David di Donatello 2019: i verdetti - Smart Marketing

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David di Donatello 2019: i verdetti - Smart Marketing
David di Donatello 2019: i verdetti
Nella serata di mercoledì 27 marzo 2019, si è tenuta la 64esima edizione dei David di
Donatello, il più importante riconoscimento del cinema italiano, insieme ai Nastri d’Argento e
leggermente sopra i Globi d’oro. La serata di premiazione, di quelli che sono definiti gli “Oscar
italiani”, quindi i secondi come importanza al mondo, è stata trasmessa in diretta su Rai Uno e
presentata per il secondo anno di fila da Carlo Conti.

Come da pronostico, Dogman di Matteo Garrone, ha fatto incetta di statuette, con ben 9 David
vinti: miglior film, regia a Garrone, attore non protagonista a Edoardo Pesce, sceneggiatura
originale a Garrone con Massimo Gaudioso e Ugo Chiti, fotografia a Nicolaj Brüel,
montaggio a Marco Spoletini, scenografia a Dimitri Capuani, trucco a Dalia Colli e Lorenzo
Tamburini, sonoro a Maricetta Lombardo & co. Il regista Matteo Garrone, sul palco, accolto da
applausi scroscianti, ha inviato un appello affinché il cinema vecchia maniera, quello delle sale,
continui a sopravvivere, perché la magia del Cinema è tutta lì: «Grazie a voi, lo abbiamo fatto
insieme questo film. Questa è una serata speciale perché si è parlato molto dell’importanza di
tornare al cinema anche l’estate, di quanto sia importante e bello poter vedere i film sul grande
schermo. Purtroppo è un periodo in cui le cose stanno cambiando velocemente, c’è la tendenza
sempre più a vedere i film a casa sulle piattaforme digitali, Netflix ecc. Ma credo sia importante
invece cercare di tornare al cinema, però è anche importate che i cinema diventino sempre più
grandi, invece la sensazione che ho è che le sale diventino sempre più piccole e i televisori sempre
più grandi, quindi facciamo attenzione se crescono i televisori a far crescere anche gli schermi dei
cinema. Questo film sono contento di averlo fatto, è nato un po’ per caso. Abbiamo iniziato a
scriverlo dodici anni fa e tenuto sempre nel cassetto. L’ho fatto perché avevo qualche mese libero
aspettando Pinocchio e invece è andato così bene che non ce l’aspettavamo. A volte accadono delle
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cose che non ti aspetti nel cinema, riuscire a creare dei momenti irripetibili.»

Sulla mia pelle di Alessio Cremonini, altro film attesissimo e pluri-presente in nominations,
conquista 4 statuette: il film che ricostruisce gli ultimi, tragici giorni della vita di Stefano Cucchi
porta a casa i premi per il miglior produttore, miglior regista esordiente a Cremonini, il David
Giovani (votato da 3.000 studenti delle scuole superiori) e soprattutto il meritatissimo David per il
miglior attore protagonista allo strepitoso Alessandro Borghi, visceralmente e fisicamente
trasformato per interpretare la vittima di questa tragica vicenda di cronaca. Sul palco, lo stesso
attore, visibilmente emozionato per il suo primo David in carriera, ha dedicato il premio a Stefano
Cucchi:

Magro invece il bottino di un altro film molto atteso, Chiamami col tuo nome di Luca
Guadagnino, che ottiene solo 2 David, per la sceneggiatura non originale a James Ivory,
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Walter Fasano e Guadagnino, e per la canzone originale Mistery of Love di Sufjan Stevens.

Loro di Paolo Sorrentino, si ferma a due statuette: per le acconciature del veterano Aldo
Signoretti, ma soprattutto quello meritatissimo per la miglior attrice protagonista alla strepitosa
Elena Sofia Ricci, completamente calatasi nei panni di Veronica Lario, moglie di Silvio Berlusconi.
L’attrice toscana è colta di sorpresa dalla vittoria del suo terzo David e sul palco è davvero
emozionatissima, trattenendo a stento le lacrime: «Non ci credo! Grazie. Ho la salivazione azzerata.
Non riesco neanche a parlare. Grazie a mio marito che mi ha tanto sostenuta e mi ha aiutato a fare il
provino e tutto. Grazie a Toni Servillo che è stato un collega, un compagno di lavoro meraviglioso. A
Paolo[n.d.r. Sorrentino], a tutti i componenti della troupe e soprattutto a chi è riuscito a
trasformarmi in un’altra. Grazie a tutti i giurati e a tutti voi che mi avete votata e sostenuta. Grazie
davvero, non me lo aspettavo.»

Due i David anche per Capri-Revolution di Mario Martone, che porta a casa il premio per il
miglior musicista e quello per il miglior costumista. La bravissima Marina Confalone batte
Jasmine Trinca e ottiene il David per la miglior attrice non protagonista per Il vizio della
speranza di Edoardo De Angelis, salendo sul palco visibilmente commossa e dedicando il premio
«alla nostra terra, ai napoletani che hanno buona volontà». Premio per i migliori effetti visivi a
Victor Perez per Il ragazzo invisibile – Seconda generazione, mentre il David dello
Spettatore, assegnato al film più visto della scorsa stagione, se lo aggiudica A casa tutti bene di
Gabriele Muccino.
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zaro Felice di Alice Rohrwacher ed Euforia di Valeria Golino che, a fronte rispettivamente di 9
e 7 nomination, restano a mani vuote. Due grandi registi si aggiudicano invece i David per il
miglior documentario e per il miglior film straniero. Il primo è Nanni Moretti con il suo
Santiago, Italia ed uno scarno e veloce ringraziamento sul palco, mentre il secondo è Alfonso
Cuarón con il suo pluripremiato Roma, già vincitore il mese scorso agli Oscar hollywoodiani. David
per il miglior cortometraggio a Frontiera di Alessandro Di Gregorio.

Esplicati i David ordinari, la serata, come sempre è stata arricchita dai David speciali alla
Carriera. Uno di questi, attesissimo, è andato al grande Tim Burton. Il geniale regista di Dumbo,
accolto da una standing ovation giusta e accorata, ha sottolineando la differenza di trattamento che
riceve in patria: «Vorrei che la gente fosse così carina con me anche nel mio paese». Molto
emozionato ha poi ricordato il suo amore per il cinema italiano: «Io sono cresciuto con registi italiani
come Fellini, Mario Bava, Dario Argento.. ho lavorato con Dante Ferretti. Non sono italiano ma è
come se avessi una famiglia italiana ed è meraviglioso per me ed è un onore essere qui.» Burton ha
poi parlato del suo reboot di Dumbo ed ha ricevuto il David alla Carriera dalle mani di Roberto
Benigni: «Roberto l’ho ammirato e amato per tantissimi anni, quindi la famiglia si ingrandisce. E
per me ricevere questo premio da Roberto e tutti quelli che ho conosciuto ed amato qui, è uno dei
più grandi onori della mia vita». Benigni risponde omaggiandolo a sua volta, annuncia poi il suo
ritorno al cinema nel Pinocchio di Matteo Garrone, mentre riceve anch’egli una standing ovation
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meritata per il ventennale del trionfo della Vita è bella agli Oscar.

