Associazione Italiana di Psicologia Giuridica - AIPG

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Associazione Italiana di Psicologia Giuridica - AIPG
Associazione Italiana di Psicologia Giuridica

                     Corso di Formazione in
       Psicologia Giuridica e Psicopatologia Forense
         Teoria e Tecnica della Perizia e della Consulenza Tecnica
                in ambito Civile e Penale, adulti e minorile

            “Indagine clinico psicodiagnostica nella
          valutazione della compatibilità con il regime
                          carcerario”

                                                        Candidata
                                                   Emanuela Salmè

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CORSO 2020

    Abstract : Le problematiche penitenziarie che spesso richiedono l’intervento dello psichiatra
    forense attengono alla valutazione della compatibilità o meno delle condizioni di salute del
    soggetto detenuto o in attesa di giudizio, con lo stato carcerario.
    E’ stata esaminata la normativa di riferimento, in base alla quale il giudizio tecnico si deve
    fondare sulla gravità della malattia e sull’eventuale incidenza negativa esercitata su questa o
    sulla sua evoluzione dalla detenzione, con particolare riguardo alla salute mentale.
    Tenuto conto delle problematiche connesse alle cure in carcere, si sono esaminati gli elementi
    utili e necessari nell’espletamento dell’accertamento peritale, ed alle possibili alternative nel
    caso di incompatibilità.
    Si è fatto un breve cenno alle peculiari condizioni attuali, in relazione all’epidemia da Covid-
    19.

                                          INDICE

    1. Salute e carcere
    2. Compatibilità con la detenzione
    3. Esecuzione penale e incompatibilità con il regime carcerario
    4. Salute mentale ed assistenza psichiatrica in carcere
    5. Problematiche psichiche e compatibilità carceraria
    6. La perizia psichiatrica
    7. Emergenza sanitaria Covid 19 e differimento pena

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1. Salute e carcere

       La salute è uno dei beni primari dell’uomo, la condizione indispensabile ed
       imprescindibile affinchè ogni individuo possa esprimere liberamente la propria
       personalità.
       Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità “la salute è uno stato di completo
       benessere fisico, mentale, sociale e non consiste soltanto nell’assenza di malattie o
       infermità. Il possesso del migliore stato di sanità che si possa raggiungere costituisce
       uno dei diritti fondamentali di ciascun essere umano, qualunque sia la sua razza, la
       sua religione, le sue opinioni politiche, la sua condizione economica e sociale. I
       Governi hanno la responsabilità della sanità dei loro popoli: essi per farvi parte
       devono prendere le misure sanitarie e sociali appropriate”.
       La Costituzione Italiana pone la salute come “fondamentale diritto dell’individuo” e
       giudica che tendere ad essa è “interesse della collettività”, evidenziando in tal modo
       l’importanza rilevante che riveste nella vita di tutti gli individui.
       Il diritto alla salute è pertanto un valore costituzionale supremo, e si ricollega
       intrinsecamente all’integrità psico-fisica della persona.
       Essendo un diritto di tutta la popolazione nella sua interezza, non possono ovviamente
       essere escluse categorie di persone, quali i detenuti, che si trovano in posizione di più
       difficile accessibilità ai servizi rispetto ai liberi.
       La detenzione è una restrizione della naturale condizione di libertà dell’uomo; è noto
       che scopo fondamentale della detenzione e della pena comminata dal magistrato è il
       recupero, la risocializzazione ed il reintegro del reo - a fine pena – in un contesto
       sociale il più possibile sano e produttivo.
       In questo percorso di recupero del detenuto, il mantenimento di uno stato di benessere
       psico-fisico appare fondamentale, sebbene difficilmente raggiungibile, stante la
       peculiarità dell’ambiente carcerario, non sempre pronto a dare le migliori risposte
       terapeutiche possibili e - sotto il profilo psicologico e morale – fonte per sua natura di
       una sofferenza aggiuntiva.
       I diritti del detenuto vengono anche messi in discussione dalle attuali complesse
       condizioni degli istituti carcerari italiani che versano in condizioni critiche, a causa in
       particolare del sovraffollamento delle carceri che contribuisce a rendere estremamente
       difficoltoso ed a volte impossibile assicurare anche i più semplici servizi sanitari di
       base.

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Nell’ambito di tali premesse, una particolare digressione merita l’applicazione dell’art.
    41-bis (cosiddetto “carcere duro”) della L. 354, che definisce la possibilità da parte
    del Ministero di Giustizia di sospendere in particolari condizioni gran parte dei diritti
    riservati agli altri detenuti: “Quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza
    pubblica, anche a richiesta del Ministero dell’Interno, il Ministro della Giustizia ha
    la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti o internati per
    taluno dei delitti…(omissis) in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere
    la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva,
    l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge
    che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza”.
    Secondo uno studio dell’Osservatorio Permanente delle morti in carcere, il suicidio fra
    i detenuti al 41 – bis è di 3,5 volte superiore rispetto alla popolazione carceraria
    “normale”.
    La privazione a lungo termine dei contatti interpersonali e la grave limitazione delle
    informazioni e del contatto con l’esterno sono ovviamente importanti fattori
    patoplastici che favoriscono l’insorgenza di psicopatologie.
    Ma riguardo l’insorgenza di patologie nel 41-bis occorre ancora osservare che il
    regime di proroga che viene spesso applicato a lungo termine a criminali di elevata
    pericolosità sociale (come ad esempio i boss della mafia), determina di fatto un
    innalzamento dell’età della popolazione carceraria e di conseguenza una più elevata
    probabilità di sviluppo di malattie croniche dell’età involutiva. Non è infrequente
    pertanto, osservare in detenuti in 41 – bis, oltre che le tradizionali patologie tipiche
    della detenzione, anche malattie croniche e degenerative, quali stati dementigeni,
    tumori, gravi cardiopatie.
    Il 41 – bis, va ricordato, non esclude a priori l’incompatibilità carceraria: è di tutta
    evidenza come il carcere duro viene (almeno in teoria) utilizzato con la finalità
    primaria di isolare il detenuto dalla rete criminale di appartenenza, e pertanto la
    necessità di questo isolamento diventa fondamentale per l’autorità giudiziaria nella
    gestione del detenuto.
    Dalla lettura delle numerose sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
    emerge una certa inadeguatezza nella tutela dei detenuti in regime di carcere duro ed
    una scarsa disponibilità della Corte a dare rilevanza alle condizioni soggettive dei
    detenuti in regime di 41 – bis, nonostante in qualche caso si potessero legittimamente

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riscontrare casi di trattamenti inumani e degradanti (Art. 3 CEDU).
    I Giudici di Strasburgo si sono più volte occupati della compatibilità dell’art. 41 – bis
    con le norme convenzionali e gli standard di tutela dei diritti umani sanciti dalla
    CEDU, facendo particolare riferimento agli artt. 3,8,13 della Convenzione.
    A seguito delle prime applicazioni del 41-bis sono state registrate presunte violazioni
    dei diritti fondamentali dei detenuti denunciati alla Corte EDU e che, come anche la
    giurisprudenza Costituzionale che quella internazionale hanno precisato, tale norma,
    pur rappresentando una limitazione di alcuni diritti fondamentali dei detenuti, non
    viola le norme Costituzionali, Comunitarie e internazionali e bisogna valutare la
    situazione caso per caso in relazione alla durata del trattamento, le sue ricadute
    sull’integrità fisica e psichica dei detenuti e le caratteristiche personali dello stesso, fra
    cui in particolare il sesso, l’età e lo stato di salute reale; inoltre, la presenza di un
    trattamento inumano e degradante non è implicito, ma deve essere provato.

