ANTOLOGIA DEI TESTI TRATTI DA IL CAVALLO ROSSO - D I
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ANTOLOGIA DEI TESTI TRATTI DA IL CAVALLO ROSSO D I E U G E N I O C O R T I
ANTOLOGIA DI TESTI TRATTI DA IL CAVALLO ROSSO DI EUGENIO CORTI I testi antologizzati sono desunti dalla 27a edizione del Cavallo rosso, Edizioni Ares, 2009. Si ringrazia Edizioni Ares. Vol 1 parte I Cap. 1 pp. 7-8 Vol. 1 parte I CAP. 3 pp. 17-20 Incipit del romanzo Ambrogio Fine di maggio 1940; avanzando lenti uno a fianco Pedalò lentamente sulla carrareccia verso casa. L’ac- dell’altro Ferrante e suo figlio Stefano falciavano il pra- compagnò da principio, da un riquadro di grano, il canto to. Alle loro spalle il cavallino sauro attendeva attaccato intermittente d’una quaglia; nelle pause di quel canto al carro; aveva consumata per intero la bracciata d’erba solitario il silenzio della sera era punteggiato da altre messagli davanti da Stefano all’inizio del lavoro: con voci agresti, in genere minime, cui il ragazzo tendeva avidità l’aveva mangiata, sollevando e squassando di l’orecchio: il mio paese, pensava, ecco il mio paese. continuo la testa per respingere il collare voluminoso Quante volte tra le mura opprimenti del collegio era che gli scivolava lungo il collo. Adesso, senza muoversi tornato cl pensiero a questi luoghi, all’ambiente in cui d’un passo, protendeva la bocca per carpire le foglie del era nato! gelso nella cui ombra era stato lasciato: insieme con le Dalla carrareccia gli venne a un tratto incontro uno foglie strappava anche la scorza dei rami più teneri che scalpiccio, il rumore inequivocabile di due zoccoli di le- apparivano – dove le sue labbra erano giunte – spezzati gno; guardò incuriosito davanti a sé, ma la viuzza – che e bianchi come ossicine. in questo tratto era fiancheggiata da siepi piuttosto alte Di tempo in tempo Ferrante si drizzava sulla schiena di gelso e di biancospino – faceva una curva che gl’im- e, fatto eseguire al lungo manico della falce un mezzo pediva la vista. giro, ne poggiava la punta a terra; la lama veniva così “Chi sarà?” si chiese incuriosito: “Chi può venire alla a trovarsi orizzontale davanti al suo petto: era bordata Nomanella a quest’ora? Forse qualcuno in cerca di latte al filo da una poltiglia verde un po’ schiumosa, l’umore fresco. Se no chi altro? Beh, adesso vediamo.” dell’erba. Con la cote, che traeva da un corno di bue Era Giustina, la sorella ventenne di Stefano, la mag- appeso alla cintola, il contadino liberava prima la lama giore dei quattro figli di ferrante e Lucia. Ambrogio se dalla poltiglia, quindi si dava ad affilarla, alternando con la trovò davanti a metà curva; frenò e mise un piede a ritmo il massaggio della cote sui due lati del filo. Allora terra: “Oh, Giustina” esclamò “salve!”. per rispetto anche il figlio cessava di falciare, e girata la “Buona sera” gli rispose Giustina guardandolo lieta, propria falce si metteva ad affilarla allo stesso modo. anche se incerta se fermarsi oppure no. Indossava il “E’ un buon lavoratore” pensò, osservandolo mentre grembiule nero da operaia, aveva i capelli castani trat- eseguiva questa operazione, Ferrante: “Non stacca se tenuti a crocchia da un pettine sulla nuca, e gli occhi non ne ha motivo, e mai per primo”. grandi di Stefano e della mamm Lusìa. Calzava zoccoli “Oramai resisto più io di lui” pensò invece il figlio Ste- alti di legno che rendevano ancora più snella la sua fano, e avvertì una sensazione d’orgoglio mescolato a figura già sottile (forse, chissà, a giudicare adesso, col dispiacere. “Soltanto l’anno non era così” rifletté; sbirciò senno di poi, troppo sottile). il padre: robusto, con il collo piantato come un tronco tra “Come va, Giustina?” le spalle, e quei baffi color pepe che gli coprivano quasi “Si lavora” rispose lei in dialetto, accentuando un bel la bocca, non era certo uomo da ispirare compatimento. sorriso. “Però ha quasi cinquant’anni” si disse Stefano. Accor- “Vedo. Ritorni adesso” tosi che il padre aveva notato il suo sguardo, sempre “Abbiamo fatto un’ora di straordinario.” la ragazza seguitando a massaggiare con la cote il filo della falce fece per riavviarsi. il ragazzo girò lentamente gli occhi, fino a fermarli sulla “Te ne vai già?” disse con rincrescimento Ambrogio. carrareccia che dalla Nomanella, la loro cascina, saliva “Cos’hai, paura che ti mangi?” al paese, a Nomana. Giustina s’imporporò fino alla radice dei capelli. “No” gli rispose, “ti conosco. So che sei un ragazzo pulito 2/11
non solo di fuori ma anche di dentro.” Dopo avere costeggiato il giardino, la carrareccia s’in- “Questa è farina del sacco si don Mario” rilevò subi- nestava nella strada maestra che da nord sale a No- to Ambrogio: “è una frase sua. Però detta da Giustina mana: all’incontro delle due strade il muro del giardino devo ammettere che non suona fuori posto”. formava un angolo smussato nel quale era ricavata una La giovane gli sorrise di nuovo: “Buona sera” e s’av- nicchia con un affresco della Madonna del rosario se- viò. duta col Bambino in braccio su uno sfondo di montagne *** (vi si riconoscevano bene le due Grigne e il Resego- La carrareccia – lunga circa un chilometro – prima ne); sormontava l’affresco una scritta ad arco: ‘Regina d’entrare in Nomana costeggiava come s’è detto il giar- sacratissimi rosarii ora pro nobis’. Ambrogio accennò dino d’Ambrogio, o meglio del padre di Ambrogio, l’in- un inchino in segno di saluto e prese verso sinistra la dustriale tessile. Siccome il piano del giardino era di strada maestra che proprio a questa altezza si faceva, qualche metro più alto del piano della carrareccia, lo entrando in paese, da bianca acciottolata. Premette con conteneva un vecchio muro sormontato nel solo tratto più forza sui pedali, costeggiò la recinzione ovest del centrale a una balconata in arenaria, per tutto il resto da giardino, quindi una parete priva di porte della sua casa, una lunga siepe di mortella, dalla quale sporgevano qua infine, dopo un altro tratto di recinzione, giunse a uno e là, protendendosi sulla carrareccia, grossi rami d’al- slargo circoscritto da una breve cancellata a mezzaluna bero. Mentre pedalava rasente il muro Ambrogio l’esa- con l’ingresso nel giardino. minò riflessivo, com’era sua abitudine: individuò alcune Da questo slargo egli poteva vedere interamente la nuove infiltrazioni d’acqua, forse là dove all’interno più sua pacifica casa, color giallo ocra, a tre piani, vecchia premevano le radici degli alberi. “A saper vedere, tutto di almeno cent’anni: aveva un aspetto agiato, anzi si- si consuma, ogni cosa finisce” gli avvenne di pensare “i gnorile, eppure fino a cinquant’anni prima era stata una vecchi muri come i