Altro ospite internazionale e altro David alla carriera per la sempre sensuale Uma Thurman. Gli
altri due David alla Carriera della serata, invece parlano italiano: la terza statuetta speciale va alla
grande scenografa vincitrice di 3 Oscar Francesca Lo Schiavo, che lo ha dedicato a «tutti i registi
con cui ho lavorato e che mi hanno insegnato a guardare oltre il possibile»; la quarta e ultima
statuetta alla Carriera, sicuramente la più meritata, va a Dario Argento, accolto dalla terza
standing ovation della serata. Il maestro del brivido, che in carriera non aveva mai vinto un David,
dopo le banali e trite domande di Conti, si compiace a metà per il premio, con un pizzico di polemica:
«Vorrei dire una cosa, un po’ polemica: io ho fatto tanti anni cinema, ormai quasi 40 anni, e non ho
mai ricevuto un David di Donatello, questa è la prima volta». E alla battuta di Conti «Maestro.. uno
solo, ma un David Speciale dato col cuore dall’Accademia», Argento taglia corto con un lapidario «sì,
ma troppo tardi».

Se l’assegnazione dei premi, ordinari e speciali, è condivisibile e per alcune categorie, ampiamente
previste, per la qualità delle eccellenze messe in gioco (vedasi Dogman per il miglior film,
Alessandro Borghi come miglior attore ed Elena Sofia Ricci come miglior attrice), lo show è altresì
sembrato troppo simile a quelli classici, salottari e sempliciotti, a cui “Mamma Rai”, ci ha abituato
negli ultimi anni. Forse uno show più innovativo per i cosiddetti “Oscar italiani”, sarebbe stato più
consono all’importanza e alla risonanza che i David di Donatello hanno nel mondo, in ossequio alla
gloriosa e più che centenaria storia del nostro cinema.
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La situazione lavorativa italiana,
raccontata in 5 film
La complessa tematica della disoccupazione, la difficoltà di arrangiarsi con lavori sottopagati, il
problema dei neolaureati costretti a fuggire all’estero, sono argomenti che spesso sono stati
affrontati sul grande schermo. Tra i tanti film che parlando della situazione lavorativa attuale in
Italia, cinque opere trovo particolarmente interessanti:

Santa Maradona (2001, regia Marco Ponti): film che rappresenta una generazione, uno dei primi
film italiani ad affrontare la difficile tematica del lavoro precario. “Santa Maradona” è un mix di
citazioni letterarie, sportive e cinematografiche, che racconta la routine di due giovani squattrinati, i
grandiosi Stefano Accorsi e Libero De Rienzo, attraverso dialoghi esilaranti e una movimentata regia
stile fine anni ’90.

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Il regista, circa quindici anni prima di dedicarsi ai fortunati “Io che amo solo te” e “La cena di
Natale”, distanti anche per stile e tematica da “Santa Maradona”, regala uno spaccato dei
neolaureati di inizio duemila, preda delle incertezze e dell’amore (anch’esso incerto) nello sfondo di
una Torino dinamica e talvolta cupa. Fugace apparizione dei Subsonica, che interpretano loro stessi,
dopo soli cinque anni dalla loro nascita.

Tutta la vita davanti (2008, regia Paolo Virzì): Il regista livornese ci ha sempre abituati ad un riso
amaro, invitandoci a guardare e a riflettere su situazioni goffe e realistiche ed anche in questa
pellicola non è da meno. E’ la storia di Marta, interpretata da una emergente e già brava Isabella
Ragonese, che dopo una laurea in filosofia e tante porte in faccia, finisce per accrescere la sua
carriera professionale in un call center, con a capo una brillante Sabrina Ferilli, in una delle sue
migliori interpretazioni.

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  ■   Work in progress

Come sempre nei film di Virzì, anche in questo film i protagonisti sono personaggi umani, con
numerosi limiti e difetti, che vivono una vita mediamente soddisfacente e fanno di tutto per non
restare indietro e anche Marta, alla fine, troverà il modo di affrontare la sua banale, ma
estremamente vera, esistenza.
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Workers – Pronti a tutto (2012, regia Lorenzo Vignolo): commedia divisa in tre episodi, tutti
incentrati sul tema del precariato. Le tre storie (“Badante”, “Cuore di toro” e “Il Trucco”) partono da
un elemento comune, una coppia di colleghi, proprietari dell’agenzia interinale “Workers”, che
propina a tre giovani in cerca di futuro, dei lavori improponibili. Film piacevole e poco conosciuto
che, con ironia, affronta il tema, purtroppo ancora attuale, del doversi accontentare di lavori
mortificanti e sottopagati, ben lontani dal percorso di studi intrapreso. L’ultimo episodio, il più bello,
ha un tocco surreale, non usuale per il cinema italiano ed è reso ancor più strambo e tetramente
divertente, dal contributo attoriale di Paolo Briguglia, Nicole Grimaudo e Nino Frassica.

Smetto quando voglio (2014, regia Sydney Sibilia): Esordio del regista salernitano con un action
movie tutto italiano, una saga di tre episodi intelligente, spassosa e coinvolgente. E’ la rocambolesca
storia di Pietro Zinni, ricercatore a caccia di un posto fisso all’università, che quando le sue
aspettative vengono disattese, decide di provare a guadagnare con una folle intuizione.

  Per approfondire:

  ■   Scopri la nostra rubrica dedicata interamente al Cinema

Vuole creare una smart drug, una droga considerata legale perché non ancora inserita nella lista
delle sostanze stupefacenti; vuole riuscire in questa impresa radunando una banda di geniali
ricercatori squattrinati. Esilarante pellicola che affronta il triste tema dei ricercatori plurilaureati,
costretti a fare lavori sottopagati o addirittura ad emigrare all’estero, argomento trattato nel
secondo capitolo della saga “Smetto quando voglio – Masterclass”, del 2017. Uscito nel 2017
anche l’episodio finale “Smetto quando voglio – Ad Honorem”, dove Pietro e la sua banda
dovranno fare i conti con l’astuto Walter Mercurio.

Gli ultimi saranno ultimi (2015, regia Massimiliano Bruno): commedia amara con protagonisti
Paola Cortellesi, Alessandro Gassmann e Fabrizio Bentivoglio. Il film, ambientato in un piccolo
comune romano, racconta la storia di Luciana e Stefano, moglie e marito: lei lavora in una fabbrica
tessile e lui cerca di sbarcare il lunario, provando a fare il meccanico e facendo piccoli scambi
commerciali, non sempre fortunati. In contemporanea, è narrata anche la vicenda del poliziotto
Antonio (Fabrizio Bentivoglio), che da poco è stato trasferito in paese. La vita va avanti tra difficoltà
economiche e solita routine, finché la gravidanza di Luciana non cambierà le cose, causando il suo
licenziamento.

I film italiani in sala a febbraio 2019
Nel mese di febbraio le uscite italiane nelle sale cinematografiche nazionali supereranno quelle
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americane, e questa è la novità più rilevante degli ultimi anni, sintomo di una rinnovata freschezza e
di una rinnovata fiducia nei nostri prodotti. Quota 18 a fronte di 10 prodotti hollywoodiani, un
incremento rispetto al gennaio scorso di ben 8 film, il che vuol dire anche che le case di
distribuzione hanno deciso di puntare maggiormente sull’ultimo dei mesi invernali, quello che si
affaccia alla primavera senza però esserlo. Ovviamente i film di maggiore visibilità sono quelli legati
a case di distribuzioni importanti e con registi e attori popolari, brillanti e di grande verve.

