Associazione Italiana di Psicologia Giuridica - AIPG
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Associazione Italiana di Psicologia Giuridica Corso di Formazione in Psicologia Giuridica e Psicopatologia Forense Teoria e Tecnica della Perizia e della Consulenza Tecnica in ambito Civile e Penale, adulti e minorile “Indagine clinico psicodiagnostica nella valutazione della compatibilità con il regime carcerario” Candidata Emanuela Salmè 1
CORSO 2020 Abstract : Le problematiche penitenziarie che spesso richiedono l’intervento dello psichiatra forense attengono alla valutazione della compatibilità o meno delle condizioni di salute del soggetto detenuto o in attesa di giudizio, con lo stato carcerario. E’ stata esaminata la normativa di riferimento, in base alla quale il giudizio tecnico si deve fondare sulla gravità della malattia e sull’eventuale incidenza negativa esercitata su questa o sulla sua evoluzione dalla detenzione, con particolare riguardo alla salute mentale. Tenuto conto delle problematiche connesse alle cure in carcere, si sono esaminati gli elementi utili e necessari nell’espletamento dell’accertamento peritale, ed alle possibili alternative nel caso di incompatibilità. Si è fatto un breve cenno alle peculiari condizioni attuali, in relazione all’epidemia da Covid- 19. INDICE 1. Salute e carcere 2. Compatibilità con la detenzione 3. Esecuzione penale e incompatibilità con il regime carcerario 4. Salute mentale ed assistenza psichiatrica in carcere 5. Problematiche psichiche e compatibilità carceraria 6. La perizia psichiatrica 7. Emergenza sanitaria Covid 19 e differimento pena 2
1. Salute e carcere La salute è uno dei beni primari dell’uomo, la condizione indispensabile ed imprescindibile affinchè ogni individuo possa esprimere liberamente la propria personalità. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità “la salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale, sociale e non consiste soltanto nell’assenza di malattie o infermità. Il possesso del migliore stato di sanità che si possa raggiungere costituisce uno dei diritti fondamentali di ciascun essere umano, qualunque sia la sua razza, la sua religione, le sue opinioni politiche, la sua condizione economica e sociale. I Governi hanno la responsabilità della sanità dei loro popoli: essi per farvi parte devono prendere le misure sanitarie e sociali appropriate”. La Costituzione Italiana pone la salute come “fondamentale diritto dell’individuo” e giudica che tendere ad essa è “interesse della collettività”, evidenziando in tal modo l’importanza rilevante che riveste nella vita di tutti gli individui. Il diritto alla salute è pertanto un valore costituzionale supremo, e si ricollega intrinsecamente all’integrità psico-fisica della persona. Essendo un diritto di tutta la popolazione nella sua interezza, non possono ovviamente essere escluse categorie di persone, quali i detenuti, che si trovano in posizione di più difficile accessibilità ai servizi rispetto ai liberi. La detenzione è una restrizione della naturale condizione di libertà dell’uomo; è noto che scopo fondamentale della detenzione e della pena comminata dal magistrato è il recupero, la risocializzazione ed il reintegro del reo - a fine pena – in un contesto sociale il più possibile sano e produttivo. In questo percorso di recupero del detenuto, il mantenimento di uno stato di benessere psico-fisico appare fondamentale, sebbene difficilmente raggiungibile, stante la peculiarità dell’ambiente carcerario, non sempre pronto a dare le migliori risposte terapeutiche possibili e - sotto il profilo psicologico e morale – fonte per sua natura di una sofferenza aggiuntiva. I diritti del detenuto vengono anche messi in discussione dalle attuali complesse condizioni degli istituti carcerari italiani che versano in condizioni critiche, a causa in particolare del sovraffollamento delle carceri che contribuisce a rendere estremamente difficoltoso ed a volte impossibile assicurare anche i più semplici servizi sanitari di base. 3
Nell’ambito di tali premesse, una particolare digressione merita l’applicazione dell’art. 41-bis (cosiddetto “carcere duro”) della L. 354, che definisce la possibilità da parte del Ministero di Giustizia di sospendere in particolari condizioni gran parte dei diritti riservati agli altri detenuti: “Quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del Ministero dell’Interno, il Ministro della Giustizia ha la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti o internati per taluno dei delitti…(omissis) in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza”. Secondo uno studio dell’Osservatorio Permanente delle morti in carcere, il suicidio fra i detenuti al 41 – bis è di 3,5 volte superiore rispetto alla popolazione carceraria “normale”. La privazione a lungo termine dei contatti interpersonali e la grave limitazione delle informazioni e del contatto con l’esterno sono ovviamente importanti fattori patoplastici che favoriscono l’insorgenza di psicopatologie. Ma riguardo l’insorgenza di patologie nel 41-bis occorre ancora osservare che il regime di proroga che viene spesso applicato a lungo termine a criminali di elevata pericolosità sociale (come ad esempio i boss della mafia), determina di fatto un innalzamento dell’età della popolazione carceraria e di conseguenza una più elevata probabilità di sviluppo di malattie croniche dell’età involutiva. Non è infrequente pertanto, osservare in detenuti in 41 – bis, oltre che le tradizionali patologie tipiche della detenzione, anche malattie croniche e degenerative, quali stati dementigeni, tumori, gravi cardiopatie. Il 41 – bis, va ricordato, non esclude a priori l’incompatibilità carceraria: è di tutta evidenza come il carcere duro viene (almeno in teoria) utilizzato con la finalità primaria di isolare il detenuto dalla rete criminale di appartenenza, e pertanto la necessità di questo isolamento diventa fondamentale per l’autorità giudiziaria nella gestione del detenuto. Dalla lettura delle numerose sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo emerge una certa inadeguatezza nella tutela dei detenuti in regime di carcere duro ed una scarsa disponibilità della Corte a dare rilevanza alle condizioni soggettive dei detenuti in regime di 41 – bis, nonostante in qualche caso si potessero legittimamente 4