    L’OMS ha più volte segnalato come la salute nelle carceri sia troppo spesso trascurata,
    sebbene sia un tema di assoluta priorità in quanto si coniuga con uno dei fondamentali
    diritti della persona.
    Seguendo le indicazioni dell’OMS in tema di responsabilità degli stati sovrani sulla
    salute negli istituti di pena, anche in Italia il legislatore con un complesso percorso di
    riforma avviato già dal 1998/99 ha completato il passaggio da una sanità gestita dal
    Ministero di Giustizia ad una di competenza degli organi e delle strutture del Servizio
    Sanitario Nazionale (SSN).
    La separazione dei ruoli e delle competenze è risultata il modo più efficiente e più
    efficace per garantire elevati standard di sicurezza e salute nei contesti penitenziari
    (“Progetto Obiettivo per la tutela della salute in ambito penitenziario” – Decreto 21
    aprile 2000, Ministero della Sanità).
    Successivamente al percorso di integrazione carcere-territorio-SSN, alcune specialità,
    quali la psichiatria, si sono giovate di ulteriori tasselli legislativi che hanno consentito
    un’evoluzione migliorativa della condizione dei detenuti affetti da patologie mentali
    attraverso la L. 9/2012 e successiva L.81/2014 con le quali si è determinata la chiusura
    degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) e l’apertura delle Residenze per
    l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS), con l’obiettivo di passare da
    un’assistenza psichiatrica prevalentemente custodiale ad una diversa assistenza con
    maggiori contenuti terapeutico-riabilitativi.

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Ritornando a considerazioni di carattere più generale, la privazione della libertà
    personale è una condizione costrittiva che per sua stessa natura genera una vasta
    gamma di disturbi di natura fisica (da problemi cardiovascolari e metabolici sino a
    malattie infettive) e psicologici, patologie che con una certa frequenza esordiscono in
    carcere e ne rappresentano un esito anche dopo la scarcerazione.
    Evidenti fattori di rischio sono la sedentarietà, l’affollamento e la promiscuità, la
    limitazione degli spazi vitali con correlate condizioni di vita grandemente afflittive e
    tendenzialmente orientate all’isolamento relazionale del detenuto.
    L’Agenzia Regionale di Sanità Toscana nel 2014 ha condotto un’interessante indagine
    nella popolazione carceraria in sei regioni (Toscana, Lazio, Umbria, Veneto, Liguria,
    Campania, ASL Salerno), finanziata dal Ministero della Salute.
    Ben il 67,5% dei detenuti in esame è risultato affetto da almeno una condizione
    patologica, anche non grave. Dalla ricerca emerge, in particolare, l’importanza che
    ricoprono, nella popolazione detenuta, i disturbi psichici, le malattie infettive e quelle
    dell’apparato digerente.
    Oltre il 40% dei detenuti arruolati è risultato essere affetto da almeno una patologia
    psichiatrica. Fra i disturbi psichici prevalgono i disturbi da dipendenza da sostanze,
    diagnosticati nel 24% di tutto il campione, i disturbi nevrotici ed i disturbi
    dell’adattamento.
    Nel 2016 la Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria, insieme alla Società
    Italiana di Psichiatria ed alla Società Italiana di psichiatria delle Dipendenze, con il
    supporto di Otzuka, ha condotto il progetto “Insieme – La salute mentale in carcere”,
    con l’obiettivo di introdurre un approccio integrato nella gestione dei disturbi mentali
    in tutti gli istituti penitenziari italiani, e di assicurare una continuità terapeutico-
    assistenziale anche dopo la scarcerazione.
    Complessivamente, tutte le psicopatologie sono più rappresentate in carcere rispetto
    alla popolazione normale. Si riscontra ad esempio una percentuale del 4% di psicosi,
    contro l’1% della popolazione normale, mentre la depressione è presente nel 10% dei
    detenuti, contro il 2-4% al di fuori delle carceri; più frequenti sono i disturbi di
    personalità, che arrivano a percentuali elevatissime, dell’ordine del 65%, contro il 5-
    10% della popolazione normale. L’abuso di sostanze ha una ricorrenza circa 2 volte la
    popolazione normale.
    E’ facilmente intuibile che gli incrementi delle psicopatologie dentro gli istituti

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penitenziari hanno ragioni diverse in relazione al gruppo diagnostico considerato:
       mentre è ragionevole pensare che il regime di privazione di libertà sia un induttore
       degli stati depressivi ed in misura minore degli stati psicotici, per quanto riguarda i
       disturbi di personalità e le condotte di abuso vale invece il ragionamento opposto: è la
       patologia in sé che favorisce le condotte antisociali ed è quindi più presente fra le
       persone con maggiore disagio sociale, mentre in questo caso il carcere non
       sembrerebbe svolgere un ruolo psicopatogeno.
       Alla psicopatologia si ricollegano i gesti autolesionistici ed anticonservativi.
       I dati reali sul suicidio si possono rilevare dal dossier realizzato dall’osservatorio
       “Morire in carcere”: a fronte di una media di suicidi sul totale dei decessi del 36,39%
       nei 18 anni considerati, nel 2016 e nel 2017 si è avuto un incremento significativo. Per
       dare un’idea della dimensione del fenomeno, negli ultimi 20 anni gli agenti di polizia
       penitenziaria, in tutta Italia, hanno sventato oltre 21mila tentativi di suicidio nelle
       carceri ed impedito anche quasi 168mila casi di autolesionismo, che avrebbero potuto
       portare a conseguenze.

