Storie cucinate - Istituto Mantegna

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Storie
cucinate
Una proposta di:

            ISTITUTO DI ISTRUZIONE SUPERIORE
            DI STATO “ANDREA MANTEGNA”

                           2
Storie cucinate

Dallo scarto al capolavoro                       5

Com’è nata l’idea del progetto
   Petrini e Mancuso: il gesto del “prendersi
  cura” della Terra, dai contadini agli chef     7
   Un nuovo modo di “prendersi cura”:
  il Refettorio di Bottura e l’unione di etica
  ed estetica                                    9
   Dal Refettorio di Bottura al Laboratorio
  Mantegna-Caritas                               11

22 storie cucinate
   Arrosti                                       15
   Arrosto alla De Giuli                         15
   Burek                                         16
   Baklava                                       17
   Capretto                                      18
   Casoncelli di nonna Angela                    19
   Coniglio arrosto                              19
   Frittata                                      20
   Gallina ripiena                               21
   Gnoc en cola, pizzoccheri, tirapicio          21
   Hoi mari                                      23
   Lasagne di Natale                             24
   Lesso di carne                                26
   Lumache                                       27
   Pane                                          28
   Petulla                                       30
   Pirog                                         31

                           3
Plov                                        32
   Polpette con carne macinata e patate        33
   Sarmale                                     34
   Seppie con fagioli                          35
   Torta di mele                               36

Le storie. Il tempo che ci porteremo dentro:
festa e cibo nella cucina povera               37

Menù Storie cucinate                           45

Per non concludere                             46

                          4
Dallo scarto al capolavoro
di Fabio Tosini

                               La pietra che i costruttori hanno scartato
                                           è diventata la pietra d’angolo.
                                                                (Mt 21, 42)

Il cibo costituisce un’occasione di riflessione sul tema dello
“scarto” narrato attraverso i racconti di una cucina povera,
protagonista delle memorie autobiografiche di STORIE
CUCINATE. Il focus, il fuoco è su un paradigma sostenibile che
mette al centro il rispetto e la cura della natura e di ogni
persona, in linea anche con gli espliciti inviti espressi più volte da
papa Francesco, come nell’enciclica Laudato si’1.

Da ciò che - persona, ingrediente - viene superficialmente e
colpevolmente considerato “scarto” può nascere un capolavoro,
un’eccellenza, un piatto prelibato, non solamente da gustare ma
anche da raccontare. Il cibo e cucinare generano storie da
narrare, che evocano ricordi, contesti, vissuti, legami, affetti,
specialmente familiari. Diventano ponti che ci riportano a casa,
che ci connettono alle nostre radici, le annaffiano, le nutrono.

Attraverso la cucina è così possibile fare un viaggio dentro e
dietro di noi, un viaggio che accende il fornello dei pensieri e
delle emozioni. Dentro un cibo ci sono ingredienti e ci siamo noi,
con il nostro sapere fare e con le nostre storie da raccontare e
da cucinare.

1
 Papa Francesco (2015), Laudato si’, enciclica. Si veda anche: Petrini C.
(2020), Terrafutura. Dialoghi con papa Francesco sull’ecologia integrale,
Giunti, Milano.

                                     5
STORIE CUCINATE è stato pensato e realizzato nell’anno
scolastico 2020/2021 dall’Istituto alberghiero di Stato Andrea
Mantegna e dalla Cooperativa Kemay (Caritas Diocesana di
Brescia).

Gli studenti della classe terza serale dell’Istituto Mantegna
insieme ad alcuni ospiti del Rifugio Caritas - coordinati dai
docenti Andrea Malpeli, Stefano Savino e Agostino Stradaioli, da
Fabio Tosini (Caritas Diocesana di Brescia) e Angelo Bricca
(volontario Rifugio Caritas) – a partire da gennaio 2021 hanno
scritto e condiviso racconti di STORIE CUCINATE, legati a
ricordi e ricette familiari, a piatti e pietanze che hanno stimolato
narrazioni ed evocato vissuti ricchi di affetti e di emozioni, di
profumi e di sapori.

Insieme hanno poi individuato e definito tra le STORIE
CUCINATE un menù e nel laboratorio pratico si sono esercitati
e perfezionati nella preparazione di piatti per la cena-evento,
passando anche dall’esperienza di ri-uso e ri-utilizzo delle
“rimanenze” alimentari.

Cibo cucinato con le mani del cuore, per raccontare che anche in
tempo di Covid è possibile coltivare (cucinare) tenerezza,
condivisione, solidarietà.

                                 6
Com’è nata l’idea del progetto
di Andrea Malpeli

Petrini e Mancuso: il gesto del “prendersi
cura” della Terra, dai contadini agli chef

Nel maggio 2015, in occasione dell’apertura dell’Expo 2015,
Carlo Petrini pubblica un libro, scritto insieme a Stefano
Mancuso, intitolato “Biodiversi”2 nel quale critica gli chef del
Nord del mondo per il fatto che, concentrati esclusivamente
sugli aspetti creativi e tecnici della cucina, si sono dimenticati
della responsabilità civile degli chef, una “responsabilità civile”
che gli chef del Sud del mondo, come il peruviano Gaston Acurio,
il brasiliano David Hertz, il messicano Enrique Olvera,3 hanno
invece messo al centro del loro lavoro di cuochi.
In cosa consiste la responsabilità civile degli chef?
La risposta che Petrini e Mancuso si danno, nel quadro di una
discussione critica dei “paradigmi” scientifici e di sviluppo
economico dell’Occidente ricco e industrializzato, fautore di un
modello      produttivistico-consumistico        che   prometteva
progresso economico-sociale e che invece sta producendo solo
danni economici e sociali (distruzione delle economie locali,
miseria, emigrazione dalle campagne verso le grandi megalopoli
e verso il nord del mondo) e danni ambientali (distruzione della
biodiversità, inquinamento dell’aria dell’acqua e del suolo), è una
risposta che indica la possibilità di “svolta”, di cambiamento
radicale di paradigma, di rinascita della civiltà, in un gesto

2
 “Biodiversi”, Stefano Mancuso, Carlo Petrini, Giunti 2015, pag. 117.
3
 “Cibo e libertà. Slow Food: storie di gastronomia per la liberazione” Carlo Petrini
Giunti 2013, pag. 140-157.

                                          7
semplicissimo e allo stesso tempo difficilissimo: il “prendersi
cura” della Terra4, così come se ne prendono cura i contadini.
La possibilità di salvezza della Terra, dal punto di vista
ambientale e sociale, dipende da loro, dai contadini, dal loro
prendersi cura della Terra che consiste nella difesa della
biodiversità, nel rispetto del suolo, dell’aria e dell’acqua, nel
rifiuto dei metodi di coltivazione e allevamento intensivo
dell’agricoltura industriale determinati dalla logica del profitto
illimitato. Allora la responsabilità civile degli chef, secondo
Petrini, consiste nella Alleanza degli chef con questi contadini-
custodi della terra5.
Si tratta di una alleanza chef-contadini che Petrini ha proposto
fin dal “Salone del gusto” di Torino del 19966, prima attraverso il
progetto dell’“Arca del Gusto”, poi qualche anno dopo attraverso
il progetto dei “Presidi” che hanno dato vita alle prime “Comunità
del gusto”, alleanze di produttori e consumatori che fanno della
difesa della biodiversità e del rispetto dell’ambiente, l’occasione
di una rinascita della civiltà7, la proposta di un’economia e di una
socialità alternativa alla società di mercato.
Se l’alleanza cuochi-produttori è il fulcro del “cambiamento di
paradigma” e della “rinascita della civiltà”, Bottura - che in
occasione del terremoto dell’Emilia del 2012 ha realizzato
un’alleanza con i produttori di formaggio Parmigiano Reggiano
promuovendo attraverso un piatto “Riso cacio e pepe”8 la vendita
delle forme di formaggio danneggiate dai crolli del terremoto -
sente che tutto questo non è sufficiente. Se l’occasione tragica
del terremoto ha stimolato questa alleanza cuoco-produttori, la
solidarietà doveva e poteva trovare altre forme in cui
esprimersi e tradursi in un impegno etico stabile e
continuativo.

