30a. Virgilio e la nozione di classico

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30a.
Virgilio e la nozione di classico

Che bella l’antichità se ce la spiega Andreotti
Che cos’è un Classico? Se lo chiese Thomas Stearn Eliot il 16 ottobre 1944
alla Virgil Society di Londra, rispondendosi con una memorabile conferenza su
Virgilio, «perché in un particolare, irripetibile momento della Storia, l’età
augustea, egli si era fatto interprete, misura e quindi canone di un’intera civiltà»
(incisiva la nota finale: «nessuna lingua moderna può sperare di produrre un
classico nel senso in cui ho chiamato tale Virgilio. E Virgilio è il nostro classico,
il classico di tutta l’Europa». Qualche riserva in proposito Eliot avanzerà per il
solo Dante, depositario di parecchie caratteristiche “virgiliane”, in un altro
mirabile saggio, del 1950, Cosa significa Dante per me). Oggi, con
l’indebolimento del nostro rapporto con gli antichi, l’emarginazione del latino e
del greco dalla scuola e la banalizzazione del mondo classico nell’immaginario
collettivo, la domanda è diventata “perché il Classico?”. Lo scrive, senza
apocalissi e piagnistei, Roberto Andreotti, uno dei pochi in Italia ad aver dato
aria alla letteratura antica sulle pagine culturali di un quotidiano. Per una decina
d’anni il Manifesto ha ospitato una rubrica (prima intitolata “Evergreeen”, poi
“Notti attiche”) nella quale Andreotti recensiva le nuove traduzioni dei classici
latini e greci, senza sussiego o paludati accademismi. Anzi, con una
freschezza e una vivacità rare anche nell’approccio con la letteratura odierna.
Essendone stati per anni fedeli e ammirati lettori, ci fa piacere che venga ora
pubblicata una selezione di quei pezzi (Roberto Andreotti, Classici elettrici,
Rizzoli, Milano 2008) e che l’antologia componga nell’insieme un saggio di tutto
rispetto, che innesta sul rigore del filologo le suggestioni contemporanee di uno
studioso colto, curioso e onnivoro. Da qui l’elettricità del titolo, perché davvero
grazie ad Andreotti «l’energia del moderno entra sistematicamente in frizione
con le letterature classiche», sempre alieno dalla divulgazione furba e dalla
complicità snob. E non ci sono solo Omero e Pindaro, i tragici e i comici,
Cesare e Catullo, Cicerone e Seneca, Marco Aurelio e Sant’Agostino: c’è posto
per Silio Italico e Caritone di Afrodisia, Aulo Gellio e Ausonio. Tutti messi a
fuoco in brevi e fulminanti ritratti critici, serviti da una scrittura nitida e incisiva.
E impacchettati da una lunga prefazione che è in realtà un’autobiografia
intellettuale schietta e appassionata: dalla culla della biblioteca allo
svezzamento dell’esegesi testuale, fino ai modelli dei maestri e al faticoso
lavoro interpretativo. Che avventura fantastica il corto circuito tra il fascino
dell’apparato critico e i problemi che ci pone “il nostro essere qui e ora”!

                      (Recensione del Libro di Andreotti sul “Domenicale”, sabato 19 luglio 2008)

