Storie cucinate - Istituto Mantegna
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Storie cucinate
Una proposta di: ISTITUTO DI ISTRUZIONE SUPERIORE DI STATO “ANDREA MANTEGNA” 2
Storie cucinate Dallo scarto al capolavoro 5 Com’è nata l’idea del progetto Petrini e Mancuso: il gesto del “prendersi cura” della Terra, dai contadini agli chef 7 Un nuovo modo di “prendersi cura”: il Refettorio di Bottura e l’unione di etica ed estetica 9 Dal Refettorio di Bottura al Laboratorio Mantegna-Caritas 11 22 storie cucinate Arrosti 15 Arrosto alla De Giuli 15 Burek 16 Baklava 17 Capretto 18 Casoncelli di nonna Angela 19 Coniglio arrosto 19 Frittata 20 Gallina ripiena 21 Gnoc en cola, pizzoccheri, tirapicio 21 Hoi mari 23 Lasagne di Natale 24 Lesso di carne 26 Lumache 27 Pane 28 Petulla 30 Pirog 31 3
Plov 32 Polpette con carne macinata e patate 33 Sarmale 34 Seppie con fagioli 35 Torta di mele 36 Le storie. Il tempo che ci porteremo dentro: festa e cibo nella cucina povera 37 Menù Storie cucinate 45 Per non concludere 46 4
Dallo scarto al capolavoro di Fabio Tosini La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo. (Mt 21, 42) Il cibo costituisce un’occasione di riflessione sul tema dello “scarto” narrato attraverso i racconti di una cucina povera, protagonista delle memorie autobiografiche di STORIE CUCINATE. Il focus, il fuoco è su un paradigma sostenibile che mette al centro il rispetto e la cura della natura e di ogni persona, in linea anche con gli espliciti inviti espressi più volte da papa Francesco, come nell’enciclica Laudato si’1. Da ciò che - persona, ingrediente - viene superficialmente e colpevolmente considerato “scarto” può nascere un capolavoro, un’eccellenza, un piatto prelibato, non solamente da gustare ma anche da raccontare. Il cibo e cucinare generano storie da narrare, che evocano ricordi, contesti, vissuti, legami, affetti, specialmente familiari. Diventano ponti che ci riportano a casa, che ci connettono alle nostre radici, le annaffiano, le nutrono. Attraverso la cucina è così possibile fare un viaggio dentro e dietro di noi, un viaggio che accende il fornello dei pensieri e delle emozioni. Dentro un cibo ci sono ingredienti e ci siamo noi, con il nostro sapere fare e con le nostre storie da raccontare e da cucinare. 1 Papa Francesco (2015), Laudato si’, enciclica. Si veda anche: Petrini C. (2020), Terrafutura. Dialoghi con papa Francesco sull’ecologia integrale, Giunti, Milano. 5
STORIE CUCINATE è stato pensato e realizzato nell’anno scolastico 2020/2021 dall’Istituto alberghiero di Stato Andrea Mantegna e dalla Cooperativa Kemay (Caritas Diocesana di Brescia). Gli studenti della classe terza serale dell’Istituto Mantegna insieme ad alcuni ospiti del Rifugio Caritas - coordinati dai docenti Andrea Malpeli, Stefano Savino e Agostino Stradaioli, da Fabio Tosini (Caritas Diocesana di Brescia) e Angelo Bricca (volontario Rifugio Caritas) – a partire da gennaio 2021 hanno scritto e condiviso racconti di STORIE CUCINATE, legati a ricordi e ricette familiari, a piatti e pietanze che hanno stimolato narrazioni ed evocato vissuti ricchi di affetti e di emozioni, di profumi e di sapori. Insieme hanno poi individuato e definito tra le STORIE CUCINATE un menù e nel laboratorio pratico si sono esercitati e perfezionati nella preparazione di piatti per la cena-evento, passando anche dall’esperienza di ri-uso e ri-utilizzo delle “rimanenze” alimentari. Cibo cucinato con le mani del cuore, per raccontare che anche in tempo di Covid è possibile coltivare (cucinare) tenerezza, condivisione, solidarietà. 6
Com’è nata l’idea del progetto di Andrea Malpeli Petrini e Mancuso: il gesto del “prendersi cura” della Terra, dai contadini agli chef Nel maggio 2015, in occasione dell’apertura dell’Expo 2015, Carlo Petrini pubblica un libro, scritto insieme a Stefano Mancuso, intitolato “Biodiversi”2 nel quale critica gli chef del Nord del mondo per il fatto che, concentrati esclusivamente sugli aspetti creativi e tecnici della cucina, si sono dimenticati della responsabilità civile degli chef, una “responsabilità civile” che gli chef del Sud del mondo, come il peruviano Gaston Acurio, il brasiliano David Hertz, il messicano Enrique Olvera,3 hanno invece messo al centro del loro lavoro di cuochi. In cosa consiste la responsabilità civile degli chef? La risposta che Petrini e Mancuso si danno, nel quadro di una discussione critica dei “paradigmi” scientifici e di sviluppo economico dell’Occidente ricco e industrializzato, fautore di un modello produttivistico-consumistico che prometteva progresso economico-sociale e che invece sta producendo solo danni economici e sociali (distruzione delle economie locali, miseria, emigrazione dalle campagne verso le grandi megalopoli e verso il nord del mondo) e danni ambientali (distruzione della biodiversità, inquinamento dell’aria dell’acqua e del suolo), è una risposta che indica la possibilità di “svolta”, di cambiamento radicale di paradigma, di rinascita della civiltà, in un gesto 2 “Biodiversi”, Stefano Mancuso, Carlo Petrini, Giunti 2015, pag. 117. 3 “Cibo e libertà. Slow Food: storie di gastronomia per la liberazione” Carlo Petrini Giunti 2013, pag. 140-157. 7
semplicissimo e allo stesso tempo difficilissimo: il “prendersi cura” della Terra4, così come se ne prendono cura i contadini. La possibilità di salvezza della Terra, dal punto di vista ambientale e sociale, dipende da loro, dai contadini, dal loro prendersi cura della Terra che consiste nella difesa della biodiversità, nel rispetto del suolo, dell’aria e dell’acqua, nel rifiuto dei metodi di coltivazione e allevamento intensivo dell’agricoltura industriale determinati dalla logica del profitto illimitato. Allora la responsabilità civile degli chef, secondo Petrini, consiste nella Alleanza degli chef con questi contadini- custodi della terra5. Si tratta di una alleanza chef-contadini che Petrini ha proposto fin dal “Salone del gusto” di Torino del 19966, prima attraverso il progetto dell’“Arca del Gusto”, poi qualche anno dopo attraverso il progetto dei “Presidi” che hanno dato vita alle prime “Comunità del gusto”, alleanze di produttori e consumatori che fanno della difesa della biodiversità e del rispetto dell’ambiente, l’occasione di una rinascita della civiltà7, la proposta di un’economia e di una socialità alternativa alla società di mercato. Se l’alleanza cuochi-produttori è il fulcro del “cambiamento di paradigma” e della “rinascita della civiltà”, Bottura - che in occasione del terremoto dell’Emilia del 2012 ha realizzato un’alleanza con i produttori di formaggio Parmigiano Reggiano promuovendo attraverso un piatto “Riso cacio e pepe”8 la vendita delle forme di formaggio danneggiate dai crolli del terremoto - sente che tutto questo non è sufficiente. Se l’occasione tragica del terremoto ha stimolato questa alleanza cuoco-produttori, la solidarietà doveva e poteva trovare altre forme in cui esprimersi e tradursi in un impegno etico stabile e continuativo. 4 “Biodiversi”, Stefano Mancuso, Carlo Petrini, Giunti 2015, pag. 32-33. 5 “Biodiversi”, Stefano Mancuso, Carlo Petrini, Giunti 2015, pag. 122. 6 “Slow Food. Storia di un’utopia possibile”, Carlo Petrini, Gigi Padovani, Giunti 2017, pag. 138-140. 7 “Buono pulito e giusto. Principi di una nuova gastronomia” Carlo Petrini, Einaudi 2006, “Introduzione”, pag. VI. 8 “Vieni in Italia con me” Massimo Bottura, Phaidon 2014, pag.118. 8