4
  “Biodiversi”, Stefano Mancuso, Carlo Petrini, Giunti 2015, pag. 32-33.
5
  “Biodiversi”, Stefano Mancuso, Carlo Petrini, Giunti 2015, pag. 122.
6
  “Slow Food. Storia di un’utopia possibile”, Carlo Petrini, Gigi Padovani, Giunti
2017, pag. 138-140.
7
  “Buono pulito e giusto. Principi di una nuova gastronomia” Carlo Petrini, Einaudi
2006, “Introduzione”, pag. VI.
8
  “Vieni in Italia con me” Massimo Bottura, Phaidon 2014, pag.118.

                                         8
Il progetto di Bottura del Refettorio nell’ambito dell’EXPO 2015
è una risposta all’appello di Petrini e al bisogno di un
approfondimento e allargamento dell’impegno civile dello chef.

Un nuovo modo di “prendersi cura”: il
Refettorio di Bottura e l’unione di etica ed
estetica

Il progetto del Refettorio di Bottura è interessante non solo
perché rappresenta un approfondimento dell’impegno etico
dello chef, ma perché rappresenta un modo nuovo e
rivoluzionario di concepire il prendersi cura, come un’unione di
etica ed estetica. Bottura cita Wittgenstein nella introduzione al
libro “Il pane è oro. Ingredienti ordinari per piatti straordinari”
(2017)9 e dice: “All’inizio del XX secolo il grande filosofo Ludwig
Wittgenstein scrisse: “L’etica e l’estetica sono una cosa sola”. Io ho
sempre considerato etica ed estetica come le due facce della stessa
medaglia. La bellezza non è bella senza il buono e a sua volta il buono
ha bisogno del bello per trasmettere il suo messaggio”.
Quando Bottura comunica a Davide Rampello, responsabile del
“Padiglione Zero” dell’EXPO 2015, il suo sogno di “un padiglione
in cui i migliori cuochi del mondo potessero cucinare con gli avanzi
dell’EXPO per i più bisognosi”10, Davide Rampello gli risponde che
quello che sta immaginando non è un padiglione, ma un
“refettorio”. La parola “refettorio” definisce il luogo in cui
storicamente monaci e monache condividevano i loro pasti, e
viene dal latino “reficere” che significa “ricostruire” ma anche
“ristorare”.

9
  “Il pane è oro. Ingredienti ordinari per piatti straordinari” Massimo Bottu-
ra and Friends, Phaidon 2017, pag. 8.
10
   “Il pane è oro. Ingredienti ordinari per piatti straordinari” Massimo Bot-
tura and Friends, Phaidon 2017, pag.7

                                      9
Ecco allora che l’approfondimento della dimensione etica della
cucina, passa attraverso una duplice re-invenzione:
 1) la re-invenzione della funzione dei refettori monastici, che
    da luoghi interni ai monasteri, finalizzati alla doppia
    funzione di “condivisione” e “rigenerazione fisica e
    spirituale” dei monaci, devono diventare luoghi di
    condivisione e rigenerazione per gli “esclusi” della società in
    senso più generale, gli abitanti delle periferie, e i senza
    tetto, in un orizzonte secolarizzato di esclusione
    economica, sociale, culturale;
 2) la re-invenzione dell’etica, che esce dal perimetro del
    monastero e diventa un “prendersi cura” in cui etica ed
    estetica si congiungono, dove cioè la creatività degli artisti
    è messa al servizio dell’etica; siano essi gli artisti invitati a
    ristrutturare un vecchio teatro abbandonato adiacente alla
    chiesa, o la creatività dei cuochi stellati che re-inventano gli
    ingredienti ordinari per creare piatti straordinari, il
    miracolo che sono chiamati a creare si serve dello stupore,
    e della meraviglia per accogliere, unire, ridare “voce” a
    ingredienti e persone, rigenerare gli esclusi, gli ultimi.

Il progetto del “refettorio” allora prende corpo e si sviluppa
attraverso un doppio miracolo, che è il miracolo di un prendersi
cura in cui etica ed estetica si congiungono:
  a) il “miracolo” della trasformazione di un luogo
     abbandonato della periferia come il teatro abbandonato
     degli anni ’30 annesso alla parrocchia di Milano Greco, in un
     luogo di bellezza come il Refettorio della chiesa delle
     Grazie affrescato da Leonardo, attraverso l’intervento di
     una lunga catena di solidarietà che passa attraverso varie
     istituzioni e richiede la collaborazione di varie figure sociali:
     dagli architetti e studenti del Politecnico che progettano la
     nuova cucina e la nuova sala del refettorio, ai designer che
     devono progettare i tavoli della mensa ispirandosi alla re-
     invenzione degli antichi “fratini”, agli artisti della
     transavanguardia, Mimmo Paladino, che costruisce una
     cornice all’ingresso esterno per valorizzare l’entrata, Enzo
     Cucchi, che disegna un affresco di dodici metri, Gaetano

                                 10
Pesce che costruisce una fontana della vita, Carlo
    Benvenuto, che concepisce un pezzo di pane attraverso la
    fotografia esistenzialista, Maurizio Nannucci, che realizza
    un’insegna al neon con la scritta “No more excuses” montata
    all’esterno dell’edificio;
 b) il “miracolo” della trasformazione degli ingredienti
    ordinari in piatti straordinari, un “miracolo” che si realizza
    in 3 tappe: a) la prima tappa costituita dalla doppia sfida
    etica: i)la sfida di cucinare a partire dagli avanzi dei
    supermercati costituiti da cibi ammaccati, appassiti, in
    scadenza; ii) la sfida di portare i migliori chef del mondo a
    cucinare per delle persone che non sanno nemmeno chi
    sono, una sfida etica che capovolge il rapporto tra identità
    sociale ed identità umana, azzerando l’identità sociale di
    chef acclamati, e mettendo in primo piano la loro identità
    umana; b) la seconda tappa che è l’esplosione della
    creatività degli chef che deriva dalla necessità
    dell’improvvisazione; c) la terza tappa che è l’uso di quella
    creatività artistica degli chef per un doppio scopo: unire e
    rigenerare gli ospiti, far vivere loro un’esperienza in cui la
    dignità o la “voce” riconquistata dal cibo, sia capace di
    produrre un’eguale rigenerazione spirituale negli ospiti.

Ecco che allora la parte più interessante dell’esperienza del
Refettorio diventa il racconto di come questa nuova etica,
questo nuovo modo di “prendersi cura” in cui arte ed etica, il
bello e il bene, si fondono, viene messa in pratica dai vari chef
invitati a partecipare al progetto.