riscontrare casi di trattamenti inumani e degradanti (Art. 3 CEDU). I Giudici di Strasburgo si sono più volte occupati della compatibilità dell’art. 41 – bis con le norme convenzionali e gli standard di tutela dei diritti umani sanciti dalla CEDU, facendo particolare riferimento agli artt. 3,8,13 della Convenzione. A seguito delle prime applicazioni del 41-bis sono state registrate presunte violazioni dei diritti fondamentali dei detenuti denunciati alla Corte EDU e che, come anche la giurisprudenza Costituzionale che quella internazionale hanno precisato, tale norma, pur rappresentando una limitazione di alcuni diritti fondamentali dei detenuti, non viola le norme Costituzionali, Comunitarie e internazionali e bisogna valutare la situazione caso per caso in relazione alla durata del trattamento, le sue ricadute sull’integrità fisica e psichica dei detenuti e le caratteristiche personali dello stesso, fra cui in particolare il sesso, l’età e lo stato di salute reale; inoltre, la presenza di un trattamento inumano e degradante non è implicito, ma deve essere provato. L’OMS ha più volte segnalato come la salute nelle carceri sia troppo spesso trascurata, sebbene sia un tema di assoluta priorità in quanto si coniuga con uno dei fondamentali diritti della persona. Seguendo le indicazioni dell’OMS in tema di responsabilità degli stati sovrani sulla salute negli istituti di pena, anche in Italia il legislatore con un complesso percorso di riforma avviato già dal 1998/99 ha completato il passaggio da una sanità gestita dal Ministero di Giustizia ad una di competenza degli organi e delle strutture del Servizio Sanitario Nazionale (SSN). La separazione dei ruoli e delle competenze è risultata il modo più efficiente e più efficace per garantire elevati standard di sicurezza e salute nei contesti penitenziari (“Progetto Obiettivo per la tutela della salute in ambito penitenziario” – Decreto 21 aprile 2000, Ministero della Sanità). Successivamente al percorso di integrazione carcere-territorio-SSN, alcune specialità, quali la psichiatria, si sono giovate di ulteriori tasselli legislativi che hanno consentito un’evoluzione migliorativa della condizione dei detenuti affetti da patologie mentali attraverso la L. 9/2012 e successiva L.81/2014 con le quali si è determinata la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) e l’apertura delle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS), con l’obiettivo di passare da un’assistenza psichiatrica prevalentemente custodiale ad una diversa assistenza con maggiori contenuti terapeutico-riabilitativi. 5
Ritornando a considerazioni di carattere più generale, la privazione della libertà personale è una condizione costrittiva che per sua stessa natura genera una vasta gamma di disturbi di natura fisica (da problemi cardiovascolari e metabolici sino a malattie infettive) e psicologici, patologie che con una certa frequenza esordiscono in carcere e ne rappresentano un esito anche dopo la scarcerazione. Evidenti fattori di rischio sono la sedentarietà, l’affollamento e la promiscuità, la limitazione degli spazi vitali con correlate condizioni di vita grandemente afflittive e tendenzialmente orientate all’isolamento relazionale del detenuto. L’Agenzia Regionale di Sanità Toscana nel 2014 ha condotto un’interessante indagine nella popolazione carceraria in sei regioni (Toscana, Lazio, Umbria, Veneto, Liguria, Campania, ASL Salerno), finanziata dal Ministero della Salute. Ben il 67,5% dei detenuti in esame è risultato affetto da almeno una condizione patologica, anche non grave. Dalla ricerca emerge, in particolare, l’importanza che ricoprono, nella popolazione detenuta, i disturbi psichici, le malattie infettive e quelle dell’apparato digerente. Oltre il 40% dei detenuti arruolati è risultato essere affetto da almeno una patologia psichiatrica. Fra i disturbi psichici prevalgono i disturbi da dipendenza da sostanze, diagnosticati nel 24% di tutto il campione, i disturbi nevrotici ed i disturbi dell’adattamento. Nel 2016 la Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria, insieme alla Società Italiana di Psichiatria ed alla Società Italiana di psichiatria delle Dipendenze, con il supporto di Otzuka, ha condotto il progetto “Insieme – La salute mentale in carcere”, con l’obiettivo di introdurre un approccio integrato nella gestione dei disturbi mentali in tutti gli istituti penitenziari italiani, e di assicurare una continuità terapeutico- assistenziale anche dopo la scarcerazione. Complessivamente, tutte le psicopatologie sono più rappresentate in carcere rispetto alla popolazione normale. Si riscontra ad esempio una percentuale del 4% di psicosi, contro l’1% della popolazione normale, mentre la depressione è presente nel 10% dei detenuti, contro il 2-4% al di fuori delle carceri; più frequenti sono i disturbi di personalità, che arrivano a percentuali elevatissime, dell’ordine del 65%, contro il 5- 10% della popolazione normale. L’abuso di sostanze ha una ricorrenza circa 2 volte la popolazione normale. E’ facilmente intuibile che gli incrementi delle psicopatologie dentro gli istituti 6
penitenziari hanno ragioni diverse in relazione al gruppo diagnostico considerato: mentre è ragionevole pensare che il regime di privazione di libertà sia un induttore degli stati depressivi ed in misura minore degli stati psicotici, per quanto riguarda i disturbi di personalità e le condotte di abuso vale invece il ragionamento opposto: è la patologia in sé che favorisce le condotte antisociali ed è quindi più presente fra le persone con maggiore disagio sociale, mentre in questo caso il carcere non sembrerebbe svolgere un ruolo psicopatogeno. Alla psicopatologia si ricollegano i gesti autolesionistici ed anticonservativi. I dati reali sul suicidio si possono rilevare dal dossier realizzato dall’osservatorio “Morire in carcere”: a fronte di una media di suicidi sul totale dei decessi del 36,39% nei 18 anni considerati, nel 2016 e nel 2017 si è avuto un incremento significativo. Per dare un’idea della dimensione del fenomeno, negli ultimi 20 anni gli agenti di polizia penitenziaria, in tutta Italia, hanno sventato oltre 21mila tentativi di suicidio nelle carceri ed impedito anche quasi 168mila casi di autolesionismo, che avrebbero potuto portare a conseguenze. 2. Compatibilità con la detenzione La normativa vigente prevede nel caso in cui sussistano condizioni tali da non rendere compatibile il diritto della persona alla salute con il regime detentivo, possano essere – previo esame medico – disposte misure alternative alla detenzione, di carattere transitorio (ricovero ospedaliero) o più protratto (detenzione domiciliare e altro). Il problema valutativo si pone in due alternative: 1. Per i soggetti già condannati in modo definitivo, che quindi si trovano in condizione di esecuzione della pena, 2. I soggetti sottoposti a misure cautelari, ovvero “in attesa di giudizio”, cioè sottoposti a indagini o interessati da processo, quindi non ancora condannati. I soggetti in esecuzione della pena per condanna definitiva possono avere la pena sospesa obbligatoriamente (art. 146 c.p.) quando sia presente AIDS conclamato “ovvero altra malattia particolarmente grave per effetto della quale le condizioni di salute risultano incompatibili con uno stato di detenzione, quando la persona si trova in una fase di malattia così avanzata da non rispondere secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno ai trattamenti disponibili e alle terapie 7