Il progetto di Bottura del Refettorio nell’ambito dell’EXPO 2015 è una risposta all’appello di Petrini e al bisogno di un approfondimento e allargamento dell’impegno civile dello chef. Un nuovo modo di “prendersi cura”: il Refettorio di Bottura e l’unione di etica ed estetica Il progetto del Refettorio di Bottura è interessante non solo perché rappresenta un approfondimento dell’impegno etico dello chef, ma perché rappresenta un modo nuovo e rivoluzionario di concepire il prendersi cura, come un’unione di etica ed estetica. Bottura cita Wittgenstein nella introduzione al libro “Il pane è oro. Ingredienti ordinari per piatti straordinari” (2017)9 e dice: “All’inizio del XX secolo il grande filosofo Ludwig Wittgenstein scrisse: “L’etica e l’estetica sono una cosa sola”. Io ho sempre considerato etica ed estetica come le due facce della stessa medaglia. La bellezza non è bella senza il buono e a sua volta il buono ha bisogno del bello per trasmettere il suo messaggio”. Quando Bottura comunica a Davide Rampello, responsabile del “Padiglione Zero” dell’EXPO 2015, il suo sogno di “un padiglione in cui i migliori cuochi del mondo potessero cucinare con gli avanzi dell’EXPO per i più bisognosi”10, Davide Rampello gli risponde che quello che sta immaginando non è un padiglione, ma un “refettorio”. La parola “refettorio” definisce il luogo in cui storicamente monaci e monache condividevano i loro pasti, e viene dal latino “reficere” che significa “ricostruire” ma anche “ristorare”. 9 “Il pane è oro. Ingredienti ordinari per piatti straordinari” Massimo Bottu- ra and Friends, Phaidon 2017, pag. 8. 10 “Il pane è oro. Ingredienti ordinari per piatti straordinari” Massimo Bot- tura and Friends, Phaidon 2017, pag.7 9
Ecco allora che l’approfondimento della dimensione etica della cucina, passa attraverso una duplice re-invenzione: 1) la re-invenzione della funzione dei refettori monastici, che da luoghi interni ai monasteri, finalizzati alla doppia funzione di “condivisione” e “rigenerazione fisica e spirituale” dei monaci, devono diventare luoghi di condivisione e rigenerazione per gli “esclusi” della società in senso più generale, gli abitanti delle periferie, e i senza tetto, in un orizzonte secolarizzato di esclusione economica, sociale, culturale; 2) la re-invenzione dell’etica, che esce dal perimetro del monastero e diventa un “prendersi cura” in cui etica ed estetica si congiungono, dove cioè la creatività degli artisti è messa al servizio dell’etica; siano essi gli artisti invitati a ristrutturare un vecchio teatro abbandonato adiacente alla chiesa, o la creatività dei cuochi stellati che re-inventano gli ingredienti ordinari per creare piatti straordinari, il miracolo che sono chiamati a creare si serve dello stupore, e della meraviglia per accogliere, unire, ridare “voce” a ingredienti e persone, rigenerare gli esclusi, gli ultimi. Il progetto del “refettorio” allora prende corpo e si sviluppa attraverso un doppio miracolo, che è il miracolo di un prendersi cura in cui etica ed estetica si congiungono: a) il “miracolo” della trasformazione di un luogo abbandonato della periferia come il teatro abbandonato degli anni ’30 annesso alla parrocchia di Milano Greco, in un luogo di bellezza come il Refettorio della chiesa delle Grazie affrescato da Leonardo, attraverso l’intervento di una lunga catena di solidarietà che passa attraverso varie istituzioni e richiede la collaborazione di varie figure sociali: dagli architetti e studenti del Politecnico che progettano la nuova cucina e la nuova sala del refettorio, ai designer che devono progettare i tavoli della mensa ispirandosi alla re- invenzione degli antichi “fratini”, agli artisti della transavanguardia, Mimmo Paladino, che costruisce una cornice all’ingresso esterno per valorizzare l’entrata, Enzo Cucchi, che disegna un affresco di dodici metri, Gaetano 10
Pesce che costruisce una fontana della vita, Carlo Benvenuto, che concepisce un pezzo di pane attraverso la fotografia esistenzialista, Maurizio Nannucci, che realizza un’insegna al neon con la scritta “No more excuses” montata all’esterno dell’edificio; b) il “miracolo” della trasformazione degli ingredienti ordinari in piatti straordinari, un “miracolo” che si realizza in 3 tappe: a) la prima tappa costituita dalla doppia sfida etica: i)la sfida di cucinare a partire dagli avanzi dei supermercati costituiti da cibi ammaccati, appassiti, in scadenza; ii) la sfida di portare i migliori chef del mondo a cucinare per delle persone che non sanno nemmeno chi sono, una sfida etica che capovolge il rapporto tra identità sociale ed identità umana, azzerando l’identità sociale di chef acclamati, e mettendo in primo piano la loro identità umana; b) la seconda tappa che è l’esplosione della creatività degli chef che deriva dalla necessità dell’improvvisazione; c) la terza tappa che è l’uso di quella creatività artistica degli chef per un doppio scopo: unire e rigenerare gli ospiti, far vivere loro un’esperienza in cui la dignità o la “voce” riconquistata dal cibo, sia capace di produrre un’eguale rigenerazione spirituale negli ospiti. Ecco che allora la parte più interessante dell’esperienza del Refettorio diventa il racconto di come questa nuova etica, questo nuovo modo di “prendersi cura” in cui arte ed etica, il bello e il bene, si fondono, viene messa in pratica dai vari chef invitati a partecipare al progetto. Dal Refettorio di Bottura al Laboratorio Mantegna-Caritas Sebbene il progetto del Refettorio EXPO 2015 di Bottura rappresenti un’esperienza straordinaria, da tanti punti di vista, 11