Dal Refettorio di Bottura al Laboratorio
Mantegna-Caritas

Sebbene il progetto del Refettorio EXPO 2015 di Bottura
rappresenti un’esperienza straordinaria, da tanti punti di vista,

                               11
etico, sociale, culturale, un’esperienza rivoluzionaria, che apre
una strada nuova, un esperimento che Bottura ha già replicato e
sta replicando in varie altri parti del mondo con la sua Onlus
“Food for Soul”, per noi ha costituito solo un punto di partenza,
che ci siamo sforzati di approfondire e superare in una direzione
diversa.
Cito due momenti particolarmente significativi nel racconto
dello svolgimento dell’esperienza del Refettorio (“Il pane è oro.
Ingredienti ordinari per piatti straordinari” 2017) per mettere in
luce come il punto etico più alto toccato dal progetto di Bottura
abbia costituito il punto di partenza di un approfondimento
ulteriore che il nostro Laboratorio ha cercato di sviluppare:
  1) Viviana Varese, chef stellata, titolare del “Ristorante Alice”
     di Milano, dice per spiegare il menù da cucina povera che ha
     creato a partire solamente da due verdure, zucchine e
     melanzane: “Qui non voglio ricreare la cucina del mio
     ristorante, ma piuttosto dar spazio a quei bei ricordi che sanno
     di casa e famiglia. La gente ha bisogno di riscoprirli”11; il piccolo
     “miracolo” che Viviana Varese vuol creare è “far sentire a
     casa” i suoi ospiti per un attimo, far loro risentire i sapori
     della memoria, attraverso piatti semplici della cucina
     povera, con qualche variante come la ”salsa di pane” fatta
     con la curcuma, che ricorda il “gold milk” della cucina
     indiana, e serve a sorprendere e meravigliare; l’effetto è
     testimoniato da film-documentario dal titolo “Il refettorio.
     Miracolo a Milano. Un progetto di Massimo Bottura” del
     regista canadese Peter Svatek che comincia con una
     sequenza in cui due “senza tetto” all’inizio ricevono don
     Giuliano che va a portare cibo alla stazione dove passano la
     notte con diffidenza, e poi in una sequenza successiva
     all’interno del Refettorio, vuoi per l’accoglienza dei
     volontari che servono in sala, vuoi per il cibo preparato quel
     giorno da Viviana Varese, sentendosi accolti, perdono la
     diffidenza e si aprono, pieni di gratitudine, sia verso gli altri
     ospiti, sia verso Don Giuliano, sia verso la cuoca Viviana

11
  “Il pane è oro. Ingredienti ordinari per piatti straordinari” Massimo Bot-
tura and Friends, Phaidon 2017, pag.122.

                                     12
Varese che dopo il pranzo gira fra i tavoli per raccogliere le
        impressioni degli ospiti;
     2) Ugo Alciati, chef stellato del “Ristorante Guido” a Pollenzo,
        frazione di Bra, in provincia di Cuneo, dopo aver preparato
        un menù improvvisato a partire da ingredienti poveri che
        ottiene un grandissimo successo tra gli ospiti perché
        anch’esso sviluppa una forte capacità evocativa e poetica
        (un cubo di risotto gratinato che evoca le lasagne, con una
        crema di crescenza, guarnito con bresaola essiccata e
        sbriciolata), fa un gesto che, per lo sviluppo della storia del
        Refettorio, è importantissimo: va in sala tra gli ospiti e si
        siede con loro e gli racconta storie della sua infanzia, e in
        particolare: “Quella sera ci raccontò anche della sua infanzia
        passata con i nonni, mentre i suoi genitori lavoravano al
        ristorante. Fu un momento toccante. I nostri ospiti furono
        felicissimi di quel pasto caldo e dell’amorevole cura impiegata a
        prepararlo. Ma, più di ogni altra cosa furono felici di ascoltare
        Ugo che parlava della sua vita e di quanto possa essere difficile,
        a volte, crescere all’ombra del successo e dei sogni dei genitori.
        Fu uno dei rari momenti in cui quegli uomini e quelle donne
        poterono mettere da parte per un attimo i loro problemi e
        lasciarsi cullare da storie e racconti altrui. Vedere tutti – gli
        ospiti, i volontari e Ugo – che ridevano e scherzavano come una
        grande famiglia intorno allo stesso tavolo era proprio quello che
        avevo immaginato quando avevo deciso di lanciare il
        progetto”12.

Le due esperienze di Viviana Varese e di Ugo Alciati, per quanto
riguarda la possibilità di raggiungere lo stesso scopo, far sentire
a casa gli ospiti, unire e rigenerare, non solo attraverso il cibo e
l’accoglienza intorno a un tavolo, ma anche attraverso il
racconto, sono il punto di partenza del nostro Laboratorio
Mantegna-Caritas che rappresenta un passo in più rispetto al
Refettorio di Bottura dal punto di vista dell’esperienza etica e
sociale, perché si propone di approfondire e sviluppare quel

12
  “Il pane è oro. Ingredienti ordinari per piatti straordinari” Massimo Bot-
tura and Friends, Phaidon 2017, pag.98

                                     13
momento “magico” dell’unità così ben descritto nel caso della
serata di Ugo Alciati, attraverso un capovolgimento del ruolo
degli ospiti che nel nostro Laboratorio non sono semplici
“fruitori” di un servizio, ma vengono coinvolti in un ruolo attivo
attraverso l’intreccio di una doppia esperienza di laboratorio:
  1) un “laboratorio” di interviste-colloquio in cui attraverso il
     “metodo dell’autobiografia” di Duccio Demetrio abbiamo
     invitato sia gli ospiti del Rifugio Caritas, che gli studenti dell’
     Istituto alberghiero Mantegna, a raccontare uno o più piatti
     della loro memoria, sforzandosi anche di far emergere
     attraverso i piatti il mondo a cui erano legati;
  2) un laboratorio pratico di cucina, in cui i “narratori” delle
     storie, gli studenti e gli ospiti del Rifugio, dopo aver scelto
     insieme i piatti più significativi, provassero a cucinare i loro
     piatti da riproporre in una serata evento finale in cui
     riproporre non solo il menù, ma anche le storie legate ai
     piatti.

                                  14
22 storie cucinate

Arrosti
Mamma conservava lo strutto nostrano in un vaso di vetro perché il burro
costava troppo. Lo usava per cucinare il suo speciale arrosto…

Quando ero bambino la mia famiglia era molto povera, come
dire, si viveva alla giornata. Però i bei ricordi sono le domeniche
perché mia madre cucinava molto bene. Lei allevava polli,
conigli, galline e faceva sempre un buon arrosto a pranzo, con
contorni speciali. Come le patatine fritte dorate e saporite,
sbucciate e tagliate a spicchi da noi bambini. Oppure
finocchietto, valeriana e cicoria che si andava a raccogliere nei
campi vicini con un piccolo coltello.
Mamma conservava lo strutto nostrano in un vaso di vetro
perché il burro costava troppo. Lo usava per cucinare il suo
speciale arrosto.
A tavola eravamo uniti e felici, senza televisione si parlava un po’
di tutto ed era un momento in cui stavamo molto bene insieme.
Si rideva, si scherzava la domenica e terminato il pranzo si
giocava a carte, a oca, a tombola. Il pomeriggio trascorreva in
fretta e serenamente.
Erano tempi difficili ma non li cambierei mai con quel po’ di
benessere che abbiamo ora.