curative”, oppure facoltativamente (art.147 c.p.) “quando sussista una condizione di grave infermità fisica”, escludendo perciò le infermità mentali, che sono regolate invece, dall’art. 148 c.p. “infermità psichica sopravvenuta al condannato”. La norma di cui all’art.148 si applica ai detenuti nei quali si sviluppi una grave malattia psichiatrica dopo una condanna definitiva. Se la pena è inferiore ai tre anni il magistrato può disporre che il differimento sia effettuato in un ospedale psichiatrico, ovvero ad oggi, in una struttura del Dipartimento di Salute Mentale; se la pena è superiore è previsto l’internamento in Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Con l’approvazione della legge 81/2018, questi ultimi sono stati “superati” con l’istituzione delle REMS (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza). Il Tribunale di Sorveglianza con l’art. 684 c.p.p. può anche disporre differimento della pena se la protrazione della pena sia tale da produrre un grave pregiudizio nel condannato. Ben più complesse e controverse sono le situazioni di valutazione peritale nei casi di misure cautelari. Per la fattispecie dell’art.73 c.p.p. “quando lo stato di mente dell’imputato appare tale da rendere necessaria la cura nell’ambito del Servizio Psichiatrico”, il giudice informa l’autorità sanitaria, e può disporre anche d’ufficio il ricovero presso idonea struttura del servizio medico ospedaliero. Il provvedimento può essere adottato anche nei confronti di persona libera – ancorchè sottoposta a procedimento penale – ed ha come finalità la tutela della salute dell’indagato o imputato. E’ spesso oggetto di valutazione peritale la situazione a cui fa riferimento l’art. 275, 4 comma bis, c.p.p. e 275, 4 comma quinquies. In questi casi il giudice non ha molte possibilità di scelta: di fronte a una certificazione di parte che afferma l’incompatibilità del detenuto con il regime carcerario deve disporre perizia, se non accogliere direttamente l’istanza di revoca della misura detentiva. La disposizione di questo tipo di perizia avviene soprattutto nei casi di custodia cautelare, per indicare al giudice o al PM quale possa essere la migliore collocazione di un detenuto in precarie condizioni di carattere fisico o psichico. Il quesito peritale fa riferimento alla specifica fattispecie in esame e alla disponibilità di risorse sanitarie e terapeutiche in un generico istituto detentivo o in strutture specializzate dell’amministrazione penitenziaria. Per i soggetti affetti da AIDS, per esempio, si tratterà di un quesito quasi sempre 8
strutturato in modo centrato sul dato somatico e infettivo, così come avviene per i soggetti connotati da patologie somatiche. Per i soggetti con disturbi psichiatrici, invece, il quesito verterà sul dato clinico specifico, anche con riferimento alle singole norme in materia: “…se ricorrano le condizioni per l’applicazione delle misure di cui agli artt. 286 o 312 c.p.p.” Sul piano applicativo si deve rilevare che questo tipo di accertamento ha caratteri di estrema urgenza, sia per la frequente drammaticità delle condizioni del periziando, sia per l’estrema limitazione del tempo concesso dalla stessa norma al giudice per la sua decisione, e quindi ancor più importante del solito che il perito acquisisca sollecitamente le autorizzazioni per accedere senza limiti all’istituto detentivo ogni volta che sia necessario, acquisire copia del diario clinico carcerario, e se occorre far accedere alla struttura i propri ausiliari (psicologi per i test o medici specialisti per una consultazione). 3. Esecuzione penale e incompatibilità con il regime carcerario La legge 12 luglio 1999, n.231 (Disposizioni in materia di esecuzione della pena, di misure di sicurezza e di misure cautelari nei confronti dei soggetti affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria o da altra malattia particolarmente grave) e la legge 8 marzo 2001, n. 40 (Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori), e le relative conseguenze sul piano della compatibilità carceraria hanno seguito due percorsi differenti: da un lato si è realizzata la possibilità di un rinvio facoltativo in relazione allo stato di gravidanza e alle necessità dei condannati affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria in situazione di incompatibilità con lo stato detentivo; dall’altro, la riforma ha modificato la disciplina del rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena (art.147 c.p.) che può essere disposto quando la pena deve essere eseguita nei confronti di chi si trova in condizioni di grave infermità fisica ovvero nei confronti di madre di prole di età inferiore a tre anni. L’istituto del differimento dell’esecuzione della pena detentiva nelle ipotesi previste dagli artt. 146 e 147 c.p., risponde all’esigenza di tutela della salute del detenuto nonché all’esigenza di garantire il diritto di assistenza da parte dei propri congiunti durante la malattia. 9
Il profilo di incompatibilità di maggior rilievo medico-legale, per la problematicità della relativa valutazione, attiene propriamente all’ipotesi del rinvio facoltativo dettato dalle “condizioni di grave infermità”. Giurisprudenza e dottrina appaiono concordi in merito alla necessità di valutare l’utilizzo del criterio del livello di efficienza della struttura sanitaria penitenziaria tenendo presente la possibilità offerta dall’art. 11 c. II O.P., di curare all’esterno il detenuto: l’infermità grave deve essere valutata alla luce di considerazioni “relative alla qualità dell’assistenza fornita dall’istituto penitenziario di assegnazione, alle individuate scelte terapeutiche, ai rimedi indicati dai clinici e alle possibilità di giovamento che il richiedente può trarre in concreto dalla sospensione”; considerazioni che “non possono prescindere poi dal raffronto con il complesso degli strumenti che la legislazione pone al servizio del cittadino-detenuto al fine di garantire l’effettività del suo diritto alla salute”. La Corte di Cassazione ha precisato che “deve ritenersi grave non esclusivamente quello stato patologico del condannato che determina il pericolo di morte, ma pure ogni altro tipo di infermità che cagioni il pericolo di altre rilevanti conseguenze dannose o, quantomeno, esiga un trattamento che non si possa attuare in ambiente carcerario e che necessariamente abbia probabilità di regressione nel senso del recupero, totale o parziale, dello stato di salute” e