Nominiamo per primo allora 10 giorni senza mamma, distribuito dalla Medusa in ben 410 cinema,
commedia brillante, sostenuta dal talento comico di Fabio De Luigi, in questo determinato
momento storico, uno degli attori più presenti al cinema: è stato già pochi mesi fa, a novembre, in
sala con Ti presento Sofia, al fianco di Micaela Ramazzotti, sui problemi familiari di un papà
divorziato con figlia in fase pre-adolescenziale alle costole ed una nuova fidanzata.

Questo nuovo film, procede sulla falsariga del primo, rimangono i problemi familiari, affrontati con il
sorriso sulle labbra. Stavolta Fabio De Luigi è un padre di famiglia, con una moglie e tre figli,
anch’essi dai dieci anni in giù. Ad un certo punto “mamma”(Valentina Lodovini, bellissima) decide
di partire per 10 giorni con la propria sorella, lasciando i tre figli con un papà praticamente assente,
per lavoro e per pigrizia: guai a catena. E ancora una volta il volto di “gomma” di Fabio De Luigi si
presta a meraviglia ad una tragicommedia familiare. Sebbene sia innegabile infatti che alcune delle
vicende in cui si ritrova invischiato il suo personaggio siano esilaranti, dietro nascondono la forte
malinconia di un padre che ha trascurato i propri figli. Ed ancora più importante, di un padre che
non comprende a pieno il ruolo di una madre full time. Si nota la forte volontà di portare sul grande
schermo tematiche attuali quali la frustrazione di una donna nell’essere “solo” una madre o il
difficile connubio famiglia/lavoro. E specialmente nell’affrontare la prima, è lodevole il modo con cui
è stato scritto il personaggio interpretato da Valentina Lodovini, un ruolo femminile dal sapore
(finalmente) contemporaneo.

Sullo stile fantasy-eroico, altro film destinato al successo è Copperman, ancora una volta distribuito
massicciamente in giro per lo stivale (quasi 200 sale) e ancora una volta dipendente, quasi in
maniera integrale, dal suo popolare protagonista, ovvero Luca Argentero. Copperman ovvero
Anselmo è un uomo che viaggia nel mondo con l’innocenza di un            bambino e il cuore di
un leone. Anselmo è un bambino molto particolare. Dotato di grandissima fantasia e sensibilità,
affronta la quotidianità da solo con la madre in maniera tutta sua: ha sviluppato un’ossessione per i
colori, per le forme circolari e soprattutto per i supereroi. Desidera tanto possedere anche lui dei
superpoteri per poter salvare il mondo come il padre, che in realtà lo ha abbandonato subito dopo la
sua nascita. Questo desiderio cresce dopo aver conosciuto Titti, una bambina molto stravagante, che
però viene costretta ad allontanarsi presto da lui.

  PER APPROFONDIRE:

  ■   Scopri la nostra rubrica dedicata al Cinema

Anselmo cresce ma non smette di guardare il mondo in maniera infantile tanto che, grazie all’aiuto
di un caro amico di famiglia, si trasforma in Copperman, l’uomo di rame, che di notte aiuta a ripulire
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il proprio paese dalle ingiustizie. Le responsabilità di Copperman diventeranno più grandi quando
finalmente Titti tornerà a casa. Un cinema d’altri tempi, non solo per le atmosfere vintage date da
una (curatissima) scenografia che riporta direttamente indietro ad altri anni, ma soprattutto per
l’approccio genuino e fresco con cui si avvicina a certe tematiche. L’espediente supereroistico qui
non ha infatti nulla di ultraterreno, ma diventa una semplice fantasia infantile per affrontare dei
traumi, delle problematiche intrinseche nei personaggi. Senza pietismo ed al tempo stesso senza
superficialità, si mettono in campo le classiche dicotomie tra buoni e cattivi filtrate dagli occhi di un
bambino che non è mai cresciuto.

Vengono alla mente alcune opere di Jean-Pierre Jeunet in cui non ci si interfaccia solo con il racconto
di un personaggio, ma il suo mondo diventa visivamente anche quello dello spettatore. Ed è quello
che prova a fare Puglielli con il proprio film e quello che riescono a ricreare anche i bambini (non)
cresciuti interpretati perfettamente da Luca Argentero e Antonia Truppo.

E in questo mese ritorna in sala Fausto Brizzi, ormai riabilitato pienamente dalle accuse di
“molestie sessuali”, con una commedia comica delle sue, trascinante e dilagante, dal titolo Modalità
aereo, e lo fa servendosi di Paolo Ruffini, di Violante Placido, di Dino Abbrescia, ma soprattutto
di Pasquale Petrolo in arte Lillo, qui privo di Greg, ma che ha verve, simpatia e magnetismo
attrattivo, alla stregua dei più grandi comici del cinema italiano. Il classico cliché della commedia
degli equivoci è utilizzato sapientemente, da chi (Brizzi) sa come si creano commedie di successo.
Sociologicamente il film è una commedia all’italiana a tutti gli effetti, con spunti di situazioni che
rimandano ai nostri maestri più celebrati e si basa su una semplice domanda: cosa succederebbe se
un uomo importante (imprenditore, influencer, uomo d’affari) in viaggio di lavoro in Australia,
dimenticasse il proprio telefonino nei bagni dell’aeroporto e questo finisse in mano a due poveracci
desiderosi di godersi la vita? Pensateci: contocorrente, post-pay, social network…il punto della
questione del film è questo, tutta la nostra vita è nei nostri cellulari.

Se, anni fa Perfetti sconosciuti aveva sdoganato l’importanza dei nostri smartphone dal punto di
vista sentimentale, con annesse possibili relazioni extraconiugali, ora Brizzi lo fa guardando un
punto di vista meno intimista, più pubblico e più lavorativo, in ossequio all’apparenza che sembra,
ahimè, il vero motore per fare soldi nella società di oggi, dove la stessa apparenza vale più della
realtà: specchio di tutto watshapp, facebook, instagram e prodotti similari.

Tra gli altri film in sala a febbraio, posto d’onore merita senz’altro Domani è un altro giorno, con
la supercoppia d’autore composta da Marco Giallini e Valerio Mastandrea remake dell’argentino
Truman – Un vero amico è per sempre. La storia è quella di due grandi amici che si ritrovano per
quattro giorni: uno dei due è malato, l’altro lo raggiunge dal Canada, dove vive e lavora. Sono tante
le cose da dirsi e da sistemare, tra cui un cane, che nell’originale si chiamava appunto Truman, in
questo Pato, e avrà uno spazio importante all’interno della storia. Una bella storia di amicizia al
maschile in cui vengono fuori tante cose, tra cui il fatto che se si è amici nella vita lo si è per sempre
e ci si ama soprattutto perché si è diversi.

I personaggi sono volutamente agli antipodi: da una parte un carattere molto estroverso, dall’altro
uno più chiuso e riflessivo. Se uno vive in Canada, al freddo, l’altro ha una sua vita a Roma. La
conoscenza tra i due diventa una sorta di partita a tennis, in quello che si configura come un
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dramma privato: “Continuiamo ad evitare di pensare alla morte ma è bello che il cinema lo racconti:
dopo l’ondata delle commedie, anche un po’ scadute, degli ultimi tempi sentivo il bisogno di far
realizzare un film drammatico. Sarà una riflessione sui rapporti e sull’esistenza, che farà anche
sorridere lo spettatore”. Non a caso il titolo è diverso dall’originale: “Rinvia all’idea dell’accettazione
della morte, per cui poi le cose vanno avanti: chi fa cinema deve sempre pensare che domani è un
altro giorno, lo dico anche in riferimento alla scomparsa del mio caro amico Carlo Vanzina”.
(Maurizio Tedesco, produttore del film in un’intervista rilasciata per l’Ortigia Film Festival).

