre persone per completare le proprie azioni. Se 14
kyajb’en txqantl xjal qe, le altre persone mi completano, allora vuol dire che le cose e le persone, prese separatamente, hanno una forza d’azione incompleta. Il principio della complementarità è direttamente relazionato all’aspetto del dualismo, in cui si manifestano vita e morte, felicità e tristezza, rappresentate sui tessuti da un uccello dalla doppia testa o dal doppio sguardo, che vede il bene e il male, direttamente relazionato al fatto che nella natura non esistono cose univoche. Nelle dualità ordine-caos, macchia-purificazione, rispetto-negligenza, il sacro assume un ruolo fondamentale, perciò le società maya si articolano su categorie morali a partire da questa nozione. Tiox è un termine generale, che fa riferimento al sacro e ai luoghi in cui questo viene manifestato o si manifesta, ma che significa anche ringraziare, qualcosa di più, dunque, del semplice concetto di sacro, che ne aggiunge profondità e possibilità espressive. Solo con l’approccio a questi primi termini, si può intuire che per capire il fenomeno giuridico maya bisogna fare uno sforzo di allargamento del pensiero e degli orizzonti mentali e vedere i concetti normativi legati indissolubilmente all’immaginario di un ordine sociale che é fatto di ricerca di un equilibrio e di un’armonia basati sul rispetto. La coscienza del Creatore Formatore, dell’Universo, si manifesta nell’equilibrio delle sue parti. Un equilibrio che è strutturale, organico e funzionale: le galassie, il padre Sole, la madre Terra, la nonna Luna vivono in equilibrio ed è grazie a questo equilibrio che esistono i loro figli e figlie e la loro esistenza è identificata in un tessuto di relazioni, di reciprocità e di collettività che si tesse a sua volta in un’unica coscienza. Essere stella, galassia, pietra, pianta o persona ha la sua ragione. Essere donna o uomo, bambina, giovane, anziano, essere madre o padre ha il suo motivo. Accettare la propria natura è vivere in uno stato di equilibrio e armonia. La ragione d’essere si scopre, si trova, si coltiva e questo processo rappresenta la realizzazione della nostra esistenza come persone e come collettività. Para continuar viviendo es necesario redescubrir nuestra razón de ser personal, familiar, colectiva y social. Redescubrir nuestra razón de ser como humanidad. Sólo así recuperamos la autoridad perdida con nosotros mismos, con y en la familia, en la sociedad, e con la Naturaleza, para volver a vivir la vida en equilibrio y armonía, fundamentados en el respeto.5 I nonni raccontano che l’ordine, il benestare di una persona, della comunità e dalla natura, è minacciato dalle trasgressioni, awas, cioè mancanze, difetti. Awas sono quei fattori che attraggono la vita quotidiana verso lo squilibrio. È in questa concezione della vita, soggetta alla condizione di equilibrio, che i principi del sistema etico danno alla cultura 5 Raxalaj Mayab’ K’aslemalil, op.cit. 15
l’importanza di categoria fondante dell’ordine sociale, naturale e sacro e attraverso di essa le attitudini, che sono il cuore dei comportamenti che la comunità si aspetta da una persona, vengono interiorizzate. Ci troviamo, a questo punto, di fronte a una concezione del “dover essere” e dei principi di natura etico-morale che normano la coesistenza e che sono espressi attraverso un sistema sanzionato oralmente e relazionalmente. Ci troviamo di fronte a un universo semantico che lega “conoscenza” con “visione di ciò che ha un valore ed è amato più che temuto nella comunità”. Per questo bisogna considerare che la vita è concepita dai maya non come proprietà ma come data in prestito dalla divinità, che la conoscenza, uchomb’al, da chom, che significa grasso e b’al, termine appartenente al campo semantico degli strumenti, indica ciò con cui ci si ingrandisce e fa riferimento alla saggezza come modalità di crescita umana. In questo senso la vita quotidiana è connotata dalla nozione di tik, cioè seminare, piantare, stare diritto. È proprio questa la forma di sviluppo che assume la normativa nell’individuo: portare seminato dentro ciò che madri e padri hanno insegnato a ciascuno. Conoscenza, destino, direzione e azione come servizio sono tutte parole che fanno riferimento al benestare. Il comportamento per i maya è di vitale importanza nell’esercizio delle sue attività personali e comunitarie e quindi si è creato un sistema di riflessione, apprendimento e applicazione delle norme di comportamento. Si può dire che i principali punti di rifermimento sono undici: 1) Ch’xaw, avere vergogna: la persona non è un essere perfetto, però può perfezionarsi, può commettere errori e avere la capacità di riconoscere il suo errore e nel momento in cui lo riconosce provare vergogna, cioè interiorizzare l’errore per non ripeterlo. 