Violenza domestica e maltrattamenti in famiglia - Anvu
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Quando i “panni sporchi” si lavano in casa Violenza domestica e maltrattamenti in famiglia Vice Commisario Gianandrea Serafin Comandante Servizio Polizia Locale di Cologna Veneta (VR) Criminologo La violenza nell’ambito delle relazioni familiari è sempre esistita, ma solo da pochi decenni si è arrivati a considerarla come uno dei crimini più dannosi e problematici, soprattutto in relazione al particolare rapporto che si instaura tra vittima e carnefice. Se solo fino a poco tempo fa, infatti, i “panni sporchi” dovevano rimare nell’ambito delle mura domestiche, oggi questo tema ha iniziato ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica, dei media e non da ultimo ha finito per essere sempre più spesso inserito nell’ambito delle politiche sociali e di sicurezza. Ciò non toglie che, comunque, la cronaca continui a proporci con scadenza quasi quotidiana fatti di violenza domestica – che sconvolgono il nostro paese – e che tal volta possono sfociare anche nell’omicidio di uno dei coniugi, suscitando nell’opinione pubblica sentimenti di terrore e di incredulità. Nonostante sia comunemente ritenuta una grave piaga sociale rileva il fatto che il tema della violenza familiare è ancora, troppo spesso, legato alla tendenza – purtroppo un primato tutto italiano – di negarla, probabilmente perché si tratta di qualcosa troppo vicino a noi e che ci incute timore, o semplicemente perché fa parte del nostro bagaglio socio-culturale. Basti pensare, infatti, che a partire dalla fine degli anni ‘60, nel nostro paese, il tema della violenza domestica è stato ritenuto un affare privato, naturale e che non può essere messo in discussione dalla società. Si riteneva, pertanto, che lo stato non dovesse invadere e condizionare la sfera privata dei cittadini, interessandosi di fatti che erano considerati come normali conflitti fra coniugi. Con gli anni ‘70 si poté assistere al mutare dell’opinione pubblica sul tema grazie anche alla diffusione dei movimenti femministi, per i diritti umani e la tutela dei minori che fecero sì che la violenza domestica fosse progressivamente ritenuta un crimine inaccettabile. Ad oggi comunque sono molti ancora i pregiudizi e gli stereotipi, di cui il tema della violenza domestica è contornato, che impediscono di riconoscerla appieno come forma di violenza. Questi aspetti critici alcune volte hanno a che fare con l’ignoranza, più speso con l’indifferenza del contesto sociale che circonda la vittima. Il fatto di “non voler vedere” è caratteristico della nostra società perché sembra persistere la difficoltà di accettare che la violenza esista e anzi che spesso sia a noi molto vicinanza. La tendenza da parte della società, infatti, sembra essere quella di rimuovere il problema, di disconoscerlo, non solo non parlandone ma anche non ammettendone l’esistenza. Emerge perciò la necessità di ritenere che si tratti di qualcosa di lontano, di altro da noi, e che non ci appartiene, ma che nella realtà dei fatti può essere molto vicino, come ci dimostrano i numerosi casi di cronaca giudiziaria. Antichi stereotipi e tristi realtà Il tema della violenza domestica risulta essere contornato da numerosi stereotipi, che nel tempo hanno alimentato l’impunità dei colpevoli. Infatti un primo stereotipo che a lungo ha tenuto banco sembra essere quello che vede la violenza domestica solamente come maltrattamento fisico, poiché forma di abuso maggiormente visibile, rispetto ad altre, e soprattutto che lascia delle tracce sul copro della vittima. In secondo luogo, è opinione condivisa ritenere che i soggetti che pongono in essere queste condotte provengano da contesti socio-culturali e familiari disagiati o comunque economicamente poveri e 1
marginali. Si tratta in realtà di un evidente stereotipo. Infatti è stato ampiamente evidenziato come la violenza domestica sia una condotta trasversale a tutti i ceti sociali e che non sia legata a particolari contesti culturali, economici, etnici o religiosi. Si ritiene, altresì, che le condotte di maltrattamento siano correlate all’assunzione di alcol o stupefacenti, da parte del maltrattante, e quindi frutto di sporadiche perdite di controllo: questo appare assolutamente errato poiché alcol e droghe sono sì fattori che possono influire nelle condotte violente, ma bisogna partire dal presupposto che ci si trova di fronte ad escalation di violenze reiterate nel tempo, che crescono di intensità e gravità e che non possono essere identificate in un solo ed unico atto. Un pregiudizio estremamente radicato è quello che vede il partner violento sempre nella figura maschile. Sul punto bisogna però evidenziare come una parte di tale responsabilità sia ad attribuire al contribuito dato dalle associazioni femministe le quali, seppur disvelandola piaga della violenza domestica, hanno concentrato la loro attenzione solo nell’individuare la figura del maschio quale unico autore dei maltrattamenti in ambito domestico. Va precisato, inoltre, che risulta essere opinione ricorrente anche quella di identificare la vittima come un soggetto emotivamente fragile, dipendente e insicuro, cresciuto all’interno di un clima familiare violento. Lo stesso vale nei confronti dell’offensore, il quale, i più lo vedono come un individuo proveniente esclusivamente da un clima familiare violento e disagiato. Si tratta di aspetti che hanno sì una rilevanza, ma non sono gli unici