    2. Compatibilità con la detenzione

       La normativa vigente prevede nel caso in cui sussistano condizioni tali da non rendere
       compatibile il diritto della persona alla salute con il regime detentivo, possano essere
       – previo esame medico – disposte misure alternative alla detenzione, di carattere
       transitorio (ricovero ospedaliero) o più protratto (detenzione domiciliare e altro).
       Il problema valutativo si pone in due alternative: 1. Per i soggetti già condannati in
       modo definitivo, che quindi si trovano in condizione di esecuzione della pena, 2. I
       soggetti sottoposti a misure cautelari, ovvero “in attesa di giudizio”, cioè sottoposti a
       indagini o interessati da processo, quindi non ancora condannati.
       I soggetti in esecuzione della pena per condanna definitiva possono avere la pena
       sospesa obbligatoriamente (art. 146 c.p.) quando sia presente AIDS conclamato
       “ovvero altra malattia particolarmente grave per effetto della quale le condizioni di
       salute risultano incompatibili con uno stato di detenzione, quando la persona si trova
       in una fase di malattia così avanzata da non rispondere secondo le certificazioni del
       servizio sanitario penitenziario o esterno ai trattamenti disponibili e alle terapie

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curative”, oppure facoltativamente (art.147 c.p.) “quando sussista una condizione di
    grave infermità fisica”, escludendo perciò le infermità mentali, che sono regolate
    invece, dall’art. 148 c.p. “infermità psichica sopravvenuta al condannato”.
    La norma di cui all’art.148 si applica ai detenuti nei quali si sviluppi una grave malattia
    psichiatrica dopo una condanna definitiva. Se la pena è inferiore ai tre anni il
    magistrato può disporre che il differimento sia effettuato in un ospedale psichiatrico,
    ovvero ad oggi, in una struttura del Dipartimento di Salute Mentale; se la pena è
    superiore è previsto l’internamento in Ospedale Psichiatrico Giudiziario.
    Con l’approvazione della legge 81/2018, questi ultimi sono stati “superati” con
    l’istituzione delle REMS (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza).
    Il Tribunale di Sorveglianza con l’art. 684 c.p.p. può anche disporre differimento della
    pena se la protrazione della pena sia tale da produrre un grave pregiudizio nel
    condannato.
    Ben più complesse e controverse sono le situazioni di valutazione peritale nei casi di
    misure cautelari. Per la fattispecie dell’art.73 c.p.p. “quando lo stato di mente
    dell’imputato appare tale da rendere necessaria la cura nell’ambito del Servizio
    Psichiatrico”, il giudice informa l’autorità sanitaria, e può disporre anche d’ufficio il
    ricovero presso idonea struttura del servizio medico ospedaliero.
    Il provvedimento può essere adottato anche nei confronti di persona libera – ancorchè
    sottoposta a procedimento penale – ed ha come finalità la tutela della salute
    dell’indagato o imputato.
    E’ spesso oggetto di valutazione peritale la situazione a cui fa riferimento l’art. 275, 4
    comma bis, c.p.p. e 275, 4 comma quinquies.
    In questi casi il giudice non ha molte possibilità di scelta: di fronte a una certificazione
    di parte che afferma l’incompatibilità del detenuto con il regime carcerario deve
    disporre perizia, se non accogliere direttamente l’istanza di revoca della misura
    detentiva.
    La disposizione di questo tipo di perizia avviene soprattutto nei casi di custodia
    cautelare, per indicare al giudice o al PM quale possa essere la migliore collocazione
    di un detenuto in precarie condizioni di carattere fisico o psichico. Il quesito peritale
    fa riferimento alla specifica fattispecie in esame e alla disponibilità di risorse sanitarie
    e terapeutiche in un generico istituto detentivo o in strutture specializzate
    dell’amministrazione penitenziaria.
    Per i soggetti affetti da AIDS, per esempio, si tratterà di un quesito quasi sempre

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strutturato in modo centrato sul dato somatico e infettivo, così come avviene per i
       soggetti connotati da patologie somatiche.
       Per i soggetti con disturbi psichiatrici, invece, il quesito verterà sul dato clinico
       specifico, anche con riferimento alle singole norme in materia: “…se ricorrano le
       condizioni per l’applicazione delle misure di cui agli artt. 286 o 312 c.p.p.”
       Sul piano applicativo si deve rilevare che questo tipo di accertamento ha caratteri di
       estrema urgenza, sia per la frequente drammaticità delle condizioni del periziando, sia
       per l’estrema limitazione del tempo concesso dalla stessa norma al giudice per la sua
       decisione, e quindi ancor più importante del solito che il perito acquisisca
       sollecitamente le autorizzazioni per accedere senza limiti all’istituto detentivo ogni
       volta che sia necessario, acquisire copia del diario clinico carcerario, e se occorre far
       accedere alla struttura i propri ausiliari (psicologi per i test o medici specialisti per una
       consultazione).

    3. Esecuzione penale e incompatibilità con il regime carcerario

       La legge 12 luglio 1999, n.231 (Disposizioni in materia di esecuzione della pena, di
       misure di sicurezza e di misure cautelari nei confronti dei soggetti affetti da AIDS
       conclamata o da grave deficienza immunitaria o da altra malattia particolarmente
       grave) e la legge 8 marzo 2001, n. 40 (Misure alternative alla detenzione a tutela del
       rapporto tra detenute e figli minori), e le relative conseguenze sul piano della
       compatibilità carceraria hanno seguito due percorsi differenti: da un lato si è realizzata
       la possibilità di un rinvio facoltativo in relazione allo stato di gravidanza e alle
       necessità dei condannati affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria
       in situazione di incompatibilità con lo stato detentivo; dall’altro, la riforma ha
       modificato la disciplina del rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena (art.147 c.p.)
       che può essere disposto quando la pena deve essere eseguita nei confronti di chi si
       trova in condizioni di grave infermità fisica ovvero nei confronti di madre di prole di
       età inferiore a tre anni.
       L’istituto del differimento dell’esecuzione della pena detentiva nelle ipotesi previste
       dagli artt. 146 e 147 c.p., risponde all’esigenza di tutela della salute del detenuto
       nonché all’esigenza di garantire il diritto di assistenza da parte dei propri congiunti
       durante la malattia.

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Il profilo di incompatibilità di maggior rilievo medico-legale, per la problematicità
     della relativa valutazione, attiene propriamente all’ipotesi del rinvio facoltativo dettato
     dalle “condizioni di grave infermità”.
     Giurisprudenza e dottrina appaiono concordi in merito alla necessità di valutare
     l’utilizzo del criterio del livello di efficienza della struttura sanitaria penitenziaria
     tenendo presente la possibilità offerta dall’art. 11 c. II O.P., di curare all’esterno il
     detenuto: l’infermità grave deve essere valutata alla luce di considerazioni “relative
     alla qualità dell’assistenza fornita dall’istituto penitenziario di assegnazione, alle
     individuate scelte terapeutiche, ai rimedi indicati dai clinici e alle possibilità di
     giovamento che il richiedente può trarre in concreto dalla sospensione”;
     considerazioni che “non possono prescindere poi dal raffronto con il complesso degli
     strumenti che la legislazione pone al servizio del cittadino-detenuto al fine di garantire
     l’effettività del suo diritto alla salute”.