2) Okslab’l, credere: si considera una norma il credere nei consigli che vengono trasmessi, perché generalmente sono valorizzati dall’esperienza di nonni e padri e danno benefici personali per la convivenza armonica all’interno della comunità. Quei consigli possiedono credibilità, veridicità e autenticità così come le possiedono tutti gli elementi della natura. 3) Nimb’il, capire e vivere la grandezza: captare la grandezza e la meraviglia della vita degli esseri nel cosmo, vivere la grandezza e la crescita di ciascuno degli esseri della terra. Come norma di comportamento si enfatizza nel riconoscimento della grandezza delle persone, soprattutto gli anziani. 4) Xjanil, la sacralità e lo spirito in ogni cosa: l’esistenza di tutto ciò che c’è nella natura, poiché appartiene a un tutto, deve provocare e dare rispetto, adorazione e 16
ammirazione. Bisogna essere consapevoli del fatto che tutto ciò che esiste è sacro, vivendo in armonia e evitando azioni di violenza o di interruzione della vita. 5) B’anpun b’iyi, avere vari nomi come potenzialità: le persone possiedono vari nomi che sono legati alle qualità che hanno, doni e potenzialità che la vita ha dato a ciascuno attraverso i genitori. Quando qualcuno non esercita le proprie potenzialità gli si dice, per esempio, “ma naq jun tb’iya”, cioè “hai forse solo un nome?”, un’espressione che si dice anche nel momento in cui è necessario ricordarsi dei propri nomi, per avere creatività, ossia capacità di creare soluzioni. Saper approfittare della potenzialità della molteplicità che ciascuna persona possiede, significa capire e praticare la spiritualità come valore. 6) B’inb, ascoltare: le persone devono avere voce e opinione rispetto ai diversi aspetti della vita, ma devono anche avere la capacità di ascoltare quello che dicono gli anziani, o i genitori e tutte le persone di buona volontà. Saper ascoltare vuol dire prendere in considerazione i consigli degli altri, soprattutto l’ esperienza che questi possono trasmettere. 7) B’inch, fare: la capacità di fare implica il “saper lavorare” e il saperlo fare bene. Occorre considerare in questo concetto anche la buona conclusione di ciò che si ha iniziato. Qualsiasi cosa qualcuno è capace di fare, questi ha l’obbligo morale di condividerlo e insegnarlo a chi è interessato ad impararlo. 8) Chjonb’il, ringraziare: il ringraziamento nasce a partire dalla comprensione del fatto che dipendiamo in modi diversi gli uni dagli altri, come elementi della natura e del cosmo. 9) Aq’pub’l, condividere: è importante condividere con gli altri ciò che si ha perché questo collabora al mantenimento dell’armonia e significa aver preso coscienza della necessità di vivere con altri esseri. 10) Junxk’ujbajil, prendere decisioni: cioè fare azioni determinate senza dubitare troppo e nel caso di dubbio non agire per niente. 11) Q’uqb’al k’u’j, è un valore che consiste nel saper confortare e animare gli altri, inteso anche come saper dimostrare buone attitudini per far si che si rafforzi la fiducia nelle persone. Per segnalare il perché di una norma si usa l’espressione k’o rutzil, avere benestare. Con questa espressione si spiegano anche le qualità di sacro e di benestare che accompagnano le norme. Il ruolo centrale qui lo gioca l’organizzazione delle relazioni sociali, poiché mediano tra i concetti che il sistema etico introduce: la vergogna, k’ixibal, il rispetto e 17
l’obbedienza, nimanik, entrambi legati al ucholaaj, cioè alla conservazione dell’ordine. Per vergogna si intende un sentimento potente che ferisce la mente in modo doloroso: k’ixibal infatti è composto letteralmente da k’iix che vuol dire spina e b’al, strumentale. Si basa su una classificazione binaria dell’azione sociale che oppone utz (buono, desiderabile) a etzelaal (rotto, difettoso). Il rispetto, invece, è un’attitudine di obbedienza. È presente in tutti gli ambiti della vita, nelle formule di ringraziamento, per salutare, per seguire ordini e istruzioni. Così, per esempio, dopo un pasto tutti i membri della famiglia ringraziano, attraverso formule