elementi fondanti la violenza domestica. La fragilità che si tende ad attribuire alla vittima, inoltre, è dovuta alle conseguenze dell’azione vessatoria patita e non la sua causa. Vi è poi la convinzione diffusa – che ha oscurato per anni le possibilità di studio della violenza in ambito familiare – della tendenza a sovrapporre i concetti di conflitto e di violenza, considerandoli con il medesimo significato. Il conflitto è una situazione tipica della coppia e che tutti conosciamo: discussioni, litigi, contrasti che possono essere letti in chiave relazionale e non come imposizione di controllo e di potere di un soggetto sull’altro. Nella violenza, invece, manca completamente la componente dello scambio relazionale; identificabile con tutta quella serie di azioni (o omissioni) che obbligano la vittima ad esperire una condizione di privazioni che possono implicare una lesione alla sua integrità fisica o alla sua dignità personale. Appare quindi erroneo ritenere, come sostenuto per lungo tempo anche dalla psichiatria, che esista un rapporto complementare tra vittima e reato. Infatti il binomio offensore violento e partner debole è dato da un pregiudizio che finisce per ridimensionare il comportamento del maltrattante nella sua gravità, di fronte ad una complementarietà della vittima: vittima che presenta una serie di caratteristiche che finiscono per giustificare il comportamento violento del maltrattante. Si ritiene, infine, che anche lo scetticismo di fronte all’eventualità che il maltrattante sia una persona per bene e/o colta, possa contribuire alla difficoltà della vittima nel far collimare l’immagine pubblica positiva del partner con quella privata negativa. Questo generale consenso che si respira nei confronti dell’offensore possono spingere la vittima ad interrogarsi sulle proprie responsabilità finendo spesso per auto-colpevolizzarsi. I volti della violenza Oggi qualsivoglia forma di violenza (soprattutto sulle donne), a prescindere dal contesto in cui avviene o dall’epoca storica, viene unanimemente riconosciuta anche come violazione dei diritti umani (Maloni, 2014). Ovviamente si rileva come la figura ed in particolare il ruolo della donna nel corso del tempo (soprattutto negli ultimi decenni) sono mutati notevolmente. Un tempo, infatti, la posizione della donna si distingueva per avere un ruolo marginale dalla vita sociale e politica (e talvolta ne era anche completamente esclusa). In tale frangente si poteva parlare di “presunta inferiorità” del ruolo femminile, e quindi qualsiasi forma di maltrattamento era comunemente accettato. Anche se il percorso compiuto dalle donne verso l’emancipazione non sembra essere riuscito a rimuovere totalmente l’egemonia simbolica della figura maschile – che rimane l’unico 2
modello sovrastante almeno in gran parte dei contesti sociali – oggi viene accettata una sessualità femminile svincolata dal matrimonio (Ibidem). Viene riconosciuto, infatti, il diritto delle donne a “governare” loro stesse ed avere uguali diritti con l’altro sesso. Quali cause? Secondo alcuni studiosi la violenza verso le donne, soprattutto quando avviene all’interno delle mura domestiche, sarebbe legata a forme di rottura della relazione e a crepe evidenti nella convivenza sociale fra i partner (Ibidem). Appare evidente, infatti, come molte persone siano sempre più propense, ad esempio, a ritenere la gelosia una forma di amore, ma quando questa travalica i confini dell’ossessione patologica, può essere considerata come una vera e propria forma di disagio mentale. Con l’emancipazione della donne, inoltre, sono anche venuti meno, rispetto al passato, quei riferimenti sociali, normativi e valoriali che un tempo erano punti fermi entro cui si riconosceva più facilmente la figura maschile. Come sostiene la psicologia Virginia Maloni, infatti, “oggi la vita coniugale è sempre più isolata, priva di una concreta comunicazione, dove nei silenzi hanno preso forma le patologie, le gelosie, quei percorsi mentali che alla fine diventano ondate di angoscia, placabile solo dall’idea di porvi fine con la violenza” (2014). Alla base delle relazioni sociali e affettive vi sarebbe quindi una idea confusa dell’amore che diventa così luogo di esclusione (invece che di condivisione) in una sorta di relazione di coppia disfunzionale. Il risultato di questa visione egoistica delle relazioni può dare adito a varie forme di violenza psicologica, fisica, economica, sessuale o comunque di sopraffazione di un soggetto nei confronti di un altro. Le forme della violenza La Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite (Vienna 1993) ha definito la violenza sulle donne come “… qualsiasi atto di violenza di genere che comporta, o è probabile che comporti, una sofferenza fisica, sessuale o psicologica o una qualsiasi forma di sofferenza della donna, comprese le minacce di tali violenze, forme di coercizione o forme arbitrarie di privazione della libertà personale sia che si verifichino nel contesto della vita privata che di quella pubblica …”. Come per altre forme perverse di relazione, infatti, anche nell’ambito della violenza domestica si possono diverse tipologie di condotta, così riassumibili: - Violenza fisica: è il tipo di violenza più evidente e proprio da questa visibilità ne deriva una maggiore condanna sociale. In questo tipo di condotte (botte, pugni, schiaffi, ecc.) rientrano, non solo l’esercizio della forza fisica, ma anche la minaccia dell’uso della forza e tutte le azioni