Exemples de documents de compréhension-expression

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Compréhension-expression
Texte de Margherita OGGERO

      Lunedì 13 ottobre aveva grandinato casini e scocciature. Il lunedì è sempre un giorno
maligno, gli allievi sono tutti sbadiglianti e io pure, ma loro arrivano anche col contagocce –
due alle otto e dieci, tre alle otto e un quarto, uno alle otto e venti : io ho perso il pullman, a
me non è suonata la sveglia, il motorino non partiva o anche niente del tutto come
giustificazione – e io ogni volta a ripetere che la scuola non è un bar che la puntualità è
rispetto del prossimo eccetera, poi è ovvio che non si può interrogare, la dispensa dalle
interrogazioni del lunedì è un diritto acquisito e chi lo nega è come minimo fascista. Per non
calar del tutto le braghe facendogli fare i cosiddetti esercizi di comprensione dei testi – cioè
scopiazzature malcucite inframmezzate da resoconti dettagliati e non sommessi sui trascorsi
della domenica – non resta che spiegare l’impianto della Vita nuova o i legami fra la
tradizione epico-cavalleresca e il Furioso o quel che tocca, sperando che verso le nove, nove e
mezzo qualcuno ti faccia una domanda pertinente e non apra la bocca solo per dirti che va al
cesso.

      Stavolta, verso le undici, era entrata una bidella sussiegosa a dirle che c’era al telefono
suo marito : che diavolo sarà successo, non mi telefona mai a scuola, scusate ragazzi torno
subito, e per prima cosa Renzo la subissò di rimproveri perché non si portava mai dietro il
cellulare e quando lo portava lo teneva spento. Rinunciò a giustificarsi e lo pregò di venire al
dunque, che risultò esser questo : gli aveva telefonato la maestra di Livietta per avvertire che
nel quartiere c’era una fuga di gas, che i bambini venivano portati precauzionalmente ai
giardini, ma che alla mezza i genitori dovevano andare a riprenderli davanti alla scuola. Lui a
mezzogiorno aveva un appuntamento di lavoro che non sapeva quanto sarebbe durato, poi
mangiava un boccone alla tavola calda per non strangolarsi ad andare su e giù e siccome la
nonna era andata a Chieri da una cugina con Livietta doveva arrangiarsi lei.

      Lei non aveva la macchina, non la prendeva mai per andare a scuola, col traffico del
mattino le rotonde obbligate i sensi unici e le corsie preferenziali faceva prima ad andare a
piedi, ma dalla scuola sua a quella di Livietta era una marcialonga, bisognava prendere un
tram e possibilmente quello giusto. Ma sui tram gli allievi dimostrarono di avere maggiori
conoscenze che sul Furioso. Perretta le spiegò con sorprendente chiarezza dov’era la fermata
del 63 (autobus), preferibile all’accoppiata 12 più 3 (tram), che l’avrebbe portata circa allo
stesso punto, ma in molto più tempo. Lei seguì fedelmente le istruzioni, ma da Livietta arrivò
lo stesso in ritardo e la trovò che recitava la parte di little orphan Annie, seduta per terra a
soffiarsi sulle mani nonostante non facesse per niente freddo. Sotto lo sguardo inviperito di
una bidella che aveva dovuto montarle la guardia.

                          Margherita OGGERO, La collega tatuata, Milano, Mondadori, 2002.

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Article de Giorgio RUFFOLO

      Quali sono le conseguenze […] di una crescente congestione dello spazio e del tempo ? […]
Spazio e tempo, per noi, sono limitati. Se partissimo di qui potremmo, anzitutto, tentare di accertare se
veramente quei quadri, nel nostro tempo, si stiano restringendo : nel senso che li stiamo restringendo
noi. Secondo, quali possano essere le conseguenze esistenziali di questo restringimento. Terzo, se
possiamo farci qualche cosa […].

       Si sta restringendo lo spazio. Ovviamente, nel senso fisico, di pressione della popolazione sul
territorio. Questo è il fenomeno più evidente nei paesi cosiddetti in via di sviluppo. In quelli
ipersviluppati, invece, non è più tanto l’aumento di popolazione a costituire il problema […] ma
l’insieme enorme e intenso di attività che la popolazione di quei paesi ricchi sviluppa. […] ; l’insieme
delle transazioni che gli uomini realizzano nelle società complesse conta molto di più, nello spazio, del
loro numero. Ed è in rapido aumento. A un certo punto, la densità spaziale diventa congestione. Il caso
del traffico è evidente. Ma c’è anche la corsa di tutti verso gli stessi luoghi, verso gli stessi giochi,
verso gli stessi raduni, verso gli stessi consumi : Una tendenza unidirezionale. Tutti vanno negli stessi
posti, pretendendo di trovare posto, opportunamente stimolati dalla pubblicità […]. Si sta restringendo
il tempo. La sollecitazione consumistica esige la condensazione di molteplici attività nel tempo :
lavoro, sport, vacanze (ironicamente definite "tempo libero"), bambini, sesso, televisione, cinema :
l’inquinamento del tempo (la fretta) determina fenomeni di ansia cronica che si riflette anche nel
parossismo, per esempio, del dialogo cinematografico.