T.S. Eliot - Cos'è un classico
Elisa Scarani

Nel 1944 lo scrittore inglese T.S. Eliot pronuncia il suo noto discorso "Che cos'è
un classico", volto alla riscoperta e all’interpretazione della personalità di
Virgilio e in particolare dell'Eneide. Attraverso tale opera letteraria, Eliot mostra
la profonda intenzione di rivalutare ufficialmente il poeta latino, considerato il
classico dei classici; di intraprendere uno studio che rappresenta la ricerca di
un punto fermo, di un superamento delle varie divisioni di «provincia» presenti
nella comunità umana.
L'autore ha elaborato una definizione di classico applicabile solamente a
Virgilio; come viene espresso nel discorso, un autore si definisce classico
quando:
– è il prodotto di una «civiltà matura»; la sua maturità è caratterizzata dalla
«consapevolezza della storia» e si manifesta come maturità di linguaggio;
– è in grado di costituire un riferimento e un termine di paragone per le
letterature di popoli differenti.
È evidente che queste caratteristiche raggiungono in Virgilio la massima
espressione. In "Che cos'è un classico" Eliot conduce un’interpretazione di
Virgilio, servendosi del poeta per condannare «il provincialismo».
"… E fra i grandi poeti greci e romani, credo che andiamo massimamente
debitori del nostro ideale di classicità a Virgilio; questo voglio ripeterlo, non è lo
stesso che definirlo il più grande, o quello al quale dobbiamo di più: parlo qui
d'un debito particolare. La speciale natura della sua comprensività è dovuta alla
posizione, unica nella nostra storia, dell'impero romano e della lingua latina:
una posizione che può dirsi conforme al suo fato. Questo senso del fato prende
coscienza di sè nell'Eneide….".
"… Virgilio si conquista la «centralità» del classico supremo; è lui il centro della
civiltà europea, in una posizione che nessun altro poeta può condividere o
usurpare…".
"…Per noi il valore di Virgilio è in termini letterari di averci provveduti di un
criterio di paragone… Senza l'applicazione costante della misura classica, di
cui siamo debitori a Virgilio più che a qualsiasi altro poeta, tenderemo a
diventare provinciali…".
In "Virgilio e la Cristianità", Eliot sottolinea le particolarità che favorirono Virgilio
a mettersi in ottima luce nella mentalità cristiana; l'intento dell'autore però non è
quello di elogiare le doti di Virgilio e di renderlo più importante di altri scrittori
classici.
Eliot con sottile ironia dichiara che Virgilio, nella quarta Ecloga, poteva limitarsi
ad una lettera di congratulazioni, invece, utilizza un tono alto, interpretato come
un oracolo. Durante gli anni successivi ha aperto la strada a molte
interpretazioni e a molte critiche, fino al momento in cui i Padri della Chiesa
non sentenziarono il loro verdetto; secondo la loro opinione l'ecloga di Virgilio
era una vera e propria profezia. Eliot rifiuta tutte le varie interpretazioni religiose
e laiche affermando che l'intento del poeta latino non era altro che interessarsi
delle proprie faccende, nonché delle faccende politiche romane e di ciò che egli
si proponeva di fare. Eliot ritiene pertinente la lettura di Virgilio alla mentalità
cristiana e cerca di ravvisare quale fu l'elemento significativo che pose Virgilio
in quella particolare posizione. La quarta Ecloga ha contribuito a rendere
Virgilio il ponte di raccordo tra il mondo antico e il mondo cristiano. Theodor
Haecker, autore dell'opera Virgilio, padre dell'Occidente, ha precedentemente
illustrato la sua teoria di come l'antico poeta abbia anticipato l'era cristiana.