che provocano terrore e paura per la propria incolumità fisica (urla, intimidazioni, spintoni, prendere a pugni il muro, od altri oggetti, mostrare un’arma, ecc.). Sono ricomprese in questa tipologia anche la somministrazione di farmaci, sonniferi e sedativi, soprattutto nel caso di bambini o soggetti più deboli; - Violenza psicologica: questa forma di abuso è la più subdola, impercettibile, ed estremamente dannosa. Ancora oggi permangono numerose difficoltà nel riconoscerla ed accettarne le conseguenze. Spesso si tende a sottovalutarne gli effetti ed a colpevolizzare la vittima asserendo che si tratta di una persona troppo sensibile o eccessivamente suscettibile. Talvolta si fa riferimento ad incompatibilità caratteriale o alla personalità fragile della vittima. Il maltrattamento psicologico ha lo scopo di distruggere moralmente la vittima, di obbligarla a soccombere emotivamente e psicologicamente rispetto alla volontà, al bisogno di potere e di controllo del carnefice. Le forme di maltrattamento comportano una serie di 3
azioni fra cui: insultare, minacciare, aggredire verbalmente, umiliare in pubblico, ridicolizzare, non far sentire la persona all’altezza, e privarla della fiducia in se stessa. Vi sono poi altre modalità subdole e irriconoscibili come il silenzio, l’isolamento, e la strumentalizzazione dei figli (soprattutto nel caso di separazione o divorzio); - Violenza sessuale: per la persona è sempre molto difficile ammettere di essere vittima di abusi sessuali da parte del proprio partner. Generalmente vi è la tendenza a riconoscere come maltrattante solo la violenza da parte di uno sconosciuto. Tutta via numerose ricerche hanno accertato che l’intimità che si crea all’interno dei rapporti affettivi fa sì che sia una difficoltà ad accettare di aver subito un rapporto sessuale anche se non voluto. Infatti subire attenzioni sessuali mortificanti ed umilianti della propria dignità può rappresentare la possibilità di preservare con il proprio partner una sfera di intimità a fronte di una situazione sentimentale che si va via via deteriorando; - Maltrattamento di natura economica (c.d. Violenza economica): tanto diffuso quanto difficile da riconoscere da parte della stessa vittima. Questo a causa del fatto che in molte parti del Mondo distinguere, nell’ambito delle dinamiche familiari, la sfera affettiva da quella economica viene considerato disdicevole dal momento che entrambi questi aspetti dovrebbero concorrere a “creare” l’humus familiare: anche quando, come spesso accade, ci si trova di fronte a gravi e dannose forme di sfruttamento economico di uno dei partners, spesso giustificate dal concetto di “…ma tanto resta tutto in famiglia..”. All’interno della famiglia, infatti, si può verificare un impiego improprio o illecito delle proprietà o delle risorse economiche, da parte di un soggetto, mediante l’uso della forza, con minaccia, inganno, raggiro, o persuasione. LE CONSEGUENZE DELLA VIOLENZA Fisiche Sessuali e riproduttive Psicologiche e comportamentali Estreme o letali - lividi - infiammazioni pelviche - depressione - suicidio - abrasioni - disfunzioni sessuali - ansia - omicidio (precipitazione vittimologica - lacerazioni - disturbi ginecologici - senso di vergogna da vittima a carnefice). - fratture infertilità - senso di colpa - danni agli organi - sterilità - fobia interni - impotenza - attacchi di panico - fibromialgie - gravidanze indesiderate - disturbi dell’alimentazione - disturbi gastrici e - malattie sessualmente - disturbi del sonno intestinali trasmissibili - perdita dell’autostima - danni oculari - abuso di alcol o droghe - disturbo post-traumatico da stress - disturbi psicosomatici, comportamenti sessuali a rischio, psicosi - disturbi di personalità Perché chi è vittima non se ne va? La violenza domestica si prefigge lo scopo di mantenere l’asimmetria di potere all’interno della relazione di coppia. Infatti mediante abusi fisici, psicologici e talvolta economici, l’aggressore cerca di sopraffare l’altro, approfittando della relazione di fiducia che si è instaurata tra i due all’interno della coppia. Da recenti studi, infatti, si è potuto appurare che le più comuni strategie di abuso sono volte all’isolamento progressivo, e spesso impercettibile (almeno all’inizio) della vittima, dalle sue reti sociali, famigliari, amicali e lavorative. Vi sarà poi la necessità di mettere in atto forme di controllo ossessivo e ripetuto di qualsiasi fase della vita della vittima, mediante il monitoraggio dei luoghi, delle persone frequentate, degli orari, ecc. Una volta che la vittima si trova isolata, e quindi maggiormente indifesa, infatti, sarà più facilmente controllabile. Inizierà pertanto una successione di comportamenti violenti nei suoi confronti che può iniziare con conflitti apparentemente di scarsa gravità (prevaricazioni verbali, offese, insulti, ecc.) fino ad arrivare a violenze con gravi 4