       Conseguenze ? Com’è ovvio, la congestione dello spazio genera la frustrazione dell’attesa.
Quella del tempo, l’ansia della fretta. Patologie ben note […] esasperate oggi dal fatto che esse non
sono solo generate da restrizioni fisiche "oggettive" dell’ambiente (i quartieri affollati delle vecchie
periferie), ma da attive sollecitazioni economiche e politiche al suo sovraccarico. Soprattutto, da una
incessante stimolazione alle soddisfazioni reciprocamente impossibili : come avviene nel caso dei
"beni posizionaIi", quelli che consistono nell’averne più del vicino di casa : il cane frustato, e frustrato,
per inseguire l’irraggiungibile lepre di pezza. È questa frustrazione suprema che genera
insoddisfazione, perdita di scopi e orientamenti concreti e produttivi : noia da una parte, aggressività
dall’altra. […]

       Che ci possiamo fare ? […] Il bombardamento dello spazio e del tempo ci sta privando,
riducendoci a puri e semplici individui consumatori e spettatori, della capacità di stare insieme e di
decidere insieme dove andare. Come stare insieme. Perché stare insieme. Questo è il terribile rischio
del sovraccarico che consuma il nostro spazio e il nostro tempo. Finalmente : che cosa ci aspetta ?
Ovviamente, nessuno può dirlo. Ma potremmo azzardare dei pronostici estremi, contando (e sperando)
che il futuro starà da qualche parte, nello spazio intermedio. Potrebbe, per esempio, verificarsi un
adattamento positivo dell’umanità allo spazio e al tempo ristretti : nel senso di restringere il linguaggio
a gesti e a grugniti, come i nostri poveri bisnonni. Ci sono segni di questo processo evolutivo
nell’invasione delle sigle e delle abbreviazioni, che già configurano una lingua universale esoterica,
ermeneuticamente utilizzata dagli ingegneri informatici : quelli che si incontrano con il loro
inseparabile computerino in un aereo o treno MI-RO (Milano-Roma, per intenderci). All’opposto,
potrebbe svilupparsi un adattamento negativo, del tipo di quello che scatenò la grande fuga di monaci
e anacoreti verso i monasteri in cui chiudersi o le colonne su cui issarsi […]. Potrebbe infine esserci un
adattamento oppositorio, di natura rivoluzionaria : il rifiuto e il sovvertimento violento della società
che genera l’occupazione dello spazio e del tempo.

                                                          Giorgio RUFFOLO, L’Espresso, 26 agosto 2004.

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Texte de Giovanni ARPINO

       Altissime colonne di zolfo reggevano pallidamente il crepuscolo di quell’ultirna estate.
Irregolari cubi di polvere le case, mitragliate da un’infinità d’occhiaie cieche. Nei vuoti del
cielo rari guizzi d’uccelli come traiettorie di spade duellanti invisibili. Ora vicine ora remote,
dallo sporco muggito uniforme della città, su per le vene di mille strade deserte, arrivavano
esplosioni, secchissime e brevi : talvolta potevano non essere spari.
       L’uomo immerse lentamente due dita nel catino d’acqua sul balcone. Le ritirò poi con
calcolata pigrizia senza smuovere una sola goccia.
       La donna approvava.
       Le rispose con un dolce mugolio in gola.
E disse : "Proprio così, Olona. Non possiamo entrare e uscire dal mondo in questo modo.
Lasciando nessun segno. Come milioni di altri poveretti. E siamo già vecchi, topa".
       Aveva una voce lenta, che improvvise accensioni febbrili arroventavano in certe sillabe
a seconda dell’emozione, dell’importanza presa dal discorso. Ma era anche una voce che
sapeva diventare un torrente vinoso e un digrignare di pietre e sabbia sotto ruote dentate,
quando preghiere e imprecazioni urgevano troppo. E lui soltanto tra preghiere e imprecazioni
sapeva vivere.
       Disse : "Letto il giornale ? Abbiamo miliardi di cellule qui nell’anguria !" e si batté un
pugno in fronte. "Dovremmo farli funzionare. Ma l’uomo è nero di cuore. E ha paura. Tutto
un mondo di nani. Vino nuovo in otri nuovi è da mettere. Ma chi capisce ? Chi obbedisce ?"
       La donna annuì. Forse avrebbe voluto parlare ma una mano levata dell’uorno la fermò.
"Cominciano. Attenta."
       Gli animali del giardino zoologico – una pozza nera e prigioniera oltre i grattacieli, non
lontana dalla caverna della stazione centrale – bramivano discorsi nel soffoco grigio del primo
annuncio notturno. Le foche coi loro plumbei sospiri e qualche vecchia scimmia, forse le due
tigri, e cammelli lebbrosi e jene avvilite da eterne corse in tre metri di griglia : un ansito
rauco, rigato da note più crepitanti e stridule. Riusciva a farsi largo nel brontolio rugginoso e
tra gli scoppi, i tonfi della città, correndo per linee d’aria incredibilmente vuote d’altri rumori.
       "Tutto aspetta qualcosa. E qualcosa aspetta noi" commentò l’uomo.
       "E venga pure l’inferno. A noi due, inferno : non ci avrai. Vero ?" gli fece eco la donna.
L’uomo la ricompensò col fantasma d’un sorriso.
       Subito prese a inventare : "Perché a nessuno viene l’idea di dare il largo a quelle bestie ?
Segando sbarre, buttando giù cancelli. Questa la rivoluzione : che tigri e scimmie possano
correre fino in piazza del Duomo. Bufali sui marciapiedi e quei due poveri elefanti che
pestano automobili e soffiano polvere dappertutto, tempeste di polvere. E il gatto abissino,
ricordi quel gatto abissino, bianco e marrone a quadretti ? Come un diavolo inseguirebbe la
gente per le piazze, mordendo chiappe e calcagni, mentre le scimmie sono già tutte sui tram,
sulle statue, strappano vestiti nei negozi, invertono semafori, parlano alla radio !".
       Finì strillando.
       "Magnifico. Dovresti pensarci. E chi allora, se non tu ?" si beava la donna
immaginando.