Lo stesso giorno del precedente film, il 28 febbraio, esce nella sale anche Croce e delizia, una
commedia familiare di stampo romantico interpretata da Alessandro Gassman e Jasmine Trinca;
mentre chicca del mese è la presenza in sala di Ladri di biciclette, il capolavoro neorealista del
maestro Vittorio De Sica, restaurato e riportato allo splendore delle origini.

Per il resto scarse distribuzioni, per scarsa visibilità: purtroppo i grandi nomi sono i veri trascinatori
di una pellicola, da sempre è così, ad Hollywood quanto a Cinecittà. Non c’è che da prenderne atto e
sperare che un giorno il cinema indipendente in Italia, possa avere un regolamentazione capace di
farlo emergere e dare piena dignità a tutto quel sottobosco cinematografico che lavora in silenzio e
spesso crea dal nulla, capolavori che poi rimangono nel cassetto.

Frammenti segreti di ingerenze politiche
nel cinema italiano
I primi due mesi del 2018, si sono vissuti interamente, o quasi, in campagna elettorale. Le elezioni si
sa, catalizzano l’attenzione mediatica dei mass-media e diventano un po’ un fenomeno di costume.
Oggi c’è Berlusconi, c’è Renzi e c’è Di Maio; una volta c’era la DC e c’era il PC. Oggi c’è la
televisione, prima del 1954 invece no. C’era però il Cinema, con la sua proverbiale capacità
trascinatrice. Oggi la politica entra dappertutto, come allora, come allora nel Cinema. E dato che
parliamo di Cinema, proviamo ora a raccontarvi quattro storie di Cinema segrete, curiose, quattro
storie di ingerenze politiche a cavallo tra Italia e Francia. Fissiamo l’inizio del nostro racconto nel
1951 e precisamente nell’estate del 1951, quando nella Bassa Padana arriva la gente del Cinema, da
Roma, da Cinecittà, e inizia un folle giro tra le province di Parma, Reggio Emilia e Piacenza, alla
ricerca di un borgo particolare. Questa è la genesi della avventure epocali di Don Camillo e del
Sindaco comunista Peppone, sul quale produttori e registi, sapevano già che ci sarebbero stati
parecchi problemi, e si cercò in maniera preventiva di trovare un accordo con la censura. La
pellicola ovviamente trae spunto dalle avventure di Don Camillo e del sindaco Peppone, nati dalla
sagace penna di Giovannino Guareschi, reazionario e comunque pesantemente schierato
politicamente.
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l, ovvero Don Camillo e Peppone, sul set del film omonimo tratto dai racconti di Giovannino
Guareschi.

Il primo regista a essere interpellato fu Alessandro Blasetti, che cominciò a pensarci con entusiasmo
e poi, visti i problemi di natura politica che ne sarebbero sorti, rifiutò in modo simpatico e cordiale.
L’affare passò nelle mani del produttore Peppino Amato, che coinvolse la Cineriz di Angelo Rizzoli, e
furono interpellati altri registi. Mario Camerini, che nel 1972 avrebbe diretto “Don Camillo e i
giovani d’oggi”, non se la sentì di passare per anticomunista. Vittorio De Sica si vantò su “l’Unità” di
aver rifiutato sdegnosamente l’offerta. Luigi Zampa, solo all’idea di mischiarsi a quel bifolco
reazionario di Guareschi disse che non ci pensassero nemmeno. Lo scoglio politico pareva
insormontabile, quanto meno in Italia. Vista la fermezza di Guareschi e visto che in Italia la fifa
faceva 90, Amato tentò all’estero. Il primo a essere interpellato fu Frank Capra, ma il regista
americano si sarebbe liberato solo nel 1953, troppo tardi per i progetti del produttore. Finalmente si
arrivò a Julièn Duvivier, uno dei cineasti di maggior successo in quel periodo, che accettò e ottenne
la possibilità di riscriverne il copione. Affidare dunque ad uno straniero la direzione del film sembrò
a tutti la direzione migliore per superare gli ostacoli di natura politica, che rischiarono di far
naufragare il film. Si creò, comunque durante il film un grosso polverone politico e il frutto un simile
baccano risultò essere la fifa a scoppio semiritardato di Duvivier.
Fin dall’inizio aveva avuto qualche remora
nell’associarsi a un reazionario dichiarato
come Guareschi. Ma ora proprio voleva
prenderne le distanze. Cominciò modificando
la sceneggiatura e compiendo una vera e
propria opera di depoliticizzazione lasciando
spazio al solo umorismo. Eppure, quando il
film andò nelle sale nel 1952, gli spettatori
capirono ugualmente quello che Guareschi
aveva voluto dire. Merito dei suoi personaggi,
delle sue atmosfere, del suo sentimento della
vita. E merito anche di quella accoppiata
fantastica e bizzarra, ma azzeccata fatta da
Fernandel e Gino Cervi. Pochi ci avrebbero
scommesso al momento di metterli insieme,
tanto che della serie ci saranno altre quattro
riuscite pellicole negli anni a seguire. Stessa
cosa grosso modo, accadde per “Ho scelto
l’amore” del 1953, anche se in questo caso
ancor di più si può parlare di ingerenze
politiche che determinano il risultato della
pellicola stessa. Anzi, il film venne messo in
piedi appositamente per un interesse politico.
Siamo alla vigilia delle elezioni del 1953 e la DC incarica la “Film costellazioni”, società di
produzione cattolica dei democristiani Turi Vasile e Diego Fabbri, di realizzare un film di chiara
satira anticomunista che screditasse il partito comunista in previsione delle imminenti elezioni
nazionali. Il volto del protagonista è quello di Renato Rascel, in quel momento l’attore più acclamato
del cinema italiano. La vicenda che ne segue è una bizzarra e incredibile storia di auto-censura della
stessa censura. La censura, ovviamente era dunque un organo strettamente correlato con la
situazione politica e quindi con il governo, e dunque con la DC, si poteva quindi facilmente ipotizzare
che non ci sarebbero stati alcun problema di visto. Niente di più ipotizzabile. Ed infatti il film ottiene
(guarda caso) senza problemi il visto pieno e completo il 23/ 02/ 1953, due mesi prima delle elezioni,
quel che serviva alla Democrazia Cristiana.
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cappotto”.