conseguenze sul piano fisico e psicologico. Dopo questa escalation di violenza vi sarà un apparente ritorno alla “normalità”. L’aggressore dirà di essersi pentito, si scuserà, dirà di non farlo più e chiederà di essere perdonato. Non si tratta però di una assunzione di responsabilità della violenza, poiché questa verrà scaricata su altri fattori esterni, quali problemi di lavoro, incapacità della donna di gestire/educare i figli, problemi coniugali, atteggiamento troppo disinibito della donna e che provoca gelosia, ecc. L’ambivalenza relazionale, tra la parte “buona” e quella “cattiva”, dell’aggressore renderà estremamente difficile per la vittima poter uscire (da sola) dal ciclo della violenza. Si tratta ovviamente di difficoltà date dalla discontinuità della condotta dell’uomo, che passerà da forme di possessività estrema e violenta ad atteggiamenti assolutamente amorevoli e pieni di attenzione nei confronti della propria donna. In molti casi la vittima stenterà a riconoscere la gravità e la pericolosità della situazione che sta vivendo. Questa difficoltà a riconoscersi come vittima, infatti, dipende dal fatto che esistono sentimenti naturali di fiducia nell’altro che uniti al vincolo d’amore non gli permettono di “leggere” la situazione che sta vivendo. Va precisato, altresì, che la violenza domestica solitamente non esplode dall’oggi al domani e tanto meno nella sua massima intensità, ma si tratta sempre di dinamiche relazionali complesse che hanno uno sviluppo graduale che tende ad amplificarsi e intensificarsi nel tempo. La psicologa americana Leonor E. Walker nel libro “The Battered Women” (2000) esaminò per la prima volta quello che ha definito come “Ciclo della violenza”. Il ciclo della violenza non è una teoria eziologica della cause che stanno alla base della violenza domestica, ma intende piuttosto essere un’analisi delle dinamiche attraverso le quali la violenza domestica si insidia nella coppia, tende a radicarsi e poi mano a mano ad intensificarsi. In particolare la Walker ha analizzato tre momenti essenziali (o fasi) nello sviluppo di queste dinamiche: 1. Fase della tensione crescente: si tratta di una serie di conflitti relazionali all’interno della coppia e legati all’assenza di comunicazione che può sconfinare in una serie di abusi verbali e/o psicologici. La vittima quando sente che sta arrivando la crisi cerca di fronteggiarla prima mostrandosi accondiscendente, comprensiva, abbassando la testa e poi, nel momento in cui la crisi tenderà ad aumentare di intensità, minimizzando le incomprensioni. A fronte del comportamento remissivo della vittima l’aggressore diventerà più intransigente ed autoritario cercando di dominare l’altro con tutti gli strumenti di cui dispone. Il vero problema, secondo l’autrice, è che questa fase può prolungarsi per alcuni giorni, o addirittura mesi, e che l’esito conclusivo è lo scoppio della violenza; 2. Scoppio della violenza: l’evoluzione in negativo della fase della crisi può dar luogo ad una serie di maltrattamenti veri e propri (“acute battered”) durante la quale la vittima subisce la violenza passivamente o con difficoltà di reazione. In questa fase si arriva alle violenze fisiche vere e proprie, spesso con conseguenze molto gravi; 3. Luna di miele: esaurita la carica aggressiva l’aggressore tornerà dalla vittima per scusarsi di ciò che è accaduto, dicendole che non accadrà più e dimostrandole il suo ravvedimento. Per un periodo sarà estremamente disponibile, amoroso e preoccupato nei confronti della partner, mostrando tutta una serie di attenzioni che fanno pensare ad un vero e proprio corteggiamento (per questo che viene definita fase della luna di miele). Per la vittima sarà quindi estremamente difficile decidere di andarsene perché alle prime due fasi di umiliazione, di sofferenza, seguirà una terza in cui le sembrerà di ritornare ai tempi in cui tutto andava bene. Da lato la vittima soffrirà per il dolore psicologico e fisico che ha patito, dall’altro lato tenderà a continuare a fidarsi del partner, credendo che tale situazione non si ripeterà più in futuro. Ovviamente la realtà è che, come dimostrato dalla studiosa americana, queste fasi si ripeteranno 5
ciclicamente. Alla fase della luna di miele subentrerà l’inizio di una tensione crescente in cui la vittima verrà nuovamente umiliata e tenderà a sottomettersi e minimizzarne gli effetti. Il dato temporale della ciclicità degli abusi, sottolineato dalla Walker, ci spiega perché si manifesta la tendenza delle vittime di violenza domestica a non riuscire ad uscire dalle situazioni di abuso, poiché in qualche modo ne rimangono bloccate. Il concetto di “vittima bloccata” ovvero di soggetto che tende continuamente a dare fiducia al proprio aggressore anche sapendo che questa fiducia potrà essere a breve tradita, infatti, ci suggerisce il perché nonostante i tanti abusi subiti queste vittime non riescano ad abbandonare queste relazioni perverse (Saponaro, 2004). La durata, oltre all’intensità, delle fasi può variare a mano a mano che si riproducono nel tempo: mentre all’inizio le fasi conflittuali hanno una maggiore durata e la violenza risulterà essere sì un atto grave, ma di limitata intensità, con il tempo si potrà verificare il contrario. Infatti la difficoltà della vittima nel riconoscere i sintomi di quello che le sta avvenendo in modo da interrompere la relazione è correlata proprio a questa spirale nella quale si trova ad essere del tutto impotente ed in balia del suo carnefice. Inoltre è stato evidenziato come a lungo andare nelle vittime di violenza domestica si possono sviluppare forme di “giustificazione” della condotta subita anche detti meccanismi difensivi o strategie di coping (fronteggiamento). Questi sono: - Negazione degli eventi: consiste nella negazione volontaria degli aspetti che provocano sofferenza, ansia, o dolore. Può portare alla distorsione della percezione, interpretazione, valutazione della gravità del fatto. Questa distorsione può essere consapevole – quando la vittima sa di essere dipendente dal maltrattante