                                          Giovanni ARPINO, Randagio è l’eroe, Rizzoli, 1972.

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Texte de Gesualdo BUFALINO

        Un fiume. La voce di un fiume. Che coli così quietamente da sembrare immobile ;
dove, anzi, minimi mulinelli e riflussi déstino l’illusione d’un movimento a ritroso, il
paradosso d’un ritorno alla fonte… Questo è il suono che mi sento brusire al fianco ogni sera
da un rigido seggiolone, e so che è mia madre, nel buio, che parla.

       Mia madre è nata nel penultimo anno del secolo scorso e dalla lunga guerra con gli
anni ha riportato feroci benché non indegne ferite. Salva l’integrità della mente, non
altrettanto quella delle orecchie e degli occhi. Sicché, davanti al video, la sera, mentre io
tengo basso il volume e col telecomando corro a zig zag fra una sparatoria e una copula,
ansioso di risparmiargliene le crudezze più decisive, lei si rintana volentieri nell’ovatta della
sua nebbia e s’abbandona a un monologo tenero, un improvviso, metà favola metà
sognamento, dove passano e ripassano, infine piegano assopite le ali, i fantasmi della sua
gioventù.

      È l’occasione che attendo per spegnere l’apparecchio e dispormi in silenzio all’ascolto,
non senza intromettere qualche rada parola, quando mi piaccia, non dico dirigere, ma per un
poco orientare il deflusso, ora col porgli argini, ora con l’attirarne le acque dove mi serve che
vadano. Insomma, non da semplice "spalla" ma da occulto regista : con l’attenzione rivolta a
talune peripezie di cui sono curioso, sia per farne confronto con visioni e immagini mie, sia
perché gli son debitore della mia stessa esistenza.

       Così m’è venuto ieri sera di chiederle come si conobbero, lei e mio padre, e in virtù di
quale caso o destino io avvenni dal niente e irruppi involontario nel mondo.
       Lui era tornato dalla guerra, la guerra era finita appena, nel Paese c’era la "spagnola".
Sai, la "spagnola", quanti morti fece in paese, una porta no e una sì, nella mia strada morirono
tanti. A noi sorelle mia madre diede una polvere grigia, disinfettante, da tenere in un sacchetto
al caldo fra le mammelle, come un santino. Così tre di noi si salvarono, ma a Stellina non
bastò, che aveva due anni e morì di giugno. Rammento il dottore Secolo, non volle visitarla
nemmeno, tanta paura del contagio aveva. Si fermò sul marciapiede al sole, davanti all’uscio
aperto e la guardava da lontano, nel fondo dell’alcova dov’era. Disse : "Datele acqua e
cannella" e sparì nel sole. Lo stesso giorno, poche porte più in là, morì Peppa ’a modda, la
paralitica, tanto povera che i suoi figli le costruirono la cassa con quattro assi del letto, strette
insieme con una corda e la portarono a dorso di mulo fino alle soglie del camposanto. Morì,
dirimpetto a noi, Pasqualina Calafiore, ch’era la bella del quartiere, con milioni di ricci corti e
neri e una ruga strana fra i cigli. Com’era fiera e bella, quando ci passava davanti la
domenica, per andarsene a messa ! Il signorino Caruso le stava dietro, il figlio del cavaliere,
ma lei non lo vedeva nemmeno… Anch’io ero bella, nel diciannove…".
       "Sì, ma con papà, come fu ?".