differenziate: i bambini dicono grazie, maltyosh taa’t agli adulti, cominciando dalla persona più anziana, mettendo le mani sulle loro braccia, e questi risponderanno con tyox, cioè “Dio ce l’ha dato”, mettendo le mani sulla testa dei bimbi. Questa usanza di rispetto è d’origine indigena, ma viene usata molto anche in altri ambiti, con una formula che può essere tradotta poco precisamente con il nostro “buon appetito” e che in spagnolo si rende con “buen provecho”, concetto anch’esso legato al sacro e al rispetto per chi ha donato il cibo e per chi l’ha preparato, più che alle buone maniere. La relazione tra sistema culturale e sistema giuridico, dunque, va rimessa inevitabilmente al problema della moralità, alle concezioni particolari del diritto come componente basilare dell’identità del popolo. Due concetti mi sembrano utili per sostenere che l’ordine giuridico maya abbia un’identità propria, completamente differenziata dal diritto nazionale statale: innanzitutto il diritto maya è da intendersi come espressione di un sistema culturale specifico, di una particolare morale e di una diversa evoluzione politica; inoltre si può parlare di diritto solo nel momento in cui si ha un insieme di norme integrate in un ordine e le condotte non fanno riferimento solo a una norma isolata, ma ad un insieme di norme coordinate tra loro; non può esistere una norma da sola e quindi unita alle altre forma un sistema normativo. C’è da dire anche che non tutto quello che c’è nella tradizione o nella cultura può o deve essere considerato norma. Tuttavia, in questo mondo, la cultura ha un ruolo fondamentale. In occidente si parla di ordine giuridico perché esistono ordini non giuridici (come quello morale per esempio o quello delle convenzioni sociali), cioè tutto ciò che è giuridico è anche un fenomeno morale, ma non è detto che tutto ciò che è morale sia giuridico e questo indica un progressivo allontanamento dalla cultura del fenomeno giuridico e uno sviluppo che ha portato alla gerarchizzazione del sistema di valori a cui fare riferimento e alla separazione tra diritto e morale. 18
I maya invece, definiscono una forma di pensare e vivere il diritto in cui c’è la tendenza all’abolizione della separazione tra diritto e morale: ciò che è legittimo è morale e il sistema giuridico si comprende sulla base dell’ordine sociale naturale e sacro su cui si fondano le relazioni comunitarie. È per questo forse che per stabilire un’ingiustizia occorre far riferimento all’invocazione del sacro. Non esiste, in tutto questo, una gerarchia di valori ma un sistema etico, che fa da orizzonte alle relazioni e alle situazioni umane. Bisogna pensare l’etica come lo spazio in cui le abitudini della vita nutrono doveri e responsabilità, l’etica protegge il dovere come il valore più alto di una persona e la moralità rappresenta una concezione del mondo, la cosmovisione appunto, da cui emergono tutti i principi filosofici contenuti nella cultura. Si tratta dunque, di un processo che fa riferimento a una storia che non mostra altro che le potenzialità che l’uomo possiede di creare una cultura capace di dare risposte proprie a problemi e situazioni universali della vita quotidiana, per i quali ogni società elabora le sue regole. 19
1.3 IL POTERE DELLA PAROLA: DIRITTO MAYA L’ordine giuridico maya, dunque, ha una propria identità. Sono cinque le cose che possono essere sottolineate come sue caratteristiche peculiari: • È un fatto orale: mentre il diritto dello Stato è scritto, l’ordine giuridico maya trova nella parola la sua forma di trasmissione, espressione ed esistenza; katzij è il termine che fa riferimento alla storia, alla luce, alla verità e alla norma. • È codificato nella cultura, quindi fa parte delle pratiche culturali e delle forme d’esistenza sociale. Infatti i suoi principi giuridici vengono espressi nelle esperienze sociali e spirituali, nella visione del mondo, nell’ordine etico-morale e nella lingua. • Costituisce un sapere diffuso, proprio grazie al fatto che le norme e i comportamenti fanno parte di una conoscenza seminata dalle madri e dai padri in ognuno, vengono insegnati per tutta la durata della vita. Non c’è posto per intermediari né possono nascere conflitti di natura sociale. • Ha una sua specifica classificazione che non può essere messa a confronto con le categorizzazioni delle norme che organizzano il diritto positivo, che prese fuori dalla loro cultura d’origine