     La Corte di Cassazione ha precisato che “deve ritenersi grave non esclusivamente
     quello stato patologico del condannato che determina il pericolo di morte, ma pure
     ogni altro tipo di infermità che cagioni il pericolo di altre rilevanti conseguenze
     dannose o, quantomeno, esiga un trattamento che non si possa attuare in ambiente
     carcerario e che necessariamente abbia probabilità di regressione nel senso del
     recupero, totale o parziale, dello stato di salute” e in altra sentenza ha affermato che
     “è necessario che l’infermità, oltre a potersi giovare, nello stato di libertà, di cure e
     trattamenti sostanzialmente diversi e più efficaci di quelli che possono essere prestati
     nelle apposite istituzioni dell’ambiente carcerario, sia di tale gravità, per proporsi
     infausta quoad vitam o per altro motivo”.
     Albino e Pannain suggeriscono che “per comportare la formulazione di un giudizio di
     non compatibilità l’infermità deve essere di entità tale per cui lo stato detentivo – con
     ragionevole prevedibilità – causa di peggioramento delle condizioni del soggetto o di
     non miglioramento – anche riabilitativo – o, pur non incidendo sulla evoluzione della
     infermità, sia però motivo di sofferenza non conciliabile con la salvaguardia dei diritti
     della persona o non consenta una attuazione, ragionevole, del diritto di scelta del
     medico e del luogo di cura”.
     D’altra parte la sospensione della pena per motivi di salute ha sempre rappresentato
     un problema spinoso, allorquando si tratta di applicare la norma nei casi di più gravi

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reati e di condannati socialmente pericolosi.
     Da un punto di vista tecnico, appare utile distinguere le patologie ad andamento acuto
     da quelle ad andamento cronico. La natura di provvedimento temporaneo cui tende il
     differimento per le prime, infatti, risulta certamente soddisfatta poiché la durata della
     pena detentiva non sarà intaccata dalla sua essenza. In questi casi la concessione del
     beneficio potrà essere motivata, oltre che da ragioni squisitamente umanitarie, dalla
     inattuabilità della necessaria terapia in ambiente carcerario.
     Nel caso, al contrario, di patologia divenuta cronica ci si è chiesti se si possa applicare
     tale istituto considerando che, in questo modo, il rinvio dell’esecuzione della pena si
     sostanzierebbe in una mancata esecuzione della pena stessa. Per il vero, oggi, nel caso
     di situazioni insanabili, vi è la possibilità di optare per la detenzione domiciliare in
     luogo del differimento, ai sensi dell’art. 47 ter, c. I ter O.P.

     La detenzione domiciliare è “una misura alternativa ispirata alla prospettiva della piena
     decarcerizzazione quale modalità di esecuzione extraistituzionale della pena
     detentiva”.
     La detenzione domiciliare, disciplinata dall’art. 47 ter O.P., introdotto dall’art. 13 della
     legge 10 ottobre 1986, n. 663, consiste nell’obbligo di risiedere “nella propria
     abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura,
     assistenza o accoglienza”.
     La sanzione alternativa è evidentemente finalizzata ad impedire l’ingresso del reo in
     carcere con pregiudizio delle relazioni familiari e sociali e delle condizioni di salute
     dello stesso ovvero a favorirne il graduale reinserimento nella comunità di precedente
     appartenenza. Altro presupposto per l’applicazione della detenzione domiciliare è
     costituito dalle particolari condizioni psico-fisiche richieste all’art. 47 ter comma I
     lettere a), b), c), d), e), sulle quali non ci soffermeremo rinviando alla letteratura nel
     merito.
     Pertanto, considerate le diverse opportunità offerte dal sistema penitenziario, il parere
     medico-legale in tema di differimento potrà essere, oltre che di piena compatibilità
     con il regime detentivo ordinario, di incompatibilità relativa o assoluta.
     Nel primo caso rientrano tutte quelle situazioni per cui, pur eventualmente ricorrendo
     a soluzioni alternative all’attuale regime detentivo, come il ricovero in un centro
     diagnostico terapeutico dell’amministrazione penitenziaria, la situazione non richiede
     forme alternative esterne. Nel secondo caso spetterà al giudice, sulla base dei criteri di

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ordine giudiziario oltre che sanitario, scegliere tra l’espiazione presso la propria
        abitazione o altro luogo di privata dimora, o il ricovero in un luogo di cura, assistenza
        o accoglienza extracarcerario, ovvero concedere provvedimenti di rinvio
        dell’esecuzione della pena, anche grazie ai pareri assunti dal medico del carcere o dal
        perito, i quali sono tenuti a fornire chiari elementi clinici di giudizio quali, ad esempio,
        l’emendabilità della condizione patologica mediante appropriata terapia, la condizione
        di cronicità o di lenta evolutività nonché la prognosi quoad vitam.

     4. Salute Mentale ed assistenza psichiatrica in carcere

        La Presidenza del Consiglio dei Ministri, attraverso il Comitato Nazionale per la
        Bioetica, nel marzo 2019 ha pubblicato un documento, con relative raccomandazioni
        riguardanti l’assistenza psichiatrica in carcere.
        La salute mentale è stata individuata come una delle aree critiche cui prestare
        particolare attenzione: l’equiparazione del diritto alla salute tra cittadini “fuori e dentro
        le mura” – il principio che ha guidato il passaggio della sanità penitenziaria al Servizio
        Sanitario Nazionale – richiede un impegno più complesso nel campo della salute
        mentale.
        Significativo viene considerato il ruolo storicamente ricoperto dall’Ospedale
        Psichiatrico Giudiziario (OPG), di custodia di tutti gli autori di reato con
        problematiche psichiatriche, la cui chiusura, per quanto fondamentale è solo un
        tassello nella costruzione di un nuovo sistema di cura dei soggetti affetti da disturbo
        mentale e autori di reato.
        Come già citato, i dati internazionali dicono che i detenuti godono di livelli inferiori
        di salute rispetto a chi sta “fuori”, e che la salute mentale rappresenta l’area più critica;
        dunque il carcere è chiamato in causa come ambiente che mina la salute mentale.
        La OMS prende anche atto del carattere intrinsecamente patogeno del carcere,
        sottolineando che “l’ambiente della prigione è, per sua natura, normalmente nocivo
        alla protezione ed al mantenimento della salute mentale di coloro che entrano in
        carcere e ivi sono detenuti”.
        Quali siano gli strumenti, normativi e operativi, a disposizione degli operatori
        penitenziari per rispondere alla richiesta di tutela della salute mentale delle persone
        recluse, è risultato un tema così centrale che molte istituzioni se ne sono occupate, in

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ultimo, come già citato, la Corte Costituzionale con la pronuncia n. 99 del 2019 ed il
     Comitato Nazionale di Bioetica con un parere emesso nel marzo 2019.
     L’intervento di queste istituzioni ha parzialmente permesso di riparare al mancato
     esercizio della legge-delega che chiedeva di “potenziare l’assistenza psichiatrica negli
     istituti di pena”, con il contributo delle proposte degli Stati Generali dell’Esecuzione
     Penale, e della “Commissione Pelissero”.