                              Gesualdo BUFALINO, La luce e il lutto, Sellerio, Palermo, 1988.

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Texte de Rosetta LOY

       In cucina c’è odore di minestra, la madre è di spalle davanti ai fornelli. « Devo chiederti
una cosa » ha detto la Paola ferma sulla porta. La pentola bolle, dentro è appena stata buttata
la pasta. « Parla, – dice la mamma senza voltarsi – ma non chiedermi un’altra volta di non
mandarti dalle suore a Ivrea ». « No, no… è un’altra cosa, molto più importante. Non riguarda
me, riguarda l’Ettore ». « L’Ettore ? E cosa vuole da noi ? ». La madre ha preso il mestolo di
legno e gira adesso veloce nella minestra di erbe perché la pasta non si attacchi al fondo, la
Paola ne vede i capelli mescolati di biondo e di grigio arrotolati in tondo dietro la nuca, il
collo bianco, un poco grasso verso le prime vertebre della schiena, i lacci del grembiule legati
in vita. « Ha chiesto se può venire a nascondersi nello stanzone giù in basso, non se ne
accorgerebbe nessuno e lui si sentirebbe più sicuro, tanto noi non ci facciamo niente… ». La
mamma si è girata : « Ah no ! » ha detto subito. Ha il mestolo di legno ancora in mano, il viso
accaldato dai fornelli. « Ne ho già abbastanza di preoccupazioni io, con un figlio prigioniero
in Russia !… ». « Sarebbe solo per pochi giorni, non darebbe nessun fastidio » ha replicato a
bassa voce. Ma la mamma è di nuovo di spalle, il fumo sale dalla pentola : « E chi lo dice che
è solo per pochi giorni ? – alcuni capelli sfuggiti alle forcine sono piccoli fili sul suo collo
bianco – No, guarda, non è proprio il caso, non insistere… ». Il mestolo è tornato a girare con
forza nella pentola. « Vai piuttosto a chiamare tua sorella e il Pirro, – ha aggiunto – digli di
venire perché ormai è quasi pronto… ».
       Così è stato che i tedeschi hanno preso l’Ettore. Sono andati comodamente a prelevarlo
una mattina di sole e l’hanno portato davanti all’Albergo Aquila incatenato per i polsi […]. Il
Pirro, la mattina che aveva saputo che stavano portando via l’Ettore, aveva infilato la prima
cosa che gli era capitata sotto mano ed era corso in piazza per vederlo un’ultima volta […].
Quella mattina è ritornato subito a casa, la zia e le cugine sono fuori con il bel tempo per fare
un poco di spesa, lui comincia a frugare in ogni angolo alla ricerca di quanto potrebbe
tornargli utile. Passa una per una le stanze vuote, strappa le coperte dai letti, apre i cassetti e
svuota i portamonete delle cugine. Prende asciugamani, maglie di lana, i barattoli di conserva
no perché pesano troppo, ma i coltelli di cucina, quelli sì, non si può mai sapere. Arriva fino
allo stanzone giù in basso dov’è rimasta la sua fisarmonica a bocca e prende anche quella
insieme al sacchetto con tre chili di riso che la zia ha nascosto dietro un pacco di riviste. Fuori
si è levato un bel sole e il vento che scende dalle montagne asciuga le pozze d’acqua, la zia e
le cugine con la spesa hanno già ripreso la via del ritorno. Lui butta tutto quel che ha raccolto
in due sacchi da montagna, uno se lo mette sulle spaIle e l’altro, per rovescio, davanti.
Quando la zia e le cugine arrivano a casa sul tavolo del Pirro c’è il libro di Storia del Diritto
Romano a tenere fermo un rettangolino di carta, strappato dal quaderno di appunti : « Hanno
portato via l’Ettore, io ho scelto, vado su in montagna. Non vi preoccupate per me. Quello che
vi ho preso ve lo ridarò appena posso ».
       […] La zia si è disperata, non tanto per le coperte e i coltelli da cucina, o i portamonete
delle figlie, ma perché le sembra, la scelta di Pirro, un suicidio. Ancora non si è accorta del
sacchetto di riso sparito da sotto le vecchie riviste di moda. Un nipote è sempre uno della
famiglia ; che dirà adesso al marito quando al sabato verrà su da Torino ? Non è il tipo da
apprezzare le scelte drastiche, sopratutto se con quelle scelte si rischia la pelle.

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Compréhension-expression
Article d’Antonio CALABRÒ

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