in altra sentenza ha affermato che “è necessario che l’infermità, oltre a potersi giovare, nello stato di libertà, di cure e trattamenti sostanzialmente diversi e più efficaci di quelli che possono essere prestati nelle apposite istituzioni dell’ambiente carcerario, sia di tale gravità, per proporsi infausta quoad vitam o per altro motivo”. Albino e Pannain suggeriscono che “per comportare la formulazione di un giudizio di non compatibilità l’infermità deve essere di entità tale per cui lo stato detentivo – con ragionevole prevedibilità – causa di peggioramento delle condizioni del soggetto o di non miglioramento – anche riabilitativo – o, pur non incidendo sulla evoluzione della infermità, sia però motivo di sofferenza non conciliabile con la salvaguardia dei diritti della persona o non consenta una attuazione, ragionevole, del diritto di scelta del medico e del luogo di cura”. D’altra parte la sospensione della pena per motivi di salute ha sempre rappresentato un problema spinoso, allorquando si tratta di applicare la norma nei casi di più gravi 10
reati e di condannati socialmente pericolosi. Da un punto di vista tecnico, appare utile distinguere le patologie ad andamento acuto da quelle ad andamento cronico. La natura di provvedimento temporaneo cui tende il differimento per le prime, infatti, risulta certamente soddisfatta poiché la durata della pena detentiva non sarà intaccata dalla sua essenza. In questi casi la concessione del beneficio potrà essere motivata, oltre che da ragioni squisitamente umanitarie, dalla inattuabilità della necessaria terapia in ambiente carcerario. Nel caso, al contrario, di patologia divenuta cronica ci si è chiesti se si possa applicare tale istituto considerando che, in questo modo, il rinvio dell’esecuzione della pena si sostanzierebbe in una mancata esecuzione della pena stessa. Per il vero, oggi, nel caso di situazioni insanabili, vi è la possibilità di optare per la detenzione domiciliare in luogo del differimento, ai sensi dell’art. 47 ter, c. I ter O.P. La detenzione domiciliare è “una misura alternativa ispirata alla prospettiva della piena decarcerizzazione quale modalità di esecuzione extraistituzionale della pena detentiva”. La detenzione domiciliare, disciplinata dall’art. 47 ter O.P., introdotto dall’art. 13 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, consiste nell’obbligo di risiedere “nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza”. La sanzione alternativa è evidentemente finalizzata ad impedire l’ingresso del reo in carcere con pregiudizio delle relazioni familiari e sociali e delle condizioni di salute dello stesso ovvero a favorirne il graduale reinserimento nella comunità di precedente appartenenza. Altro presupposto per l’applicazione della detenzione domiciliare è costituito dalle particolari condizioni psico-fisiche richieste all’art. 47 ter comma I lettere a), b), c), d), e), sulle quali non ci soffermeremo rinviando alla letteratura nel merito. Pertanto, considerate le diverse opportunità offerte dal sistema penitenziario, il parere medico-legale in tema di differimento potrà essere, oltre che di piena compatibilità con il regime detentivo ordinario, di incompatibilità relativa o assoluta. Nel primo caso rientrano tutte quelle situazioni per cui, pur eventualmente ricorrendo a soluzioni alternative all’attuale regime detentivo, come il ricovero in un centro diagnostico terapeutico dell’amministrazione penitenziaria, la situazione non richiede forme alternative esterne. Nel secondo caso spetterà al giudice, sulla base dei criteri di 11
ordine giudiziario oltre che sanitario, scegliere tra l’espiazione presso la propria abitazione o altro luogo di privata dimora, o il ricovero in un luogo di cura, assistenza o accoglienza extracarcerario, ovvero concedere provvedimenti di rinvio dell’esecuzione della pena, anche grazie ai pareri assunti dal medico del carcere o dal perito, i quali sono tenuti a fornire chiari elementi clinici di giudizio quali, ad esempio, l’emendabilità della condizione patologica mediante appropriata terapia, la condizione di cronicità o di lenta evolutività nonché la prognosi quoad vitam. 4. Salute Mentale ed assistenza psichiatrica in carcere La Presidenza del Consiglio dei Ministri, attraverso il Comitato Nazionale per la Bioetica, nel marzo 2019 ha pubblicato un documento, con relative raccomandazioni riguardanti l’assistenza psichiatrica in carcere. La salute mentale è stata individuata come una delle aree critiche cui prestare particolare attenzione: l’equiparazione del diritto alla salute tra cittadini “fuori e dentro le mura” – il principio che ha guidato il passaggio della sanità penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale – richiede un impegno più complesso nel campo della salute mentale. Significativo viene considerato il ruolo storicamente ricoperto dall’Ospedale Psichiatrico Giudiziario (OPG), di custodia di tutti gli autori di reato con problematiche psichiatriche, la cui chiusura, per quanto fondamentale è solo un tassello nella costruzione di un nuovo sistema di cura dei soggetti affetti da disturbo mentale e autori di reato. Come già citato, i dati internazionali dicono che i detenuti godono di livelli inferiori di salute rispetto a chi sta “fuori”, e che la salute mentale rappresenta l’area più critica; dunque il carcere è chiamato in causa come ambiente che mina la salute mentale. La OMS prende anche atto del carattere intrinsecamente patogeno del carcere, sottolineando che “l’ambiente della prigione è, per sua natura, normalmente nocivo alla protezione ed al mantenimento della salute mentale di coloro che entrano in carcere e ivi sono detenuti”. Quali siano gli strumenti, normativi e operativi, a disposizione degli operatori penitenziari per rispondere alla richiesta di tutela della salute mentale delle persone recluse, è risultato un tema così centrale che molte istituzioni se ne sono occupate, in 12