periodi che si succedono nella vita fabbrica tessile, poi in parte fabbrica e in parte abitazio- della gente…” La sua vita però – si disse subito – era ne; solo da una ventina d’anni (da quando cioè s’era solo all’inizio, anzi finora non era stata che preparazio- sposato suo padre) era stata trasformata interamente in ne: la vera vita per lui sarebbe cominciata adesso, nel abitazione. Da bambino Ambrogio aveva fatto in tempo prossimo autunno per esempio, con l’università, dove a vedere gli ultimi telai a mano in solaio: uno solo fun- oltretutto c’erano le ragazze… Altro che pensare alla zionava ancora, e avrebbe continuato a funzionare fin- fine! La fine era pensabile per… per i… i vecchi, in- ché non si fosse ritirato l’operaio che lo manovrava, un somma per gli altri, non per lui. la prospettiva della fine pensionato coi baffi a manubrio, scherzoso coi bambini lo fece addirittura sorridere tanto era incommensurabil- e straordinariamente semplice (così – s’immaginava al- mente lontana. Non indugiò comunque in tali pensieri, lora Ambrogio – doveva essere tutta la gente una volta) perché non era portato alle fantasticherie. il quale asseriva di ricordare il tempo in cui a Nomana le Alzò invece lo sguardo a controllare se per caso qual- donne portavano ancora in testa la raggiera d’argento. cuno dei suoi famigliari fosse alla balconata; non c’era “E gli uomini? Cosa portavano in testa gli uomini?” gli nessuno. “Naturale. Mica è l’ora di venire a godersi la chiedevano i bambini, conoscendo già la risposta. vista delle montagne.” “Gli uomini, magari, qualche pidocchio” rispondeva I suoi fratelli (sei, tutti minori di lui) dovevano in que- lui; e non si capiva se dicesse la verità, o lo dicesse sto momento essere in casa intorno alla madre: quelli per far ridere. tornati dal collegio stavano probabilmente raccontando episodi della loro vita di studenti, e i due più piccoli do- vevano starli ad ascoltare con grande attenzione. Sta- sera, a cena, dei famigliari sarebbe mancato soltanto Manno, il cugino orfano che da sempre viveva con loro; di due anni più anziano d’Ambrogio e studente d’archi- tettura, Manno si trovava adesso a Pesaro, alla scuola ufficiali d’artiglieria: se fosse scoppiata la guerra, Manno ci si sarebbe trovato subito dentro fino al collo.
Vol. 1 parte I CAP. 11 pp. 44-48 e sono passati come nel burro, e anche tutta la prima La dichiarazione di guerra dell’Italia linea francese ha dovuto cedere. E il corpo inglese? Quel poco che s’è salvato, s’è salvato scappando come In piazza c’era già un po’ di gente in attesa. Guar- le lepri.” davano tutti l’elettricista e insieme idraulico del paese Alludeva a Dunkerque: Ambrogio sapeva che colui di- che si dava un gran da fare intorno a due altoparlanti ceva il vero, perciò la cosa gli riusciva ancor più insop- applicati in modo alquanto fortunoso alla facciata del portabile. Al pari degli altri giovani educati nelle scuole municipio. cattoliche d’elite di Milano, egli conosceva il giudizio La corrente degli operai (sensibilmente diminuita per- ripetuto dal papa Pio XI – milanese, anzi brianteo – ai ché durante il percorso non poche madri di famiglia se visitatori più preparati della sua ex diocesi di Milano: es- n’erano staccate per andarsene a casa) si arrestò dietro sere i nazisti dei veri e propri anticristi nel senso evan- alla gente in attesa. A una finestra del municipio si af- gelico del termine. Che il nazismo potesse ora impadro- facciava ogni tanto il segretario politico signor Cereda, nirsi davvero, tutt’a un tratto, dell’Europa – come le sue il quale a un tratto chiamò, agitando una mano, uno dei attuali strepitose vittorie militari facevano temere – era tre o quattro uomini in camicia nera ch’erano pure in per Ambrogio e per i suoi compagni di scuola, se pur in attesa in un crocchio a parte. Questi s’affrettò ad accor- confuso, una prospettiva così intollerabile che essi non rere sotto alla finestra. Il segretario gli disse qualcosa e accettavano nemmeno di prenderla in considerazione. l’uomo – si trattava di Alfeo, capo dell’istruzione premili- “E quest’altro attacco dei tedeschi, che è cominciato tare – si portò a passi energici di fronte alla folla: “Quelli pochi giorni fa?” continuava il Pollastri: “Non avete letto davanti devono formare una riga diritta” prescrisse. E il giornale? Hanno già fatto a tocchi tutta la nuova linea siccome la gente, pur guardandolo, non si decideva a francese, e ormai stanno marciando su Parigi: nessuno ordinarsi: “Ecco: così, così, e così...” provvide egli stes- li può più fermare. E’ così o non è così?” so ad allinearne alcuni, al modo che faceva coi suoi Sembrava che le cose stessero precisamente così, allievi; gli altri allora si allinearono da sé. purtroppo. “E’ per questo dunque che anche noi sal- Il segretario controllava alla finestra, approvando: die- tiamo addosso alla Francia?” gli oppose mentalmente tro la riga allineata di Alfeo la gente seguitava a far Ambrogio: “Come hanno fatto i russi con la Polonia l’an- macchia, ma il segretario non se ne diede pensiero. no scorso, quand’era già in ginocchio? Che schifo!” Era “Sono contrari alla guerra” pensava, “lo credo bene. Chi una prospettiva talmente ignobile che... il giovane finì potrebbe essere così bestia da volere la guerra? Però col voltare le spalle al Pollastri. Da quest’altra parte un una cosa è certa: che al fronte questi briantei (brianzö) gruppo d’operai della sua ditta osservava con crescente non faranno forse l’eroe, ma il loro dovere lo faranno interesse i tentativi dell’elettricista-idraulico per mettere anche nelle situazioni più bestiali. A differenza magari in funzione i suoi apparecchi: “Guarda il Pirovano Ore- di quegli scalzacani di studenti che oggi gridano ‘viva ste, guardalo.” la guerra’”. Avendo partecipato al conflitto precedente “Non se la cava mica.” sapeva quel che diceva. “Cos’altro dunque” concluse “Macché.” “potrebbe volere da me il partito?” Si ritirò dalla finestra; “Oreste, sta attento di non cadere dalla scala.” Alfeo tornò al suo piccolo crocchio. “Guardalo, batte con la mano sull’altoparlante perché Gerardo, Ambrogio e Luca erano capitati accanto a si decida a parlare.” un gruppo in cui pontificava in dialetto un tizio dall’a- “Allora Oreste? Si decide o no?” spetto sgradevole, che essi conoscevano solo di vista: “Forza, pestalo più forte.” il signor Pollastri, impiegato della Previdenza Sociale Questi frizzi dispiacevano all’elettricista della ditta, a Incastigo. Costui, al fine di farsi sentire da un ascol- Tarcisio (quell’operaio alto di statura e ricciuto – ardito tatore autorevole come Gerardo, aveva rafforzata un nella precedente guerra – che Ambrogio e Stefano dieci po’ la voce: “I tedeschi ormai la vittoria ce l’hanno in giorni prima avevano visto attraversare la piazza diretto tasca” sosteneva: “Vi rendete conto? Appena un mese alla benedizione) il quale era buon amico del Pirovano fa – anzi giusto un mese fa, come dice il giornale, cioè Oreste. “Sono apparecchi che vengono usati di raro” il dieci maggio – hanno attaccato il Belgio e l’Olanda cercava perciò di spiegare Tarcisio a chi gli stava vici-