perdono la loro maggior utilità. • Ha una funzione e una missione finalizzate all’integrazione, alla convivenza e all’autonomia di comunità, famiglie e gruppi. La sua giurisdizione è la sfera familiare e comunitaria a fronte di un sistema ufficiale basato su un diritto positivo che fa riferimento invece all’individuo. Lo Stato è obbligato a stabilire una politica di riconoscimento di questo ordine giuridico come è stato deciso con la firma degli Accordi di Pace: “El gobierno se comprometió a tipificar la discriminación racial como delito, a promover la revisión de la legislación vigente eliminando toda disposición que implique discriminación, a divulgar los derechos de los pueblos indígenas por la vía de la educación y a promover su defensa a través de defensoría indígenas. En el mismo sentido, se establece el compromiso de oficializar lod idiomas indígenas, reconocer y respetar su espiritualidad, y tomar otras medidas en contra de la discriminación en el uso del traje indígena. También se asumen una serie de compromisos para orientar las políticas públicas, tomando en cuenta la dimensión cultural y el accesso de los pueblos indígenas a los servicios sociales.”6 C’è ancora, comunque, la forte necessità di un dialogo e di un reciproco riconoscimento tra normativa maya, normativa nazionale e normativa internazionale. 6 PDHG, Desarrollo humano e inclusión en tiempos de paz 2, Cumplimiento e institucionalización de los compromisos contraídos por el Estado en los Acuerdo de Paz, CODELACE, Guatemala, 2006 20
Storicamente, i maya fanno parte di un popolo particolare e per questo devono essere riconosciuti come tali dalla società guatemalteca. Il popolo maya deve essere considerato dal punto di vista della continuità della sua cultura e della cosmovisione originale, espressione di una particolare forma di pensare il mondo e di conseguenza anche la normativa. L’ordine giuridico maya si costruisce sulla visione della comunità e della relazione che ogni persona instaura con “l’altro”, che è il punto di partenza per costituire l’ordine e l’armonia nel cosmo e che, perciò, non cerca soddisfazione nelle necessità individuali, ma in quelle del gruppo. Per questo, anche la normativa entra a far parte di tutte quelle conoscenze tramandate oralmente che creano la cultura e l’unità del popolo. L’idea che la storia orale sia una fonte importante per lo studio della storia è ormai un fatto acquisito: le testimonianze che, relazionando il passato e il presente, vengono trasmesse di generazione in generazione tra i membri di una determinata entità sociale, entrano di diritto tra le fonti storiche, in quanto la trasmissione orale costituisce un vero e proprio sistema di informazione. L’oralità è di conseguenza, una parte viva e dinamica all’interno della società maya e il suo ruolo è molto importante anche nella trasmissione e nella codificazione del sistema giuridico. In questo contesto, è necessario cercare il recupero e lo sviluppo non solo della comprensione dell’ordine in cui la norma viene trasmessa, ma anche come ho già sottolineato, dell’identità. In questo modo la trasmissione orale delle norme in un determinato contesto sociale, rappresenta anche la trasmissione di un sistema di valori, di significati e rappresentazioni che legano tutti gli uomini fra loro, gli uomini con la natura e gli uomini con la divinità. Ne nasce un deposito sistematico e organizzato di valori, simboli, norme, spiegazioni, riti propri di questa società, che ha scelto nel corso dei secoli una specifica forma organizzativa basata sulla parola, per cui la comunicazione è il fenomeno più importante e la lingua uno dei codici più utilizzato, interiorizzato a tal punto da diventare spirituale e mistico. L’oralità come sistema d’informazione riesce anche a costituire forme specifiche di insegnamento e conservazione della normativa che regge le relazioni sociali: esistono, infatti, forme per mettere in ordine e trasmettere sistematicamente le norme. Il processo di socializzazione che prende forma assume a questo punto dimensioni totalizzanti, perché è presente in ogni ambito della vita, nel gioco e nel lavoro, nell’osservazione e nella riflessione, nei riti e in tutti i livelli del discorso. È la realtà stessa che viene messa in costante relazione con il carattere della società nella quale si manifesta. Dunque, l’oralità non solo spiega e conserva, ma dà all’organizzazione sociale un significato e una direzione. 21