ultimo, come già citato, la Corte Costituzionale con la pronuncia n. 99 del 2019 ed il Comitato Nazionale di Bioetica con un parere emesso nel marzo 2019. L’intervento di queste istituzioni ha parzialmente permesso di riparare al mancato esercizio della legge-delega che chiedeva di “potenziare l’assistenza psichiatrica negli istituti di pena”, con il contributo delle proposte degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, e della “Commissione Pelissero”. Dalla riforma della sanità penitenziaria del 2008, l’individuazione di personale specializzato in cura e riabilitazione del disagio psichico non spetta all’Amministrazione Penitenziaria, bensì alle Regioni e alle singole Aziende Sanitarie territorialmente competenti. Ci si riferisce a figure peculiari, come i medici psichiatri, ma anche psicologi, psicoterapeuti, tecnici della riabilitazione psichiatrica, educatori specializzati. Di fatto, la media nazionale delle ore di presenza settimanale di psichiatri ogni 100 detenuti è di 8,9, quella degli psicologi di 13,5. Si tratta di numeri che devono far riflettere sull’efficacia dell’intervento terapeutico e riabilitativo in un contesto peculiare come quello penitenziario. Per i casi in cui il disagio psichico raggiunge livelli che possono mettere a rischio la vita della persona e degli altri “abitanti” dell’istituto, dall’inizio degli anni duemila si è iniziato a sperimentare la nascita di “repartini” o comunque sezioni speciali dell’istituto penitenziario che avessero lo specifico compito di occuparsi della salute mentale. La loro creazione ed effettiva gestione non è mai stata normata in maniera univoca e coerente sul territorio nazionale; anche sulla loro denominazione, si è raggiunta una soluzione univoca solo recentemente e oggi queste sezioni prendono il nome di Articolazioni per la Tutela della Salute Mentale (ATSM). All’interno delle articolazioni si trovano le persone che non possono essere curate e assistite nelle sezioni ordinarie, la maggior parte delle quali, giuridicamente, in “osservazione psichiatrica” (un periodo di 30 giorni prorogabile, in cui viene valutata la compatibilità dello stato di salute psicofisico e la detenzione). Dall’incompatibilità fra il carcere e la salute mentale discende che la presa in carico delle persone con disturbo psichiatrico debba avvenire di regola nei servizi sul territorio, al di fuori del carcere. La cura psichiatrica in carcere dovrebbe essere limitata alle persone con disturbi minori, oppure al ristretto numero di coloro per cui 13
non sia possibile applicare l’alternativa terapeutica. Nella realtà dei fatti, si registra una doppia difficoltà: da un lato, nonostante i ripetuti richiami degli organismi internazionali, prevale l’idea che la tutela della salute mentale equivalga ad assicurare solo servizi psichiatrici specialistici, in linea con la più generale tendenza a confondere la salute con la sanità. Dall’altro, la nuova titolarità del SSN in carcere non ha del tutto eliminato il retaggio culturale della sanità penitenziaria nell’affrontare il conflitto fra i bisogni di salute della persona detenuta e le esigenze di sicurezza. Molte sono le difficoltà normative ancora presenti, ma soprattutto, in buona parte del nostro paese, la tutela della salute mentale in carcere non è ancora parte organica delle attività del Dipartimento di Salute Mentale, integrata con i servizi di salute mentale territoriali ed in sinergia con l’intera rete dei servizi socio-sanitari: la psichiatria in carcere è ancora troppo spesso un settore isolato, che mantiene molte delle caratteristiche della precedente gestione del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. La separatezza dei servizi “dentro le mura” fa si che il sistema sia poco adeguato ad offrire alternative di cura al di fuori del carcere. Se nuove norme sono importanti per assicurare ai detenuti maggiori opportunità terapeutiche fuori dal carcere, la loro concreta applicazione dipende dalla capacità dei servizi di salute mentale di elaborare progetti personalizzati, avvalendosi di tutte le opportunità, sanitarie e sociali, del territorio. In presenza di disturbi mentali gravi sopravvenuti in stato di detenzione, le Sezioni Cliniche di Salute Mentale in carcere, una volta effettivamente istituite e affidate alla gestione sanitaria, dovrebbero funzionare come luoghi transitori, di elaborazione e di preparazione a progetti di cura individualizzati terapeutico-riabilitativi, da eseguirsi sul territorio. L’elaborazione dei progetti è compito del Dipartimento di Salute Mentale, che necessita di una forte proiezione territoriale e di intensa collaborazione fra le unità operative dentro e fuori il carcere. Le Sezioni Cliniche dovrebbero essere dotate di spazi e di organizzazione di vita idonei alla cura. In caso di crisi, le persone dovrebbero essere trasferite immediatamente fuori dal carcere, nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura ospedalieri, per poi rientrare nelle Sezioni Cliniche una volta superata la fase di scompenso. Il ricovero nella Sezione Clinica dovrebbe essere limitato al tempo necessario a “ricalibrare” l’assistenza: che, nel caso dei disturbi meno gravi, tornerà a svolgersi nel 14
carcere “ordinario”. Nel caso di disturbi più gravi, la priorità della cura al di fuori del carcere richiede un adeguamento normativo: finalizzato a permettere il ricovero in strutture sanitarie in regime di detenzione domiciliare; e ad ampliare le possibilità di affidamento ai servizi territoriali o a strutture residenziali o semiresidenziali facenti parte del Dipartimento di Salute Mentale. Esemplificativa e significativa, si inserisce in questo panorama la sentenza della Corte Costituzionale n.99 del 19 aprile 2019: accogliendo la questione sollevata dalla Corte di cassazione, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 47-ter co.1-ter ord.penit. “nella parte in cui non prevede che, nell’ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta, il tribunale di sorveglianza possa disporre l’applicazione al condannato della detenzione domiciliare anche in deroga ai limiti di cui al comma 1 del medesimo art. 47-ter”. Secondo il giudice a quo a un detenuto che presenta problemi psichiatrici, l’assetto normativo attuale non offrirebbe forme di esecuzione della pena alternative alla detenzione in carcere, ma solo la possibilità di essere assistito presso una delle Articolazioni per la Tutela della Salute mentale eventualmente costituite all’interno del circuito penitenziario; tali articolazioni sono spesso assenti e, anche quando presenti, si mostrano gravemente inadeguate. La Corte costituzionale nella decisione in esame interviene subito sull’agognata differenza tra infermità fisica e psichica, sostenendo che la malattia psichica è fonte di sofferenze non meno della malattia fisica; è stato inoltre affermato che le patologie psichiche possono aggravarsi e acutizzarsi proprio per la reclusione. La sofferenza che la condizione carceraria inevitabilmente impone di per sé a tutti i detenuti si acuisce e si amplifica nei confronti delle persone malate, si da determinare, nei casi estremi, una vera e propria incompatibilità tra carcere e disturbo mentale. Secondo la Consulta, per questi casi gravi, l’ordinamento deve prevedere misure alternative alla detenzione carceraria, che il giudice possa disporre caso per caso, modulando il percorso penitenziario tenendo conto della tutela della salute dei malati psichici e della pericolosità del condannato, di modo che non siano sacrificate le esigenze della sicurezza collettiva. La Corte interviene altresì per fissare quali siano i parametri da rispettare nella valutazione del caso specifico: questa valutazione dovrà quindi tenere conto di vari elementi: il quadro clinico del detenuto, la sua pericolosità, le sue condizioni sociali 15