Senonché a fine febbraio muore Stalin, e all’ultimo momento viene stoppato e rinviato, per evitare
scontri nel paese (l’Italia) dove l’ideologia comunista godeva ancora di un certo numero di
sostenitori. La pellicola uscì comunque ad aprile e fece in tempo ad assolvere il compito per cui era
stata concepita. E come per “Don Camillo”, la regia del film venne affidato ad uno straniero, Mario
Zampi, regista italo-americano, nato a Sora nel 1903, ma che dalla metà degli anni ’30 viveva e
lavorava stabilmente nel Regno Unito. Tutto ciò per prudenza, per una sorta di preventiva prudenza
che governava su queste cose troppo grosse, troppo eccessive per quello che era il clima culturale,
politico ed ideologico dell’Italia degli anni ’50. Addirittura l’intervento censorio venne esteso anche
sulle locandine pubblicitarie correlate alle pellicole stesse, le quali non dovevano ovviamente ledere
il buon costume e mostrare espliciti riferimenti a sesso, politica, religione o violenza. Tre casi su tutti
vorrei qui enunciare. Per la locandina de “La famiglia Passaguai”(1952) di e con Aldo Fabrizi, venne
censurata una delle locandine, perché Aldo Fabrizi mostra un disegno di un corpo di donna nudo, su
cui aveva inserito il suo viso; e il manifesto del film “Poveri ma belli”, venne modificato, quindi
censurato, su indicazione delle istituzioni ecclesiastiche, perchè il fondoschiena di Marisa Allasio era
ben in evidenza; anche il manifesto di “Dove sta Zazà”, con Nino Taranto, venne censurato perchè la
locandina mostrava chiaramente il disegno di una donna in costume da bagno.
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rbareschi sul set di Romance

Ma le ingerenze politiche non si limitano soltanto alla censura di un film o alla sua creazione per
scopi meramente politici. Come in molti concorsi, ahimé, la politica è parte integrante, spesso, dei
risultati che scaturiscono dai Festival. Due casi spiacevoli su tutti, ci aiuteranno a capire questo
concetto. Parliamo ancora di Renato Rascel e di quella che da molti è ritenuta una delle più belle
interpretazioni della storia del cinema italiano, ovvero quella del “Cappotto”, di Alberto Lattuada. Il
film è talmente tanto applaudito, da mettere d’accordo pubblico e critica (spesso, troppo spesso, in
disaccordo) e unanime è l’apprezzamento per l’interpretazione di Rascel, che dal film riceve ampia
notorietà e fama internazionale. Il film presentato in concorso alla quinta edizione del Festival di
Cannes, riceve sonori e scroscianti applausi sia per la sua confezione che per l’interpretazione
dell’attore protagonista; leggenda vuole che i giurati stiano per dare la coppa per la miglior
interpretazione proprio a Renato Rascel, il film come detto piace molto, ma Marlon Brando con Viva
Zapata gliela porta via. Tale fu il clamore suscitato da quell’incredibile ingerenza politica, neanche
troppo malcelata, che sei anni più tardi, Renato è di nuovo a Cannes, sfila di nuovo sul red carpet del
Festival francese, e questa volta il suo film in gara, “Policarpo, ufficiale di scrittura” vince il premio
come miglior commedia della kermesse. Un risarcimento per l’efferato scippo di sei anni prima?
Forse. Probabile. Ma peggio, molto peggio si fece nel 1986, con il grande Walter Chiari, rientrato
dopo anni di faticosa risalita, alla ribalta, in seguito a quell’assurda storia di droga, che gli tolse
fama e lavoro.

Al film “Romance”, appunto presentato alla 43esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia,
resta legato un episodio molto spiacevole divenuto poi famosissimo. Proviamo a ricostruire il
fattaccio. Era un settembre bollente e Venezia si era fatta bella per accogliere il meglio del cinema
mondiale. Alla kermesse era presente anche un piccolo grande film, poetico,elegante, sincero, che
aveva riportato una vecchia volpe dello spettacolo come Walter Chiari, ai fasti di un tempo. Il titolo
era “Romance” e il regista Massimo Mazzucco. Il film fu applauditissimo dal pubblico e osannato
dalla critica, e da outsider, si issò ben presto addirittura, come il film favorito per la vittoria finale
del Leone d’oro, o almeno per la Coppa Volpi al miglior attore. Il giorno prima della premiazione ad
un Walter Chiari raggiante fu annunciato da un incaricato della giuria che avrebbe vinto il premio
per la migliore interpretazione maschile. Lui pazzo di gioia chiamò amici e parenti al Lido, per
vedere consegnare, durante la cerimonia finale, il premio ad un altro attore, Carlo Delle Piane, che
proprio Walter aveva tenuto a battesimo in teatro fin dagli anni ’50. Così quello che avrebbe potuto
essere un giusto riconoscimento per un grande attore giunto al termine della sua carriera si tramutò
in una beffa feroce. Una brutta storia che conferma come il grande successo di Walter Chiari sia
sempre stato scomodo a qualcuno. Questa fu quindi la storia di un tradimento allucinante, eclatante
e orrendo. Nella notte prima della premiazione, secondo una ricostruzione alquanto attendibile,
suonano i telefoni della giuria, una misteriosa voce dall’altra parte della cornetta li riunisce tutti, in
piena notte e in grande segreto. La motivazione? Togliere il premio già assegnato a Walter Chiari e
assegnarlo ad un altro, magari a Carlo Delle Piane, perché no. Lì c’è stata un’ingerenza politica
talmente evidente che Grazzini sul Corriere della Sera scrisse: “vittoria artistica di Walter Chiari,
vittoria politica di De Mita [allora a capo del Governo] e Pupi Avati”. Fu un grosso sgarbo fatto a
Walter, tanto che la protesta dei fotografi che poggiarono le macchine a terra e i fischi della platea,
al momento della consegna del premio a Carlo Delle Piane, sono rimasti nella storia. Curiosamente
dieci anni dopo lo stesso Pupi Avati, consegnerà a Massimo Boldi il ruolo della vita, facendogli
interpretare il personaggio di Walter Chiari e ricostruendo gli attimi concitati della 43esima edizione
della Mostra del Cinema di Venezia e di tutto quello che successe in quella tormentata edizione della
kermesse italiana. Il film si chiamerà proprio “Festival” e rappresenta la vetta artistica di un
Massimo Boldi sorprendente, per la prima e unica volta drammatico. Ed è tantissima roba.

Ci siamo dilungati, ma se il mondo è pieno di ingerenze politiche, volte a rovesciare sovente i
verdetti, per opportunità, per comodità o per scomodità, anche il Cinema bisogna ammettere non è
scevro da questo cancro. Abbiamo elencato i casi più comuni, più eclatanti, quelli che hanno fatto
storia e che, per colpa di ingerenze politiche, ci hanno regalato casi orribili, come quello capitato al
povero Walter Chiari, che innanzitutto era una brava persona ed un’artista insuperabile e non
avrebbe meritato questo tipo di trattamento.

La situazione attuale del cinema italiano:
crisi, riforme, multisale e produzioni di
qualità
Il cinema italiano, nella sua gloriosa storia, ha affrontato due momenti di profonda crisi, superate
entrambe a fasi alterne. La prima coincise a fine anni ’80, con lo svuotamento delle sale
cinematografiche, anche a causa della definitiva consacrazione del mezzo televisivo, con l’avvento
delle televisioni private, che hanno in qualche modo monopolizzato lo spettacolo italiano. La seconda
affonda le sue radici nello svuotamento culturale che il cinema umoristico italiano ha sofferto nel
primo decennio degli anni 2000. Innanzitutto bisogna chiarire come il cinema italiano è stato quasi
sempre orientato verso il brillante, l’umoristico a tratti venato da punte di malinconia o amarezza.