etico, sociale, culturale, un’esperienza rivoluzionaria, che apre una strada nuova, un esperimento che Bottura ha già replicato e sta replicando in varie altri parti del mondo con la sua Onlus “Food for Soul”, per noi ha costituito solo un punto di partenza, che ci siamo sforzati di approfondire e superare in una direzione diversa. Cito due momenti particolarmente significativi nel racconto dello svolgimento dell’esperienza del Refettorio (“Il pane è oro. Ingredienti ordinari per piatti straordinari” 2017) per mettere in luce come il punto etico più alto toccato dal progetto di Bottura abbia costituito il punto di partenza di un approfondimento ulteriore che il nostro Laboratorio ha cercato di sviluppare: 1) Viviana Varese, chef stellata, titolare del “Ristorante Alice” di Milano, dice per spiegare il menù da cucina povera che ha creato a partire solamente da due verdure, zucchine e melanzane: “Qui non voglio ricreare la cucina del mio ristorante, ma piuttosto dar spazio a quei bei ricordi che sanno di casa e famiglia. La gente ha bisogno di riscoprirli”11; il piccolo “miracolo” che Viviana Varese vuol creare è “far sentire a casa” i suoi ospiti per un attimo, far loro risentire i sapori della memoria, attraverso piatti semplici della cucina povera, con qualche variante come la ”salsa di pane” fatta con la curcuma, che ricorda il “gold milk” della cucina indiana, e serve a sorprendere e meravigliare; l’effetto è testimoniato da film-documentario dal titolo “Il refettorio. Miracolo a Milano. Un progetto di Massimo Bottura” del regista canadese Peter Svatek che comincia con una sequenza in cui due “senza tetto” all’inizio ricevono don Giuliano che va a portare cibo alla stazione dove passano la notte con diffidenza, e poi in una sequenza successiva all’interno del Refettorio, vuoi per l’accoglienza dei volontari che servono in sala, vuoi per il cibo preparato quel giorno da Viviana Varese, sentendosi accolti, perdono la diffidenza e si aprono, pieni di gratitudine, sia verso gli altri ospiti, sia verso Don Giuliano, sia verso la cuoca Viviana 11 “Il pane è oro. Ingredienti ordinari per piatti straordinari” Massimo Bot- tura and Friends, Phaidon 2017, pag.122. 12
Varese che dopo il pranzo gira fra i tavoli per raccogliere le impressioni degli ospiti; 2) Ugo Alciati, chef stellato del “Ristorante Guido” a Pollenzo, frazione di Bra, in provincia di Cuneo, dopo aver preparato un menù improvvisato a partire da ingredienti poveri che ottiene un grandissimo successo tra gli ospiti perché anch’esso sviluppa una forte capacità evocativa e poetica (un cubo di risotto gratinato che evoca le lasagne, con una crema di crescenza, guarnito con bresaola essiccata e sbriciolata), fa un gesto che, per lo sviluppo della storia del Refettorio, è importantissimo: va in sala tra gli ospiti e si siede con loro e gli racconta storie della sua infanzia, e in particolare: “Quella sera ci raccontò anche della sua infanzia passata con i nonni, mentre i suoi genitori lavoravano al ristorante. Fu un momento toccante. I nostri ospiti furono felicissimi di quel pasto caldo e dell’amorevole cura impiegata a prepararlo. Ma, più di ogni altra cosa furono felici di ascoltare Ugo che parlava della sua vita e di quanto possa essere difficile, a volte, crescere all’ombra del successo e dei sogni dei genitori. Fu uno dei rari momenti in cui quegli uomini e quelle donne poterono mettere da parte per un attimo i loro problemi e lasciarsi cullare da storie e racconti altrui. Vedere tutti – gli ospiti, i volontari e Ugo – che ridevano e scherzavano come una grande famiglia intorno allo stesso tavolo era proprio quello che avevo immaginato quando avevo deciso di lanciare il progetto”12. Le due esperienze di Viviana Varese e di Ugo Alciati, per quanto riguarda la possibilità di raggiungere lo stesso scopo, far sentire a casa gli ospiti, unire e rigenerare, non solo attraverso il cibo e l’accoglienza intorno a un tavolo, ma anche attraverso il racconto, sono il punto di partenza del nostro Laboratorio Mantegna-Caritas che rappresenta un passo in più rispetto al Refettorio di Bottura dal punto di vista dell’esperienza etica e sociale, perché si propone di approfondire e sviluppare quel 12 “Il pane è oro. Ingredienti ordinari per piatti straordinari” Massimo Bot- tura and Friends, Phaidon 2017, pag.98 13
momento “magico” dell’unità così ben descritto nel caso della serata di Ugo Alciati, attraverso un capovolgimento del ruolo degli ospiti che nel nostro Laboratorio non sono semplici “fruitori” di un servizio, ma vengono coinvolti in un ruolo attivo attraverso l’intreccio di una doppia esperienza di laboratorio: 1) un “laboratorio” di interviste-colloquio in cui attraverso il “metodo dell’autobiografia” di Duccio Demetrio abbiamo invitato sia gli ospiti del Rifugio Caritas, che gli studenti dell’ Istituto alberghiero Mantegna, a raccontare uno o più piatti della loro memoria, sforzandosi anche di far emergere attraverso i piatti il mondo a cui erano legati; 2) un laboratorio pratico di cucina, in cui i “narratori” delle storie, gli studenti e gli ospiti del Rifugio, dopo aver scelto insieme i piatti più significativi, provassero a cucinare i loro piatti da riproporre in una serata evento finale in cui riproporre non solo il menù, ma anche le storie legate ai piatti. 14
22 storie cucinate Arrosti Mamma conservava lo strutto nostrano in un vaso di vetro perché il burro costava troppo. Lo usava per cucinare il suo speciale arrosto… Quando ero bambino la mia famiglia era molto povera, come dire, si viveva alla giornata. Però i bei ricordi sono le domeniche perché mia madre cucinava molto bene. Lei allevava polli, conigli, galline e faceva sempre un buon arrosto a pranzo, con contorni speciali. Come le patatine fritte dorate e saporite, sbucciate e tagliate a spicchi da noi bambini. Oppure finocchietto, valeriana e cicoria che si andava a raccogliere nei campi vicini con un piccolo coltello. Mamma conservava lo strutto nostrano in un vaso di vetro perché il burro costava troppo. Lo usava per cucinare il suo speciale arrosto. A tavola eravamo uniti e felici, senza televisione si parlava un po’ di tutto ed era un momento in cui stavamo molto bene insieme. Si rideva, si scherzava la domenica e terminato il pranzo si giocava a carte, a oca, a tombola. Il pomeriggio trascorreva in fretta e serenamente. Erano tempi difficili ma non li cambierei mai con quel po’ di benessere che abbiamo ora. Mauro Arrosto alla De Giuli Ingrediente segreto: quando prepari il piatto sorridi… È una antica ricetta valdostana da me elaborata e dedicata ad un caro amico di origini valdostane. L’ho cucinata per la prima vota 15