     Dalla riforma della sanità penitenziaria del 2008, l’individuazione di personale
     specializzato   in   cura    e   riabilitazione   del   disagio    psichico    non    spetta
     all’Amministrazione Penitenziaria, bensì alle Regioni e alle singole Aziende Sanitarie
     territorialmente competenti.
     Ci si riferisce a figure peculiari, come i medici psichiatri, ma anche psicologi,
     psicoterapeuti, tecnici della riabilitazione psichiatrica, educatori specializzati. Di fatto,
     la media nazionale delle ore di presenza settimanale di psichiatri ogni 100 detenuti è
     di 8,9, quella degli psicologi di 13,5. Si tratta di numeri che devono far riflettere
     sull’efficacia dell’intervento terapeutico e riabilitativo in un contesto peculiare come
     quello penitenziario.
     Per i casi in cui il disagio psichico raggiunge livelli che possono mettere a rischio la
     vita della persona e degli altri “abitanti” dell’istituto, dall’inizio degli anni duemila si
     è iniziato a sperimentare la nascita di “repartini” o comunque sezioni speciali
     dell’istituto penitenziario che avessero lo specifico compito di occuparsi della salute
     mentale. La loro creazione ed effettiva gestione non è mai stata normata in maniera
     univoca e coerente sul territorio nazionale; anche sulla loro denominazione, si è
     raggiunta una soluzione univoca solo recentemente e oggi queste sezioni prendono il
     nome di Articolazioni per la Tutela della Salute Mentale (ATSM).
     All’interno delle articolazioni si trovano le persone che non possono essere curate e
     assistite nelle sezioni ordinarie, la maggior parte delle quali, giuridicamente, in
     “osservazione psichiatrica” (un periodo di 30 giorni prorogabile, in cui viene valutata
     la compatibilità dello stato di salute psicofisico e la detenzione).

     Dall’incompatibilità fra il carcere e la salute mentale discende che la presa in carico
     delle persone con disturbo psichiatrico debba avvenire di regola nei servizi sul
     territorio, al di fuori del carcere. La cura psichiatrica in carcere dovrebbe essere
     limitata alle persone con disturbi minori, oppure al ristretto numero di coloro per cui

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non sia possibile applicare l’alternativa terapeutica.
     Nella realtà dei fatti, si registra una doppia difficoltà: da un lato, nonostante i ripetuti
     richiami degli organismi internazionali, prevale l’idea che la tutela della salute mentale
     equivalga ad assicurare solo servizi psichiatrici specialistici, in linea con la più
     generale tendenza a confondere la salute con la sanità. Dall’altro, la nuova titolarità
     del SSN in carcere non ha del tutto eliminato il retaggio culturale della sanità
     penitenziaria nell’affrontare il conflitto fra i bisogni di salute della persona detenuta e
     le esigenze di sicurezza.
     Molte sono le difficoltà normative ancora presenti, ma soprattutto, in buona parte del
     nostro paese, la tutela della salute mentale in carcere non è ancora parte organica delle
     attività del Dipartimento di Salute Mentale, integrata con i servizi di salute mentale
     territoriali ed in sinergia con l’intera rete dei servizi socio-sanitari: la psichiatria in
     carcere è ancora troppo spesso un settore isolato, che mantiene molte delle
     caratteristiche della precedente gestione del Dipartimento Amministrazione
     Penitenziaria. La separatezza dei servizi “dentro le mura” fa si che il sistema sia poco
     adeguato ad offrire alternative di cura al di fuori del carcere.
     Se nuove norme sono importanti per assicurare ai detenuti maggiori opportunità
     terapeutiche fuori dal carcere, la loro concreta applicazione dipende dalla capacità dei
     servizi di salute mentale di elaborare progetti personalizzati, avvalendosi di tutte le
     opportunità, sanitarie e sociali, del territorio.
     In presenza di disturbi mentali gravi sopravvenuti in stato di detenzione, le Sezioni
     Cliniche di Salute Mentale in carcere, una volta effettivamente istituite e affidate alla
     gestione sanitaria, dovrebbero funzionare come luoghi transitori, di elaborazione e di
     preparazione a progetti di cura individualizzati terapeutico-riabilitativi, da eseguirsi
     sul territorio.
     L’elaborazione dei progetti è compito del Dipartimento di Salute Mentale, che
     necessita di una forte proiezione territoriale e di intensa collaborazione fra le unità
     operative dentro e fuori il carcere. Le Sezioni Cliniche dovrebbero essere dotate di
     spazi e di organizzazione di vita idonei alla cura. In caso di crisi, le persone dovrebbero
     essere trasferite immediatamente fuori dal carcere, nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi
     e Cura ospedalieri, per poi rientrare nelle Sezioni Cliniche una volta superata la fase
     di scompenso.
     Il ricovero nella Sezione Clinica dovrebbe essere limitato al tempo necessario a
     “ricalibrare” l’assistenza: che, nel caso dei disturbi meno gravi, tornerà a svolgersi nel

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carcere “ordinario”.
     Nel caso di disturbi più gravi, la priorità della cura al di fuori del carcere richiede un
     adeguamento normativo: finalizzato a permettere il ricovero in strutture sanitarie in
     regime di detenzione domiciliare; e ad ampliare le possibilità di affidamento ai servizi
     territoriali o a strutture residenziali o semiresidenziali facenti parte del Dipartimento
     di Salute Mentale.
     Esemplificativa e significativa, si inserisce in questo panorama la sentenza della Corte
     Costituzionale n.99 del 19 aprile 2019: accogliendo la questione sollevata dalla Corte
     di cassazione, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 47-ter co.1-ter
     ord.penit. “nella parte in cui non prevede che, nell’ipotesi di grave infermità psichica
     sopravvenuta, il tribunale di sorveglianza possa disporre l’applicazione al
     condannato della detenzione domiciliare anche in deroga ai limiti di cui al comma 1
     del medesimo art. 47-ter”.
     Secondo il giudice a quo a un detenuto che presenta problemi psichiatrici, l’assetto
     normativo attuale non offrirebbe forme di esecuzione della pena alternative alla
     detenzione in carcere, ma solo la possibilità di essere assistito presso una delle
     Articolazioni per la Tutela della Salute mentale eventualmente costituite all’interno
     del circuito penitenziario; tali articolazioni sono spesso assenti e, anche quando
     presenti, si mostrano gravemente inadeguate.
     La Corte costituzionale nella decisione in esame interviene subito sull’agognata
     differenza tra infermità fisica e psichica, sostenendo che la malattia psichica è fonte di
     sofferenze non meno della malattia fisica; è stato inoltre affermato che le patologie
     psichiche possono aggravarsi e acutizzarsi proprio per la reclusione. La sofferenza che
     la condizione carceraria inevitabilmente impone di per sé a tutti i detenuti si acuisce e
     si amplifica nei confronti delle persone malate, si da determinare, nei casi estremi, una
     vera e propria incompatibilità tra carcere e disturbo mentale.
     Secondo la Consulta, per questi casi gravi, l’ordinamento deve prevedere misure
     alternative alla detenzione carceraria, che il giudice possa disporre caso per caso,
     modulando il percorso penitenziario tenendo conto della tutela della salute dei malati
     psichici e della pericolosità del condannato, di modo che non siano sacrificate le
     esigenze della sicurezza collettiva.
     La Corte interviene altresì per fissare quali siano i parametri da rispettare nella
     valutazione del caso specifico: questa valutazione dovrà quindi tenere conto di vari
     elementi: il quadro clinico del detenuto, la sua pericolosità, le sue condizioni sociali

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e famigliari, le strutture e i servizi di cura offerti dal carcere, le esigenze di tutela
        degli altri detenuti e di tutto il personale che opera nell’istituto penitenziario, la
        necessità di salvaguardare la sicurezza collettiva.
        In questo scenario, è di fondamentale rilievo la possibilità che la detenzione
        domiciliare possa svolgersi, oltre che “nella propria abitazione o in altro luogo di
        privata dimora, anche in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza”.
        Al giudice spetterà verificare, quindi, in base alle strutture e ai servizi di cura offerti
        all’interno del carcere, alle esigenze di salvaguardia degli altri detenuti e di tutto il
        personale che opera negli istituti penitenziari, se il condannato affetto da grave
        malattia psichica sia in condizioni di rimanere in carcere o debba essere destinato a un
        luogo esterno.