no: “Per questo Oreste ha difficoltà a farli funzionare. voce, e avevano smesso subito. Quand’è che li avranno usati l’ultima volta? Forse al Il punto era un altro, ed era che ormai non esiste- tempo delle sanzioni.” vano dubbi, cominciava la guerra, la più terribile delle “Oreste” gridò allora uno dei motteggiatori: “sta atten- calamità collettive nel tempo moderno. Tutti quei popo- to che se non riesci a farlo funzionare, Alfeo ti mette le lani ricordavano le invocazioni dei loro preti che s’erano sanzioni.” particolarmente raffittite nelle ultime settimane: ‘A fame, A questa uscita anche Luca, ch’era un ragazzo soli- a peste,a bello, libera nos Domine. Libera nos...Libera tamente serio, scoppiò a ridere di gusto. Dovette ride- nos’. Il Signore non aveva accolta la preghiera, ecco. re per forza anche Tarcisio, disapprovava però con la Segno che i peccati degli uomini erano cresciuti fino al testa. punto di impedirglielo. Da tempo don Mario lo spiegava Intanto altra gente arrivava nella piazza e si dispone- così bene: “State attenti: è vero che Dio è amore, ma va a tergo dei presenti. Uscirono di chiesa anche il pre- non può continuare a trattare gli uomini come bambini vosto e il coadiutore don Mario, che rimasero in attesa irresponsabili...” Chi li aveva commessi quei peccati? nel pronao, passeggiando tra le colonne di serizzo con Dove li avevano commessi? Anche a Nomana, sì, era aria preoccupata. inutile negare: “Guardate in voi stessi, non cercate lon- Improvvisamente nell’aria esplose un tremendo bo- tano” diceva don Mario, e diceva bene, appena che uno ato, che si prolungò con alti e bassi fino a quando il riflettesse. Così adesso non rimaneva che rimboccarsi Pirovano Oreste non ebbe regolato il volume dei suoi le maniche e far fronte al guaio tremendo in cui ci si apparecchi: allora si tramutò nelle acclamazioni della stava ficcando, un guaio nel corso del quale non pochi folla romana in attesa della parola del duce. Il segretario sarebbero stati uccisi. A quanti del paese sarebbe toc- politico, accorso alla finestra del municipio per vede- cato, e a chi precisamente? re cosa stesse succedendo, si affrettò a questo punto Il discorso continuava: “quarantacinque milioni di ani- a scendere in piazza e a mettersi davanti alla gente. me...” ma ormai la gente di qui lo seguiva solo per iner- L’annunciatore da Roma descriveva esaltato i labari, i zia; ciò che davvero interessava lo si sapeva: il guaio manipoli, la folla ‘oceanica’ (termine questo che – come aveva con certezza inizio. Mussolini concluse: “Popolo l’altro, ideologicamente opposto ma non meno disuma- italiano corri alle armi” (“Sì, sì” gridava la folla: “Sentili nizzante, ‘le masse’ – qui dava sui nervi a più d’uno); i romani” mormorò a mezza voce qualcuno con irrita- alle descrizioni si alternavano pezzi di musiche marziali. zione) “e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo Finalmente, acclamato da rinnovate altissime grida, si valore.” apprese che s’era affacciato al balcone di palazzo Ve- Finito il discorso, il segretario politico si girò verso nezia Mussolini. la gente: “Mi raccomando di osservare bene le norme Questi, ottenuto il silenzio (certo con uno dei suoi dell’oscuramento” disse con molto giudizio. Poi levò gesti risoluti) cominciò a parlare: “Combattenti di ter- all’improvviso il braccio nel saluto romano: “camerati di ra, di mare e dell’aria. Camicie nere della rivoluzione e Nomana, saluto al duce.” delle legioni, uomini e donne d’Italia, dell’impero e del “A noi” gridarono Alfeo e alcuni altri. regno d’Albania, ascoltate. Un’ora segnata dal destino “L’adunata è finita” disse il segretario, e rientrò in mu- batte nel cielo della nostra patria, l’ora delle decisioni nicipio; la folla cominciò a disperdersi. irrevocabili.” Di nuovo dagli altoparlanti si riversarono scrosciantissime grida ed acclamazioni, poi si rifece si- lenzio: “La dichiarazione di guerra è già stata consegna- ta agli ambasciatori...” un boato di esultanza interruppe il discorso: “agli ambasciatori” Mussolini riprese “di Gran Bretagna e di Francia...” Interruppero di nuovo il discor- so altre urla giubilanti, e acclamazioni,e fischi all’indiriz- zo di quelle nazioni. Qui a Nomana nessuno vi si univa. Alfeo e tre o quat- tro dei suoi ci s’erano bensì provati, ma come a mezza
Vol. 1 parte I CAP. 13 pp. 49-52 tanto che appena fuori dall’aia si voltò ripetutamente, La cartolina torcendo anche il collo, per esplorare l’effetto della sua visita. Nei giorni seguenti non poche cartoline-precetto fioc- *** carono qua e là in Nomana, e anche Stefano ricevet- ma Lucia, che era rientrata in casa, non se ne ac- te la sua. Non lui direttamente: a riceverla dalle mani corse; del resto non gliene sarebbe importato niente. del portalettere fu sua madre. Il portalettere Chin, ben Sedette su una sedia accanto ai fornelli spenti, col fo- noto per l’insipiente emotività che lo faceva di continuo glietto rosa nelle mani: vi lesse attenta, con lentezza, esorbitare dal suo compito e interferire negli affari non qualche parola qua e là: non c’era dubbio, si trattava suoi coi quali veniva per ragioni d’ufficio a contatto, in dell’atteso precetto militare per Stefano. La disturbò ad quei giorni stava superando se stesso: siccome sapeva un tratto la circostanza d’essere in quel momento sola che la consegna d’una cartolina-precetto in tempo di in casa: ci fosse stata qui Giustina, oppure Ferrante, o guerra può essere il principio di una tragedia, quasi almeno la nonna… erano talmente abituati a dividere ad ogni cartolina che consegnava si sentiva in dovere tutto tra loro! Comunque anche questo, d’essere sola, di fare qualche stranezza. A volte, se a riceverla era era in fondo un fatto marginale, insignificante, di fronte l’interessato, gli palpava ad esempio il bicipite esternan- all’altro ben maggiore, ben più grave fatto che suo fi- do ammirazione vera o simulata, per infondergli fiducia; glio, il suo Stefano, doveva partire per la guerra. Le si altre volte al contrario – specie quando, sul finire del sollevarono dentro – mescolandosi tra loro – innumere- suo giro, si ritrovava stanco e tediato – agitava con in- voli ricordi: di Stefano quand’era piccolo, con l’abitino a sistenza la mano