in occasione di una cena tra amici e a questo piatto ho dato il nome del mio amico “De Giuli”, una persona che ammiravo e ammiro molto per la sua grande cultura. Si tratta di un arrosto che può essere fatto con la lonza di maiale, con il vitello, oppure con il manzo. In una teglia insieme alla carne si aggiungono cipolle tagliate e erbe aromatiche, sale e pepe. Si cuoce in forno per circa un’ora a 180 gradi. Si aggiungono castagne e prugne snocciolate e si sfuma con birra rossa e poi ancora in forno per circa un’ora. Terminata la cottura si avvolge la carne nell’alluminio. Il sugo rimasto in pentola si passa col minipimer fino a farlo diventare una crema, filtrata con cappello cinese. In padella si prepara un soffritto con pancetta dentro il quale si aggiunge la carne tagliata a fette e la crema. Si sfuma per qualche minuto, poi si serve nel piatto a freddo con granella di pistacchio e si accompagna con polenta a farina mista (bramata, di Storo). Ingrediente segreto: quando prepari il piatto sorridi. Giampietro Burek Mi ricordo che per averla pronta a pranzo mia nonna si alzava presto alla mattina… Quello che chiedevo sempre quando ero dalla nonna era il “burek”, una specie di torta salata fatta con la pasta fillo. Il ripieno non era sempre lo stesso perché non c’erano sempre gli stessi ingredienti in casa o magari c’erano avanzi da recuperare. I miei “burek” preferiti erano due: quelli con il ripieno di spinaci e ricotta fatta dalla nonna, e quelli con lo yogurt, la ricotta e le uova. Tutto fatto da lei. Perché lei aveva una mucca e le galline. Per fare il “burek” devi avere pazienza e devi stare attento che la pasta fillo non si strappi o non si buchi. Mi ricordo che per averla pronta a pranzo mia nonna si alzava presto alla mattina per preparare l’impasto, perché poi aveva 16
sempre da fare come accendere la stufa, dare da mangiare a tutti gli animali, fare i lavori in casa e mungere la mucca. Dopo che aveva finito, mio nonno usciva presto con la mucca per portarla a mangiare. Quando c’era bel tempo andavo anch’io. La nonna preparava tutto. Tirava la sfoglia sottilissima con il mattarello che è sottilissimo e la vedevo come apriva ogni filo di pasta... sempre con la stessa tecnica, forza, misura. Mi mettevo da una parte a provare e riprovare anch’io, ma non sono mai riuscito a farla come lei. Almeno però mi lasciava preparare le teglie con l’olio e mi lasciava anche mettere il ripieno. Andreu Baklava Di solito lo faceva a Capodanno, non perché tradizione, ma perché in quel periodo c’erano quasi tutti i miei cugini e zii… Il dolce che ricordo ancora di mia nonna, che fa tutt’oggi, è la “baklava”. Un dolce che se ti metti da solo a farlo, ci metti anche un giorno intero cominciando la mattina presto per averlo pronto per la sera. Di solito lo faceva a Capodanno, non perché tradizione, ma perché in quel periodo c’erano quasi tutti i miei cugini e zii che tornavano dall’estero. La preparazione è la stessa del “burek”, però servono quasi 100 fogli di pasta fillo seccati, e quindi lei cominciava presto la mattina. Quando aveva finito li apriva dappertutto così ogni filo si seccava ed era pronto da mettere nella teglia. E’ composta di un foglio di pasta fillo, uno strato di noci, un foglio di pasta fillo, e così via fino alla fine. Poi lo infornava e faceva uno sciroppo di acqua e zucchero. Erenato 17
Capretto Ora che sono solo riemergono i bei ricordi di quando ci riunivamo tutti nelle feste di Natale e di Pasqua… Nei miei momenti di solitudine mi ritrovo a pensare al passato con la mia famiglia, ora che i miei genitori sono mancati e le mie sorelle hanno intrapreso la loro strada con la loro famiglia. Ora che sono solo riemergono i bei ricordi di quando ci riunivamo tutti nelle feste di Natale e di Pasqua. Quelli erano i giorni in cui ci si poteva riunire anche con i parenti visto che durante l’anno ci si vedeva poco. Quello era il momento per raccontarsi. Uno di questi bei giorni è il giorno di Pasqua, quando al mattino ci si alzava presto per andare alla messa delle sette, per avere poi il tempo necessario per preparare bene il pranzo. Ricordo che il piatto della tradizione era sempre il capretto con le patate al forno e polenta. Mio padre portava a casa il capretto dalla macelleria dove lavorava. Mamma lo metteva in una grande teglia con olio e burro e lo cospargeva di aromi: aglio, rosmarino, salvia tritati. Lo sfumava con del vino bianco e aggiungeva cubetti di pancetta. Che profumino! Poi lo metteva nel forno a cuocere e a parte cucinava le patate e la polenta nel paiolo di rame. Noi fratelli a turno mescolavamo con un grande cucchiaio di legno. Mentre mamma cucinava, mia sorella preparava la tavola con il servizio di piatti più bello, quello delle grandi feste. Quanta felicità quando cominciavano ad arrivare i nostri parenti. Allora tutti ci sedevamo a tavola e mamma sfornava quella grande teglia di capretto fumante e rovesciava su un tagliere di legno la polenta profumata. Che bei ricordi, come eravamo felici… Mauro 18
Casoncelli di nonna Angela Nessuno di noi sapeva che la Villa Sacro Cuore fosse casa nostra… Ci si trovava con tutti i parenti durante i solenni pranzi di Natale, ma un ricordo particolare è quando mia nonna, senza occasione particolare né festa, volle invitare tutti i suoi nipoti a pranzo invitandoli ciascuno con un biglietto con scritto di trovarsi “il giorno di nostro Signore alle ore 12.00 alla Villa Sacro Cuore”. Nessuno di noi sapeva che la Villa Sacro Cuore fosse casa nostra, per il fatto che sulla porta c’era una piastrella con il Sacro Cuore di Gesù, come quelli che una volta si ponevano sugli ingressi di molte case contadine del nord. Fu così che quando tutti i nipoti scoprirono dove dovevano trovarsi per il pranzo, trovarono antipasti, casoncelli bresciani di montagna, di forma a mezzaluna con ripieno nostrano, antica ricetta di nonna Angela, risalente all’800: pasta fresca all’uovo, fatta con due uova, acqua, 500 grammi di farina. E per il ripieno 200 grammi di pane grattugiato, 100 grammi di burro, 150 grammi di grana padano grattugiato, brodo di pollo o manzo, tre spicchi d’aglio, sei amaretti, prezzemolo tritato, sale. C’era poi un fantastico arrosto fatto di pollo, lombo, costine di maiale, con leggero pesto di lardo, burro, salvia, leggera rosolatura prima e cottura il giorno dopo. Uccellini se possibile. Giovanni Battista Coniglio arrosto Era molto brava a cucinare mia nonna… Il coniglio si mangiava nei giorni di festa. Era mia nonna che lo cucinava, dopo averlo comperato dal macellaio in piazza Vittoria. Nonna lo faceva rosolare in padella con burro, vino bianco e rosmarino. Poi lo metteva nel forno e lì cuoceva formando una bella crosta dorata. 19