È parte integrante delle comunità e del popolo maya e la parola, il suo nucleo centrale, prende vita in ogni momento, nei rituali, nelle feste, nella quotidianità ed è quindi un fatto unico e totalizzante in cui si manifestano e si integrano il possibile, l’immaginario, l’ideale e la morale. Sono proprio questi gli elementi che vengono concentrati nelle norme e concretizzati nella pratica sociale: l’oralità nel sistema maya può essere considerato un fenomeno contrario al sistema giuridico statale occidentale, che si organizza e trasmette le sue norme attraverso un sistema specificamente scritto ed entra solo alla lontana nelle pratiche sociali quotidiane. L’ordine normativo maya di conseguenza non può che essere visto come un fatto storico, perché nel passato sono state create e stabilizzate le norme che reggono la vita attuale. In questo contesto passato e presente sono in continuo dialogo: la struttura logica del presente è nella struttura logica del passato e viceversa. Nel corso della storia si sono configurati i valori e i modi in cui la realtà viene concepita, i paradigmi che gli uomini cercano di seguire nella loro vita. Attraverso questo dialogo i popoli e, in questo caso, il popolo maya, acquisiscono una personalità strutturata e specifica, trovano una loro logica interna che permette il superamento delle difficoltà storiche, ne permette la resistenza e l’affermazione. La costruzione della norma però non è da considerarsi statica. Al contrario, il popolo costruisce continuamente la sua storia e crea nuovi ideali e forme di comportamento, rinnovando l’esperienza che man mano va assumendo come propria. Parallelamente è impossibile pensare ad una realtà che cambia e si rinnova se il popolo che la vive non possiede una logica interna che gli permette di costruire la sua vita in base alle vicende storiche e spirituali di cui è testimone. In questa analisi, quindi, si possono delineare due centri d’interesse: la costituzione della norma e la trasmissione. Come ho già accennato nel capitolo precedente, tre elementi sono fondamentali per la costruzione della normativa e dell’ordine giuridico maya: il sacro, l’equilibrio e la comunità. Tyox, il sacro, non è più solo categoria religiosa, ma assume un carattere specifico di relazione sociale globale totalizzante perché è presente in tutti i livelli della realtà sociale, nei cicli della vita rituale, nella quotidianità, nell’agricoltura, nel lavoro, nella famiglia, nelle istituzioni civili. È parte integrante della realtà umana nella relazione che questa ha con gli altri e con l’ambiente ed è rappresentata nei simboli, nella natura, negli antenati e nei comportamenti umani. La vita sociale stessa impone relazioni sacralizzate tanto che il sacro diventa proprio uno degli ideali della vita comunitaria maya. In esso si manifesta la morale, l’etica, l’estetica e la prescrizione delle norme è intimamente legata alla percezione 22
di un archetipo di vita armonica, basata sul rispetto in un sistema etico specifico. Gli ambiti del sacro vanno dagli atti umani agli oggetti concreti, comprendendo naturalmente le divinità, con le quali l’uomo mantiene una relazione costante in tutti i momenti della sua vita religiosa e sociale. Sono sacri gli altari, le grotte, le chiese, i monti, la natura, il mais, la terra dove sono stati sepolti gli antenati, il cibo. Sono sacre le divinità essenziali e immanenti, santi delle confraternite, i guardiani delle croci, le divinità che abitano le grotte, il Sole, la Terra, il Mondo. Tutte queste divinità intervengono nella vita dell’umanità soprattutto quando l’equilibrio sociale, personale e della natura viene alterato. Allora esse intervengono per ristabilire l’armonia, poiché la loro stessa armonia con gli uomini è segno di equilibrio e benestare. L’ordine giuridico maya, quindi, identifica sistema di norme per l’esercizio dell’autorità e del potere che cercano il “dover essere” nel popolo a partire dai principi di relazione che esso persegue come società. Questi ideali sono profondamente legati a un prototipo di vita rivolta verso ciò che è morale, utile, rivolta al servizio e al rispetto verso il sacro, per l’esistenza piena di una vita sociale equilibrata. Il “dover essere” delle persone si combina con le rappresentazioni della comunità, che essi creano attraverso la vita concreta, quotidiana, rituale e attraverso la conoscenza della loro