     5. Problematiche psichiche e compatibilità carceraria

        L’area psichiatrica rappresenta la vera emergenza degli istituti penitenziari italiani, in
        quanto sono il principale contenitore del dilagante disagio mentale e la cartina
        tornasole di una marginalità sociale costituita da tossicodipendenti, prostitute, nomadi,
        vagabondi alcolisti, barboni ed extracomunitari. Si ritrovano soggetti affetti da
        parafilie di vario genere come transessuali, travestiti, omosessuali, pedofili che,
        spesso, non vengono seguiti dai servizi territoriali.
        Il carcere diventa così l’ambiente rivelatore del disagio e spesso il primo momento
        “ufficiale” di incontro di questi soggetti con le istituzioni.
        La necessità di una valutazione esterna di tipo peritale, si può ravvisare per soggetti
        già portatori di patologie psichiatriche, coinvolti in vicende giudiziarie, destinatari di
        misure cautelari ordinarie perché non è stato rilevato alcun vizio di mente, né parziale,
        né totale a cui dovrebbero essere applicate misure cautelari ordinarie.
        Potrebbe trattarsi di ex-pazienti o di persone che al momento dei fatti per cui sono
        indagati siano in fase di remissione e dunque imputabili.
        La necessità della valutazione peritale di incompatibilità può configurarsi nei seguenti
        scenari: I. Custodia cautelare in carcere e custodia cautelare in luogo di cura (artt. 285
        e 286 cpp).
        Il PM che ritiene di dover chiedere al Giudice l’applicazione della misura cautelare
        della custodia cautelare in carcere nei confronti di un indagato o un imputato se, sulla
        base degli atti di indagine, rileva che il soggetto è affetto da problematiche di tipo

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psichiatrico, prima di formalizzare la richiesta, acquisisce tutta la documentazione
     clinica e le necessarie informazioni anche sentendo i sanitari che lo hanno avuto in
     cura e ricorrendo anche ad una valutazione peritale (specie se il soggetto non è più
     seguito da specialisti del DSMDP).
     Se ha motivo di temere che le emergenze psichiatriche sconsiglino la misura custodiale
     in carcere per impossibilità di assicurare le necessarie cure, il PM potrà analogamente
     predisporre richiesta di perizia.
     II. Gli arresti domiciliari (art. 284 cpp).
     Tale misura oggi, in un contesto di rete, trova larga applicazione con due specifiche
     modalità.
     A. Arresti domiciliari presso l’abitazione dell’indagato o dell’imputato, con
         l’autorizzazione ad uscire nei tempi e modi stabiliti dal Dipartimento di Salute
         Mentale presso cui è stata attivata la presa in carico, unicamente al fine di
         sottoporsi alle prescrizioni trattamentali. Sarà la Stazione dei Carabinieri
         territorialmente competente per i controlli ai sensi dell’art. 284 cp, a segnalare
         immediatamente al Giudice che Procede qualsiasi violazione degli obblighi
         connessi alla misura degli arresti domiciliari.
     B. Arresti domiciliari presso una struttura residenziale psichiatrica. Si tratta di una
         misura che il PM chiederà, ed il Giudice potrà applicare, laddove necessaria, nella
         consapevolezza che le strutture residenziali psichiatriche non sono strutture
         “chiuse” e che l’obbligo di permanenza nella stessa è legato alla volontà del
         destinatario del provvedimento.
     Appare utile sottolineare che questo tipo di perizie presenta gravi incertezze e criteri
     valutativi spesso difficilmente conciliabili con parametri scientifici rigorosi.
     Il compito del perito dovrà essere sempre improntato alla massima prudenza e
     responsabilità, tenendo conto dei gravi limiti che questo tipo di giudizi presenta.
     Questo tipo di accertamento, come quello in tema di pericolosità sociale – e molti altri
     - evidenzia che buona parte delle fattispecie giuridiche sulle quali il perito è chiamato
     a pronunciarsi sono di difficile se non impossibile valutazione secondo un’ottica
     scientifica rigorosa. Tuttavia, poiché il quesito è cogente, lo psichiatra che svolge
     attività forense non può esimersi dal rispondervi.
     Il CTP può svolgere un’importante funzione di broker del progetto terapeutico,
     identificando nel caso idonee soluzioni di trattamento o inserimento psichiatrico al di
     fuori del carcere, valutando direttamente le caratteristiche delle stesse e quindi

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proponendo al perito del giudice non una generica richiesta, ma una specifica proposta
     di cura, già concretizzabile.

     Da un punto di vista sintomatologico, il primo trauma che un detenuto subisce è
     rappresentato sicuramente dall’ingresso in carcere.
     La “Sindrome da ingresso in carcere” compare tanto più frequentemente e
     manifestatamente, quanto più elevato è il grado di educazione, di sensibilità, di cultura
     dei soggetti detenuti. Spesso consiste in una serie di disturbi non solo psichici, ma
     psicosomatici, riguardanti diversi organi ed è generalmente rappresentata da: disturbi
     dispeptici (inappetenza, senso di peso gastrico, rallentamento della digestione ecc),
     morboso disgusto per tutti i cibi con conseguente impossibilità ad alimentarsi
     (Sindrome di Gull), violenti e persistenti spasmi esofagei. Possono essere presenti
     manifestazioni respiratorie con sensazioni gravi di soffocamento, angoscia
     respiratoria, fame d’aria, e manifestazioni cardiovascolari con tachicardia, vertigini,
     svenimenti; inoltre si possono riscontrare sintomi psichici come lo stupore isterico,
     agitazione psicomotoria, crisi confusionali, anedonia, rannicchiamento fetale, furore
     pantoclastico, disorientamento spazio-temporale.
     Il trauma da ingresso in carcere può diventare tanto più forte quanto maggiore è il
     divario fra il tenore di vita condotto in libertà e quello fruibile in carcere.
     E’ certo comunque che per molti soggetti, in particolare alla prima detenzione, anche
     se per ciascuno in modo diverso, l’impatto con la struttura carceraria costituirà uno dei
     momenti più drammatici dell’esistenza. Vari tentativi di umanizzazione dell’impatto
     con il carcere e allo stesso tempo di prevenzione dei comportamenti a rischio sono
     stati fatti. Il più importante è sicuramente la predisposizione, attraverso la Circolare
     Amato del 30.12.1987 n. 3233/5683, del Servizio Nuovi Giunti effettuato dagli
     psicologi del carcere attraverso un colloquio con ogni singolo detenuto all’atto di
     ingresso in istituto; tale colloquio è volto a valutare la personalità del soggetto
     soprattutto al fine di prevenire eventuali gesti autolesivi.