Il mondo di Virgilio viene definito più civile rispetto a quello greco di Omero (suo
grande antagonista); Eliot preferisce la dignità, la ragione e l'ordine, che Virgilio
creò nel suo mondo: egli civilizzò il popolo romano dell'età imperiale,
nascondendo quegli aspetti poco "cristiani". Il metodo di Haecker consiste nell'
analisi di alcune parole chiave presenti nella ecloga.
Primo tra tutti il termine labor. Innanzi tutto Eliot spiega che le ragioni per cui
Virgilio scrisse le Georgiche non erano di carattere educativo, né informativo o
divulgativo e nemmeno per tramandare ai posteri le grandi conoscenze a lui
contemporanee, ma per affermare la dignità del lavoro agricolo per il
benessere dello Stato. L'antico poeta narra, nelle Georgiche, della terra e del
lavoro nei campi con un forte sentimento, egli aveva compreso l'essenziale
importanza dell'agricoltura nella civiltà; il mondo cristiano, poi, forse per
imitazione, unì in una sola vita completa la fase contemplativa con il lavoro
manuale.
Un altro vocabolo da analizzare è pietas, la cui traduzione più semplice, ma
anche più meschina è pietà. Pietà per noi ha un doppio significato, quello più
generale, si avvicina all'idea di devozione e di devota osservanza dei precetti,
l'altro, riguarda l'atteggiamento corretto verso i genitori. Virgilio invece dona al
termine pietas un significato molto più ampio, che coinvolge una corretta
"attitudine verso gli altri, verso la famiglia, verso il paese e verso il destino
imperiale di Roma" e una puntigliosa osservanza delle cerimonie sacre e dei
sacrifici. "La pietas […] è, insomma, una concezione della vita."
Terzo termine molto importante in Virgilio è fatum. Il destino non è una
necessità, né un arbitrio; "avere un destino significa avere un senso". Ogni
persona ha un proprio destino, diverso da quello degli altri, è un'elezione senza
spiegazione. "Il concetto del destino resta per noi un mistero, ma la ragione
può accoglierlo, perché esso comporta che il mondo e il corso della storia
umana hanno un significato." Eliot ritiene inoltre che il destino non scinda la
responsabilità morale dalla vita dell'uomo e che si amalgami col significato di
imperium romanum. L'idea di impero che Virgilio aveva posto era il più alto
ideale possibile per un impero temporale. L'impero romano che egli aveva
immaginato non era esattamente come il mondo in cui viveva, era qualcosa di
più ampio ed importante; qualcosa che esisteva perché il suo artefice l'aveva
creato; qualcosa che la Cristianità accettò e sviluppò.
Eliot studiando La Divina Commedia ritiene, che Dante abbia messo Virgilio
proprio nel luogo più adatto, il compito di guida e di maestro nell'oltretomba si
addice particolarmente al poeta, che funge da sempre da tramite con il mondo
cristiano. I valori di Virgilio sono molto vicini a questo mondo. Riuscendo ad
idearlo il poeta diventa "il più grande filosofo di Roma antica".
Infine lo scrittore inglese rimpiange di non trovare il termine amor in Virgilio,
come invece si legge spesso in Dante. La parola presa in considerazione
esiste per Virgilio ma è solamente una convenzione poetica. L'Amore non
assume il compito di ordinare lo spirito umano, è il destino che ne assolve il
compito. "Con Virgilio non proviamo il gelo, ma sentiamo di muoverci entro una
specie di crepuscolo della sensibilità".
Virgilio si distingue per l'ordine, il senso e la dignità che dà al mondo e per il
significato che dà alla storia; nessuno l'aveva mai creduto prima.
                             (http://www.scuoleingioco.it/5_PERCHE/scrivere/volta/index.html)
Eliot e la civiltà della crisi
Antonio Funiciello