                                                                  Mauro

Arrosto alla De Giuli
Ingrediente segreto: quando prepari il piatto sorridi…

È una antica ricetta valdostana da me elaborata e dedicata ad un
caro amico di origini valdostane. L’ho cucinata per la prima vota

                                   15
in occasione di una cena tra amici e a questo piatto ho dato il
nome del mio amico “De Giuli”, una persona che ammiravo e
ammiro molto per la sua grande cultura.
Si tratta di un arrosto che può essere fatto con la lonza di maiale,
con il vitello, oppure con il manzo. In una teglia insieme alla
carne si aggiungono cipolle tagliate e erbe aromatiche, sale e
pepe. Si cuoce in forno per circa un’ora a 180 gradi.
Si aggiungono castagne e prugne snocciolate e si sfuma con birra
rossa e poi ancora in forno per circa un’ora. Terminata la cottura
si avvolge la carne nell’alluminio. Il sugo rimasto in pentola si
passa col minipimer fino a farlo diventare una crema, filtrata con
cappello cinese.
In padella si prepara un soffritto con pancetta dentro il quale si
aggiunge la carne tagliata a fette e la crema. Si sfuma per
qualche minuto, poi si serve nel piatto a freddo con granella di
pistacchio e si accompagna con polenta a farina mista (bramata,
di Storo).
Ingrediente segreto: quando prepari il piatto sorridi.

                                                                Giampietro

Burek
Mi ricordo che per averla pronta a pranzo mia nonna si alzava presto alla
mattina…

Quello che chiedevo sempre quando ero dalla nonna era il
“burek”, una specie di torta salata fatta con la pasta fillo. Il
ripieno non era sempre lo stesso perché non c’erano sempre gli
stessi ingredienti in casa o magari c’erano avanzi da recuperare.
I miei “burek” preferiti erano due: quelli con il ripieno di spinaci e
ricotta fatta dalla nonna, e quelli con lo yogurt, la ricotta e le
uova. Tutto fatto da lei. Perché lei aveva una mucca e le galline.
Per fare il “burek” devi avere pazienza e devi stare attento che la
pasta fillo non si strappi o non si buchi.
Mi ricordo che per averla pronta a pranzo mia nonna si alzava
presto alla mattina per preparare l’impasto, perché poi aveva

                                   16
sempre da fare come accendere la stufa, dare da mangiare a
tutti gli animali, fare i lavori in casa e mungere la mucca. Dopo
che aveva finito, mio nonno usciva presto con la mucca per
portarla a mangiare. Quando c’era bel tempo andavo anch’io.
La nonna preparava tutto. Tirava la sfoglia sottilissima con il
mattarello che è sottilissimo e la vedevo come apriva ogni filo di
pasta... sempre con la stessa tecnica, forza, misura.
Mi mettevo da una parte a provare e riprovare anch’io, ma non
sono mai riuscito a farla come lei. Almeno però mi lasciava
preparare le teglie con l’olio e mi lasciava anche mettere il
ripieno.

                                                                   Andreu

Baklava
Di solito lo faceva a Capodanno, non perché tradizione, ma perché in quel
periodo c’erano quasi tutti i miei cugini e zii…

Il dolce che ricordo ancora di mia nonna, che fa tutt’oggi, è la
“baklava”. Un dolce che se ti metti da solo a farlo, ci metti anche
un giorno intero cominciando la mattina presto per averlo
pronto per la sera. Di solito lo faceva a Capodanno, non perché
tradizione, ma perché in quel periodo c’erano quasi tutti i miei
cugini e zii che tornavano dall’estero. La preparazione è la stessa
del “burek”, però servono quasi 100 fogli di pasta fillo seccati, e
quindi lei cominciava presto la mattina. Quando aveva finito li
apriva dappertutto così ogni filo si seccava ed era pronto da
mettere nella teglia. E’ composta di un foglio di pasta fillo, uno
strato di noci, un foglio di pasta fillo, e così via fino alla fine. Poi
lo infornava e faceva uno sciroppo di acqua e zucchero.

                                                                   Erenato

                                   17
Capretto
Ora che sono solo riemergono i bei ricordi di quando ci riunivamo tutti
nelle feste di Natale e di Pasqua…

Nei miei momenti di solitudine mi ritrovo a pensare al passato
con la mia famiglia, ora che i miei genitori sono mancati e le mie
sorelle hanno intrapreso la loro strada con la loro famiglia. Ora
che sono solo riemergono i bei ricordi di quando ci riunivamo
tutti nelle feste di Natale e di Pasqua. Quelli erano i giorni in cui
ci si poteva riunire anche con i parenti visto che durante l’anno
ci si vedeva poco. Quello era il momento per raccontarsi.
Uno di questi bei giorni è il giorno di Pasqua, quando al mattino
ci si alzava presto per andare alla messa delle sette, per avere
poi il tempo necessario per preparare bene il pranzo. Ricordo
che il piatto della tradizione era sempre il capretto con le patate
al forno e polenta. Mio padre portava a casa il capretto dalla
macelleria dove lavorava. Mamma lo metteva in una grande
teglia con olio e burro e lo cospargeva di aromi: aglio, rosmarino,
salvia tritati. Lo sfumava con del vino bianco e aggiungeva
cubetti di pancetta. Che profumino! Poi lo metteva nel forno a
cuocere e a parte cucinava le patate e la polenta nel paiolo di
rame. Noi fratelli a turno mescolavamo con un grande cucchiaio
di legno. Mentre mamma cucinava, mia sorella preparava la
tavola con il servizio di piatti più bello, quello delle grandi feste.
Quanta felicità quando cominciavano ad arrivare i nostri
parenti. Allora tutti ci sedevamo a tavola e mamma sfornava
quella grande teglia di capretto fumante e rovesciava su un
tagliere di legno la polenta profumata. Che bei ricordi, come
eravamo felici…

                                                                 Mauro

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Casoncelli di nonna Angela
Nessuno di noi sapeva che la Villa Sacro Cuore fosse casa nostra…

Ci si trovava con tutti i parenti durante i solenni pranzi di Natale,
ma un ricordo particolare è quando mia nonna, senza occasione
particolare né festa, volle invitare tutti i suoi nipoti a pranzo
invitandoli ciascuno con un biglietto con scritto di trovarsi “il
giorno di nostro Signore alle ore 12.00 alla Villa Sacro Cuore”.
Nessuno di noi sapeva che la Villa Sacro Cuore fosse casa nostra,
per il fatto che sulla porta c’era una piastrella con il Sacro Cuore
di Gesù, come quelli che una volta si ponevano sugli ingressi di
molte case contadine del nord. Fu così che quando tutti i nipoti
scoprirono dove dovevano trovarsi per il pranzo, trovarono
antipasti, casoncelli bresciani di montagna, di forma a mezzaluna
con ripieno nostrano, antica ricetta di nonna Angela, risalente
all’800: pasta fresca all’uovo, fatta con due uova, acqua, 500
grammi di farina. E per il ripieno 200 grammi di pane
grattugiato, 100 grammi di burro, 150 grammi di grana padano
grattugiato, brodo di pollo o manzo, tre spicchi d’aglio, sei
amaretti, prezzemolo tritato, sale. C’era poi un fantastico
arrosto fatto di pollo, lombo, costine di maiale, con leggero
pesto di lardo, burro, salvia, leggera rosolatura prima e cottura il
giorno dopo. Uccellini se possibile.

                                                           Giovanni Battista

Coniglio arrosto
Era molto brava a cucinare mia nonna…

Il coniglio si mangiava nei giorni di festa. Era mia nonna che lo
cucinava, dopo averlo comperato dal macellaio in piazza
Vittoria. Nonna lo faceva rosolare in padella con burro, vino
bianco e rosmarino. Poi lo metteva nel forno e lì cuoceva
formando una bella crosta dorata.