     La maggior parte degli atti autolesionistici avviene nei primi giorni, e l’elemento
     confusivo che emerge in alcuni soggetti scardina gli elementi razionali; infatti
     mutilazioni anche gravissime e tentativi di suicidio avvengono a prescindere dalla pena
     inflitta o presumibile.

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“Nelle    istituzioni   penitenziarie    le   manifestazioni     psicopatologiche     sono
     particolarmente frequenti. Esse possono essere la continuazione o l’evidenziazione in
     carcere di disturbi psichici già prima esistenti, o al contrario la strutturazione di una
     risposta di tipo psicotico ad eventi, particolarmente psicotraumatizzanti, quali
     l’imprigionamento, il rimorso per il delitto commesso, la previsione di condanna, la
     condanna stessa. Si possono manifestare con facilità in carcere delle reazioni a livello
     psichico, con le abituali caratteristiche fenomenologiche, che sono facilitate nel loro
     sviluppo dalla situazione carceraria, dalle condizioni di vita, non certo facili, che i
     detenuti sono costretti a sopportare”.
     I disturbi psichici più frequenti in carcere hanno quindi fondamentalmente duplice
     natura. Da un lato, è necessaria la gestione delle reazioni depressivo-ansiose in
     evidente connessione con il sofferto arresto; dall’altro, si impone il trattamento di
     forme psicopatologiche più o meno gravi, alcune evidenziatesi in carcere, altre
     manifestatesi già in precedenza sotto la cura dei servizi territoriali o di privati
     professionisti.

     Rientrano tra le patologie psichiche riscontrabili in carcere, forme gravi come le
     psicosi, le forme del campo tossicomanico e altre meno gravi, ma non per questo meno
     pericolose.
     Si intende con il termine psicosi quell’insieme di malattie che pongono l’individuo in
     una situazione, temporanea o permanente, di perdita più o meno totale della capacità
     di comprendere il significato della realtà in cui vive e di mantenere tra sé e quella realtà
     un rapporto di sintonia sufficiente a salvaguardare un comportamento autonomo e
     responsabile.
     In base ai fattori eziopatogenetici possiamo suddividerle in due gruppi: le psicosi
     organiche (metaboliche, disendocrine, infettive, vascolari, degenerative, neoplastiche,
     post-traumatiche, genetiche) e le psicosi endogene (o funzionali), includenti le
     schizofrenie e i disturbi dell’umore.
     Ad esse nell’ambito dell’istituzione penitenziaria vanno aggiunte le psicosi carcerarie,
     con veri e propri squilibri psicotici.
     Per quanto riguarda il campo tossicomanico, va detto che molti tossicodipendenti
     presentano disagi e sofferenze che possono trasformarsi in veri e propri disturbi
     psichici, i quali però nella maggior parte dei casi non si manifestano come reazioni

19
alla carcerazione, bensì come evidenziazione in carcere di disturbi già prima esistenti.
     Secondo studi e ricerche effettuati a livello internazionale, la prevalenza dei sintomi
     psichiatrici nei tossicodipendenti è significativamente più alta che nella popolazione
     generale, e la prevalenza dei disturbi tossicomanici è maggiore di quella di tutti gli
     altri disturbi psichiatrici insieme. Tali rilevazioni sono valide sia per l’ambiente
     carcerario che per quello extracarcerario.
     “La tossicodipendenza sarebbe, insomma, un fenomeno sintomatico di un disagio
     psicopatologico che la sostanza stupefacente serve a coprire. I disagi più frequenti
     sono di tre tipi: depressione, che per lo più viene compensata con l’eroina, vere e
     proprie psicosi, ma soprattutto disturbi di personalità di tipo borderline”.
     Ma il campo più estesamente rappresentato in carcere è quello parapsicotico. In esso
     confluiscono tutte le diagnosi di confine e le forme psicopatologiche che si esprimono
     nel comportamento: disturbi di personalità, in particolare il disturbo borderline, il
     disturbo narcisistico e il disturbo antisociale di personalità. Sono questi i detenuti che
     impegnano maggiormente gli psichiatri penitenziari poiché reclamano forme nuove e
     integrate di trattamento e che generalmente rimangono misconosciuti fuori dal carcere.

     Accanto agli psicotici e ai tossicomani, troviamo un’altra categoria di persone.
     Scrive Catanesi: insidie si nascondono comunque anche in soggetti apparentemente
     adattati, o per meglio dire, costretti a mostrarsi adattati per non venir meno alle
     aspettative del gruppo di appartenenza. Questi individui segnalano in maniera tipica
     al medico penitenziario difficoltà di altro genere, mascherando in tal modo disturbi
     psicologici che esplicitati (e soprattutto se affrontati con terapia farmacologica e
     psicoterapia specifica) li esporrebbero a severi giudizi da parte del clan di
     appartenenza. Così essi ostentano una forza ed una sicurezza che in realtà non hanno
     e secondo molti medici psichiatri, anch’essi sono detenuti a rischio perché
     impossibilitati ad esprimere il dolore e la sofferenza, sino a che la situazione non
     diviene insostenibile e l’angoscia si manifesta all’improvviso con comportamenti
     insospettati, con esplosioni, ad esempio, auto-eteroaggressive.

     La gestione ed il trattamento dei disturbi psichici rappresenta alcune peculiarità
     considerato il contesto così difficile quale quello carcerario.
     Catanesi sostiene che alcune peculiari strutturazioni di personalità, soprattutto
     borderline e narcisistica grave, pongono poi non pochi problemi all’èquipe medica del