in termini economici, fisici e materiali (negli anziani), al punto che non riesce ad immaginare una via d’uscita – o anche involontaria (nei minori) quando serve a lenire l’intensità e la gravità del trauma subito. - Minimizzazione degli eventi e degli effetti: è uno dei meccanismo difensivo più comune che consiste nel riportare il trauma per gli eventi patiti ad un vissuto accettabile perché normale, comune anche ad altre persone e non in grado di minacciare realmente la propria integrità. - Mantenimento entro il privato della violenza: meccanismo che fa perno sulla vergogna che consegue alla violenza patita. La vergogna, infatti, è un sentimento che paralizza e spinge all’isolamento. Il riconoscersi come vittima significa percepirsi come falliti, e dover procedere al riconoscimento del fallimento che è intervenuto nell’esercizio del proprio ruolo sociale. Il disordine familiare, quindi, deve essere in qualche modo protetto dallo sguardo esterno perché una sua pubblicizzazione provocherebbe un’ulteriore calo della propria autostima, con conseguente altra vergogna. - Go and stop: la vittima immagina di andarsene da una situazione di abuso e ha l’intenzione di farlo, senza però procedere di fatto all’azione. È forse il meccanismo più impiegato nelle vittime di violenza domestica. Questa è una modalità psicologica raffinatissima perché permette di sopportare meglio la violenza, immaginando che questa prima o poi cesserà. La vittima non decide mai di andarsene perché nel frattempo continua a cercare alternative per ricucire lo strappo, per ricreare una comunicazione con il partner violento offrendogli nuove chance per ricostruire il rapporto. - Sopravalutazione delle proprie forze: nasconde in realtà la scarsa importanza che la vittima attribuisce a se stessa e alla propria sofferenza. Ella si immagina come una persona particolarmente forte, capace di resistere, tollerare, di far fronte ad un clima familiare conflittuale. Chi non riesce ad occuparsi di sé, a misurare la propria sofferenza e la gravità che questo comporta è bloccato e non può riesce a vedere altre vie di uscita a tale situazione. Questo meccanismo è tipico delle situazioni in cui vi è un padre che abusa e maltratta tutti i componenti della famiglia ed una madre che, in nome ad esempio dell’unita familiare o della vergogna che ne potrebbe conseguirne, spinge comunque i figli a sopportare le violenze. 6
- Maternage nei confronti del partner violento: è tipico di molti contesti socio-culturali tra cui quello italiano. Si riferisce solitamente alle doti di accoglimento, comprensione e riconoscimento tipiche dell’universo femminile, che guardano al partner come un soggetto debole e problematico, che per questo va aiutato e compreso. La persona che patisce la violenza anziché cercare di reagire, si fa muovere dalla compassione per la sofferenza altrui (dell’abusante). Nell’autore della violenza, inoltre, possono svilupparsi i seguenti meccanismi difensivi: - Negazione degli eventi: modalità grave che pregiudica ogni intervento socio-culturale perché nega la presa di coscienza rispetto ai fatti. La completa negazione consiste in una rimozione del problema che fa perno sulla completa deresponsabilizzazione del maltrattante; - Normalizzazione delle condotte violente: la famiglia e le relazioni di coppia vengono visti come ambiti privati in cui viene esercitato il dominio di un soggetto a fronte della passività degli altri. Si ritiene che questo sia un meccanismo normale, legittimo di relazione familiare. La violenza in questo contesto assume i connotati di uno strumento educativo, per salvaguardare l’unità o l’onore della famiglia. - Violenza come peccato veniale: l’episodio violento viene attenuato nella sua gravità mediante un parziale riconoscimento. Questo riconoscimento può avvenire quando l’aggressore si trova in presenza dei servizi sociali o delle forze dell’ordine ed è costretto a confessare ciò che ha fatto, soprattutto se è stato colto sul fatto. Il soggetto arriva ad ammettere la gravità di quello che ha fatto, si mostra pentito e cerca di costruire un’immagine positiva di sé ad uso e consumo degli altri. Si tratta di un meccanismo subdolo volto a rassicurare gli altri e la vittima rispetto all’occasionalità di determinati fatti, e spesso la vittima stessa se ne convince. - Attribuzione delle responsabilità all’altro: considera l’aggressività posta in essere come reazione alla provocazione dell’altro. La vittima viene reinterpretata dal suo carnefice come la reale causa del proprio comportamento violento. Questa giustificazione può avvenire sia all’interno delle dinamiche familiari sia in presenza di osservatori esterni. Perché le vittime non denunciano? Il dati ci suggeriscono che purtroppo sono sempre di più le donne che subiscono violenze di vario genere e che spesso non trovano il coraggio di denunciare. Ad oggi il numero di donne che non parla con nessuno della propria condizione di disagio è ancora molto alto, si parla del 33,9% che subisce violenze dal partner e del 24% subisce violenze da un estraneo. Le motivazioni che spingono al silenzio possono essere diverse: il 64,3% per scarsa gravità della violenza subita; il 5,8% perché il fatto viene considerato come privato; il 8,3% per volontà che il partner non venga arrestato; il 4,9% per il timore delle conseguenze; il 4,1% per timore o imbarazzo; e ancora per senso di colpa, per il bene dei bambini, o per l’eventuale fine della relazione, ecc. Inoltre secondo alcune ricerche criminologiche il profilo di una potenziale vittima vede il connubio di fattori quali l’età, la condizione fisica, precedenti abusi subiti, presenza di disturbi mentali, la tendenza ad assumere condotte imprudenti e/o provocatorie, forme di sessualità promiscua, violenta e/o parafilie, l’uso/abuso di alcol o droghe, il livello di istruzione e l’eventuale status socio- economico (Carillo, 2012). Tra i vari aspetti da considerare vi è poi quello relativo al fatto che se la vittima si è ormai abituata a vivere in un contesto di violenza è molto probabile che abbia imparato a sopportarla (vittimizzazione cronica). Questo purtroppo la potrà portare a sottostimare l’effettiva gravità della situazione con il rischio di essere esposta costantemente a maltrattamenti da parte del partner (Ibidem). 7