destra davanti al viso dell’interlocutore gonna (la vestinèta) che, con la mano tesa verso di lei, perplesso, a significargli chissà quali guai. Se a ricevere provava le prime parole; e più piccolo ancora, appena la cartolina erano i parenti, proclamava magari che lui di pochi mesi, quando fradicio di sudore per quella tre- col richiamo non ci aveva che fare, che la colpa non menda febbre, era stato sul punto di morire; e poi di era mica sua, o altre cose stravaganti. Co, risultato che forse otto anni, che fattosi vigoroso correva come un riceveva dalla gente infastidita non pochi rimbrotti. torello nell’erba alta, ridendo per il vento in faccia; e Alla mamm Lusìa, fattasi sulla porta al suo giungere in ancora Stefano pochi giorni prima, giovane serio, che bicicletta nell’aia della Nomanella, Chin – il quale poco le toglieva di mano la fascina della legna: l’aveva voluta prima era stato abbondantemente insolentito da un ri- spezzare lui la legna per la polenta: “Perché non m’ave- chiamato – tese la cartolina rosa senza parlare, con un te data una voce, mamma? sapete che non voglio che gesto che riuscì quasi lapidario, tanto da intimidire un facciate lavori pesanti.” Il suo Stefano! Mescolandosi a poco la povera donna. La quale non allungò subito la questi ricordi le s’aggirava per la testa anche ciò che mano a ritirare il foglietto, ma prima se l’asciugò nervo- aveva udito raccontare da Ferrante e da altri intorno alla samente nel grembiule: l’arrivo del portalettere l’aveva guerra. Il particolare di un morto austriaco e di uno ita- sorpresa mentre sciacquava la verdura, e qualche mi- liano che erano stati sepolti insieme nella stessa fossa, nuzzo verde aderiva ancora alle sue dita. di modo che mai e poi mai i parenti avrebbero potuto Firmò in silenzio la ricevuta, poi ringraziò con voce distinguere i loro resti. E… e… tanti altri episodi confusi, che si sforzava di mantenere come sempre pacata: grandiosi, terribili, che chissà come si erano svolti nella “grazie Chin.” Il portalettere le rispose allontanando realtà. E, insieme, quei nomi di macchine della morte, prontamente da sé, col palmo della destra, il ringrazia- la mitraglia soprattutto, che chissà com’era fatta, e non mento, a significare che si rendeva conto nella presente era il solo, ce n’erano altri nomi come quello, odiosissi- circostanza di non meritarlo; quindi infilò la ricevuta nel- mi per una madre. E presto suo figlio, il suo Stefano, si la massiccia borsa di cuoio, zeppa di corrispondenza, sarebbe trovato mescolato a tali nefande cose. che portava a tracolla, salutò alzando alla visiera le dita Sarebbe diventato bersagliere, che sono soldati espo- unite della mano destra in modo quasi militare (era il sti. Certo lui non avrebbe fatto di proposito lo spavaldo, suo abituale modo di salutare) e voltata la bicicletta né cercato i pericoli, neppure però – e questo la madre proseguì austero il proprio giro. Austero, ma non oltre lo sentiva con certezza – si sarebbe tirato indietro. “Pur- il limite che gli consentiva la sua scriteriata emotività, troppo è di quelli che fanno, non di quelli che parlano”
pensò con inconscia polemica popolana. E dunque in Vol. 1 parte I CAP. 17 pp. 61-62 mezzo a tutte quelle occasioni di morte… A una simile Il giardino e la casa di Ambrogio prospettiva l’angoscia la invase; la sua intima emozione divenne tale che si sentì mancare il respiro. Cercò allo- Se al mattino faceva pratica in fabbrica, nel pomerig- ra con gli occhi l’effigie della Madonna alla parete: una gio Ambrogio si godeva liberamente le vacanze. stampa popolare in cui prevaleva l’azzurro, il colore del Dedicandosi innanzitutto a lunghe ore di lettura in cielo sereno. Il volto amato della Madre di Dio e anche giardino. Sedeva di solito su una sdraio sotto un albero quel colore ebbero il potere di calmarla un poco. Comin- di fico, cresciuto spontaneo al margine del prato: intorno ciò allora a muovere le labbra, a pregare, rimproveran- aveva l’erba coi suoi fiori incoltivati: ranuncoli gialli, mar- dosi di non averlo fatto prima: da chi avere conforto se gherite, tarassachi e altri di cui ignorava il nome. Spes- non da Colui che potendoci chiedere qualunque cosa, so nelle ore di gran sole in giardino non c’era nessuno ci chiede soprattutto amore, pietà e benevolenza per i all’infuori di lui, se non talvolta i due fratelli più piccoli, nostri simili? Che Costui esistesse gliel’insegnava non Rodolfo e Giudittina (gli altri erano partiti per la monta- meno della chiesa l’esperienza di tutta la sua vita: non gna), che indugiavano chini sul terreno a giocare con gli siamo soli, c’è realmente Qualcuno che si interessa a stampi e la terra. portavano – i due bambini – berretti noi, e a volte, nei momenti più decisivi per noi e per bianchi calati fino alla nuca, anzi sul collo, e i loro gesti i nostri cari, lo sentiamo intervenire; è una realtà che erano lenti, assonnati: così chini pareva che il gran sole ci capita di percepire con molta chiarezza, anche se dall’alto li premesse con la sua vampa contro il suolo. poi ci è difficile ridirla agli altri mediante parole. Non In quelle ore non giungevano ad Ambrogio altri rumori sempre però interviene, soltanto a volte… Attirò i suoi che ronzii di insetti, il pigolio dei passeri dal tetto della occhi una cartolina infilata in un angolo del quadro sa- casa, crescente a volte fino a sfociare in improvvise cro: raffigurava un gruppo marmoreo della Madonna col baruffe subito risolte (i passeri, che tra gli uccelli sono Cristo morto sulle ginocchia, la didascalia diceva che la i più vicini agli uomini, sembrano anche fra tutti i più statua si trovava in san Pietro a Roma, e da Roma ap- rissosi), e ogni tanto dagli alberi la strofe ben modulata punto Giustina aveva ricevuta quella cartolina, inviatale del capinero: un gorgheggio di poche note delicatamen- da suor Candida durante un memorabile pellegrinag- te variate, che per lui finiva col costituire la voce stessa gio di qualche anno prima. Quell’immagine ricordò con dell’estate in Brianza. Se la strofe si ripeteva con più spavento alla madre che il mescolarsi alle cose umane insistenza il giovane interrompeva magari la lettura e del soprannaturale non esime affatto dal dolore, che la si metteva in ascolto: gli capitava allora di svagare al- stessa Madonna aveva avuto ucciso il proprio adorabile trove col pensiero, gli occhi fissi sul fogliame del fico figlio. sopra la sua testa, oppure nelle nuvole che navigavano altissime nel cielo. Pensava a tante cose: per esempio alla sconosciuta ragazza che sarebbe stata un giorno sua moglie, la quale doveva ben esistere da qualche parte, e cercava a volte di raffigurarsela; oppure a qua- le sarebbe stata la sorte della patria, trascinata senza criterio in questa guerra, che ora sembrava, in realtà, impegnarla ben poco; e anche alla sua sorte personale pensava, una volta che l’avessero chiamato alle armi. Tornava infine al presente, e riprendeva la lettura. Ogni po’ di tempo si alzava in piedi, buttava il libro (“Ivanhoe” o “Ilia e Alberto” o “I fratelli Caramazov”) sul- la sedia a sdraio, e si sgranchiva con quattro passi per i viali del giardino e dell’orto. tra gli alberi c’era anche nei giorni più caldi una sensibile frescura; erano, gli alberi, di altezze diverse, alcuni – qualche abete in particolare – sorpassavano i venti metri; inframezzati ad essi cre-