Insieme al coniglio si mangiava la polenta, immancabile a tavola. Nonna la cucinava in un pentolone di rame, mettendoci acqua, un po’ d’olio e farina e mescolando continuamente per evitare la formazione di grumi per circa un’ora con un mestolo di legno. Era mia nonna che gestiva la cucina: guai a chi entrava. Noi potevamo solamente guardarla cucinare a dovuta distanza. Distanza che però non impediva di essere raggiunti dai profumi delle pietanze che cuocevano e che arrivavano fino in soggiorno. Era molto brava a cucinare mia nonna. Lei lavorava in un albergo in tempi di guerra. Mi manca tanto. Quando sento il profumo di arrosto mi viene sempre in mente. Rossano Frittata Ricordo che mamma mi invogliava a bere un uovo appena raccolto… Da bambino la mia grande felicità era il momento della raccolta delle uova nel nostro piccolo pollaio prima del tramonto. Mamma teneva il grembiule sollevato per potere contenere le uova appena raccolte e io le ponevo dentro un piccolo cestino sgangherato. Ricordo che mamma mi invogliava a bere un uovo appena raccolto e ancora caldo dicendomi che mi avrebbe fatto bene. Al rientro a casa aiutavo mamma a preparare la frittata con le uova appena raccolte. Aggiungevamo delle erbette di campo tagliuzzate sottili, con l’aggiunta di un pizzico di pepe e di sale. Erano momenti così belli passati con mia mamma. Ancora oggi il profumo della frittata mi ricorda quei momenti felici e indimenticabili. Marco 20
Gallina ripiena Non si buttava via niente… Mia nonna prima preparava il ripieno con pangrattato, formaggio grattugiato, uovo, burro, mandorle, prezzemolo. Poi si toglievano le interiore alla gallina, si riempiva del ripieno e si chiudeva con ago e filo. Nonna metteva la gallina a freddo dentro un pentolone di acqua con tante verdure. Bolliva per ore e una volta pronta veniva tagliata a pezzi con il trinciapollo e servita a tavola. Io mangiavo molto volentieri la testa, le zampe e il “ciciarù”. Sapendo che mi piacevano queste parti quando mia nonna andava dal macellaio con mille lire portava a casa anche una borsina piena di interiora e zampe di gallina. Col brodo di verdure nel quale era stata cucinata la gallina si facevano risotti e minestre, aggiungendo anche le interiora (fegatini, ecc). Non si buttava via niente. Rossano Gnoc en cola, pizzoccheri, tirapicio La cucina di tutta la nostra famiglia era una “cucina povera” tipica della nostra zona, la “bassa bresciana”… Ho molti ricordi della cucina di mia nonna grazie al fatto che la nostra casa si affacciava sullo stesso cortile della casa dei nonni e degli zii. Era la tipica situazione che c’era nel dopoguerra: chi si sposava e doveva costruire casa, prendeva un grande appezzamento di terreno e vi costruiva la casa per sé e per i figli. Mio nonno era muratore e mia nonna lavorava precariamente ai tempi che mio padre era piccolo, più o meno all’inizio degli anni ’60. La mattina, i miei nonni prendevano il treno e andavano a lavorare a Milano, il nonno nei cantieri, mentre la nonna faceva le pulizie nelle case, o durante la stagione del raccolto andava a fare la mondina nelle risaie. 21
La cucina di tutta la nostra famiglia era una “cucina povera” tipica della nostra zona, la “bassa bresciana”. Era una cucina che, sia da parte di padre che da parte di madre, cresciuti entrambi in campagna, si basava soprattutto su piatti di recupero e piatti frutto della raccolta. […] Il piatto che io preferivo in assoluto della nonna erano i “gnoc en cola”, gnocchi di pane raffermo, che è forse la versione più povera esistente in Italia del gnocco di pane, che si distingue dai malfatti - che hanno al loro interno ricotta e spinaci – e dal “gnoc de la cua” – che ancora si fa in Val Camonica, con la ricotta e le erbe selvatiche. Per i “gnoc en cola”, la nonna metteva a mollo il pane nel latte, e quando era ben inzuppato, aggiungeva l’uovo e la farina e lo impastava fino ad avere una consistenza collosa. A quel punto con la punta di un cucchiaio, li metteva in acqua bollente formando degli gnocchi dalla forma un po’ irregolare che poi scolava e condiva con il pomodoro e il basilico. Ne andavo matto. Il piatto più particolare che faceva mia nonna erano i pizzoccheri che si discostavano molto dalla ricetta originale perché la pasta che faceva erano delle tagliatelle verdi con gli spinaci, forse perché non si trovava in commercio la pasta di grano saraceno o forse perché non comprava mai la pasta. Faceva queste tagliatelle verdi e poi non ricordo se mettesse le verza, le coste o addirittura gli spinaci, ma la particolarità era che, sia le erbe, che le patate, che la pasta, venivano cotte separatamente poi assemblate in una pentola da forno dove aggiungeva anche i formaggi tagliati a cubetti. Poi li irrorava con burro, salvia e aglio che aveva sciolto in un pentolino, formava un altro strato e poi li gratinava al forno. Non ho mai scoperto perché li facesse così, se si fosse inventata la ricetta o se avesse visto qualche foto e li avesse interpretati così. Comunque erano buonissimi ed era sempre una festa quando li faceva. […] Ma il ricordo più vivo che ho è quello di una particolare merenda che ogni tanto ci faceva: ci faceva sgusciare le nocciole e in un pentolino scioglieva dello zucchero con il burro, ci buttava le nocciole e una volta caramellato, lo versava su una piastra di pietra di quelli per la cottura sul fuoco, e una volta raffreddato lo rompeva a pezzi e ce lo dava da mangiare come un croccante. Ci 22
diceva “Dai che fom el tirapicio!” che è quella spirale di zucchero duro che si trovava sulle bancarelle fuori dai cimiteri nella festa dei santi e dei morti, e noi tutti nipoti impazzivamo per questo. Quando se ne usciva con questa frase attivava in noi una “macchina da lavoro” inarrestabile: chi faceva le nocciole, chi andava a prendere la pietra, insomma ci teneva impegnati e fuori dai guai per un po’. […] I ricordi sono tanti […]. Ogni volta che mi metto ai fornelli mi sento sempre un po’ più vicino alla mia nonna, perché quando lei cucinava, io ero sempre in cucina con lei. Davide “Hoi mari”, semi di ibisco rosso Ai suoi tempi infatti non tutti si potevano permettere di cucinare la carne ma solo ogni tanto perché costava cara… La cucina di mia nonna era una cucina povera e tradizionale, sia per gli strumenti che per gli ingredienti. Lei passava quasi tutta la sua giornata in cucina e non solo perché le piaceva stare in cucina, ma anche perché, essendo molto anziana non aveva gli impegni come ad esempio le mamme che hanno dei compiti da svolgere in casa come badare ai figli, cucinare per la famiglia, tenere la casa pulita, lavare i vestiti ecc. Soprattutto i piatti che lei cucinava avevano bisogno di persone come lei che hanno tempo, pazienza e resistenza agli odori. Le sue ricette erano quasi tutte sostitutive di altri ingredienti cioè andavano al posto di un altro ingrediente. Ad esempio la ricetta che vi descriverò, serviva per dare alle salse il gusto della carne. Ai suoi tempi infatti non tutti si potevano permettere di cucinare la carne ma solo ogni tanto perché costava cara. Così lei preparava questo piatto che veniva utilizzato nelle salse e che rendeva le salse più appetitose e così aiutava i bambini a mangiare di più perché per loro senza dubbio c’era la carne. 23