                                   19
Insieme al coniglio si mangiava la polenta, immancabile a tavola.
Nonna la cucinava in un pentolone di rame, mettendoci acqua,
un po’ d’olio e farina e mescolando continuamente per evitare la
formazione di grumi per circa un’ora con un mestolo di legno.
Era mia nonna che gestiva la cucina: guai a chi entrava. Noi
potevamo solamente guardarla cucinare a dovuta distanza.
Distanza che però non impediva di essere raggiunti dai profumi
delle pietanze che cuocevano e che arrivavano fino in soggiorno.
Era molto brava a cucinare mia nonna. Lei lavorava in un albergo
in tempi di guerra. Mi manca tanto. Quando sento il profumo di
arrosto mi viene sempre in mente.

                                                             Rossano

Frittata
Ricordo che mamma mi invogliava a bere un uovo appena raccolto…

Da bambino la mia grande felicità era il momento della raccolta
delle uova nel nostro piccolo pollaio prima del tramonto.
Mamma teneva il grembiule sollevato per potere contenere le
uova appena raccolte e io le ponevo dentro un piccolo cestino
sgangherato.
Ricordo che mamma mi invogliava a bere un uovo appena
raccolto e ancora caldo dicendomi che mi avrebbe fatto bene. Al
rientro a casa aiutavo mamma a preparare la frittata con le uova
appena raccolte. Aggiungevamo delle erbette di campo
tagliuzzate sottili, con l’aggiunta di un pizzico di pepe e di sale.
Erano momenti così belli passati con mia mamma. Ancora oggi il
profumo della frittata mi ricorda quei momenti felici e
indimenticabili.

                                                                  Marco

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Gallina ripiena
Non si buttava via niente…

Mia nonna prima preparava il ripieno con pangrattato,
formaggio grattugiato, uovo, burro, mandorle, prezzemolo. Poi
si toglievano le interiore alla gallina, si riempiva del ripieno e si
chiudeva con ago e filo. Nonna metteva la gallina a freddo
dentro un pentolone di acqua con tante verdure. Bolliva per ore
e una volta pronta veniva tagliata a pezzi con il trinciapollo e
servita a tavola.
Io mangiavo molto volentieri la testa, le zampe e il “ciciarù”.
Sapendo che mi piacevano queste parti quando mia nonna
andava dal macellaio con mille lire portava a casa anche una
borsina piena di interiora e zampe di gallina.
Col brodo di verdure nel quale era stata cucinata la gallina si
facevano risotti e minestre, aggiungendo anche le interiora
(fegatini, ecc). Non si buttava via niente.

                                                                   Rossano

Gnoc en cola, pizzoccheri, tirapicio
La cucina di tutta la nostra famiglia era una “cucina povera” tipica della
nostra zona, la “bassa bresciana”…

Ho molti ricordi della cucina di mia nonna grazie al fatto che la
nostra casa si affacciava sullo stesso cortile della casa dei nonni
e degli zii. Era la tipica situazione che c’era nel dopoguerra: chi si
sposava e doveva costruire casa, prendeva un grande
appezzamento di terreno e vi costruiva la casa per sé e per i figli.
Mio nonno era muratore e mia nonna lavorava precariamente ai
tempi che mio padre era piccolo, più o meno all’inizio degli anni
’60. La mattina, i miei nonni prendevano il treno e andavano a
lavorare a Milano, il nonno nei cantieri, mentre la nonna faceva
le pulizie nelle case, o durante la stagione del raccolto andava a
fare la mondina nelle risaie.

                                   21
La cucina di tutta la nostra famiglia era una “cucina povera”
tipica della nostra zona, la “bassa bresciana”. Era una cucina che,
sia da parte di padre che da parte di madre, cresciuti entrambi in
campagna, si basava soprattutto su piatti di recupero e piatti
frutto della raccolta. […]
Il piatto che io preferivo in assoluto della nonna erano i “gnoc en
cola”, gnocchi di pane raffermo, che è forse la versione più
povera esistente in Italia del gnocco di pane, che si distingue dai
malfatti - che hanno al loro interno ricotta e spinaci – e dal “gnoc
de la cua” – che ancora si fa in Val Camonica, con la ricotta e le
erbe selvatiche. Per i “gnoc en cola”, la nonna metteva a mollo il
pane nel latte, e quando era ben inzuppato, aggiungeva l’uovo e
la farina e lo impastava fino ad avere una consistenza collosa. A
quel punto con la punta di un cucchiaio, li metteva in acqua
bollente formando degli gnocchi dalla forma un po’ irregolare
che poi scolava e condiva con il pomodoro e il basilico. Ne
andavo matto.
Il piatto più particolare che faceva mia nonna erano i pizzoccheri
che si discostavano molto dalla ricetta originale perché la pasta
che faceva erano delle tagliatelle verdi con gli spinaci, forse
perché non si trovava in commercio la pasta di grano saraceno o
forse perché non comprava mai la pasta.
Faceva queste tagliatelle verdi e poi non ricordo se mettesse le
verza, le coste o addirittura gli spinaci, ma la particolarità era
che, sia le erbe, che le patate, che la pasta, venivano cotte
separatamente poi assemblate in una pentola da forno dove
aggiungeva anche i formaggi tagliati a cubetti. Poi li irrorava con
burro, salvia e aglio che aveva sciolto in un pentolino, formava
un altro strato e poi li gratinava al forno. Non ho mai scoperto
perché li facesse così, se si fosse inventata la ricetta o se avesse
visto qualche foto e li avesse interpretati così. Comunque erano
buonissimi ed era sempre una festa quando li faceva. […]
Ma il ricordo più vivo che ho è quello di una particolare merenda
che ogni tanto ci faceva: ci faceva sgusciare le nocciole e in un
pentolino scioglieva dello zucchero con il burro, ci buttava le
nocciole e una volta caramellato, lo versava su una piastra di
pietra di quelli per la cottura sul fuoco, e una volta raffreddato lo
rompeva a pezzi e ce lo dava da mangiare come un croccante. Ci

                                 22
diceva “Dai che fom el tirapicio!” che è quella spirale di zucchero
duro che si trovava sulle bancarelle fuori dai cimiteri nella festa
dei santi e dei morti, e noi tutti nipoti impazzivamo per questo.
Quando se ne usciva con questa frase attivava in noi una
“macchina da lavoro” inarrestabile: chi faceva le nocciole, chi
andava a prendere la pietra, insomma ci teneva impegnati e
fuori dai guai per un po’. […]
I ricordi sono tanti […]. Ogni volta che mi metto ai fornelli mi
sento sempre un po’ più vicino alla mia nonna, perché quando lei
cucinava, io ero sempre in cucina con lei.

                                                                     Davide

“Hoi mari”, semi di ibisco rosso
Ai suoi tempi infatti non tutti si potevano permettere di cucinare la carne
ma solo ogni tanto perché costava cara…

La cucina di mia nonna era una cucina povera e tradizionale, sia
per gli strumenti che per gli ingredienti.
Lei passava quasi tutta la sua giornata in cucina e non solo
perché le piaceva stare in cucina, ma anche perché, essendo
molto anziana non aveva gli impegni come ad esempio le
mamme che hanno dei compiti da svolgere in casa come badare
ai figli, cucinare per la famiglia, tenere la casa pulita, lavare i
vestiti ecc.
Soprattutto i piatti che lei cucinava avevano bisogno di persone
come lei che hanno tempo, pazienza e resistenza agli odori.
Le sue ricette erano quasi tutte sostitutive di altri ingredienti
cioè andavano al posto di un altro ingrediente.
Ad esempio la ricetta che vi descriverò, serviva per dare alle
salse il gusto della carne.
Ai suoi tempi infatti non tutti si potevano permettere di
cucinare la carne ma solo ogni tanto perché costava cara.
Così lei preparava questo piatto che veniva utilizzato nelle salse
e che rendeva le salse più appetitose e così aiutava i bambini a
mangiare di più perché per loro senza dubbio c’era la carne.