Fra le strategie per aiutare una persona vittima di violenza domestica ad uscire dal circuito del maltrattamento vi è sicuramente quella di spingerla alla denuncia del partner o chiunque altro abbia compiuto tali violenze. Innanzitutto è necessario che ella prenda consapevolezza di sé ed arrivi ad ammettere di convivere con un partner violento, riconoscendo di aver subito una qualsivoglia forma di violenza. Da alcuni anni, inoltre, sono stati istituiti nel territorio italiano i Centri anti-violenza i quali offrono una serie di servizi alle donne vittime di violenza, mediante interventi sanitari, psicologici, giuridici ed economici, e che nei casi più estremi ed urgenti possono valutare il ricorso all’allontanamento della vittima dalla propria abitazione e la collocazione in case protette. Normativa e aspetti salienti per la polizia giudiziaria La legge 154 del 2001, diversamente da quanto avveniva in passato, ha spostato l’attenzione sul soggetto che patisce le condotte violente in ambito familiare. Questa norma, infatti, ha previsto una serie di strumenti innovativi che permettono di contrastare nell’immediatezza dei fatti e nel lungo periodo la condotta di violenza domestica e in secondo luogo ha permesso di introdurre una serie di strumenti capaci di garantire una rapida ed efficace tutela della vittima. In realtà questi aspetti erano già presenti anche se in misura limitata negli art. 570 (Violazione degli obblighi di assistenza familiare), art. 571 (Abuso dei mezzi di correzione o disciplina) e art. 572 (Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli). Gli articoli del codice penale, che già prevedevano una serie di riferimenti al contrasto dei casi di violenza familiare, erano però maggiormente incentrati sulla definizione della condotta delittuosa, ovvero, enfatizzavano gli elementi che configurano le condotte delittuose innanzitutto nella presenza di maltrattamenti (sofferenza, mortificazione che vengono inflitte alla vittima), in secondo luogo nella abitualità della condotta (percezione come normale, intrinseca alle dinamiche familiari entro certi contesti), e in terzo luogo nella reiterazione delle condotte stesse. Con la novella n. 154 del 2001 si introdussero quindi una serie di strumenti volti a contrastare la violenza domestica nell’immediatezza del fatto e nel lungo periodo mediante una serie di strumenti volti a garantire la tutela della vittima. Tra questi il legislatore introdusse una serie di strumenti a carattere processuale a tutela degli abusi per evitare la reiterazione degli stessi e alcune misure coercitive fondamentali: - Il giudice per le indagini preliminari ha l’obbligo di disporre l’obbligo di lasciare immediatamente la casa familiare e non farvi ritorno; - Nelle fasi ulteriori del procedimento il giudice può giungere ad autorizzare colloqui e visite periodiche tra il maltrattante e gli altri soggetti del nucleo familiare compatibilmente con le esigenze di cura se siamo in presenza di figli preso esame però del contesto familiare e del grado di conflittualità presente; - Il Giudice può prescrivere all’imputato, nei casi di gravissimo maltrattamento, di non avvicinarsi ai luoghi normalmente frequentati dalla vittima al fine di tutelare l’incolumità delle persone offese (non solo la vittima ma anche il nucleo di soggetti con i quali essa viene a relazionarsi). In passato, infatti, non era rado, che dovesse essere la vittima a dover lasciare il tetto coniugale, che rimaneva in possesso del maltrattante fino a quando non venisse condannato con sentenza definitiva. Fu per questo che negli anni ‘70, sulla base di una nuova sensibilità, nacquero numerose associazioni a tutela delle vittime della violenza intrafamiliare oltre alle cosiddette case rifugio, strutture volte ad ospitare le donne vittime di violenza familiare e i loro figli. Bisogna però precisare un dato estremamente importante. Queste misure devono essere applicate con cautela perché possono tramutarsi in un’arma a favore di un soggetto nel tentativo di ricavare un profitto discapito dell’altro. Non è raro, infatti, che in caso di separazione o divorzio un soggetto possa arrivare a dichiarare falsamente di aver subito un maltrattato o che i figli lo abbiano subito. 8