scevano cespugli e arbusti di molte specie, non però nel Vol. 1 parte I CAP. 25 pp. 81-83 più folto, dove attecchiva soltanto l’edera che copriva il Michele Tintori di Nova terreno in modo uniforme. Là dove tra i rami sovrastanti si apriva qualche finestra di luce, nell’edera crescevano ciuffi di felci, e un’erba strana, misteriosa, dai fiori defor- A fine agosto i due giovani fecero insieme ritorno a mi di colore cupo; sui pendii esposti a nord, all’edera si Nomana, dove Ambrogio riprese la vita di prima: im- sostituiva il muschio, vegetazione, tutta questa minore, piegava la mattina a far pratica in ditta, e il pomeriggio spontanea, e non diversa da quella che cresceva nei nella lettura e nelle gite in bicicletta. boschi della campagna. Un giorno decise di visitare un compagno di collegio Tenendo le mani dietro la schiena Ambrogio vagava domiciliato in Brianza, che come lui si sarebbe iscrit- per i vialetti bordati dalle criniere dell’erba convallaria: to all’università cattolica di Milano. Si trattava d’un tipo non fosse stato in montagna, qui tra gli alberi avrebbe interessante, intenzionato fin dalle elementari a fare, certamente incontrato suo fratello Pino, quindicenne, il nientemeno, lo scrittore: il Michele Tintori di Nova, figlio quale trascorreva si può dire le proprie vacanze, dal unico d’un grande invalido della guerra precedente. primo all’ultimo giorno, a insidiare gli uccelli col Flobert. Mentre di primo pomeriggio pedalava alla volta di ma ora Pino era via, e gli uccelli sugli alberi avevano Nova, Ambrogio riandava tra sé l’originale personalità tregua. del suo compagno. Senza dubbio l’inclinazione dell’arte gli veniva dal padre il quale, sebbene di cultura mode- stissima (scalpellino di mestiere, doveva aver sì e no frequentata la quinta elementare), aveva a suo tempo scolpito dei drammatici bassorilievi, ora sparsi in varie chiese della zona. Anche altri compagni di collegio – Ambrogio ricordava – erano intenzionati a fare lo scrit- tore oppure il poeta, e in effetti qualche loro poesia (“ma perché tutte quante ermetiche? Mah”) compariva ogni tanto sul bollettino del collegio! Solo obtorto collo, e per assoluta mancanza di meno disdicevole palestra, i futuri poeti si risolvevano a pubblicarvi le loro opere accanto ai fervorini del rettore e alle cronache dell’accademia scolastica. “Comunque su nessuno degli altri io pun- terei una lira, sul Michele Tintori invece...” Quello era come fatto d’una pasta speciale. “Vero che anche lui ha pubblicato più d’una poesia sul bollettino, quand’era nelle elementari però, non in ginnasio o in liceo come gli altri.” Ambrogio ricordava bene questo particolare: il Tintori aveva iniziato a scrivere poesie in terza o in quarta elementare; ovviamente allora gli mancava ogni nozione di metrica, e non d’autentici versi s’era trattato, ma d’infantili composizioni rimate, così almeno gli aveva poi detto lo stesso Tintori. Il quale a un tratto aveva in- tuito (“A guardar bene sta qui la sua forza: nell’intuizio- ne”) di non essere sulla strada giusta, e infante com’era aveva risolutamente smesso di scrivere le poesie che pure il bollettino (a quell’età non disprezzato) gli stam- pava. Ambrogio lo ricordava poi più avanti, quando al principio del ginnasio era stato distribuito il testo d’Ome- ro. Fino ad allora probabilmente il Tintori, al pari degli
altri allievi, di Omero aveva ignorata l’esistenza: appena greci che esploravano il Caucaso.” “Sì, con le armi di però s’era trovato tra le mani le sue pagine, n’era stato bronzo e una colonna di muli, come le upozughìa di preso al punto che non se ne sarebbe mai staccato. Era Senofonte, e...” incredibile quanto lo attirasse quella poesia... Ambrogio “Dunque ti piacciono i muli, eh?” aveva detto, a buon continuava a riandare tali vecchie cose mentre pedala- conto sarcastico, il professore Zaròli: “rispondi.” va con energia in mezzo ai campi di stoppie azzurrati Il Tintori aveva finito col non sottrarsi più: “Sì, i muli, e dagli ultimi fiordalisi, tra Seregno e Desio. “Quante volte le navi, e... tutto quello che esiste mi piace” aveva rispo- l’ho visto, nelle ore di ‘studio’, liberarsi in fretta dalle sto, o press’a poco: ciò che Ambrogio adesso ricordava altre materie per prendere in mano il libro d’Omero!” era che, in quell’occasione, la parola muli, la parola ragazzino com’era il Tintori percorreva quel nuovo esal- navi, in bocca al suo compagno avevano assunto una tante dominio addirittura con la gioia dipinta in faccia sorta di strano incanto. e – cosa inedita nel loro ambiente – si seccava quan- Dopo averlo disapprovato con un’occhiata il più pos- do la campana elettrica della ricreazione l’obbligava a sibile severa, il professore aveva ripresa la lezione. Al staccarsi dal libro. “Poi, a metà ginnasio, ha comincia- romanziere il manoscritto darebbe stato reso solo alla to a scrivere romanzi...” Ambrogio sorrise: i ‘romanzi’ fine dell’anno scolastico, allorché venivano restituiti i come li chiamavano loro suoi compagni, erano in realtà temperini, i fischietti, le palline da ping pong, e gli altri racconti fantastici, in genere ambientati nelle epoche corpi estranei sequestrati nel corso delle lezioni. oggetto delle lezioni di storia. Durante tali lezioni, men- Però! Quanti ricordi pareva ad Ambrogio di avere già tre il professore parlava, la fantasia del Michele Tintori adesso, a diciannove anni. non riusciva a contenersi: ogni episodio o notizia, le figure del testo, perfino i nomi obsoleti contenuti nelle carte dell’atlantino, costituivano per lui spunti a vicende immaginarie, a storie che si susseguivano con fervore nella sua mente. Aveva cominciato a mettere per iscrit- to quelle fantasticherie, riempiendo poco alla volta dei quaderni. Il tempo di studio non gli bastava più, s’era perciò messo a scrivere anche durante le ore di lezione: col risultato che l’uno o l’altro professore finiva col pren- derlo sul fatto, e col sequestrargli il ‘romanzo’. Come il professore Zaròli quella volta: “Perché non segui la lezione, Tintori? Cosa stai scrivendo? Fa vede- re.” Aveva sfogliato il quaderno: “I fenici? Che c’entra- no i fenici?” Se adesso stiamo studiando l’età romana? Cosa? Una nave fenicia nell’Atlantico assalita da...da piroghe indigene? Che scempiaggine è questa?” Il Tintori, mortificato ma non molto, aveva cercato di sottrarsi alle spiegazioni: “Chiedo scusa. Mi voglia scu- sare.” “Ma cos’è che stai scrivendo, si può sapere?” “Mi sono lasciato prendere la mano da...” “Da cosa?” “Non lo so.” L’intera scolaresca, che fino allora s’era contenuta, era a un tratto esplosa: “Signor professore, è un ro- manzo.” “Un romanzo storico.” “Anche il professore di matematica gliene ha sequestrato uno.” “Questo è il terzo che gli trovano.” “Il primo era una storia di antichi