                                    23
Lei prendeva dei semi di una pianta che si chiama LAMMADE. Li
faceva bollire per circa 3 o 4 ore. Poi li lasciava riposare per due
giorni. Li lasciava seccare 2-3 volte. Li macinava bene e poi li
metteva a seccare al sole fino a che si seccavano.
Da quel momento in poi non sono più semi, ma prendono il nome
della ricetta che è: “MARI”.
Da quel momento la conserva così! Fino al giorno che serve. Lei
allora prende la quantità che le serve e la macina bene bene. Poi
la mette nella salsa di Gombo o foglie di baobab.
Viene chiamata salsa MARI (HOI MARI nella mia lingua che è la
lingua PULAR)

                                                                     Ousmane

Lasagne di Natale
Il 24 dicembre si svegliava presto per iniziare a preparare tutto…

La cucina di mia madre era fatta di una piccola varietà di piatti:
con un marito dai gusti particolari e tre figli doveva riuscire ad
accontentare tutti quanti nei pasti principali della giornata. […]
Se durante l'anno creava pietanze velocemente, durante le
festività metteva tutta se stessa per preparare le lasagne di
Natale.
Il 24 dicembre si svegliava presto per iniziare a preparare tutto.
Era il periodo dell'anno che tutti aspettavamo solo per sentire il
profumo di quel ragù che cuoceva nella pentola per ore, fatto
con carne del macellaio di fiducia, verdure del contadino del
paese, la sua passata di pomodoro preferita e delle spezie
comprate.
Nel momento in cui io e i miei fratelli sentivamo quell'odore
accorrevamo in cucina, prendevamo un pezzo di pane e
inevitabilmente assaggiavamo quel ragù paradisiaco.
Intanto che il ragù era in preparazione io la osservavo da un
angolino della porta destreggiarsi nel fare la sfoglia di pasta, con
le uova che raccoglievamo nel pollaio di mia zia, la vedevo

                                    24
mescolare ed impastare con tutta quella farina che volava per la
stanza e sembrava neve che cadeva.
Quando era il momento di tirare la pasta andavo ad aiutarla
inserendola nella macchina per stenderla, diventava sempre più
sottile e ricordo che la passavamo sul tavolo infarinato per poi
andarla a tagliare a rettangoli e cospargerli di farina di semola
per farli seccare un pochino.
Creava poi una besciamella: in un tegame faceva scaldare il
latte, a parte scioglieva il burro e una volta pronto veniva
avvolto dalla farina; da lì iniziava a mescolare con una frusta fino
a far diventare leggermente dorato il tutto, aggiungeva al latte
scaldato un pizzico di noce moscata e lo versava delicatamente
nell'impasto, mescolava e mescolava fin quando la salsa non si
addensava ed era pronta.
Infine arrivava il momento dell'assemblaggio. Io adoravo
sistemare i vari strati di pasta, ragù, besciamella e formaggio
grana grattugiato; strato per strato riempivamo 2-3 teglie
stracolme lasciando per ultimo uno strato abbondante di
formaggio che nel forno gratinava e colorava di bruno la
besciamella.
Una volta finito lo coprivamo con del cellophane e mettevamo le
teglie in frigorifero per usarle il giorno dopo.
Il fatidico giorno mi alzavo presto insieme a lei, accendevamo il
forno e una ad una ci infilavamo le teglie.
Intanto che cuocevano si preparavano le tavolate. Solitamente
eravamo 10-15 persone tra zii e cugini. […]
Subito la magia del Natale si faceva viva, i parenti iniziavano ad
arrivare con i loro abiti da festa e delle lunghe pellicce, che ogni
tanto andavo ad accarezzare, li aiutavo a farli sedere al proprio
posto ed iniziavamo il banchetto.
[…] Tra una chiacchierata, e qualche gioco per noi piccoli,
arrivava il momento tanto atteso delle lasagne. Quando mia
madre entrava dalla porta con le teglie in mano, tutti si giravano
a guardarla e lo stupore prendeva il sopravvento: c’era chi
rideva, chi gridava di volere la prima fetta e chi (come me) si
alzava per distribuire i piatti.
Inutile dire che delle teglie di lasagne non rimaneva nulla, tanto
amavamo quelle lasagne così accuratamente preparate.

                                25
Il pranzo poi proseguiva con un’arrosto di vitello e patate che
con fatica finivamo.
Di solito prima del caffè di rito facevamo una pausa (aspettando
anche il dolce), dove i miei zii con mio padre iniziavano a cantare
delle canzoni di Natale (povere le nostre orecchie!) mentre le
mie zie e mia madre ridevano come matte nel guardarli.
Io con i miei fratelli e cugini iniziavamo lo spacchettamento dei
regali, una delle parti più attese della giornata, e nella stanza si
sentiva gioia, i più piccoli con i propri doni e i più grandi che
aspettavano il caffè.
Subito dopo il caffè arrivavano il pandoro e il panettone,
accompagnati da cioccolata fusa e crema al mascarpone. Infine
si faceva il brindisi per augurarsi buon Natale e subito dopo
iniziavano i tornei di briscola e piattino. Puntualmente partivano
schiamazzi su chi barava e chi no. Quelli che perdevano non lo
accettavano e quelli che vincevano si pavoneggiavano.
Nel tardo pomeriggio si andava a messa con tutta la famiglia e si
giungeva poi alla cena, molto semplice, con ravioli in brodo (fatti
in casa) ripieni di carne e qualche pezzo di carne avanzato dal
pranzo.
La serata finiva con noi piccoli seduti sul divano mezzi
addormentati che venivamo trasportati dai nostri genitori nelle
camere e i parenti che si complimentavano con mia madre per
l’ottima cucina e salutavano, andando via pieni di cibo ma con il
sorriso e il volto illuminato.

                                                                   Roberta

Lesso di carne
Ricordo con piacere le abitudini di quella famiglia patriarcale…

I miei nonni materni facevano i contadini e io specialmente in
estate andavo da loro a trascorrere la vacanze estive durante la
chiusura della scuola. Ricordo con molta nostalgia quei periodi:
tutti i giorni andavo con i miei nonni nei campi, il mattino presto
si andava a prendere l’erba per le mucche. Arrivati a casa si

                                   26
faceva colazione con la frutta di stagione: pesche, anguria, uva,
frutta che coltivavamo noi.
Ricordo con piacere le abitudini di quella famiglia patriarcale: la
domenica e solo la domenica si mangiava sempre carne lessa,
buonissima, e il brodo dove era stata lessata. La mattina presto
la nonna faceva bollire nell’acqua la carne insieme alle verdure:
carote, sedano, patate, cipolle. La carne veniva fatta bollire per
almeno un paio d’ore. Quando era pronta veniva tagliata a fette
e servita in tavola. Con l’acqua e le verdure dove aveva bollito si
faceva un gustosissimo brodo, aggiungendo anche pasta o riso.
Un’ottima minestra anche per la sera.