e famigliari, le strutture e i servizi di cura offerti dal carcere, le esigenze di tutela degli altri detenuti e di tutto il personale che opera nell’istituto penitenziario, la necessità di salvaguardare la sicurezza collettiva. In questo scenario, è di fondamentale rilievo la possibilità che la detenzione domiciliare possa svolgersi, oltre che “nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora, anche in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza”. Al giudice spetterà verificare, quindi, in base alle strutture e ai servizi di cura offerti all’interno del carcere, alle esigenze di salvaguardia degli altri detenuti e di tutto il personale che opera negli istituti penitenziari, se il condannato affetto da grave malattia psichica sia in condizioni di rimanere in carcere o debba essere destinato a un luogo esterno. 5. Problematiche psichiche e compatibilità carceraria L’area psichiatrica rappresenta la vera emergenza degli istituti penitenziari italiani, in quanto sono il principale contenitore del dilagante disagio mentale e la cartina tornasole di una marginalità sociale costituita da tossicodipendenti, prostitute, nomadi, vagabondi alcolisti, barboni ed extracomunitari. Si ritrovano soggetti affetti da parafilie di vario genere come transessuali, travestiti, omosessuali, pedofili che, spesso, non vengono seguiti dai servizi territoriali. Il carcere diventa così l’ambiente rivelatore del disagio e spesso il primo momento “ufficiale” di incontro di questi soggetti con le istituzioni. La necessità di una valutazione esterna di tipo peritale, si può ravvisare per soggetti già portatori di patologie psichiatriche, coinvolti in vicende giudiziarie, destinatari di misure cautelari ordinarie perché non è stato rilevato alcun vizio di mente, né parziale, né totale a cui dovrebbero essere applicate misure cautelari ordinarie. Potrebbe trattarsi di ex-pazienti o di persone che al momento dei fatti per cui sono indagati siano in fase di remissione e dunque imputabili. La necessità della valutazione peritale di incompatibilità può configurarsi nei seguenti scenari: I. Custodia cautelare in carcere e custodia cautelare in luogo di cura (artt. 285 e 286 cpp). Il PM che ritiene di dover chiedere al Giudice l’applicazione della misura cautelare della custodia cautelare in carcere nei confronti di un indagato o un imputato se, sulla base degli atti di indagine, rileva che il soggetto è affetto da problematiche di tipo 16
psichiatrico, prima di formalizzare la richiesta, acquisisce tutta la documentazione clinica e le necessarie informazioni anche sentendo i sanitari che lo hanno avuto in cura e ricorrendo anche ad una valutazione peritale (specie se il soggetto non è più seguito da specialisti del DSMDP). Se ha motivo di temere che le emergenze psichiatriche sconsiglino la misura custodiale in carcere per impossibilità di assicurare le necessarie cure, il PM potrà analogamente predisporre richiesta di perizia. II. Gli arresti domiciliari (art. 284 cpp). Tale misura oggi, in un contesto di rete, trova larga applicazione con due specifiche modalità. A. Arresti domiciliari presso l’abitazione dell’indagato o dell’imputato, con l’autorizzazione ad uscire nei tempi e modi stabiliti dal Dipartimento di Salute Mentale presso cui è stata attivata la presa in carico, unicamente al fine di sottoporsi alle prescrizioni trattamentali. Sarà la Stazione dei Carabinieri territorialmente competente per i controlli ai sensi dell’art. 284 cp, a segnalare immediatamente al Giudice che Procede qualsiasi violazione degli obblighi connessi alla misura degli arresti domiciliari. B. Arresti domiciliari presso una struttura residenziale psichiatrica. Si tratta di una misura che il PM chiederà, ed il Giudice potrà applicare, laddove necessaria, nella consapevolezza che le strutture residenziali psichiatriche non sono strutture “chiuse” e che l’obbligo di permanenza nella stessa è legato alla volontà del destinatario del provvedimento. Appare utile sottolineare che questo tipo di perizie presenta gravi incertezze e criteri valutativi spesso difficilmente conciliabili con parametri scientifici rigorosi. Il compito del perito dovrà essere sempre improntato alla massima prudenza e responsabilità, tenendo conto dei gravi limiti che questo tipo di giudizi presenta. Questo tipo di accertamento, come quello in tema di pericolosità sociale – e molti altri - evidenzia che buona parte delle fattispecie giuridiche sulle quali il perito è chiamato a pronunciarsi sono di difficile se non impossibile valutazione secondo un’ottica scientifica rigorosa. Tuttavia, poiché il quesito è cogente, lo psichiatra che svolge attività forense non può esimersi dal rispondervi. Il CTP può svolgere un’importante funzione di broker del progetto terapeutico, identificando nel caso idonee soluzioni di trattamento o inserimento psichiatrico al di fuori del carcere, valutando direttamente le caratteristiche delle stesse e quindi 17
proponendo al perito del giudice non una generica richiesta, ma una specifica proposta di cura, già concretizzabile. Da un punto di vista sintomatologico, il primo trauma che un detenuto subisce è rappresentato sicuramente dall’ingresso in carcere. La “Sindrome da ingresso in carcere” compare tanto più frequentemente e manifestatamente, quanto più elevato è il grado di educazione, di sensibilità, di cultura dei soggetti detenuti. Spesso consiste in una serie di disturbi non solo psichici, ma psicosomatici, riguardanti diversi organi ed è generalmente rappresentata da: disturbi dispeptici (inappetenza, senso di peso gastrico, rallentamento della digestione ecc), morboso disgusto per tutti i cibi con conseguente impossibilità ad alimentarsi (Sindrome di Gull), violenti e persistenti spasmi esofagei. Possono essere presenti manifestazioni respiratorie con sensazioni gravi di soffocamento, angoscia respiratoria, fame d’aria, e manifestazioni cardiovascolari con tachicardia, vertigini, svenimenti; inoltre si possono riscontrare sintomi psichici come lo stupore isterico, agitazione psicomotoria, crisi confusionali, anedonia, rannicchiamento fetale, furore pantoclastico, disorientamento spazio-temporale. Il trauma da ingresso in carcere può diventare tanto più forte quanto maggiore è il divario fra il tenore di vita condotto in libertà e quello fruibile in carcere. E’ certo comunque che per molti soggetti, in particolare alla prima detenzione, anche se per ciascuno in modo diverso, l’impatto con la struttura carceraria costituirà uno dei momenti più drammatici dell’esistenza. Vari tentativi di umanizzazione dell’impatto con il carcere e allo stesso tempo di prevenzione dei comportamenti a rischio sono stati fatti. Il più importante è sicuramente la predisposizione, attraverso la Circolare Amato del 30.12.1987 n. 3233/5683, del Servizio Nuovi Giunti effettuato dagli psicologi del carcere attraverso un colloquio con ogni singolo detenuto all’atto di ingresso in istituto; tale colloquio è volto a valutare la personalità del soggetto soprattutto al fine di prevenire eventuali gesti autolesivi. La maggior parte degli atti autolesionistici avviene nei primi giorni, e l’elemento confusivo che emerge in alcuni soggetti scardina gli elementi razionali; infatti mutilazioni anche gravissime e tentativi di suicidio avvengono a prescindere dalla pena inflitta o presumibile. 18