[…]
Virgilio contro Omero
L’Eliot moralista che ci consegnano i suoi densi saggi è un inquieto uomo della
crisi «singolarmente avvertito della complessità assolutamente radicale delle
questioni aperte dalla crisi stessa»1. E per quanto il piano etico e politico su cui
si muove con destrezza non gli sia immediatamente proprio, anche chi voglia
concentrarsi oggi unicamente sulla sua produzione artistica, non può non fare i
conti con questi saggi2.
Di recente il premio Nobel John Maxwell Coetzee, in una conferenza3 che
prende in prestito il titolo dal discorso inaugurale di Eliot alla Virgil Society di
Londra dell’ottobre del ’44, Che cos’è un classico, si è accorto dell’importanza
dei saggi eliotiani nella comprensione dell’opera letteraria del poeta. Il discorso
di Eliot, da cui il saggio omonimo pubblicato pochi mesi più tardi, «è il tentativo
– secondo lo scrittore sudafricano – di affermare l’unità storico-culturale della
cristianità occidentale europea, incluse le province, entro cui le culture delle
singoli nazioni troverebbero spazio solo come parti di un insieme più grande»4.
Tentativo riuscito, è opportuno aggiungere. La figura di Virgilio nel racconto
dell’inquietudine eliotiana assume un ruolo centrale. E se è in Che cos’è un
classico che Eliot anticipa le proprietà di questa centralità, essa verrà
sviluppata con dovizia di argomentazioni in Virgilio e la Cristianità, opera in cui
il cerchio del suo lungo cammino potrà dirsi concluso.
Virgilio è il campione dell’Occidente. Virgilio è un ponte tra la fine del mondo
antico e l’inizio del mondo cristiano. Rivelatrice di questa specialissima
posizione del grande poeta latino è la scelta che ne fa Dante come sua guida
nel più meraviglioso dei viaggi spirituali mai raccontati in letteratura. Come
Virgilio condusse il suo discepolo fino alle soglie di una visione a cui lui non
1
  . Luciano Anceschi, T.S. Eliot, o delle difficoltà del mondo, in Poetica Americana, Edizioni Alinea, Firenze
1988, p. 120.
2
  Cfr. ibid., p. 121: «Converrà dir subito che questo [nel suo saggio su Eliot Anceschi esamina ISC e ADC] è il
luogo ideale in cui convergono di fatto tutte le sue ricerche, il suo complesso itinerario».
3
  John Maxwell Coetzee, Che cos’è un classico?, (What is it a classic?) è il testo di una conferenza tenuta a
Graz (Austria) nel 1991. Pubblicato per la prima volta su Current Writing nel 1993, è oggi in Stranger Shores.
Literary Essays, New York 2001, trad. it. Spiagge straniere, a cura di P. Splendore, Einaudi, Torino 2006, pp.
3-23.
4
  John Maxwell Coetzee, op. cit., p. 9.
poteva avere accesso, così «condusse l’Europa verso quella cultura cristiana
che per parte sua non avrebbe mai conosciuto» [CCC, p. 495]5. Eliot non
ignora il malinteso della IV Ecloga6, nella quale Virgilio, in occasione della
nascita del figlio di un suo amico politico, dedica al neonato versi tanto
magniloquenti che molti Padri della Chiesa desiderarono leggerci una profezia
della venuta del Cristo. Non lo ignora, ma lo considera per quello che è: un
malinteso7, appunto.
La poesia di Virgilio ha creato un personaggio che da solo può prendere per
mano l’Occidente e aiutarlo a riappropriarsi del proprio destino: Enea. La
diversità di Enea rispetto agli eroi dei poemi omerici è abissale. S’intenda: Eliot
non discute gli esiti di poesia di Virgilio e Omero, cercando di motivare la
superiorità artistica del primo sul secondo. Gli sta a cuore soltanto individuare
in Enea un simbolo in cui pacare l’inquietudine che lo anima e insieme
individuare un’allegoria del riscatto di un’intera civiltà.
Ebbene, nell’Iliade la guerra tra greci e troiani si muove sull’orizzonte assai
ristretto di un bisticcio tra una città Stato e una coalizione di città Stato; essa
rappresenta nient’altro che la scenografia su cui singoli individui hanno il
privilegio di mettere alla prova la grandezza del loro spirito. Quella di Enea è,
invece, la storia di «un’affermazione di affinità tra due grandi culture e, in fin dei
conti, del loro conciliarsi sotto il segno di un fato che tutto abbraccia» [CCC p.
484]. La pietas di Enea, come il cristianesimo, non è un sentimento individuale,
ma una concezione della vita. L’immagine del pius Aeneas ci fa tornare in
mente il capolavoro di Gian Lorenzo Bernini conservato alla Galleria Borghese
in Roma, in cui ci commuove la sollecitudine dell’eroe troiano verso il padre
Anchise che tiene sulle spalle e il piccolo Ascanio che si nasconde dietro di lui.
Ma la sua pietas non si può rinchiudere negli stretti confini del focolare
domestico: Enea tiene sulle spalle la civiltà antica e per mano quella futura; è il
simbolo di un Occidente che salva se stesso dall’insignificanza in cui pure da
solo si è ricacciato. «Enea è l’antitesi sia di Achille che di Odisseo» [VC p. 989].
5
  Ricordare i versi con cui Dante fa accomiatare Virgilio alla fine della seconda cantica della Commedia, prima
d’essere un rilievo utile al paziente lettore di questo scritto, è un piacere da cui è difficile sottrarsi: «... e disse:
Il temporal foco e l’eterno / veduto hai, figlio, e sei venuto in parte / dov’io per me più oltre non discerno».
Purgatorio, canto XXVII, versi 127-129, in D. Alighieri, Commedia, a cura di E. Pasquini e A. Quaglio,
Garzanti, Milano 2004.
6
  Cfr. Virgilio, Bucoliche, Ecloga IV, versi 1-10, trad. it. di L. Canali, BUR, Milano 1990.
7
  Cfr. VC, p. 983: «Quanto a Virgilio e ai suoi propositi, io sento di poter affermare con sicurezza che egli era
preoccupato unicamente delle sue faccende, ossia della politica romana, e che sarebbe rimasto assai stupito di
sapere quale strada avrebbe preso la sua quarta ecloga».
Non cerca la gloria personale e l’ascensione ai cieli dell’Olimpo come il primo,
né è destinato alle avventure affascinanti (ma senza senso) del secondo. Egli è
l’uomo del destino da cui dipende l’avvenire dell’Occidente. È il prototipo
dell’eroe cristiano, “lieto nella speranza, forte nella tribolazione”: Enea è la
missione che deve compiere. Ed additando alla sua vicenda poetica, Eliot
sembra suggerire all’Europa di abbracciare il suo figlio prediletto, il suo senso
del dovere e la tensione morale verso qualcosa che kantianamente tutto
trascende e significa.
Enea è l’uomo della crisi, perché la conclusione della sua vicenda esistenziale
non vale per sé, ma solo nella assurda coincidenza di un inizio che non gli
appartiene e il cui seguito la morte si dà carico di sottrargli.