                                                             Giovanni

Lumache
Mia nonna le faceva bollire per tre, quattro volte in acqua con sale
grosso…

Si prendevano dal fruttivendolo le lumache che erano tenute
dentro una gabbia a spurgare con la farina. Mia nonna le faceva
bollire per tre, quattro volte in acqua con sale grosso,
cambiando ogni volta l’acqua finché non era bella pulita e non
saliva più schiuma. Venivano fatte bollire ancora vive, nell’acqua
si sentivano piangere.
Una volta bollite il tempo necessario nonna le cucinava in
padella con gli spinaci. Oppure le faceva “brunsù”, cioè condite
con olio, sale, pepe e un po’ di limone.
Un altro modo per cucinale era in forno dopo averle infilzate in
uno spiedino insieme alla pancetta.
Mia nonna mi raccontava che, in caso di gastrite o ulcera, faceva
molto bene come cicatrizzante dello stomaco prendere una
lumaca, toglierle il guscio senza ucciderla e ingerirla intera e
cruda senza masticarla.

                                                               Remo

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Pane
“Nonna, ma che buono!”…

Mia nonna era sempre piena di vita, divertente e coccolona. Ci
piaceva trascorrere il tempo insieme a lei. Mentre si occupava
delle faccende domestiche riusciva a dedicare il tempo anche a
noi, e si capiva che le faceva piacere avere la nostra presenza
rumorosa. Ad altri magari dava fastidio quella nostra presenza
rumorosa, ma a lei faceva piacere, come se il rumore non le
desse fastidio quando veniva da noi. […]
E’ sempre stata la miglior cuoca del mondo. E’ la persona che ha
suscitato in me l’amore per la cucina. Oltre a mia madre, era
l’unica che mi coinvolgeva dandomi dei giusti consigli
riguardanti la preparazione delle sue ricette. Mi ha incoraggiato
sempre a cucinare con uno spirito libero e come mi suggeriva
l’intuito, seguendo il cuore. […]
Le sue ricette le eseguiva a memoria, e non erano poche: faceva
di tutto, dagli antipasti, ai primi, ai secondi, ai biscotti, al pane.
Faceva il pane in casa tutte le settimane. Per preparare il pane ci
impiegava quasi due giorni.
Ad esempio d’inverno, quando faceva molto freddo, siccome
teneva la farina nella dispensa, che era molto fredda, doveva
portare la farina in cucina per tenerla al caldo fin dalla sera
precedente. Verso la mattina procedeva con la preparazione del
lievito che doveva far riposare due ore. Appena era pronto,
iniziava a mettere sul tavolo tutto quello che le serviva: un
contenitore grande di legno di forma rettangolare, confezionato
dal suo padre, che si chiamava “covata” e che per lei aveva un
valore inestimabile, che era fatto apposta per impastare, una
spatola, un contenitore piccolo per la preparazione del lievito,
un contenitore grande con l'acqua calda e una tazza grandicella
che le serviva a versare l'acqua un po’ alla volta (con una mano
versava l’acqua e con l’altra impastava), e poi gli ingredienti
(farina, acqua, sale, lievito). Si organizzava anche con lo spazio
per essere libera di muoversi mentre si occupava del pane, e
verificava per avere tutto l’occorrente a portata di mano.

                                 28
Fare il pane era un lavoro molto impegnativo e richiedeva tanto
tempo, pazienza e buona volontà, che a mia nonna non mancava
mai. Vedevo il suo volto allegro che sprigionava quell’aria
positiva intorno a lei, mentre le sue mani iniziavano a impastare i
tre ingredienti, lievito, acqua, farina. Impastava più di 10kg di
farina con una forza e velocità di trecento cavalli! Io la
osservavo con entusiasmo e mi chiedevo: “Questa donna così
piccola e magrolina, da dove tira fuori tutta questa forza?”
[…] Quando l’impasto era pronto, […] iniziava a formare tante
pagnotte giganti da 1,5kg/2kg all'una, poi faceva pane
intrecciato rotondo a forma di ciambella. Formava delle palline,
le allungava finché diventavano dei rotoli di circa 60 cm, e
cominciava a intrecciarli ottenendo una treccia rotonda che
metteva in forme fatte apposta per il pane e le lasciava lievitare.
Questa fase di lavorazione delle trecce ci piaceva molto e
partecipavamo molto volentieri. Siccome però, eravamo ancora
troppo piccole per riuscire a fare le trecce come le faceva lei, ci
faceva fare delle treccine piccole, oppure delle colombine.
Venivano bene, ci faceva anche i complimenti. Per noi era come
un gioco da bambini, mentre per la nonna era il modo per essere
libera di andare avanti con il suo lavoro e nello stesso momento
insegnarci a essere indipendenti rendendoci partecipi alle
faccende dei grandi. Era il suo modo di farci crescere.
Nel frattempo si occupava di accendere il fuoco nel forno a
legna e di portarlo alla temperatura giusta. Era un forno grande
e ci stavano 12 forme. […]
Il più bel momento era quando sfornava il pane, perché si
riempiva tutta la casa del profumo del pane e noi bambini
abbandonavamo i nostri giochi e accorrevamo in cucina intorno
alla nonna, e aspettavamo con ansia che appoggiasse le teglie sul
tavolo e sistemasse il pane ancora caldo, o le altre prelibatezze,
in un cestino o in qualche piatto, per poterle assaggiare.
Mangiavamo tutti con gusto, e si sentivano solo i complimenti
rivolti alla nonna: “Nonna, ma che buono!”
E lei era tanto felice e già sazia vedendo noi contenti e
soddisfatti.

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[…] Quando sei piccola, non sei in grado di capire tante
sfumature della vita, poi d'un tratto vedi la fortuna che hai avuto
ad avere accanto a te delle persone meravigliose, preziose.

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Petulla
Le Petulla erano anche uno dei piatti preferiti di mio nonno…

Tantissimo tempo fa, quando andavo a trovare la mia nonna in
Albania, mi ricordo che mi preparava molti piatti tradizionali, ma
uno dei miei preferiti rimarrà sempre le "Petulla".
Le Petulla sono anche un piatto di strada, infatti le trovi sempre
ed ovunque, in qualsiasi piccolo negozio di alimenti o
semplicemente nei panifici, ma meglio ancora in Albania puoi
trovare questo pane anche nei bar per fare colazione.
Ricordo come se fosse ieri che si svegliava presto la mattina per
farli. La sua sveglia era il gallo che cantava; aveva (ed ha tutt’ora)
una piccola fattoria con galline, tacchini, pecore, mucche e
qualche maiale.
Non le preparava in particolari periodi dell’anno o per qualche
festività, dal momento che è un piatto semplice, ma gustoso, lo
faceva spesso, soprattutto quando noi (i nipoti) andavamo a
trovarla.
Le Petulla erano anche uno dei piatti preferiti di mio nonno,
infatti quando la nonna si svegliava per prepararli, il nonno
andava a tagliare la legna per poter accendere la stufa a legna.
Questa stufa veniva usata in quasi tutte le case albanesi per
cucinare e scaldare la casa.
Mi ricordo che mi mettevo vicino al nonno e cercavo di aiutarlo
ad accenderla, ma quando capivo che non ci riuscivo […], andavo
dalla nonna a vedere come preparava questo magnifico piatto.
Prendeva una bacinella con dell’acqua tiepida, un po’ di farina,
sale, olio e un uovo. Non usava mattarelli o altre attrezzature,
faceva sempre tutto a mano ed io mi incantavo sempre a vederla

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lavorare con quelle mani ormai stanche, ma che non mi hanno
mai fatto mancare niente.
Metteva sopra la stufa ormai calda una padella con dell’olio
bollente,
Le Petulla sono un piatto povero, che a fine preparazione si può
consumare o con la marmellata, o col miele o con il formaggio
feta per la farcitura.
Il risultato finale per me è spettacolare, ed è stato un pezzo della
mia infanzia (ma anche ora che sono grande, non me ne privo!),
le Petulla si gonfiano e diventano dorate, una delizia per il
proprio palato!
Mi cucinava anche tanti altri piatti tradizionali, ma questo è in
assoluto il mio preferito, ne vado proprio ghiotta!