Il giudice, quindi, nel può disporre l’allontanamento del coniuge dal tetto coniugale dovrà fare particolare attenzione al fine di evitare che tale misura sia utilizzata in modo strumentale da una parte a discapito dell’altra per appropriarsi dell’abitazione familiare. Un altro aspetto innovativo della citata legge consistette nell’introduzione di una misura provvisoria a contenuto patrimoniale che permette al giudice penale di esercitare funzioni del tutto simili a quelle esercitabili in ambito civile. Con tale norma se a seguito dell’allontanamento dall’ambito familiare del coniuge violento, la vittima e magari i suoi figli restano privi dei mezzi necessari al loro sostentamento il giudice potrà disporre loro un assegno periodico definendone modalità e termini. Il Giudice potrà, altresì, disporre che l’assegno sia versato direttamente dal datore di lavoro della parte maltrattante, mediante trattenuta direttamente dalla busta paga. Vi sono poi ulteriori aspetti salienti della norma che riguardano caratteri socio-culturali: per la prima volta, infatti, venne posta attenzione anche alle coppie di fatto, anche se ciò non comporterà un riconoscimento giuridico della convivenza ma la mera accettazione dei mutamenti avvenuti nella nostra società. Furono, inoltre, previste tutta una serie di sanzioni per coloro i quali commettono violenza in ambito familiare – indistintamente dal genere – ma vennero recepite dal legislatore le indicazioni provenienti dall’ambito criminologico e vittimologico relative al fatto che il soggetto maltrattante all’interno di un nucleo familiare può essere chiunque. Si riconobbero, quindi, una pluralità di vittime: accanto a quelle tradizionali (donna, moglie, figli) anche l’anziano parente, il genitore, il maschio. Fu riconosciuta, infine, la possibilità di richiedere l’intervento dei servizi sociali del territorio o dei centri di mediazione familiare al fine di acquisire assistenza e aiuto per le vittime di questi reati. In Italia per la prima volta si ebbe un riconoscimento ufficiale dei centri di mediazione familiare che prevedono l’incontro della vittima e dell’autore del reato con la presenza di uno o più mediatori per cercare di indagare i problemi della coppia che hanno portato al maltrattamento. Su punto è bene però precisare che il maltrattamento in ambito domestico non può sempre essere identificato in termini di conflitto intrafamiliare ma di violenza il che rimanda ad una logica di disparità di potere all’interno della relazione benché patologica tra le parti coinvolte e per questo non è sempre possibile pensare ad un approccio di mediazione familiare se non in seguito ad un percorso terapeutico (Vezzadini, 2001). Con l’emanazione della Legge n. 172 del 2012 il Legislatore ha proceduto alla nuova formulazione dell’art. 572 c.p. ora rubricato in “Maltrattamenti contro familiari o conviventi” Art. 572 C.P. Maltrattamenti contro familiari o conviventi Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da due a sei anni. [La pena è aumentata se il fatto è commesso in danno di minore degli anni quattordici.] Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni. Il reato di cui all’art. 572 c.p., inserito al capo IV del titolo XI e avente ad oggetto i delitti contro l’assistenza familiare, si contraddistingue dal fatto che l’offesa viene originata all’interno del gruppo familiare. Nello specifico la norma vuole qui salvaguardare il legame giuridico tra persone appartenenti alla stessa famiglia o ad un vincolo ad essa assimilabile. Si tratta, inoltre, di un reato proprio in quanto può essere commesso solamente da persone avvinte da un particolare vincolo nei confronti del soggetto passivo. La norma si basa, infatti, sulla centralità che assume lo stabile vincolo affettivo ed umano da proteggere contro fenomeni di sopraffazione. Questo può discendere, oltre che da relazioni familiari, anche da un rapporto di tipo autoritario, derivante dallo svolgimento di una professione, di un’arte o relazioni di cura e custodia. 9
Il delitto di maltrattamenti è comunque un reato abituale proprio, caratterizzato cioè da condotte sovente lecite, che assumono carattere illecito in ragione della loro durata. Queste condotte possono essere sia di tipo commissivo sia omissivo, come nel caso in cui nel caso sussistano in capo al soggetto agente dei doveri di protezione. Il dolo è generico, e consiste nella coscienza e volontà di infliggere sofferenze alla vittima. Infine si rappresenta come il delitto di “Maltrattamenti contro familiari o conviventi” assorba reati ultronei come quello di ingiuria (art. 594 c.p.), percosse (art. 581 c.p.), minacce (art. 612 c.p.), o lesioni personali lievi o lievissime (art. 590 c.p.), se a titolo di colpa. Quando le lesioni sono volontarie i due reati concorrono (art. 582 c.p.). Non vengono, invece, assorbite le lesioni personali gravi o gravissime, se commesse a titolo di dolo, e nemmeno l’omicidio (art. 575 c.p. o art. 577 c.p. se aggravato). Se, per contro, le lesioni gravi o gravissime o la morte sono conseguenza non voluta dal soggetto agente, si applicano le aggravanti di cui al secondo comma dell’art. 572 c.p.. Con il D.L. n. 93 del 2013, inoltre, il legislatore italiano ha deciso di inasprire le pene nei casi di maltrattamento in famiglia in presenza di minori di 18 anni. Ovvero nei casi in cui la violenza sessuale è compiuta su donne in gravidanza e se il fatto è commesso contro il partner o il coniuge anche se divorziato o separato. Viene, inoltre, ampliato il raggio d’azione delle situazione aggravanti (ad esempio lo Stalking ex art. 612-bis c.p.) estendendole al coniuge (quindi di fatto al vincolo matrimoniale) o a chiunque le metta in atto con strumenti informatici e telematici. Viene, altresì, sancita l’irrevocabilità della querela presentata dalla parte offesa se gli atti persecutori sono commessi con gravi e ripetute minacce come ad