Il tutto nacque subito dopo la guerra e tale è rimasto fino ad oggi, saggiamente gli autori e i
produttori dell’epoca si indirizzarono al solo campo nel quale le grosse produzioni internazionali non
avrebbero potuto batterci, ossia a quello che aveva a che fare più da vicino con gli italiani stessi, con
la nostra cronaca locale, con i nostri vizi e i nostri pregi, e in chiave prevalentemente umoristica.
Così nacque la commedia all’italiana e così nacque la capacità dei nostri autori di parlare
prettamente di noi stessi. Perché si scelse, e ancora oggi si sceglie la chiave umoristica? Perché il
terreno dell’umorismo è quello dove l’identità nazionale è più salda, dove il rischio dell’invasione da
parte di un prodotto straniero è più ridotto. D’altronde la situazione del nostro cinema è stata quasi
sempre salvata dai film comici o comunque brillanti.

Ad inizio
anni ’60,
le sale
cinemat
ografich
e       si
reggono
con      i
film
della
commed
ia
all’italia
na; tra
la metà
degli
anni ’60
e l’inizio
dei ’70
la coppia composta da Franchi & Ingrassia tiene in vita il cinema italiano; così come la crisi degli
anni ’80 è salvata dalla commedia sexy. Negli anni ’90 la comicità toscana di Leonardo Pieraccioni fa
il tutto esaurito, così come i cinepanettoni di Boldi e De Sica. Oggi il successo di Checco Zalone,
Ficarra & Picone, Alessandro Siani, confermano la propensione italica al cinema di intrattenimento.
Insomma, sta di fatto che il genere comico apparve ben presto quello più richiesto dal pubblico
italiano all’industria nazionale, né le cose sarebbero cambiate troppo in seguito.

Ritornando allo svuotamento delle sale cinematografiche, tutto nacque dalla diffusione del mezzo
televisivo, ricordando come già dal 1955 al cinema si assistette ad un’inversione di tendenza, con
una perdita di 29 milioni di biglietti venduti. Crollo verticale che non si è mai fermato, in oltre
60 anni di storia da allora ad oggi. Ciò coincideva con l’ingresso in campo del nuovo e formidabile
avversario del cinema, ovvero la televisione, che però spesso si è servita e si serve del cinema,
proiettando e riproiettando pellicole di tutti i tipi.

Senza una vera e propria disciplina, tanto è vero che è del mese di ottobre, la nuova riforma sul
cinema, voluta fortemente dai professionisti del settore. L’attuale riforma, diventata legge da
pochissimi giorni, impone alle televisioni (Rai, Mediaset, La7, Sky in primis) di inserire nei loro
palinsesti, in prima serata, il 30% della programmazione annuale, dedicata alle serie televisive
italiane e alle pellicole nazionali, con particolare riferimento alle produzioni dell’ultimo ventennio.
La situazione attuale delle produzioni italiane, in linea con la nostra storia, soffre i grossi prodotti
internazionali, ma si rifà sfruttando la capacità prettamente italiana di parlare di noi stessi. Alla
tecnologia, agli effetti speciali e ai film d’avventura americani, rispondiamo con l’antica arte della
commedia, con la parodia e con l’umorismo. In questo, anche oggi, il cinema italiano è insuperabile e
regge il confronto con i capitali enormi delle produzioni internazionali.

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esso di attrarre nei cinema, un po’ tutte le fasce d’età, offrendo una varietà di generi e di pellicole in
contemporanea, che hanno senza dubbio risollevato le sorti delle sale cinematografiche. Facendo
questo però, si è assistito ad una selezione, che ha portato alla chiusura delle sale di provincia,
magari quelle storiche, e al monopolio delle “nuove” multisale, tecnologiche e super attrezzate.
Arrivati a questo punto val la pena trattare, un argomento che ha ottenuto parecchia risonanza negli
ultimi anni, ovvero la necessità di insegnare l’arte del cinema alle nuove generazioni. Bisogno tenuto
per anni nel dimenticatoio e che ha portato ad una sorta di analfabetizzazione cinematografica del
nostro paese, che non giova all’Italia, soprattutto in riferimento al nostro patrimonio cinematografico
di inestimabile valore, secondo solo a quello americano e primo in Europa. Per questa ragione, negli
ultimo quinquennio, il SNCCI (Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani) si è battute in
tutte le sedi opportune per ottenere l’insegnamento del cinema nelle scuole. La riforma è passata lo
scorso anno, ma si attende ancora un nuovo disegno di legge che possa stabilire tempi e modi di
insegnamento, ovvero come inserire l’arte cinematografica nei programmi ministeriali scolastici,
riferite alle scuole medie superiori di tutte le tipologie.

Soffermandoci, in ultimo, sulla mera quantificazione dei nostri prodotti cinematografici, soltanto
nell’ultimo anno tra cortometraggi, lungometraggi e documentari sono attualmente usciti oltre 540
lavori, la metà di quelli americani, ma il doppio dei prodotti inglesi, che ci confermano il secondo
paese al mondo nel Cinema, in ossequio alla nostra grande storia. La situazione attuale del cinema
italiano è in continua evoluzione, è come un calderone pronto ad esplodere, dopo anni o addirittura
decenni di immobilismo, con la riconquistata consapevolezza che il Cinema, nell’ambito della cultura
nazionale, deve necessariamente rivestire un ruolo di primissimo piano e che questo non deve essere
assolutamente disperso.

Sport, calcio e cinema italiano

Domenico Palattella (72)

Forse nessuno ci ha mai pensato, eppure non è un
caso se lo sport comincia ad assumere largo peso
nella vita sociale con le Olimpiadi del 1896 ad Atene,
cioè in pratica contemporaneamente al momento
iniziale di diffusione del cinematografo. Infatti le
riprese d’attualità giocano un ruolo primario, in
questa prima fase di assestamento del linguaggio
cinematografico, nel diffondere assieme alla
popolarità del nuovo medium anche quella delle varie
discipline sportive. Dunque lo sport, inteso con
l’accezione moderna del termine, e il Cinema, inteso come forma d’Arte, sono coetanei e dalla loro
unione hanno spesso creato cortocircuiti artistico-sportivi veramente notevoli. Inutile nascondere
che la posizione preponderante, intesa come attività sportiva che si fonde con il Cinema, è
appannaggio del calcio, soprattutto in Italia, dove ad onor del vero il calcio non ha mai trovato sullo
schermo una messinscena che fosse in grado di renderne al meglio le peculiarità agonistiche. Ma
non mancano di certo casi eclatanti, interessanti, professionali, rimasti nella memoria collettiva.

Così Totò è un delizioso presidente di calcio di una scalcinata squadra della provincia pugliese, nel
film “Gambe d’oro”(1958). In quegli anni comunque, sul terreno del Cinema, il calcio si va
affermando come pretesto per raccontare storie sviluppate all’interno di vari generi. In “Parigi è
sempre Parigi” (1951) Luciano Emmer, dopo “Domenica d’agosto” (1950), continua a descrivere i
desideri e i sogni della piccola borghesia narrando la trasferta francese di alcuni italiani al seguito
della nazionale, dove a tenere le redini di tutto c’è la professionalità attoriale autoriale di Aldo
Fabrizi. Mario Camerini, in “Gli eroi della domenica” (1952), utilizza Raf Vallone, ex giocatore del
Torino, per portare in scena un giocatore corruttibile in una squadra che ha la possibilità di passare
in serie A. In “L’inafferrabile 12” (1950) di Mario Mattoli, Walter Chiari fa la parte di un portiere
della Juventus con un gemello che scatenerà la commedia degli equivoci. Nel film di Mattoli
compaiono i ‘veri’ giocatori della squadra dando il via a un fenomeno che diventa in breve una
caratteristica del film calcistico: la costante apparizione di calciatori o operatori del settore nel ruolo
di sé stessi.