Lei prendeva dei semi di una pianta che si chiama LAMMADE. Li faceva bollire per circa 3 o 4 ore. Poi li lasciava riposare per due giorni. Li lasciava seccare 2-3 volte. Li macinava bene e poi li metteva a seccare al sole fino a che si seccavano. Da quel momento in poi non sono più semi, ma prendono il nome della ricetta che è: “MARI”. Da quel momento la conserva così! Fino al giorno che serve. Lei allora prende la quantità che le serve e la macina bene bene. Poi la mette nella salsa di Gombo o foglie di baobab. Viene chiamata salsa MARI (HOI MARI nella mia lingua che è la lingua PULAR) Ousmane Lasagne di Natale Il 24 dicembre si svegliava presto per iniziare a preparare tutto… La cucina di mia madre era fatta di una piccola varietà di piatti: con un marito dai gusti particolari e tre figli doveva riuscire ad accontentare tutti quanti nei pasti principali della giornata. […] Se durante l'anno creava pietanze velocemente, durante le festività metteva tutta se stessa per preparare le lasagne di Natale. Il 24 dicembre si svegliava presto per iniziare a preparare tutto. Era il periodo dell'anno che tutti aspettavamo solo per sentire il profumo di quel ragù che cuoceva nella pentola per ore, fatto con carne del macellaio di fiducia, verdure del contadino del paese, la sua passata di pomodoro preferita e delle spezie comprate. Nel momento in cui io e i miei fratelli sentivamo quell'odore accorrevamo in cucina, prendevamo un pezzo di pane e inevitabilmente assaggiavamo quel ragù paradisiaco. Intanto che il ragù era in preparazione io la osservavo da un angolino della porta destreggiarsi nel fare la sfoglia di pasta, con le uova che raccoglievamo nel pollaio di mia zia, la vedevo 24
mescolare ed impastare con tutta quella farina che volava per la stanza e sembrava neve che cadeva. Quando era il momento di tirare la pasta andavo ad aiutarla inserendola nella macchina per stenderla, diventava sempre più sottile e ricordo che la passavamo sul tavolo infarinato per poi andarla a tagliare a rettangoli e cospargerli di farina di semola per farli seccare un pochino. Creava poi una besciamella: in un tegame faceva scaldare il latte, a parte scioglieva il burro e una volta pronto veniva avvolto dalla farina; da lì iniziava a mescolare con una frusta fino a far diventare leggermente dorato il tutto, aggiungeva al latte scaldato un pizzico di noce moscata e lo versava delicatamente nell'impasto, mescolava e mescolava fin quando la salsa non si addensava ed era pronta. Infine arrivava il momento dell'assemblaggio. Io adoravo sistemare i vari strati di pasta, ragù, besciamella e formaggio grana grattugiato; strato per strato riempivamo 2-3 teglie stracolme lasciando per ultimo uno strato abbondante di formaggio che nel forno gratinava e colorava di bruno la besciamella. Una volta finito lo coprivamo con del cellophane e mettevamo le teglie in frigorifero per usarle il giorno dopo. Il fatidico giorno mi alzavo presto insieme a lei, accendevamo il forno e una ad una ci infilavamo le teglie. Intanto che cuocevano si preparavano le tavolate. Solitamente eravamo 10-15 persone tra zii e cugini. […] Subito la magia del Natale si faceva viva, i parenti iniziavano ad arrivare con i loro abiti da festa e delle lunghe pellicce, che ogni tanto andavo ad accarezzare, li aiutavo a farli sedere al proprio posto ed iniziavamo il banchetto. […] Tra una chiacchierata, e qualche gioco per noi piccoli, arrivava il momento tanto atteso delle lasagne. Quando mia madre entrava dalla porta con le teglie in mano, tutti si giravano a guardarla e lo stupore prendeva il sopravvento: c’era chi rideva, chi gridava di volere la prima fetta e chi (come me) si alzava per distribuire i piatti. Inutile dire che delle teglie di lasagne non rimaneva nulla, tanto amavamo quelle lasagne così accuratamente preparate. 25
Il pranzo poi proseguiva con un’arrosto di vitello e patate che con fatica finivamo. Di solito prima del caffè di rito facevamo una pausa (aspettando anche il dolce), dove i miei zii con mio padre iniziavano a cantare delle canzoni di Natale (povere le nostre orecchie!) mentre le mie zie e mia madre ridevano come matte nel guardarli. Io con i miei fratelli e cugini iniziavamo lo spacchettamento dei regali, una delle parti più attese della giornata, e nella stanza si sentiva gioia, i più piccoli con i propri doni e i più grandi che aspettavano il caffè. Subito dopo il caffè arrivavano il pandoro e il panettone, accompagnati da cioccolata fusa e crema al mascarpone. Infine si faceva il brindisi per augurarsi buon Natale e subito dopo iniziavano i tornei di briscola e piattino. Puntualmente partivano schiamazzi su chi barava e chi no. Quelli che perdevano non lo accettavano e quelli che vincevano si pavoneggiavano. Nel tardo pomeriggio si andava a messa con tutta la famiglia e si giungeva poi alla cena, molto semplice, con ravioli in brodo (fatti in casa) ripieni di carne e qualche pezzo di carne avanzato dal pranzo. La serata finiva con noi piccoli seduti sul divano mezzi addormentati che venivamo trasportati dai nostri genitori nelle camere e i parenti che si complimentavano con mia madre per l’ottima cucina e salutavano, andando via pieni di cibo ma con il sorriso e il volto illuminato. Roberta Lesso di carne Ricordo con piacere le abitudini di quella famiglia patriarcale… I miei nonni materni facevano i contadini e io specialmente in estate andavo da loro a trascorrere la vacanze estive durante la chiusura della scuola. Ricordo con molta nostalgia quei periodi: tutti i giorni andavo con i miei nonni nei campi, il mattino presto si andava a prendere l’erba per le mucche. Arrivati a casa si 26
faceva colazione con la frutta di stagione: pesche, anguria, uva, frutta che coltivavamo noi. Ricordo con piacere le abitudini di quella famiglia patriarcale: la domenica e solo la domenica si mangiava sempre carne lessa, buonissima, e il brodo dove era stata lessata. La mattina presto la nonna faceva bollire nell’acqua la carne insieme alle verdure: carote, sedano, patate, cipolle. La carne veniva fatta bollire per almeno un paio d’ore. Quando era pronta veniva tagliata a fette e servita in tavola. Con l’acqua e le verdure dove aveva bollito si faceva un gustosissimo brodo, aggiungendo anche pasta o riso. Un’ottima minestra anche per la sera. Giovanni Lumache Mia nonna le faceva bollire per tre, quattro volte in acqua con sale grosso… Si prendevano dal fruttivendolo le lumache che erano tenute dentro una gabbia a spurgare con la farina. Mia nonna le faceva bollire per tre, quattro volte in acqua con sale grosso, cambiando ogni volta l’acqua finché non era bella pulita e non saliva più schiuma. Venivano fatte bollire ancora vive, nell’acqua si sentivano piangere. Una volta bollite il tempo necessario nonna le cucinava in padella con gli spinaci. Oppure le faceva “brunsù”, cioè condite con olio, sale, pepe e un po’ di limone. Un altro modo per cucinale era in forno dopo averle infilzate in uno spiedino insieme alla pancetta. Mia nonna mi raccontava che, in caso di gastrite o ulcera, faceva molto bene come cicatrizzante dello stomaco prendere una lumaca, toglierle il guscio senza ucciderla e ingerirla intera e cruda senza masticarla. Remo 27