Vol. 1 parte I CAP. 28 pp. 89-90 “Beh, vedo che è necessario fare un ripasso genera- Le lezioni di arte di Manno le. Cercate di stare attenti perché, queste cose potran- no servire a tutti: sia a quelli di voi che faranno l’ope- Nel corso delle due settimane che trascorse a No- raio, per arricchimento della loro mente, sia soprattutto mana prima di tornare alle armi, Manno dedicò – come a quelli che intaglieranno il legno o batteranno il ferro, aveva promesso a don Mario – alcune serate ai ragazzi o faranno il disegnatore industriale, che sono lavori ai dell’oratorio. quali noi briantei siamo molto portati. Tant’è vero che Riprese nel punto in cui le aveva interrotte, certe sue la nostra scuoletta professionale di Nomana, con tut- lezioni sull’arte. “l’arte, se è autentica, indirizza a Dio” to ch’è solo serale, arriva quasi ogni anno a piazzare (non si sorprenda il lettore d’incontrare subito dopo il qualche concorrente nei concorsi provinciali e anche Michele Tintori, un altro giovane appassionato di Dio: nazionali. Come tuo fratello Umberto, eh Giacinto? Che dopo tutto ci troviamo in Brianza, nella Brianza d’allo- tre anni fa è uscito campione nazionale di disegno.” ra.) “Questo prima di partire io ve l’ho detto un sacco “Adesso Umberto è soldato a Udine” dichiarò compia- di volte: è la convinzione che sta alla base dei nostri ciuto Giacinto. incontri, lo sapete.” “Lo so” disse Manno. I ragazzi, seduti davanti a lui sulle sedie impagliate “Giacinto, non disturbare” intervenne don Mario: “il dell’oratorio, lo seguivano attenti: sapevano che, a diffe- fatto che tuo fratello adesso si trovi a Udine piuttosto renza dei suoi cugini Ambrogio e Fortunato, Manno non che in un altro posto, non c’entra con questo discorso.” intendeva fare l’industriale (del resto non ne aveva il Il giovane prete – capelli a spazzola, faccia da bambi- tipo: dell’industriale brianteo almeno che, come s’è det- no con occhiali cerchiati di ferro sottile – presenziava to, era quasi sempre d’estrazione popolare: Manno ave- sempre insieme coi ragazzi: “Voglio imparare anch’io” va modi diversi, più raffinati e disinvolti); doveva comun- asseriva. que avere ragioni ben importanti, pensavano i ragazzi, per rifiutare quell’opportunità che la vita gli offriva. “Sentiamo te Carlino” provò a interrogarli il giovane: “Perché io dico e ripeto che l’arte indirizza a Dio? Te lo ricordi o non lo ricordi più, e ti pare che io lo dica soltanto perché ci troviamo all’oratorio?” L’interpellato, levatosi in piedi, si trovò in difficoltà a rispondere: “Perché nell’arte c’è il particolare, cioè no, l’universale. Eh, non mi ricordo più bene.” Gli altri ragazzi ridacchiarono, ma in modo contenuto: avevano tutti una certa difficoltà a ricordare quei con- cetti astratti sminuzzati per loro con tanta pazienza da Manno, studente del secondo anno di architettura. “L’arte” disse il giovane “è ‘l’universale nel particola- re’, è questo che tu volevi dire, che abbiamo detto tante volte.” (Nel ripetere l’antica definizione che ha orientato gli artisti dei secoli in cui l’Italia è stata veramente gran- de in arte, Manno non provava la minima soggezione verso le estetiche nuove, tutte più o meno in contrasto tra loro, di cui sono oggi pieni i testi e le riviste specializ- zate.) “Ma cosa significa, a metterla in spiccioli, questa frase? Prova a spiegarla con parole tue.” “Vuol dire che l’arte è... è una specie di...” si sforzava di ricordare il Carlino Valli, diciassette anni, apprendista giardiniere.
Vol. 1 parte IV CAP. 10 e 11 pp. 289-294 tutti gli altri, senza far rumore, avanzavano alquanto, Un macello bestiale fino a prendere posizione nella neve coi moschetti spia- nati. Oltre il varco il terreno scendeva verso un angusto *** pianoro, attraversato da un filare di alberi spogli. Al pie- Con un giro abbastanza complicato, straordinaria- de dei quali c’era... qualcosa. mente guardinghi, i due esploratori raggiunsero la trin- “Voi fermi qui” disse Acciati in un soffio. A Bellazzi cea di neve senza farsi scorgere. Vogliamo dire che se invece fece segno di portarsi avanti con lui; con molta in quella trincea ci fosse stato qualcuno di guardia non li cautela i due raggiunsero un punto da cui potevano avrebbe visti arrivare, tanto la loro manovra fu accorta; osservare meglio. di guardia però non c’era nessuno. Al piede degli alberi sembrava ci fosse una lunga cre- La trincea conteneva soltanto morti. La maggior par- sta artificiale di neve; dietro ad essa si scorgevano dei te ancora in posa di combattimento, sdraiati o in gi- corpi oscuri. nocchio, con le braccia in atto di puntare il moschetto; Di che porca roba si tratta?” mormorò l’ufficiale. Ag- alcuni, guarda, non avevano più l’arma, e altri giaceva- giunse, dopo un po’: “Pare una trincea di neve... Se no addirittura su un fianco nella neve, ancora però in è così direi che è nostra,dato che, vedi il terreno? Le quell’atteggiamento di puntare un’arma, rigide statue di scende davanti verso nord, verso il Don.” ghiaccio che il nemico, entrando dopo il combattimento “Sì” convenne sottovoce Bellazzi, e dopo qualche nella trincea, doveva aver rovesciato con uno spintone istante: “E’ nostra, sì. Guardate: è messa a tagliare la o con un’ultima fucilata. Tutte le statue portavano l’el- strada che stiamo cercando. La vedete la strada? Là metto piumato ed erano ricoperte di brina. davanti, che sale verso la trincea?” “Sono bersaglieri, tutti bersaglieri...” ripeteva sgomen- “E’ una strada quella?” mormorò Acciati. “Non si capi- to Bellazzi. sce bene. Così al buio non si può dire.” Si chinò su un elmetto per leggerne il numero; a tal Bellazzi lo guardò in faccia, rimaneva della propria fine dovette liberare dalla brina lo stemma dipinto, sfre- opinione e anzi la voce, pur molto bassa, gli si fece giandolo col guantone; aiutato da Stefano, dovette an- speranzosa: “Forse le cose non vanno poi tanto