Viaggio nella musica (pop)olare Remix, riappropriazione e resistenza nel 1794 - Musica Stampata

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Musica Stampata – Issue 2 (Aprile 2021)

Viaggio nella musica (pop)olare
Remix, riappropriazione e resistenza nel 1794

Di Sergio Taddei1

Abstract
Il corpus di chansons dedicato, nel corso del 1794, all’abolizione della schiavitù nelle colonie francesi
si rivela preziosa testimonianza della pratica del reimpiego melodico, una sorta di prima forma di
remix. La presente analisi si sofferma su due chansons (“La liberté des negres” e “Quel soleil
bienfaisant”), interpretando la genesi e la evoluzione della loro doppia vita quale canone per indagare
su una prerogativa fondamentale del paradigma musicale rivoluzionario.

È cosa nota che, dopo il 1789, molte formule retoriche dell’ancien régime sgattaiolarono sotto la
gonna della liturgia rivoluzionaria: strategie rappresentative del potere, elementi della ritualità
cattolica ma anche le più frivole mode di corte, sopravvissero nell’era repubblicana, spesso senza
altro travestimento che un nuovo nome. Esempio principe di tale sovrapposizione culturale è la
canzone rivoluzionaria. Tolti i rilevanti casi di melodie create ex novo, quali la “Marseillaise”, o
portate alla popolarità dall’impiego in ambito politico, come “Ça ira” e “La Carmagnole”, la
sterminata pletora di chansonniers prodotta tra 1789 e 1799 costituisce un inno alla pratica del
reimpiego melodico, fenomeno che nella storiografia musicale francese viene denominato timbre.2
Tale pratica costituisce una sorta di prima forma di remix e, come vedremo, porta con sé un analogo
potenziale creativo. La scelta degli accostamenti tra testi nuovi e arie preesistenti era determinata da
una serie infinita di fattori: la parodia, che a volte tracimava nello scherno (il noël “Allons, bergers”
come melodia per un inno alla esecuzione di Luigi XVI),3 lo sfruttamento di un’aria in voga (i
numerosi reimpieghi dell’aria di Malbrough),4 l’analogia metrica dei ritornelli.
        In alcuni casi ritengo tuttavia che tale scelta artistica prese le mosse da ragioni più profonde,
legate alla memoria del testo originario. Il corpus di chansons dedicato, nel corso del 1794,
all’abolizione della schiavitù nelle colonie francesi si rivela a mio avviso preziosa testimonianza di

1
  Sergio Taddei si è diplomato in Composizione presso il Conservatorio di Santa Cecilia di Roma (2017) e laureato nella
magistrale di Storia dell’Arte presso La Sapienza (2018).
2
  Non si tratta del timbro inteso come il carattere distintivo della fonte sonora, bensì di un’aria che poteva essere
riutilizzata, adattandovi di volta in volta testi differenti.
3
  “Allons, bergers” (“Andiamo, pastori”) era appunto un canto natalizio (o noël). Su tale melodia fu adattata una
chanson che celebrava la decapitazione di Luigi XVI durante la Rivoluzione francese.
4
  La cosiddetta “aria di Malbrough” era una canzone popolare francese dedicata alla morte di John Churchill, 1° duca di
Malborough (1650-1722). Uno dei suoi reimpieghi più famosi è nelle Nozze di Figaro (1778) di Beaumarchais.
2

quest’ultima dinamica. La mia analisi vuole appunto soffermarsi su due di queste chansons (“La
liberté des negres” e “Quel soleil bienfaisant”), interpretando la genesi e la evoluzione della loro
doppia vita quale canone per indagare su una prerogativa fondamentale del paradigma musicale
rivoluzionario. Si tratta di due casi per certi versi antitetici: dove la prima canzone nasce da un’aria
operistica, la seconda si trasforma da inno alla magnanimità del popolo francese a manifesto contro
l’oppressione da parte di quest’ultimo.
        Per condurre tale analisi è necessario ricostruire brevemente il dibattito dell’epoca sulla
schiavitù nelle colonie francesi. Nella Francia illuminista del tardo secolo XVIII, la questione
razziale, affrontata da un punto di vista sociale quanto biologico, divideva anche le frange più
progressiste della borghesia francese. Voltaire trattava delle facoltà intellettive degli africani
appaiandole a quelle di scimmie e elefanti, anch’essi capaci di memoria e sensibilità;5 Montesquieu
sentiva il bisogno di giustificare l’indolenza che veniva ritenuta un tratto distintivo di questi popoli
attraverso la nota teoria dell’influsso del clima sul carattere;6 il filosofo e orientalista Volney si ritenne
ancora più misericordioso nel sostenere che i lineamenti dei loro volti, così diversi dal canone estetico
dell’Europa settecentesca, fossero in realtà cristallizzati in una perpetua contrazione per il caldo.7
D’altro canto, il ruolo sempre più vitale rivestito dall’impero coloniale francese nel secolare scontro
egemonico con la Gran Bretagna aveva eretto l’ideologia razziale a religione dello schiavismo, ed è
superfluo ricordare quante delle fortune dell’alta borghesia francese fossero legate allo sfruttamento
della tratta atlantica degli schiavi.
        All’alba della Rivoluzione, l’energica ascesa in Europa di straordinarie figure di intellettuali
africani e afroamericani avrebbe contribuito ad una sempre maggiore riprovazione di simili
pregiudizi, ma la battaglia per un affrancamento della mentalità europea tanto da una pretesa di
superiorità morale quanto da una altrettanto riduttiva poetica del bon sauvage poteva dirsi solo
cominciata. Anche tra gli intellettuali contrari all’istituto schiavista e alla discriminazione razziale,
persisteva il dibattito sull’effettiva capacità di un individuo africano di coltivare una crescita spirituale
senza l’intervento del sistema educativo europeo, e sulla capacità di una comunità di neri di
autogovernarsi secondo la scienza legislativa dei conquistatori.
        Saranno, tra gli altri, due musicisti nativi delle colonie americane a portare l’attenzione su tali
tematiche: l’africano naturalizzato inglese Ignatius Sancho e Joseph Boulogne Chevalier de Saint-