Ben riuscita appare anche la parodia del cinema di Sergio
Leone nella regia accorta di un calcio di rigore contenuta nel
divertente film “Don Franco e don Ciccio nell’anno della
contestazione” (1970) di Marino Girolami, con Franco
Franchi e Ciccio Ingrassia deliziosi mattatori della pellicola. E
in quello stesso anno Alberto Sordi convince nei panni del
“Presidente del Borgorosso football club”. Nell’omonimo film
Sordi è perfetto nel tratteggiare questo carnale e sanguigno
presidente, che dapprima disinteressato, piano piano si
appassiona al calcio e alla sua squadra, diventandone il più
accanito tifoso. Storie del passato, in chiave nostalgica,
ambientate nel mondo del calcio e del consumo che gli ruota
attorno sono messe in scena in “Italia-Germania 4 a 3” (1990)
di Andrea Terzini e in “Figurine” (1997) di Giovanni
Robbiano. In “Pane e cioccolata”(1974) di Franco Brusati,
Nino Manfredi ha il ruolo di un cameriere emigrato in Svizzera, il quale, pur essendosi tinti i capelli
di biondo per apparire più simile al modello nordico, non si contiene di fronte a un gol della
nazionale italiana, denunciando così le proprie origini. Questa scena codifica una situazione tipica
del film ad argomento calcistico: l’incapacità di autocontrollo emotivo da parte del tifoso. Il tifoso
semplicemente non riesce a contenere umori e rabbie.
Degni di nota, nell’ambito di una comicità grezza, al
passo con l’involuzione culturale degli anni ’70 e ’80,
sono da evidenziare sia “I due maghi del
pallone”(1970), con Franco Franchi e Ciccio
Ingrassia, sia “L’allenatore nel pallone”(1984), con
Lino Banfi. Il suo personaggio di Oronzo Canà,ha
avuto talmente tanto successo, da essere rimasto
nella memoria collettiva del nostro Paese.
Struggente e nostalgico è invece “Ultimo minuto”(1987), film di alta scuola diretto da Pupi Avati e
interpretato da Ugo Tognazzi, in una delle sue ultime memorabili interpretazioni.
Invece l’episodio sportivo più in generale, malgrado la curiosità sociale sempre crescente verso la
vita privata di divi-calciatori o ciclisti e l’interesse generalizzato per lo spettacolo dello sport, ha
sempre faticato a decollare. Alcuni esempi però se non sono memorabili, poco ci manca.

E’ il caso di “Totò al Giro d’Italia” (1949), dove al
fianco del grande Totò sfilano Boblet, Coppi, Bartali
e tutti i più grandi ciclisti dell’epoca; e poi la coppia
Vianello-Tognazzi è utilizzata nel film “Le olimpiadi
dei mariti” (1960), girato in contemporanea con le
Olimpiadi di Roma ’60 e che contiene alcune scene di
repertorio di quei Giochi Olimpici italiani. Lo spunto
delle Olimpiadi è un pretesto per sviluppare la storia
da pochade francese di due mariti che spediscono le
mogli in villeggiatura ( Sandra Mondaini e Delia
Scala) per potersela spassare con due turiste giunte
a Roma appunto per le Olimpiadi. A questo punto va
citato, necessariamente, Bud Spencer, che inaugura
nel cinema italiano la figura dell’atleta-attore. Lui
che era stato campione italiano e internazionale di nuoto e pallanuoto, aveva poi, quasi per caso
sfondato nel mondo del cinema, e allora il suo utilizzo si legherà spesso allo sport, su tutti “Lo
chiamavano Bulldozer”(1977), in cui interpreta un ex campione di rugby e “Bomber”(1982), in cui
interpreta un ex campione di boxe. Due film quasi in fotocopia, che sfruttano il fisico e la simpatia di
Bud Spencer, oltre che la sua estesa popolarità.

Permettetemi poi una citazione della saga di “Fantozzi”, che di fronte ad una partita della Nazionale
in tv prepara il suo programmino irrinunciabile con “ infradito, mutande, canotta rigorosamente
macchiata, frittatone di cipolle, familiare di birra ghiacciata, tifo indiavolato e rutto libero”. Non
mancano nei vari capitoli delle avventure di Fantozzi, numerosi, memorabili ed esilaranti episodi che
riguardano lo sport,tra cui quella della partita di calcio tra scapoli e ammogliati; quella della Coppa
Cobram e la favolosa gara di ciclismo; oppure quella della gara di atletica leggera. Tutte sopra le
righe, grottesche, esagerate, ma dotate di un’irriverente carica comica davvero eccezionale.

Lo sport ha dunque influenzato e continua ad influenzare il Cinema, anche quello italiano, spesso
riottoso a fondersi con esso. Lo sport rimane assolutamente comunque come cultura popolare del
nostro paese, basti pensare, in conclusione, che in “Notte prima degli esami”(2006), il regista Fausto
Brizzi, per raccontare i giovani degli anni ’80, ha ambientato il film proprio durante le epiche notti
mondiali dell’82, in cui l’Italia vinse il suo storico terzo mondiale di calcio. E l’anno dopo nel
trasferire ai giorni d’oggi l’esame di stato,cosa fa? Ambienta “Notte prima degli esami-oggi”(2007),
proprio nell’estate del 2006, l’anno dell’incredibile quarto mondiale azzurro.

Addio al grande Bud Spencer, il “gigante
buono” del cinema italiano

Domenico Palattella (72)

  Il Time, popolare rivista statunitense, definì Bud Spencer nel 1982, l’attore italiano più famoso del
  mondo, più di Totò, più di Marcello Mastroianni, più del suo compagno Terence Hill.

  E non solo, Carlo Pedersoli, in arte Bud Spencer, è
  a quanto pare l’attore italiano più amato ai giorni
  nostri. Tutti sono cresciuti con le sue gesta, con la
  sua grande umanità, con i suoi sganassoni a fin di
  bene. Ha insegnato attraverso il cinema a reagire
  contro le ingiustizie e i soprusi. Ci ha insegnato
  che nella vita non è importante l’abito e che i più
  deboli vanno protetti con dedizione. Non si
  definiva un vero attore, perché non aveva fatto teatro, eppure alla notizia della sua morte siamo
  rimasti tutti un po’ spiazzati, con un magone in gola che ci assale. Sembrava immortale quel
  gigante buono, eppure se n’è andato anche lui. Forse è morto Carlo Pedersoli, ma non Bud
Spencer, non i suoi insegnamenti, non la sua umanità. E’ morta con lui una parte della nostra
giovinezza, una parte del nostro cuore.