Pane “Nonna, ma che buono!”… Mia nonna era sempre piena di vita, divertente e coccolona. Ci piaceva trascorrere il tempo insieme a lei. Mentre si occupava delle faccende domestiche riusciva a dedicare il tempo anche a noi, e si capiva che le faceva piacere avere la nostra presenza rumorosa. Ad altri magari dava fastidio quella nostra presenza rumorosa, ma a lei faceva piacere, come se il rumore non le desse fastidio quando veniva da noi. […] E’ sempre stata la miglior cuoca del mondo. E’ la persona che ha suscitato in me l’amore per la cucina. Oltre a mia madre, era l’unica che mi coinvolgeva dandomi dei giusti consigli riguardanti la preparazione delle sue ricette. Mi ha incoraggiato sempre a cucinare con uno spirito libero e come mi suggeriva l’intuito, seguendo il cuore. […] Le sue ricette le eseguiva a memoria, e non erano poche: faceva di tutto, dagli antipasti, ai primi, ai secondi, ai biscotti, al pane. Faceva il pane in casa tutte le settimane. Per preparare il pane ci impiegava quasi due giorni. Ad esempio d’inverno, quando faceva molto freddo, siccome teneva la farina nella dispensa, che era molto fredda, doveva portare la farina in cucina per tenerla al caldo fin dalla sera precedente. Verso la mattina procedeva con la preparazione del lievito che doveva far riposare due ore. Appena era pronto, iniziava a mettere sul tavolo tutto quello che le serviva: un contenitore grande di legno di forma rettangolare, confezionato dal suo padre, che si chiamava “covata” e che per lei aveva un valore inestimabile, che era fatto apposta per impastare, una spatola, un contenitore piccolo per la preparazione del lievito, un contenitore grande con l'acqua calda e una tazza grandicella che le serviva a versare l'acqua un po’ alla volta (con una mano versava l’acqua e con l’altra impastava), e poi gli ingredienti (farina, acqua, sale, lievito). Si organizzava anche con lo spazio per essere libera di muoversi mentre si occupava del pane, e verificava per avere tutto l’occorrente a portata di mano. 28
Fare il pane era un lavoro molto impegnativo e richiedeva tanto tempo, pazienza e buona volontà, che a mia nonna non mancava mai. Vedevo il suo volto allegro che sprigionava quell’aria positiva intorno a lei, mentre le sue mani iniziavano a impastare i tre ingredienti, lievito, acqua, farina. Impastava più di 10kg di farina con una forza e velocità di trecento cavalli! Io la osservavo con entusiasmo e mi chiedevo: “Questa donna così piccola e magrolina, da dove tira fuori tutta questa forza?” […] Quando l’impasto era pronto, […] iniziava a formare tante pagnotte giganti da 1,5kg/2kg all'una, poi faceva pane intrecciato rotondo a forma di ciambella. Formava delle palline, le allungava finché diventavano dei rotoli di circa 60 cm, e cominciava a intrecciarli ottenendo una treccia rotonda che metteva in forme fatte apposta per il pane e le lasciava lievitare. Questa fase di lavorazione delle trecce ci piaceva molto e partecipavamo molto volentieri. Siccome però, eravamo ancora troppo piccole per riuscire a fare le trecce come le faceva lei, ci faceva fare delle treccine piccole, oppure delle colombine. Venivano bene, ci faceva anche i complimenti. Per noi era come un gioco da bambini, mentre per la nonna era il modo per essere libera di andare avanti con il suo lavoro e nello stesso momento insegnarci a essere indipendenti rendendoci partecipi alle faccende dei grandi. Era il suo modo di farci crescere. Nel frattempo si occupava di accendere il fuoco nel forno a legna e di portarlo alla temperatura giusta. Era un forno grande e ci stavano 12 forme. […] Il più bel momento era quando sfornava il pane, perché si riempiva tutta la casa del profumo del pane e noi bambini abbandonavamo i nostri giochi e accorrevamo in cucina intorno alla nonna, e aspettavamo con ansia che appoggiasse le teglie sul tavolo e sistemasse il pane ancora caldo, o le altre prelibatezze, in un cestino o in qualche piatto, per poterle assaggiare. Mangiavamo tutti con gusto, e si sentivano solo i complimenti rivolti alla nonna: “Nonna, ma che buono!” E lei era tanto felice e già sazia vedendo noi contenti e soddisfatti. 29
[…] Quando sei piccola, non sei in grado di capire tante sfumature della vita, poi d'un tratto vedi la fortuna che hai avuto ad avere accanto a te delle persone meravigliose, preziose. Liuba Petulla Le Petulla erano anche uno dei piatti preferiti di mio nonno… Tantissimo tempo fa, quando andavo a trovare la mia nonna in Albania, mi ricordo che mi preparava molti piatti tradizionali, ma uno dei miei preferiti rimarrà sempre le "Petulla". Le Petulla sono anche un piatto di strada, infatti le trovi sempre ed ovunque, in qualsiasi piccolo negozio di alimenti o semplicemente nei panifici, ma meglio ancora in Albania puoi trovare questo pane anche nei bar per fare colazione. Ricordo come se fosse ieri che si svegliava presto la mattina per farli. La sua sveglia era il gallo che cantava; aveva (ed ha tutt’ora) una piccola fattoria con galline, tacchini, pecore, mucche e qualche maiale. Non le preparava in particolari periodi dell’anno o per qualche festività, dal momento che è un piatto semplice, ma gustoso, lo faceva spesso, soprattutto quando noi (i nipoti) andavamo a trovarla. Le Petulla erano anche uno dei piatti preferiti di mio nonno, infatti quando la nonna si svegliava per prepararli, il nonno andava a tagliare la legna per poter accendere la stufa a legna. Questa stufa veniva usata in quasi tutte le case albanesi per cucinare e scaldare la casa. Mi ricordo che mi mettevo vicino al nonno e cercavo di aiutarlo ad accenderla, ma quando capivo che non ci riuscivo […], andavo dalla nonna a vedere come preparava questo magnifico piatto. Prendeva una bacinella con dell’acqua tiepida, un po’ di farina, sale, olio e un uovo. Non usava mattarelli o altre attrezzature, faceva sempre tutto a mano ed io mi incantavo sempre a vederla 30