5
  Voltaire, Traité de metaphysique, Oeuvres completes de Voltaire 32 (Gotha: chez Charles-Guillaume Ettinger, 1786),
p. 16.
6
  Charles Louis de Secondat Montesquieu, De l’esprit des loix (Genève: Barrillot & fils, 1748), l. XV.
7
  Constantin Francois Chasseboeuf de Volney, Voyage en Syrie et en Egypte, pendant les annees 1783-1785, vol. I,
(Paris: Desenne et Volland, 1787), p.74.
3

Georges, franco-guadalupense conosciuto come il “Mozart nero”.8 Quanto Sancho si guadagnò
l’ammirazione dell’Europa per la sua pacata ironia, Saint George ne nutrì l’immaginazione con le sue
prodezze atletiche e musicali.
        Nonostante l’enorme risonanza, persino tra i giacobini della prima ora non furono rare le
strenue opposizioni all’abolizione della schiavitù: emblematico il caso di Antoine Barnave, che sarà
allontanato dal club proprio per via della sua battaglia anti-abolizionista. Il dibattito sulla schiavitù
procedette senza conseguenze rilevanti sul piano pratico, nonostante gli appelli della Societè des amis
des Noirs, che tra il 1788 e il 1793 pubblicò numerosi testi contro la schiavitù e cercò di portare la
questione all’attenzione dell’Assemblea nazionale.
        Un evento decisivo ebbe luogo nell’estate del 1791: il 21 agosto, al termine di una cerimonia
voodoo, gli schiavi neri dell’isola di Saint-Domingue (oggi Haiti), all’epoca colonia francese,
insorsero contro la popolazione bianca, minacciando di consegnare l’isola agli spagnoli o agli inglesi.
Tale eventualità funse da catalizzatore per una decisione definitiva: la campagna abolizionista che ne
conseguì, pur non celando mai il fine di scongiurare la perdita della perla caraibica dell’America
francese, guadagnò alla causa francese un esercito di devoti haitiani da opporre alle forze di invasione.
        Fu così che si giunse, il 4 febbraio 1794 (o 16 piovoso 1794, secondo il calendario
repubblicano introdotto l’anno precedente), all’abolizione della schiavitù nelle colonie francesi.9 I
discorsi tenuti, durante la seduta della Convenzione nazionale in cui venne emesso il decreto, da Jean-
Baptiste Belley, deputato nero di Saint-Domingue, e dell’abbé Gregoire, uno dei fondatori della
Societé des amis de Noirs, vennero poi trasposti metricamente nelle strofe di molte delle canzoni
abolizioniste, come si vedrà.10 In particolare, il discorso di Belley testimonia come nella coscienza
dell’élite culturale coloniale la rivolta spontanea fosse già a un avanzato stato di inquadramento
politico, nonché di coerenza ideologica e progettuale, che avrebbe condotto in pochi anni
all’esperimento indipendentista di Toussaint Louverture (1743-1803), principale artefice della rivolta