“Nelle istituzioni penitenziarie le manifestazioni psicopatologiche sono particolarmente frequenti. Esse possono essere la continuazione o l’evidenziazione in carcere di disturbi psichici già prima esistenti, o al contrario la strutturazione di una risposta di tipo psicotico ad eventi, particolarmente psicotraumatizzanti, quali l’imprigionamento, il rimorso per il delitto commesso, la previsione di condanna, la condanna stessa. Si possono manifestare con facilità in carcere delle reazioni a livello psichico, con le abituali caratteristiche fenomenologiche, che sono facilitate nel loro sviluppo dalla situazione carceraria, dalle condizioni di vita, non certo facili, che i detenuti sono costretti a sopportare”. I disturbi psichici più frequenti in carcere hanno quindi fondamentalmente duplice natura. Da un lato, è necessaria la gestione delle reazioni depressivo-ansiose in evidente connessione con il sofferto arresto; dall’altro, si impone il trattamento di forme psicopatologiche più o meno gravi, alcune evidenziatesi in carcere, altre manifestatesi già in precedenza sotto la cura dei servizi territoriali o di privati professionisti. Rientrano tra le patologie psichiche riscontrabili in carcere, forme gravi come le psicosi, le forme del campo tossicomanico e altre meno gravi, ma non per questo meno pericolose. Si intende con il termine psicosi quell’insieme di malattie che pongono l’individuo in una situazione, temporanea o permanente, di perdita più o meno totale della capacità di comprendere il significato della realtà in cui vive e di mantenere tra sé e quella realtà un rapporto di sintonia sufficiente a salvaguardare un comportamento autonomo e responsabile. In base ai fattori eziopatogenetici possiamo suddividerle in due gruppi: le psicosi organiche (metaboliche, disendocrine, infettive, vascolari, degenerative, neoplastiche, post-traumatiche, genetiche) e le psicosi endogene (o funzionali), includenti le schizofrenie e i disturbi dell’umore. Ad esse nell’ambito dell’istituzione penitenziaria vanno aggiunte le psicosi carcerarie, con veri e propri squilibri psicotici. Per quanto riguarda il campo tossicomanico, va detto che molti tossicodipendenti presentano disagi e sofferenze che possono trasformarsi in veri e propri disturbi psichici, i quali però nella maggior parte dei casi non si manifestano come reazioni 19
alla carcerazione, bensì come evidenziazione in carcere di disturbi già prima esistenti. Secondo studi e ricerche effettuati a livello internazionale, la prevalenza dei sintomi psichiatrici nei tossicodipendenti è significativamente più alta che nella popolazione generale, e la prevalenza dei disturbi tossicomanici è maggiore di quella di tutti gli altri disturbi psichiatrici insieme. Tali rilevazioni sono valide sia per l’ambiente carcerario che per quello extracarcerario. “La tossicodipendenza sarebbe, insomma, un fenomeno sintomatico di un disagio psicopatologico che la sostanza stupefacente serve a coprire. I disagi più frequenti sono di tre tipi: depressione, che per lo più viene compensata con l’eroina, vere e proprie psicosi, ma soprattutto disturbi di personalità di tipo borderline”. Ma il campo più estesamente rappresentato in carcere è quello parapsicotico. In esso confluiscono tutte le diagnosi di confine e le forme psicopatologiche che si esprimono nel comportamento: disturbi di personalità, in particolare il disturbo borderline, il disturbo narcisistico e il disturbo antisociale di personalità. Sono questi i detenuti che impegnano maggiormente gli psichiatri penitenziari poiché reclamano forme nuove e integrate di trattamento e che generalmente rimangono misconosciuti fuori dal carcere. Accanto agli psicotici e ai tossicomani, troviamo un’altra categoria di persone. Scrive Catanesi: insidie si nascondono comunque anche in soggetti apparentemente adattati, o per meglio dire, costretti a mostrarsi adattati per non venir meno alle aspettative del gruppo di appartenenza. Questi individui segnalano in maniera tipica al medico penitenziario difficoltà di altro genere, mascherando in tal modo disturbi psicologici che esplicitati (e soprattutto se affrontati con terapia farmacologica e psicoterapia specifica) li esporrebbero a severi giudizi da parte del clan di appartenenza. Così essi ostentano una forza ed una sicurezza che in realtà non hanno e secondo molti medici psichiatri, anch’essi sono detenuti a rischio perché impossibilitati ad esprimere il dolore e la sofferenza, sino a che la situazione non diviene insostenibile e l’angoscia si manifesta all’improvviso con comportamenti insospettati, con esplosioni, ad esempio, auto-eteroaggressive. La gestione ed il trattamento dei disturbi psichici rappresenta alcune peculiarità considerato il contesto così difficile quale quello carcerario. Catanesi sostiene che alcune peculiari strutturazioni di personalità, soprattutto borderline e narcisistica grave, pongono poi non pochi problemi all’èquipe medica del 20