male; che accendere un cerino. “Sesto” lesse infine: “Sono forse stiamo per prendere contatto con qualche repar- del Sesto... Per la malora, guarda com’è sforacchiato to del Sesto” disse. “Potremmo anche portare a casa questo elmetto.” buone notizie.” Non solo quello, ma tutti gli elmetti erano sforacchiati, Acciati seguitava a scrutare fissamente. “‘Sta storia e – come i due si resero conto – anche i corpi degli non mi convince” sussurrò. “Perché sono così fermi? uomini, le loro armi, nonché gli alberi al cui piede era Tutti quanti immobili?” stato imbastito lo schermo di neve; più d’un albero – “Se stanno dormendo?” spaccato dalle raffiche – pencolava obliquo o si era “Disposti a quel modo? E poi, qualche vedetta al- schiantato a terra. meno... Beh, non ci resta che andare a controllare.” Si “Puttana la miseria. Hanno ridotto ogni cosa un cola- volse al sottufficiale: “Ci vai tu Bellazzi, con un altro. brodo, tutto un colabrodo hanno ridotto!” ripeteva Bel- State bene attenti, perché se incappate nei russi poco lazzi. “Che dannato macello. In quanti saranno stati a potremo fare per voi. Hai sentito l’ordine del capitano? sparare addosso a questi poveri cristi?” State ben attenti.” Stefano, costernato, non diceva niente. Sia davanti “Signorsì” disse Bellazzi. che dietro alla trincea la neve appariva fittamente cal- I due tornarono dai bersaglieri che seguitavano ad pestata, come per il passaggio di una grande folla. Ma aspettare inginocchiati. “Giovenzana” chiamò, sempre a adesso non c’era più nessuno, soltanto i morti. bassa voce, il sottufficiale: “Vuoi venire anche tu?” “Vieni” disse Bellazzi con voce angustiata “cerchia- Stefano, che non aveva la minima idea di dove si trat- mo di farci un’idea di quanti sono, poi torniamo là dai tasse d’andare, si fece avanti senza una parola. Ascoltò nostri.” attento il piano d’avvicinamento che tenente e sergente Percorsero lentamente tutta la trincea, lunga un cen- abbozzarono insieme, poi si avviò col sergente, mentre tinaio di metri: v’individuarono ytra l’altro un mortaio da
81, e all’incrocio con la pista in salita un cannoncino no all’orecchio le accorate deprecazioni di don Mario anticarro con accanto i serventi morti; in questo punto, là a Nomana, e anche quelle parole di suo padre sulla al centro della trincea, i cadaveri, l’arma e ogni altro guerra: ‘Voi ragazzi non potete immaginare che razza oggetto erano, se possibile, ancora più fittamente forac- di porcheria è la guerra...’ Ma adesso non doveva pen- chiati dai colpi e dalle schegge. sarci, non adesso. Davanti a un simile massacro Bellazzi finì col caricar- Quand’ebbe raggiunto Bellazzi, questi gli fece nota- si progressivamente di furore; procedeva irsuto, ogni re che a lato della pista ce n’erano diverse di cataste. tanto tirando su col naso, sempre più determinato – “Anche là in basso, le vedi? L’hanno pagata cara quegli quando se ne fosse presentata l’occasione – a ripagare stramaledetti figli di cagna.” della stessa moneta il nemico; adesso ogni pochi passi “Già” disse Stefano bestemmiava, oppure sputava qualche parola rabbiosa. il sergente rimase muto per un lungo momento. “Dai” Stefano invece seguitava a non parlare, era come in- risolse infine “torniamo”, e s’avviò. stupidito dall’orrore. Arrivati alla fine della trincea tornarono indietro al *** cannoncino, presso il quale giaceva il capitano coman- Con una certa difficoltà nell’esporre, tant’erano im- dante del reparto sterminato. Aveva a tracolla la borsa pressionati, i due fecero la loro relazione ad Acciati, che topografica di celluloide: gliela sfilarono con una certa sforzandosi a sua volta d’accantonare l’orrore volle gli difficoltà, perché il suo lungo cinturino di cuoio era rigi- spiegassero meglio alcuni particolari, e domandò ripetu- do come se fosse di ferro, e rigide come quelle di una tamente se la strada a sbarramento della quale era sta- statua le membra del morto. “Questa potrà forse servirci ta costruita la trincea fosse importante o no, e insomma per riconoscere il reparto” disse Bellazzi, consegnando se potesse essere quella che stavano cercando. la borsa a Stefano, che senza commenti se la mise a Il sergente adesso non era più del parere che lo fos- tracolla. se. “No, m’è sembrata troppo secondaria. Anche se una Tra i cadaveri – complessivamente più d’un’ottantina cosa è certa: che di là è venuto su un mare di gente.” – avevano individuato anche quelli di due ufficiali subal- Stefano si limitò a stringere le labbra. terni, privi però di borsa di ricognizione. Infine l’ufficiale consultò l’orologio: “sono passate le Il sergente adesso esplorava ogni tanto con gli occhi cinque” disse 2e l’ordine è di essere a casa per le sette. oltre lo spalto. “E i morti russi dove sono? Possibile che Non ci resta che fare dietro front e sgambare, anche li abbiano già portati via?” finì col dire. perché per attraversare quella strada là indietro...” fece Si chinò incerto sul cannone e ne esaminò il settore di con la mano un gesto a significare: chissà il tempo che tiro: “Quelle due cataste di tronchi lì davanti dovevano ci occorrerà. dare fastidio” mormorò. “Come mai non li hanno usati Guardarono tutti un’ultima volta, con angustia, ver- per rinforzare la difesa?” so la trincea presidiata dai morti, quindi si rimisero in “Aspetta un momento” fece allora Stefano. Valicato marcia. lo spalto di neve si accostò, con le suole che nell’ag- Il ritorno, grazie alla pista da loro stessi aperta, fu da ghiacciante silenzio stridevano, alla più vicina delle due principio meno faticoso dell’andata. I pensieri di ciascu- cataste: non era fatta di tronchi ma – com’egli aveva no andavano e venivano dall’orrenda trincea dei morti sospettato – di cadaveri nemici. Al pari dei bersaglieri i alla strada percorsa dalle colonne nemiche, che biso- russi morti apparivano tutti incrostati di brina. “Non sono gnava nuovamente attraversare. Come ne giunsero in tronchi, sono loro” comunicò con voce atona al sergen- vista Acciati fece alt. Si scorgevano di nuovo dei fari te. “Non li hanno portati via”. schermati procedere nel buio, lucciole gelide e lontane, “Ah” esclamò allora Bellazzi: “Dunque ce n’è rimasti appena mobili. anche di loro, eh?” Stefano tornò lentamente alla trin- “Avvicinarci così allo scoperto è chiaro che non pos- cea. “Che macello bestiale!” ripeteva tra sé e sé. Si siamo, sarebbe troppo da fessi” considerò a mezza sentiva ed era presente ai compiti immediati, ma quanto voce l’ufficiale, il quale cercava di tenere la pattuglia su a cavare un significato, un senso da ciò che vedeva, la di giri, che non gliela inceppasse l’orrore. sua mente era come bloccata. Vagamente gli tornava- “Eh” convenne Bellazzi.