lavorare con quelle mani ormai stanche, ma che non mi hanno mai fatto mancare niente. Metteva sopra la stufa ormai calda una padella con dell’olio bollente, Le Petulla sono un piatto povero, che a fine preparazione si può consumare o con la marmellata, o col miele o con il formaggio feta per la farcitura. Il risultato finale per me è spettacolare, ed è stato un pezzo della mia infanzia (ma anche ora che sono grande, non me ne privo!), le Petulla si gonfiano e diventano dorate, una delizia per il proprio palato! Mi cucinava anche tanti altri piatti tradizionali, ma questo è in assoluto il mio preferito, ne vado proprio ghiotta! Belkisa Pirog (o torta di grano saraceno e patate) La domenica mattina mia nonna si svegliava sempre molto presto e prima di andare in chiesa preparava questa torta speciale… Ogni domenica mattina per me sembrava una vera e propria festa perché a pranzo la casa era profumata del “pirog” di mia nonna. La domenica mattina mia nonna si svegliava sempre molto presto e prima di andare in chiesa preparava questa torta speciale che ad un certo punto è diventata il rito di famiglia. Qualche volta da piccola mi è capitato di partecipare alla preparazione e notavo tutta la passione di mia nonna nonostante fosse a volte stanca e fossero le 6:00 del mattino. All’inizio andava nell’orto davanti a casa e prendeva le patate, le pelava e le lavava. A quel punto le metteva nell’acqua calda e salata e le faceva bollire. Poi prendeva del grano saraceno e lo faceva cuocere sempre nell’acqua calda e salata, dopo di che preparava un impasto semplice a base di lievito, acqua e farina. 31
Quando l’impasto era pronto mescolava le patate già schiacciate con il grano saraceno già cotto, aggiungeva sale pepe, e se ce n’era bisogno della farina. Divideva l’impasto in due parti, la prima veniva stesa su una placca e le patate e il resto venivano versate sull’impasto e con l’altra parte dell’impasto le ricopriva. Sopra l’impasto passava con dell’uovo sbattuto. Una ricetta semplice, che resterà per sempre uno dei piatti più buoni che abbia mai mangiato. Infornare il “pirog” era invece il compito di mio nonno: mentre mia nonna era in chiesa, il nonno calcolava tutti i tempi e lo sfornava sempre appena la nonna tornava a casa. Mio fratello ed io preparavamo la tavola e così, tutte le domeniche, la famiglia si univa a pranzo per questa torta così amata da tutti. Julyia “Plov”: pollo con riso e verdure Potevo mangiarne tonnellate di quel piatto e non solo perché era buono, ma anche perché era preparato da mia nonna… Quando ero molto piccolo i miei genitori si separarono e andarono in paesi diversi. Avevo l’età di 3 anni quando i miei genitori mi lasciarono con i miei nonni, mia nonna cuoca in mense di asili e scuole e mio nonno cuoco nell’esercito Moldavo. Fin da piccolo mia nonna mi preparava sempre piatti dal gusto unico, ma un piatto a base di riso e verdure con carne di pollo mi si è impresso nella mente più di tutti, forse perché la carne era quella dei polli allevati in casa da lei. Mia nonna aveva un orto molto grande dove seminava diverse verdure e un pollaio con un decina di galline e un gallo con cui non andavo molto d’accordo per alcuni episodi successi (per esempio quando a 5 anni entrai nel pollaio al mattino per prendere le uova appena deposte e appena entrai il gallo mi attaccò graffiandomi sulla schiena per difendere il suo territorio). 32
Lei tagliava il collo ai polli solo dopo che avevano fatto altri pulcini che a loro volta crescevano e si mangiavano quando crescevano e facevano altri pulcini. Quando mia nonna tagliava il collo a un pollo, chiedevo sempre con impazienza di prepararmi il piatto che piaceva tanto a me che si chiama "PLOV". Le emozioni che provavo quando mi preparava il piatto che volevo erano felicità e impazienza, perché come bambino ero molto viziato e quindi mia nonna, abbastanza severa, non esaudiva ogni mio capriccio. Per questo ero molto contento quando faceva qualcosa per me. I suoi piatti erano tutti eccezionali, ma questo era il mio piatto preferito perché aveva una carne succosa e morbida, che si sfilava facilmente dall’osso e un riso molto aromatizzato dal sugo di pomodoro e verdure prese direttamente dall’orto. Potevo mangiarne tonnellate di quel piatto e non solo perché era buono, ma anche perché era preparato da mia nonna. A 10 anni è tornata mia mamma e mi ha preso con lei in Italia così da poter iniziare una nuova vita quindi ora posso assaggiare i piatti di mia nonna solo quando vado in vacanza da lei. Igor Polpette con carne macinata e patate Mia nonna con queste sue polpette mi ha insegnato che ogni cibo si merita una sua seconda vita… Le polpette della nonna…anzi bis nonna. Mi ricordo quando le facevo con mia nonna nella sua cucina calda, dove andava sempre una grande stufa bianca e aspettavo con frenesia che l’olio arrivasse alla giusta temperatura per poterle friggere e poi mangiare. Metteva da parte, per giorni, avanzi di carne di svariati tipi, e li surgelava finchè non ne aveva una bella quantità. A questo punto arrivava il fatidico giorno di fare le polpette. Preparavamo tutti gli ingredienti sul tavolo: carne 33
precedentemente scongelata e poi tritata, patate lesse schiacciate, tuorlo d’uovo, formaggio grattugiato, sale, pepe e farina di riso. La ricetta era molto semplice: univamo tutti gli ingredienti, formavamo delle palline, passavamo nell’uovo, infarinavamo e poi friggevamo. Questa ricetta nonostante sia molto semplice suscita in me tanti ricordi ed emozioni, la mia nonna con queste sue polpette mi ha insegnato che ogni cibo si merita una sua seconda vita, che non bisogna buttare via nulla. Ho avuto la fortuna di avere al mio fianco mia nonna fino ai miei 12 anni d’età, pilastro fondamentale della mia infanzia e della mia crescita personale. Nonostante io faccia e rifaccia questa ricetta non riesce più nello stesso modo di quando le facevamo assieme, un mix d’amore e sapori che solo una nonna sa dare e creare. Giulia Sarmale Le foglie di uva le prendevo nell’orto. Dovevo stare attenta a prendere solo foglie più giovani, perché quelle più giovani sono molto buone e morbide… Mia nonna avrebbe voluto diventare insegnante di francese. C’era molta povertà a quei tempi, e così ha fatto la scuola alberghiera ed è diventata cuoca in una mensa scolastica. […] A casa preparava piatti tradizionali moldavi come […] le “sarmale”. E’ un piatto tradizionale moldavo ma anche degli altri paesi dell’est europeo, come Romania, Ungheria, Bulgaria, Serbia. Nel mio paese le “sarmale” si chiamano “Galusi” (galusci). Io partecipavo sempre volentieri alla preparazione di un pranzo o una cena della mia nonna. Mi piaceva molto stare con lei, darle una mano, anche se oltre ad aiutare mangiavo qualcosa. Le “sarmale” sono involtini di foglia di vite scottate in acqua salata. Le foglie di uva le prendevo nell’orto. Dovevo stare 34
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