La sua morte per l’affetto popolare che nutre Bud Spencer è paragonabile per dimensione
soltanto a quella di Mario Riva, di Totò o di Alberto Sordi. Eppure lui non era nato attore, era però
nato sportivo, nuotatore. Nel 1949 era già nella nazionale italiana di nuoto, ed è entrato nella
storia del sport italiano quando nei 100mtr stile libero è stato il primo italiano a infrangere la
barriera del minuto netto: precisamente con il tempo di 59″5 nel 1950. Erano i tempi in cui la rana
si nuotava in maniera inusuale, muovendo le gambe a farfalla e il tuffo di partenza era molto più
goffo di quello quasi chirurgico dei tempi odierni. Partecipò a due Olimpiadi, quella del 1952 a
Helsinki e quella del 1956 a Melbourne, arrivando in entrambi i casi alla semifinale olimpica dei
100 mtr stile libero. Ha vinto anche una medaglia d’oro, facendo
parte della spedizione azzurra della nazionale di pallanuoto ai
Giochi del Mediterraneo del 1955, mentre agli stessi giochi,
nell’edizione del 1951 a Alessandria d’Egitto vinse due medaglie
d’argento individuali nel nuoto.

A questo punto il suo fisico massiccio e imponente viene, però, notato
dall’ambiente cinematografico. Il suo esordio, quasi casuale, avviene nella grande
produzione hollywoodiana Quo vadis?, un peplum nel quale impersonava una guardia dell’impero
romano. Con il cinema la gavetta è lunga e Bud Spencer conquista il ruolo di protagonista nel
western «Dio perdona io no» soltanto nel 1967 grazie a Giuseppe Colizzi. Prima rifiutato per le
richieste economiche ma poi arruolato perché risulta il solo adatto alla parte di gigantesco e
minaccioso partner del protagonista, Pedersoli incontra qui Mario Girotti. I due decideranno, alla
fine del film, di cambiare i propri nomi sui manifesti per attrarre il pubblico e Pedersoli sceglierà
il suo in omaggio alla birra Bud e all’adorato Spencer Tracy. Il successo del film è più che
lusinghiero, ma sarà l’episodio successivo, «Lo chiamavano Trinità» (E.B. Clucher, 1970) a
consacrare il successo personale del duo.
Un vero e proprio colpo di fulmine con il pubblico
che si ripeterà, infallibile, per altre 16 volte in
tutto. Nel 1970 uscì nelle sale “Lo chiamavano
Trinità…”, che battezzò un vero e proprio
sottogenere dello spaghetti-western: quello dei
fagioli-western, dove le pallottole vedono una
quasi integrale sostituzione da parte dei ganci
destri. Il regista E.B. Clucher, pseudonimo di Enzo
Barboni, eredita dai film di Giuseppe Colizzi la
coppia Hill-Spencer e la porta definitivamente
verso la comicità e verso il grande successo, in un
western puzzone e naif, dove gli sganassoni contano più delle pistole e il regolamento di conti
finale avviene con un’epica e incruenta scazzottata. Il film che per molti simboleggiò la fine del
western all’italiana ebbe un enorme, e inaspettato, successo di pubblico (3 miliardi di lire di
incassi): l’evoluzione del genere in chiave ridanciana più che eroicomica recupera le situazioni
della farsa, con una separazione talmente manichea tra buoni e cattivi da innescare nel pubblico
meno smaliziato l’identificazione con i protagonisti, raddrizzatori di torti e vendicatori di
ingiustizie con il sorriso sulle labbra, ed è il loro capolavoro. Queste caratteristiche della coppia,
che peraltro porteranno in maniera intatta in tutte le successive pellicole interpretate, sono la
vera base del grande successo che hanno sempre ottenuto: il pubblico si identificò con questi due
buffi personaggi, che inseriti nel selvaggio west, o in luoghi tropicali, o come poliziotti nella
metropoli americana, riuscivano sempre e comunque, a sconfiggere il loro nemici a suon di
sganassoni e di risate, una piccola vittoria del bene sul male.

Un vero idolo per grandi e bambini, Il cliché del personaggio è sempre lo stesso e Bud Spencer lo
riutilizzerà anche da solo: un gigante dal cuor d’oro che mena sganassoni, sorride sempre come
un bambino, ristabilisce i torti e si gode la vita. Cow boy o investigatore (la serie di Steno
«Piedone lo sbirro»), avventuriero o buon padre di famiglia, Bud Spencer mette perfino a punto
un tipo di pugno a martello che lo renderà inconfondibile. Al di là dei classici cliché la carriera
cinematografica di Bud Spencer è quanto di più poliedrico si possa trovare in circolazione, ha
sperimentato infatti, da grande attore, altri generi cinematografici: il thriller, lasciandosi dirigere
da Dario Argento in 4 mosche di velluto grigio (1971), e il dramma di denuncia civile con Torino
nera (1972) di Carlo Lizzani. Per poi ritornare nel 1973 alla commedia brillante con la fortunata
tetralogia di Piedone lo sbirro (cui seguiranno Piedone a Hong Kong del 1975, Piedone
l’africano nel 1978, e infine Piedone d’Egitto del 1980), nata da una sua stessa idea e che lo vede
protagonista assoluto per la regia di Steno, indimenticato re della commedia all’italiana. In
particolare la tetralogia delle avventure del poliziotto napoletano che gira disarmato e fa valere la
legge a colpi di sganassoni, è tra i più grandi successi di pubblico di tutti gli anni ’70.

Bud Spencer, in questa serie di film per la prima
volta non doppiato, è straordinario nel dipingere
questo poliziotto disposto a chiudere un occhio nei
confronti dei piccoli delinquenti, ma che non ha
pietà verso i criminali senza scrupoli. Il pubblico vi
si riconobbe e ne decretò il trionfo. A far da spalla
a Bud Spencer anche un grande Enzo Cannavale
nel ruolo del brigadiere Caputo. In quegli stessi
anni degno di nota è anche la pellicola “Il soldato
di ventura”(1976), e in cui dopo la prima esperienza di Piedone lo sbirro, Bud Spencer recita
ancora con la sua vera voce. ll film è ambientato nel 1503 e tratta in chiave comico/grottesca la
disfida di Barletta. Altro film degno di essere segnalato, e ancora diretto dall’esperto Steno,
è “Banana Joe” del 1982, una favola comico-avventurosa di grande divertimento. “Una brezza
leggera e cauta di allegro anarchismo”, disse della pellicola la critica specializzata, evidenziando
come Bud Spencer sia ormai “il grosso più simpatico del cinema italiano ed europeo”. Banana Joe
non è altro che un gigante dal cuore d’oro, che, come lavoro, commercia lungo il fiume banane
che scambia con altri prodotti destinati ai nativi indios di Amantido, e che se la dovrà vedere
contro alcuni trafficanti di droga. Il suo successo come attore continuerà sempre senza soluzioni
di continuità, segno dell’affetto incondizionato del pubblico.

Sempre disponibile con tutti, si faceva voler bene anche dai colleghi, Enzo Cannavale disse di lui:
“Bud è un amico carissimo. Brava persona, legatissima alla famiglia. E ai valori“. Bud Spencer è
dunque un personaggio destinato all’immortalità, ne sono certo, perché ha saputo parlare al cuore
della gente, senza volgarità, senza doppi sensi, senza parolacce e senza violenza…i suoi
sganassoni sono la metafora della lotta contro il nemico, della tutela nei confronti del più
disagiato, lo sganassone è un messaggio di pace, è un messaggio del bene che sconfigge il
nemico, del debole che batte il forte. Addio “gigante buono” del cinema italiano. Grande oltre la
tua umiltà. Immortale oltre la tua immaginazione.
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