Gli epigoni di Enea
Dopo averla abbandonata nel IV libro dell’Eneide al suo tragico destino, Enea
incontra Didone due libri più tardi, all’Inferno. La regina di Cartagine nemmeno
lo degna di uno sguardo. «Sed me iussa deum...»8, le spiega Enea: «A me
sarebbe piaciuto... Ci stavo bene lì da te... Ma non potevo restare... Sai, gli
dei...». Enea farfuglia, è addolorato: di fronte a questa fiera regina d’Africa non
sa proprio che pesci prendere. Lei nemmeno lo guarda, tiene gli occhi bassi e
si allontana con passo calmo ma regolare nel bosco ombroso, dove l’attende il
fedele marito Sicheo.
Essere l’uomo del destino e del senso perduto dell’Occidente è un mestiere
faticoso. In fondo Virgilio poteva pure evitare di combinare l’incontro infernale
tra i due ex amanti e sottoporre il pio Enea a un tale supplizio. Enea avrebbe lo
stesso condotto a termine la sua missione, senza inciampare in un ostacolo
che gli procura un grande dolore. Ma è scritto che Enea il figlio di Anchise
incontri Didone e si aspetti, tutto sommato, che lei lo accolga con gelida
indifferenza. È giusto che lei non perdoni. A chi voglia oggi provarsi nelle sfide
complesse del presente e difendere l’Occidente, la civiltà della crisi, dagli
attacchi interni ed esterni che ne vorrebbero estirpare la coscienza critica, il
ricordo della solitudine di Enea è l’emblema della fatica della prova. Può
soccorrere l’affanno la tempra dell’eroe virgiliano, che in epoca moderna la
letteratura ha raffinato, dotandola di quella ironia che dall’epopea
donchisciottesca al teatro dell’assurdo ne ha preservato l’integrità etica e la
lucidità intellettuale. Così gli epigoni di Enea proseguono oggi la sua missione

8
    Virgilio, Eneide, libro VI, v. 461, trad. it. di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1989.
cristiana e impediti dai mille inciampi dell’asprezza del cammino ogni volta, con
Becket, sussurrano a se stessi e a noi che li invochiamo: «Non posso
continuare... Continuerò»9.

9
 Samuel Becket, L’innommable, Parigi 1953, trad. It. L’innominabile, in Trilogia, a cura di A. Tagliaferro,
Einaudi, Torino 1996, p. 404.
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