                                                              Belkisa

Pirog (o torta di grano saraceno e patate)
La domenica mattina mia nonna si svegliava sempre molto presto e
prima di andare in chiesa preparava questa torta speciale…

Ogni domenica mattina per me sembrava una vera e propria
festa perché a pranzo la casa era profumata del “pirog” di mia
nonna.
La domenica mattina mia nonna si svegliava sempre molto
presto e prima di andare in chiesa preparava questa torta
speciale che ad un certo punto è diventata il rito di famiglia.
Qualche volta da piccola mi è capitato di partecipare alla
preparazione e notavo tutta la passione di mia nonna
nonostante fosse a volte stanca e fossero le 6:00 del mattino.
All’inizio andava nell’orto davanti a casa e prendeva le patate, le
pelava e le lavava. A quel punto le metteva nell’acqua calda e
salata e le faceva bollire.
Poi prendeva del grano saraceno e lo faceva cuocere sempre
nell’acqua calda e salata, dopo di che preparava un impasto
semplice a base di lievito, acqua e farina.

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Quando l’impasto era pronto            mescolava le patate già
schiacciate con il grano saraceno già cotto, aggiungeva sale
pepe, e se ce n’era bisogno della farina.
Divideva l’impasto in due parti, la prima veniva stesa su una
placca e le patate e il resto venivano versate sull’impasto e con
l’altra parte dell’impasto le ricopriva. Sopra l’impasto passava
con dell’uovo sbattuto. Una ricetta semplice, che resterà per
sempre uno dei piatti più buoni che abbia mai mangiato.
Infornare il “pirog” era invece il compito di mio nonno: mentre
mia nonna era in chiesa, il nonno calcolava tutti i tempi e lo
sfornava sempre appena la nonna tornava a casa. Mio fratello ed
io preparavamo la tavola e così, tutte le domeniche, la famiglia si
univa a pranzo per questa torta così amata da tutti.

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“Plov”: pollo con riso e verdure
Potevo mangiarne tonnellate di quel piatto e non solo perché era buono,
ma anche perché era preparato da mia nonna…

Quando ero molto piccolo i miei genitori si separarono e
andarono in paesi diversi.
Avevo l’età di 3 anni quando i miei genitori mi lasciarono con i
miei nonni, mia nonna cuoca in mense di asili e scuole e mio
nonno cuoco nell’esercito Moldavo.
Fin da piccolo mia nonna mi preparava sempre piatti dal gusto
unico, ma un piatto a base di riso e verdure con carne di pollo mi
si è impresso nella mente più di tutti, forse perché la carne era
quella dei polli allevati in casa da lei.
Mia nonna aveva un orto molto grande dove seminava diverse
verdure e un pollaio con un decina di galline e un gallo con cui
non andavo molto d’accordo per alcuni episodi successi (per
esempio quando a 5 anni entrai nel pollaio al mattino per
prendere le uova appena deposte e appena entrai il gallo mi
attaccò graffiandomi sulla schiena per difendere il suo
territorio).

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Lei tagliava il collo ai polli solo dopo che avevano fatto altri
pulcini che a loro volta crescevano e si mangiavano quando
crescevano e facevano altri pulcini.
Quando mia nonna tagliava il collo a un pollo, chiedevo sempre
con impazienza di prepararmi il piatto che piaceva tanto a me
che si chiama "PLOV".
Le emozioni che provavo quando mi preparava il piatto che
volevo erano felicità e impazienza, perché come bambino ero
molto viziato e quindi mia nonna, abbastanza severa, non
esaudiva ogni mio capriccio. Per questo ero molto contento
quando faceva qualcosa per me. I suoi piatti erano tutti
eccezionali, ma questo era il mio piatto preferito perché aveva
una carne succosa e morbida, che si sfilava facilmente dall’osso e
un riso molto aromatizzato dal sugo di pomodoro e verdure
prese direttamente dall’orto. Potevo mangiarne tonnellate di
quel piatto e non solo perché era buono, ma anche perché era
preparato da mia nonna.
A 10 anni è tornata mia mamma e mi ha preso con lei in Italia
così da poter iniziare una nuova vita quindi ora posso assaggiare
i piatti di mia nonna solo quando vado in vacanza da lei.

                                                                Igor

Polpette con carne macinata e patate
Mia nonna con queste sue polpette mi ha insegnato che ogni cibo si
merita una sua seconda vita…

Le polpette della nonna…anzi bis nonna.
Mi ricordo quando le facevo con mia nonna nella sua cucina
calda, dove andava sempre una grande stufa bianca e aspettavo
con frenesia che l’olio arrivasse alla giusta temperatura per
poterle friggere e poi mangiare.
Metteva da parte, per giorni, avanzi di carne di svariati tipi, e li
surgelava finchè non ne aveva una bella quantità.
A questo punto arrivava il fatidico giorno di fare le polpette.
Preparavamo tutti gli ingredienti sul tavolo: carne

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precedentemente scongelata e poi tritata, patate lesse
schiacciate, tuorlo d’uovo, formaggio grattugiato, sale, pepe e
farina di riso.
La ricetta era molto semplice: univamo tutti gli ingredienti,
formavamo delle palline, passavamo nell’uovo, infarinavamo e
poi friggevamo.
Questa ricetta nonostante sia molto semplice suscita in me tanti
ricordi ed emozioni, la mia nonna con queste sue polpette mi ha
insegnato che ogni cibo si merita una sua seconda vita, che non
bisogna buttare via nulla.
Ho avuto la fortuna di avere al mio fianco mia nonna fino ai miei
12 anni d’età, pilastro fondamentale della mia infanzia e della
mia crescita personale.
Nonostante io faccia e rifaccia questa ricetta non riesce più
nello stesso modo di quando le facevamo assieme, un mix
d’amore e sapori che solo una nonna sa dare e creare.

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Sarmale
Le foglie di uva le prendevo nell’orto. Dovevo stare attenta a prendere
solo foglie più giovani, perché quelle più giovani sono molto buone e
morbide…

Mia nonna avrebbe voluto diventare insegnante di francese.
C’era molta povertà a quei tempi, e così ha fatto la scuola
alberghiera ed è diventata cuoca in una mensa scolastica. […]
A casa preparava piatti tradizionali moldavi come […] le
“sarmale”. E’ un piatto tradizionale moldavo ma anche degli altri
paesi dell’est europeo, come Romania, Ungheria, Bulgaria,
Serbia. Nel mio paese le “sarmale” si chiamano “Galusi” (galusci).
Io partecipavo sempre volentieri alla preparazione di un pranzo
o una cena della mia nonna. Mi piaceva molto stare con lei, darle
una mano, anche se oltre ad aiutare mangiavo qualcosa.
Le “sarmale” sono involtini di foglia di vite scottate in acqua
salata. Le foglie di uva le prendevo nell’orto. Dovevo stare

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