carcere per la ricorrenza di gesti autolesivi anche di particolare gravità. Si tratta di soggetti che possono anche adeguati sul piano comportamentale e rapidamente adattati al contesto ambientale, ma che manifestano invece in relazione ad una molteplicità di problematiche, sempre diverse e spesso anche poco rilevanti, atteggiamenti ambivalenti e solo apparentemente contraddittori. Ora ricattatori, ora seduttivi, aggressivi o manipolatori, quasi sempre fortemente polemici, manifestano con ampia gamma di possibilità espressive un’unica, costante, pressante richiesta di assistenza, non sollecitata ma pretesa e non solo nei confronti del medico o dello psichiatra, ma soprattutto nei confronti di se stessi. A questa possono seguire, in caso di opposizione o di rifiuto, reazioni che a volte appaiono evidentemente dimostrative, ma che in taluni casi, ed in particolare in taluni soggetti, possono acquisire elevata valenza distruttiva auto-eterodiretta. Assai complessa risulta anche la gestione delle forme depressive maggiori, sia per l’intrinseca gravità e per l’elevato rischio suicida che ad esse si associa, sia per la difficoltà di poter proseguire alcuni trattamenti farmacologici in carcere. Per un insieme di motivi pertanto, la necessità di un ricovero in idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero diviene, in questi casi, orientamento pressochè costante. Sono state riscontrate alcune forme morbose psicopatologiche caratterizzate dal legame esistente fra la loro insorgenza e lo stato di detenzione; esistono cioè vere e proprie forme psicopatologiche, con sintomi caratteristici, che insorgono in individui in detenzione e che non si osservano in altri ambienti: esse vanno dalla comune e breve reazione ansioso-depressiva sino alla “Sindrome ganseriana”. Quest’ultima, relativamente rara, è basata su di una motivazione inconscia del soggetto ad evitare la responsabilità, sforzandosi di apparire infermo di mente. Tra i sintomi psicopatologici più caratteristici è da annotare il fatto che i soggetti non sono capaci di rispondere alle domande più semplici che vengono loro rivolte, sebbene attraverso le risposte appare evidente che essi hanno colto il significato della domanda; nelle loro risposte tradiscono una sconcertante mancanza di conoscenze che essi hanno posseduto e che ancora, senza ombra di dubbio, possiedono. Essi in sostanza parlano fuori tema, contro senso, a vanvera. Trascurano la risposta corretta e ne danno un’altra vicina, ma inesatta. Nel contesto della sindrome ganseriana si impone la diagnosi differenziale con la simulazione, rimanendo forti dubbi circa l’essere una simulazione cosciente o incosciente. Si apre – a questo livello – il capitolo quanto mai complesso e difficile delle psicosi 21
carcerarie e, in specie, della simulazione di malattia mentale. In un setting valutativo quale quello peritale, è “normale” che il periziando/vittima/convenuto faccia il suo gioco autotutelante e cerchi di ottenere il massimo vantaggio con il minimo rischio; amplificare disturbi mentali fino a simulare una malattia psichiatrica è azione dai molti risvolti positivi (o ritenuti tali) dall’interessato, in particolare in ambito penale. Nella simulazione è chiaro il meccanismo cosciente di produrre intenzionalmente sintomi fisici e psichici e il proposito di amplificarli o di esagerarli, al fine di richiamare su di sé prepotentemente l’attenzione altrui e ottenere determinati benefici lucidamente perseguiti. Nella sindrome di Ganser, invece, la componente intenzionale sarebbe più sfumata e prevarrebbe quella isterica più elegantemente denominata dissociativa, con evidenti e accentuati aspetti confusionali e crepuscolari psicogeni. Nei Disturbi fittizi la produzione o simulazione intenzionali di segni o sintomi fisici o psichici si verifica senza incentivi esterni per tale comportamento. Per quanto attiene alle ricadute di questi discutibili, discussi e controversi inquadramenti diagnostici in ambito forense, è importante puntualizzare: - Sarebbe opportuno abbandonare il termine di “psicosi carcerarie” per sostituirlo con quello più comprensivo, più appropriato e meno impegnativo di “sindromi o disturbi reattivi alla carcerazione”; - Lo psichiatra nell’obiettivare l’esistenza di un alterato stato di coscienza, torpore e rallentamento ideo-motorio, produzioni deliranti del pensiero, disturbi dispercettivi, depressione dell’umore, autismo, alterazioni a carico degli istinti fondamentali, deve tenere costantemente presente che possono essere sì “autentici”, ma anche e troppo spesso “recitati”, al fine evidente di ottenere dei benefici; - La reclusione, di per sé sola, non può generare un quadro psicotico. Essa invece può provocare disturbi reattivi variamente connotati, oppure fungere da fattore patoplastico nello slatentizzare una pregressa condizione di precario equilibrio mentale, o nell’aggravare preesistenti quadri psicotici più o meno dissimulati, facendo “saltare” meccanismi di difesa troppo fragili. E’ quindi indispensabile cercare di porre, nella maniera più rigorosa possibile, una distinzione tra quadri reattivi alla carcerazione e veri quadri psicotici: i soli rilevanti in ambito forense, ai fini dell’eventuale accertamento dell’incompatibilità con il 22
regime carcerario e quindi della sospensione del procedimento penale o dell’esecuzione della pena. In questi casi, il trasferimento in idoneo luogo di cura per l’autore di reato (indagato, imputato o condannato che sia), è certamente una soluzione meno gravosa rispetto a quella di rimanere in carcere. Infine, la psichiatria forense annovera tra le sindromi reattive alla carcerazione, la prisonizzazione: con essa si intende l’assunzione, in grado minore o maggiore, delle abitudini, degli usi, dei costumi dell’esperienza carceraria sull’individuo, attraverso un processo di assimilazione da parte del detenuto dell’insieme di norme e valori che governano ogni aspetto della vita interna dell’istituzione. 6. La perizia psichiatrica Mentre alcune forme psicopatologiche, pur causando problemi non indifferenti al personale penitenziario, possono essere gestite in carcere, per altre si delinea la necessità di ricorrere alle cure dei servizi esterni. Come già menzionato, oltre all’applicazione dell’art.148 c.p. (infermità psichica sopravvenuta al condannato), si ricorre all’art. 275, IV comma c.p.p., la cui formulazione, come modificata dalla legge 8.11.1991 n.356, prevede, quale criterio ostativo alla custodia cautelare in carcere dell’imputato, quello delle “condizioni di salute particolarmente gravi che non consentono le cure necessarie in stato di detenzione”. Così per la valutazione della patologia psichiatrica che può assumere rilievo ai fini del giudizio di compatibilità, è necessaria l’esatta definizione dei concetti di particolare gravità da un lato e di praticare le cure necessarie dall’altro. E’ innegabile che periti e consulenti chiamati a svolgere perizie psichiatriche al fine di accertare la gravità della malattia debbano tener conto di una duplice esigenza: da un lato il rispetto per la tutela della salute psichica dell’imputato e dall’altro la necessità di evitare elastiche e troppo soggettive interpretazioni rese ancora più agevoli dalla prevalente dimensione soggettiva della sintomatologia psichica. Il magistrato giudicante ha la necessità di disporre di un ventaglio sufficientemente ampio di soluzioni applicative adatte al caso di specie, in modo da poter impostare la risposta trattamentale in modo più possibile adeguato alle esigenze del singolo ma anche nel rispetto della reale disponibilità di risorse e non solo rispetto a quelle 23
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