esempio con le armi. Appare di particolare interesse per il ruolo della polizia giudiziaria sottolineare che con le recenti modifiche normative è stata inserita l’ipotesi dell’arresto in flagranza nei casi di maltrattamento in famiglia. Un ulteriore aspetto di sicuro rilievo è dato dalla possibilità di acquisire la testimonianza di persona particolarmente vulnerabile (sia minorenne che maggiorenne) attraverso modalità cosiddette protette, al fine di meglio tutelarne l’integrità. Nei casi di particolare gravità, inoltre, il Pubblico Ministero può altresì chiedere al Giudice un provvedimento inibitorio urgente per il maltrattante: come il divieto di avvicinarsi ai luoghi frequentati dalla vittima (art. 282-ter c.p.p.) o la misura dell’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare disciplinato dall’art. 384-bis c.p.. Tale misura, come del resto le novità apportate attraverso il provvedimento legislativo che la introduce, trova causa nel «susseguirsi di eventi di gravissima efferatezza in danno di donne e il conseguente allarme sociale che ne è derivato» e si sposa con l’intendo di anticipare la «tutela delle donne e di ogni vittima di violenza domestica». Secondo la norma infatti: «Gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria hanno facoltà di disporre, previa autorizzazione del pubblico ministero, scritta, oppure resa oralmente e confermata per iscritto, o per via telematica, l’allontanamento urgente dalla casa familiare con il divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa, nei confronti di chi è colto in flagranza dei delitti di cui all’articolo 282-bis, comma 6, ove sussistano fondati motivi per ritenere che le condotte criminose possano essere reiterate ponendo in grave ed attuale pericolo la vita o l’integrità fisica o psichica della persona offesa. La polizia giudiziaria provvede senza ritardo all’adempimento degli obblighi di informazione previsti dall’articolo 11 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, e successive modificazioni. Si applicano in quanto compatibili le disposizioni di cui agli articoli 385 e seguenti del presente titolo. Si osservano le disposizioni di cui all’articolo 381, comma 3. Della dichiarazione orale di querela si dà atto nel verbale delle operazioni di allontanamento». 10
La vittima di violenza domestica, infine, è ammessa al gratuito patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito, così come disposto dal D.L. 14 agosto 2013, n. 93, convertito con modificazioni dalla Legge n. 119 del 15 ottobre 2013. Cosa da non dire alle vittime di violenza “non è niente di grave … di importante … è solo un diverbio …!!!” “è tanto incredibile che non può essere vero …!!!” “sentiamo anche lui cosa ha da dire in merito” “cosa ci facevi a quell’ora…? in quel posto tutta sola …?” “perché resti con lui …?” “perché non lo denunci …?” Cose che sarebbe meglio non pensare Questa donna non è attendibilità … La violenza è legata a suoi problemi personali/individuali … La violenza è colpa sua … La violenza è stata solo un momento di perdita di controllo del partner Questa donna è pazza (oppure … è straniera … o … guarda come si acconcia/veste) ... per forza è stata violentata … È ubriaca … o drogata … ecc. Sono problemi loro (della coppia) … Riferimenti normativi D.L. 14 agosto 2013, n. 93, convertito con modificazioni dalla Legge n. 119 del 15 ottobre 2013– “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, recante disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province”. Legge n. 149 del 28 marzo 2001 – “Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, recante «Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori», nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile”. Legge n. 154 del 5 aprile 2001 – “Misure contro la violenza nelle relazioni familiari”. Legge n. 38 del 23 aprile 2009 – “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori”. Legge n. 172 del 1 ottobre 2012 – “Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007, nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno”. Bibliografia AA.VV, Il tuo nome è donna. Percorsi del femminile tra violenza e rinascita, Gruppo Editoriale L’Espresso, 2014. B. F. Carillo, Vittime silenziose, in Mente & Cervello, n. 88, aprile 2012. V. Maloni, Femminicidio: Aumento della violenza di genere, in AA.VV, Il tuo nome è donna. Percorsi del femminile tra violenza e rinascita, Gruppo Editoriale L’Espresso, 2014. A. Saponaro, Vittimologia. Origini, Concetti, Tematiche, Giuffrè Editore, Milano, 2004. G. Serafin, I reati contro la libertà sessuale. Aspetti giuridici e criminologici, in Il vigile urbano. Rivista di Polizia Locale, Maggioli Editore, n. 4/2013; G. Serafin, Sindrome di Stoccolma: L’amore perverso per il proprio carnefice, in AA.VV, Il tuo nome è donna. Percorsi del femminile tra violenza e rinascita, Gruppo Editoriale L’Espresso, 2014. 11
S. Vezzadini, La legge 154/2001 in tema di “Misure contro la violenza nelle relazioni familiari”: cosa è cambiato nel nostro Paese dopo la sua entrata in vigore?, in «Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza», vol. I, n. 2, Maggio-Agosto 2007, pp. 32-41. L. E. Walker, Battared Woman Syndrome, Springer-Verlag, 2000. Sitografia http://www.altalex.com/documents/news/2015/05/07/l-allontanamento-d-urgenza-dalla-casa- familiare-alcune-criticita https://www.brocardi.it/codice-penale/libro-secondo/titolo-xi/capo-iv/art572.html 12
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