“ragion per cui” riprese il sottotenente “gambe in spal- Vol. 1 parte VI CAP. 7 p.449 la e avanti da questa parte, verso sud: scarpineremo in Il prigioniero russo parallelo alla strada finché non troveremo un bosco, o una balca, o un’altra porcheria, che ci dia modo di farci Da un’isba lì accanto uscì inaspettatamente un solda- sotto stando al coperto. Forza.” to russo: era armato soltanto di un pugnale,non sem- Macinarono neve intatta abbastanza a lungo, con tre- brava avere intenzioni offensive, sedette nella neve menda fatica. Avevano ripreso a fare testa-coda ogni contro il muro dell’isba e si cacciò le mani in tasca; decina di minuti; tutti erano affranti dalla stanchezza. forse si considerava prigioniero, pareva sfinito. […] “C’è di buono” disse uno, durante una breve sosta Il cappellano scorse a un tratto il soldato russo e lo “che non appena arrivati dovremo ricominciare a sgam- fissò sorpreso. Allora il russo tolse le mani di tasca, con bare di nuovo, insieme col reggimento.” la destra sfilò il pugnale dal fodero, e con la sinistra “Sì, bella prospettiva” mugugnò un altro. armeggiò al bavero del pastrano per scoprirsi la gola. “Pensa alla ghirba tu, non alla prospettiva” fece Bel- “No” urlò il cappellano: “Cosa fai? No, no!” Levò in lazzi. alto il suo Crocefisso e corse verso di lui: “No, non farlo, Qualcuno ridacchiò. Stefano non diceva nulla; portava non farlo!” a tracolla la borsa di celluloide del capitano morto, con Il russo lo guardò interdetto, con occhi sfiniti: il cap- le carte topografiche e, chissà, forse tra esse qualche pellano gli afferrò il polso che stringeva il pugnale e documento utile: ogni tanto s’assicurava col guantone agitando con l’altra mano il Crocefisso davanti al suo di non averla perduta. Chissà di che compagnia del viso: “Perché ti ammazzi, perché ti ammazzi” gridava. Sesto si trattava, di quale battaglione... da queste carte Finalmente il russo fermò lo sguardo sul Crocefisso, sarebbe forse venuta fuori qualche illuminazione sulle circondò con la propria mano del frate che lo impugna- ultime vicende di quei morti? Chissà prima della strage, va, e si tirò il Cristo contro la bocca. Gli alpini guarda- mentre aspettavano il nemico, cos’avevano detto e pen- vano la scena in silenzio; il russo consegnò al frate il sato quei ragazzi... “Probabilmente” rifletté “ragionava- pugnale, che venne scagliato il più lontano possibile. no e scherzavano come noi adesso...” Sentì un brivido “La Madre di Dio ti vuole bene” ansimò padre Crosara: lungo il filo della schiena. “Però è impossibile che a noi “ti vuol bene, hai capito? Dio non è come noi uomini.” succeda come a loro...” Ma una voce gl’insinuava den- Il russo, pur senza comprendere le parole, fece con tro: “Perché è impossibile? Rispondi: perché?”. spossatezza segno di sì.
Vol. 2 parte I CAP. 22 pp.534-535 Vol. 2 parte III CAP. 9 pp.624-625 Manno e Colomba Milano dopo i bombardamenti Una volta nella strada si ritrovò sotto i medaglioni Gli aerei - tutti inglesi - tornarono molto più numero- con i profili dei milanesi illustri. Quand’era bambino si nel corso della notte, e guidati dagli incendi accesi aveva creduto che i dragoni da cui la villa prendeva il nel pomeriggio eseguirono una terribile distruzione. Il nome, fossero appunto quegli otto signori lì; senza dub- giorno dopo - 14 agosto - la città ebbe tregua; ma nel- bio adesso altri bambini del paese dovevano crederlo. le due notti successive le divisioni aeree tornarono in Alzò, mentre camminava, gli occhi a osservare qualche formazioni ancora più massicce, ed operarono distru- profilo lesse alcuni nomi: Pietro Verri, Gian Domenico zioni quali per estensione non s’erano fino allora viste Romagnosi, (“a voi due vi pare d’essere poi tanto illu- in nessuna città italiana. Più tardi, al censimento, risultò stri?”), Alessandro Manzoni. Il Manzoni un dragone! A che dei novecentotrentamila vani che formavano Mila- quest’idea gli venne da ridere: “Beh, ciao dragoni” li no, ben cinquecentosessantamila erano stati distrutti o salutò infine tutti insieme. danneggiati. Percorrendo le vie del paese guardavo ogni Innumerevoli case erano crollate, ingombrando anche cosa, le note e ben conosciute cose del suo mondo, le strade già per loro conto interrotte da voragini e cra- e adesso che l’incontro con Colomba lo stava come teri; in moltissime strade non si poteva quindi più circo- rinnovando, ogni cosa, anche la più frusta, gli pareva lare, e questo rendeva difficile portare aiuto alla gente una scoperta, gli procurava un’acuta gioia. Sostò bre- rimasta intrappolata nei rifugi e nelle cantine; sopra la vemente in chiesa “per ringraziare Dio di avermi tirato città stagnava una tetra nube di fumo, perché gli incendi fuori dai guai” si proponeva; ma la preghiera che gli durarono giorni. venne spontanea alle labbra il gloria, lo disse, e ridisse, I treni che portavano via da Milano gli sfollati (più e ridisse ancora in un crescendo solenne e quasi di- esatto ormai sarebbe dire profughi) non potendo partire rompente, come di organo, nella penombra della chiesa dalle stazioni cittadine – tutte inagibili – facevano capo, vuota. Non stava ringraziando Dio per averlo salvato sulle diverse linee, alle prime interruzioni. Per fortuna la dalla guerra e dal mare, ma per avere creata Colomba, popolazione a quel tempo era già in notevole parte sfol- per averla fatta com’era, per avere introdotto nel mondo lata, e quella che lavorava ancora in città, ogni sera se una tale creatura. Pregò con trasporto anche la madre ne allontanava sistematicamente con tutti i mezzi (biso- di Dio, la benedetta tra le donne, che si prendesse a gna dire che almeno in questo lo spirito d’iniziativa dei cuore questa, e l’aiutasse a conservarsi anche in futuro milanesi si esplicava ancora in pieno): così i morti furo- pulita e incantevole come era adesso. no in tutto poco più d’un migliaio, cioè incredibilmente pochi confronto all’enormità delle distruzioni. Un morto ogni cinquecento e più vani distrutti o danneggiati: la gente si sarebbe rifiutata a lungo di crederci, molti si rifiutano ancora oggi. Anche perché tanti avevano udito i racconti degli scampati, fuggiti coi soli abiti che aveva- no indosso (donne specialmente, scese a caso dai treni nell’una o nell’altra stazione della provincia – n’erano arrivate anche a Nomana): racconti che facevano pen- sare a chissà quali stragi.
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