storia. In questo senso il “dover essere” è permesso dalla società stessa grazie ai suoi valori e alle immagini che ha costruito storicamente e che tramanda a tutti i suoi membri: “En el rito indígena, la reconciliación y el convivir en paz requieren lo siguiente: - Que se sepa la totalidad de la culpa - Que el/la culpable sientan lo que han cometido - Que todos los afectados aprueben la reconcilación - Que el/la culpable acepte el castigo agradeciéndolo - Que se pida a las fuerzas espirituales, acompañar al/a la culpable y los demás afectados en el camino juntos con los demá, y apoyarlos.”7 La percezione del sacro come punto di riferimento per il comportamento è possibile solo con una condotta sociale e personale equilibrata. L’equilibrio è uno dei punti focali su cui si fonda la vita sociale dei maya. Non è equilibrio in particolari situazioni o momenti della vita, ma è equilibrio in ogni cosa che si fa, nella globalità dell’esistenza. L’equità si cerca nelle relazioni sociali, nelle condizioni biologiche della vita umana, nella relazione con le divinità, nel comportamento quotidiano e nel rapporto con la natura. Nel concetto di equilibrio assume grande importanza la dialettica ordine-caos, macchia-purificazione, fresco-freddo, caldo-tiepido che denotano stati di equilibrio e di crisi nella vita della 7 Eva Kalny, La ley que llevamos en el corazón, una aproximación antropológica a los derechos humanos y normas familiares en dos comunidades Mayas (Sacapulas, Quiché), AVANCSO, Guatemala, 2003 23
comunità. Queste dualità possono anche rappresentare stati di trasgressione o mantenimento dell’ideale armonia sociale e sono fonti di un ordine che viene continuamente cercato a tutti i livelli della vita. La particolarità di queste combinazioni binarie sta nelle forme pratiche che assumono: non sono lotta tra ordine e caos, ma armonia tra gli elementi, che concretamente si raggiunge soprattutto assumendo un comportamento di rispetto e vergogna. La relazione sociale idealizzata nel sacro e nell’armonia si concretizza nella vita comunitaria. La comunità è lo spazio vitale in cui tutto si crea, si sviluppa, si tramanda e si attua, perciò tutte le norme esistenti sono state create innanzitutto con il fine di proteggere la comunità, i cui membri sono legati tra loro a partire dal fatto che vivono in uno spazio determinato e che hanno sviluppato un immaginario comune e un senso di appartenenza. La normativa maya però non è comunitaria nella sua origine, ma solo nella sua esistenza, questo significa che esistono elementi comuni tra le varie etnie ma ciascuna comunità ha sistematizzato e organizzato i propri principi. L’elemento comunitario è ciò che dà vitalità alla convivenza umana, dunque le norme vengono costruite sulla sua base, a differenza della normativa statale che, invece, dà priorità alla protezione della libertà individuale e dà importanza alla comunità solo in relazione alle possibilità che questa lascia all’individuo di realizzarsi. La prescrizione della norma, della trasgressione e della pena gioca un ruolo fondamentale in tutto il sistema giuridico. Tra i kaqchikeles, per esempio, la nozione fondamentale che esprime questo sistema di ordine-tragressione è la parola xajan. Tutte le volte che si “consegna” la parola xajan lo si fa come fosse un’avvertenza rispetto a ciò che non bisognerebbe fare, un avviso che indica atti biasimati dalle divinità, dalla società e dalle autorità. Sul concetto di xajan è necessario fare una precisazione: attualmente xajan si usa per tradurre “peccato”. Il peccato nella religione cristiana è la trasgressione a un comandamento di Dio, cioè indica una situazione legata al peccato originale, la cui conseguenza necessaria è la morte eterna. Per i maya lo xajan fa riferimento a tutte le norme che regolano le relazioni sociali, con la natura e con le divinità. Quindi, la trasgressione espressa in xajan non significa sempre morte, ma fa più spesso riferimento alla ricerca del ristabilimento dell’armonia persa. “Nella religione Maya non esiste questo concetto di peccato originale perchè non c’è un Dio fuori da questo mondo che dia dei comandamenti all’uomo. È per questo che nelle cerimonie della religione maya si chiede rispetto, si chiede perdono, non a Dio, ma al compagno, al fratello, alla madre, al padre, agli amici che sono coloro con i quali ognuno vive e contro i 24
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