20
carcere per la ricorrenza di gesti autolesivi anche di particolare gravità.
     Si tratta di soggetti che possono anche adeguati sul piano comportamentale e
     rapidamente adattati al contesto ambientale, ma che manifestano invece in relazione
     ad una molteplicità di problematiche, sempre diverse e spesso anche poco rilevanti,
     atteggiamenti ambivalenti e solo apparentemente contraddittori. Ora ricattatori, ora
     seduttivi, aggressivi o manipolatori, quasi sempre fortemente polemici, manifestano
     con ampia gamma di possibilità espressive un’unica, costante, pressante richiesta di
     assistenza, non sollecitata ma pretesa e non solo nei confronti del medico o dello
     psichiatra, ma soprattutto nei confronti di se stessi. A questa possono seguire, in caso
     di opposizione o di rifiuto, reazioni che a volte appaiono evidentemente dimostrative,
     ma che in taluni casi, ed in particolare in taluni soggetti, possono acquisire elevata
     valenza distruttiva auto-eterodiretta.
     Assai complessa risulta anche la gestione delle forme depressive maggiori, sia per
     l’intrinseca gravità e per l’elevato rischio suicida che ad esse si associa, sia per la
     difficoltà di poter proseguire alcuni trattamenti farmacologici in carcere. Per un
     insieme di motivi pertanto, la necessità di un ricovero in idonea struttura del servizio
     psichiatrico ospedaliero diviene, in questi casi, orientamento pressochè costante.
     Sono state riscontrate alcune forme morbose psicopatologiche caratterizzate dal
     legame esistente fra la loro insorgenza e lo stato di detenzione; esistono cioè vere e
     proprie forme psicopatologiche, con sintomi caratteristici, che insorgono in individui
     in detenzione e che non si osservano in altri ambienti: esse vanno dalla comune e breve
     reazione ansioso-depressiva sino alla “Sindrome ganseriana”.
     Quest’ultima, relativamente rara, è basata su di una motivazione inconscia del soggetto
     ad evitare la responsabilità, sforzandosi di apparire infermo di mente.
     Tra i sintomi psicopatologici più caratteristici è da annotare il fatto che i soggetti non
     sono capaci di rispondere alle domande più semplici che vengono loro rivolte, sebbene
     attraverso le risposte appare evidente che essi hanno colto il significato della domanda;
     nelle loro risposte tradiscono una sconcertante mancanza di conoscenze che essi hanno
     posseduto e che ancora, senza ombra di dubbio, possiedono. Essi in sostanza parlano
     fuori tema, contro senso, a vanvera. Trascurano la risposta corretta e ne danno un’altra
     vicina, ma inesatta. Nel contesto della sindrome ganseriana si impone la diagnosi
     differenziale con la simulazione, rimanendo forti dubbi circa l’essere una simulazione
     cosciente o incosciente.
     Si apre – a questo livello – il capitolo quanto mai complesso e difficile delle psicosi

21
carcerarie e, in specie, della simulazione di malattia mentale.
     In    un   setting   valutativo    quale     quello   peritale,   è   “normale”   che    il
     periziando/vittima/convenuto faccia il suo gioco autotutelante e cerchi di ottenere il
     massimo vantaggio con il minimo rischio; amplificare disturbi mentali fino a simulare
     una malattia psichiatrica è azione dai molti risvolti positivi (o ritenuti tali)
     dall’interessato, in particolare in ambito penale.
     Nella simulazione è chiaro il meccanismo cosciente di produrre intenzionalmente
     sintomi fisici e psichici e il proposito di amplificarli o di esagerarli, al fine di
     richiamare su di sé prepotentemente l’attenzione altrui e ottenere determinati benefici
     lucidamente perseguiti.
     Nella sindrome di Ganser, invece, la componente intenzionale sarebbe più sfumata e
     prevarrebbe quella isterica più elegantemente denominata dissociativa, con evidenti e
     accentuati aspetti confusionali e crepuscolari psicogeni.
     Nei Disturbi fittizi la produzione o simulazione intenzionali di segni o sintomi fisici o
     psichici si verifica senza incentivi esterni per tale comportamento.
     Per quanto attiene alle ricadute di questi discutibili, discussi e controversi
     inquadramenti diagnostici in ambito forense, è importante puntualizzare:
     -    Sarebbe opportuno abbandonare il termine di “psicosi carcerarie” per sostituirlo
          con quello più comprensivo, più appropriato e meno impegnativo di “sindromi o
          disturbi reattivi alla carcerazione”;
     -    Lo psichiatra nell’obiettivare l’esistenza di un alterato stato di coscienza, torpore
          e rallentamento ideo-motorio, produzioni deliranti del pensiero, disturbi
          dispercettivi, depressione dell’umore, autismo, alterazioni a carico degli istinti
          fondamentali, deve tenere costantemente presente che possono essere sì
          “autentici”, ma anche e troppo spesso “recitati”, al fine evidente di ottenere dei
          benefici;
     -    La reclusione, di per sé sola, non può generare un quadro psicotico. Essa invece
          può provocare disturbi reattivi variamente connotati, oppure fungere da fattore
          patoplastico nello slatentizzare una pregressa condizione di precario equilibrio
          mentale, o nell’aggravare preesistenti quadri psicotici più o meno dissimulati,
          facendo “saltare” meccanismi di difesa troppo fragili.
     E’ quindi indispensabile cercare di porre, nella maniera più rigorosa possibile, una
     distinzione tra quadri reattivi alla carcerazione e veri quadri psicotici: i soli rilevanti
     in ambito forense, ai fini dell’eventuale accertamento dell’incompatibilità con il

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regime carcerario e quindi della sospensione del procedimento penale o
        dell’esecuzione della pena. In questi casi, il trasferimento in idoneo luogo di cura per
        l’autore di reato (indagato, imputato o condannato che sia), è certamente una soluzione
        meno gravosa rispetto a quella di rimanere in carcere.
        Infine, la psichiatria forense annovera tra le sindromi reattive alla carcerazione, la
        prisonizzazione: con essa si intende l’assunzione, in grado minore o maggiore, delle
        abitudini, degli usi, dei costumi dell’esperienza carceraria sull’individuo, attraverso
        un processo di assimilazione da parte del detenuto dell’insieme di norme e valori che
        governano ogni aspetto della vita interna dell’istituzione.

     6. La perizia psichiatrica

        Mentre alcune forme psicopatologiche, pur causando problemi non indifferenti al
        personale penitenziario, possono essere gestite in carcere, per altre si delinea la
        necessità di ricorrere alle cure dei servizi esterni.
        Come già menzionato, oltre all’applicazione dell’art.148 c.p. (infermità psichica
        sopravvenuta al condannato), si ricorre all’art. 275, IV comma c.p.p., la cui
        formulazione, come modificata dalla legge 8.11.1991 n.356, prevede, quale criterio
        ostativo alla custodia cautelare in carcere dell’imputato, quello delle “condizioni di
        salute particolarmente gravi che non consentono le cure necessarie in stato di
        detenzione”.

        Così per la valutazione della patologia psichiatrica che può assumere rilievo ai fini del
        giudizio di compatibilità, è necessaria l’esatta definizione dei concetti di particolare
        gravità da un lato e di praticare le cure necessarie dall’altro.
        E’ innegabile che periti e consulenti chiamati a svolgere perizie psichiatriche al fine
        di accertare la gravità della malattia debbano tener conto di una duplice esigenza: da
        un lato il rispetto per la tutela della salute psichica dell’imputato e dall’altro la
        necessità di evitare elastiche e troppo soggettive interpretazioni rese ancora più agevoli
        dalla prevalente dimensione soggettiva della sintomatologia psichica.
        Il magistrato giudicante ha la necessità di disporre di un ventaglio sufficientemente
        ampio di soluzioni applicative adatte al caso di specie, in modo da poter impostare la
        risposta trattamentale in modo più possibile adeguato alle esigenze del singolo ma
        anche nel rispetto della reale disponibilità di risorse e non solo rispetto a quelle

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