8
  Ignatius Sancho (c. 1729-1780) fu scrittore, compositore e abolizionista. Le sue Letters of the late Ignatius Sancho, an
African. In two volumes. To which is prefixed, memoirs of his life, (London: J. Nichols, 1782), pubblicate postume,
ebbero grande risonanza, come anche le sue composizioni musicali. Joseph Boulogne Chevalier de SaintGeorges
(1739/1745-1799), compositore e violinista, combatté nelle fila della Légion de St.-Georges, reggimento dell’esercito
rivoluzionario composto di volontari neri.
9
  Il nuovo calendario repubblicano francese rientrava nell’ambito dell’operazione politica e culturale di distacco dalle
tradizioni monarchiche e clericali messa in atto durante la Rivoluzione. Tra le altre cose, ai mesi (tutti di 30 giorni)
vennero assegnati nomi relativi al clima e alle attività agricole, e si abbandonò la scansione settimanale, di origine
biblica, in favore di quella in “decadi”. È nello stesso contesto, e sulle stesse premesse, che si sviluppa il sistema
metrico decimale.
10
   Jean-Baptiste Belley (c. 1746-1805) fu un rivoluzionario, deputato e militare francese. Nato in schiavitù, riuscì ad
affrancarsi e intraprese la carriera politica. Anche dopo l’abolizione della schiavitù, combatté per l’uguaglianza dei
diritti per gli abitanti delle colonie; Henri Jean-Baptiste Grégoire (1750-1831), noto come l’abbé Gregoire, fu un prete
cattolico. Fondatore della Societé des amis de Noirs, lavorò alla costituzione civile del clero pur essendo contrario alla
“scristianizzazione” che caratterizzò gli anni centrali della Rivoluzione francese, seguendo un ideale di chiesa
indipendente sia da Roma, sia dagli ideali più irreligiosi dell’Illuminismo. Per questo motivo si batté per l’abolizione
della schiavitù e al tempo stesso si oppose alla condanna a morte di Luigi XVI.
4

degli schiavi haitiani del 1794 e delle conquiste successive. L’isola era infiammata da giornali come
Le créole patriote e proprio l’azione di tali periodici costituirà il medium principale della diffusione
della canzone rivoluzionaria parigina nelle colonie.11
        Due settimane dopo il varo del decreto, il popolo francese verrà posto nelle condizioni di
accogliere la memorabile decisione con la consueta serie di cerimonie pubbliche, attraverso le quali
lo stato si appropriava di quei contesti sociali che erano stati appannaggio del clero, di fatto
replicandone le modalità. La volontà di sostituzione della fede nazionale rivoluzionaria alla
confessione cattolica è esemplificata dalla trasformazione della cattedrale di Notre Dame a Parigi in
Temple de la Raison, nel quale si celebrarono appunto prima il culto della Ragione, poi quello
dell’Ente supremo. È in questa cornice che venne celebrata nel 1794 la festa per l’abolizione della
schiavitù dei neri, la quale ebbe come fulcro la lunga e accorata orazione del giacobino Anaxagoras
Chaumette.12 Ad accogliere festosamente le sue parole presenzia una folla di bianchi, neri e mulatti
le cui differenti pose e attitudini sono fedelmente riprodotte nei versi delle chansons di cui ci
accingiamo a trattare: un soldato nero innalza sulla spada il cappello con il tricolore; una donna
mulatta allatta il suo bambino. L’orazione tracciava un profilo storico sommario della pratica
schiavistica, ripercorrendo le tappe di una tragica degenerazione morale dell’umanità: la Rivoluzione
interveniva ora come l’arcangelo Michele contro i demoni dell’avidità e della corruzione, ristabilendo
l’ordine naturale delle cose, la libertà e l’uguaglianza dei primi uomini.

“La liberté des negres”

Pierre-Antoine-Augustin de Piis (1755-1832), conosciuto anche come “citoyen Piis”, era un membro
della piccola nobiltà e un brillante burocrate dell’ancien régime: il padre era un ricco possidente della
colonia di Saint-Domingue, e la familiarità con la situazione sociale delle colonie risulterà
fondamentale nell’adesione alla causa abolizionista. Essendo riuscito a evitare il servizio militare per
motivi di salute, completò a Parigi i suoi studi, trovando una insospettata passione per il vaudeville,
la più peculiare forma di opera comica della Francia settecentesca. Con un collega avvocato di simile
sensibilità, Pierre Yves Barré (1749-1832), allestì una fortunata serie di spettacoli e parodie, che gli
valsero la simpatia del popolo e della corte. Tale simpatia non fece che accrescersi dopo la
Rivoluzione: nel 1792 Piis e Barré fondarono un proprio teatro, il Theatre du Vaudeville, vera fucina

11
  Vedi Giulia Bonazza, «Le créole patriote (1792-1794): un ponte tra due rivoluzioni», Società e storia, 2016: 33–64.
12
  Pierre-Gaspard “Anaxagoras” Chaumette (1763-1794) apparteneva alla frangia rivoluzionaria più oltranzista e fu uno
dei fautori più ardenti della scristianizzazione. Il suo progressivo allontanamento dalle posizioni di Robespierre gli
costò l’accusa di essere un controrivoluzionario e la condanna a morte.
5

della tecnica del reimpiego melodico, creato appositamente per l’esecuzione di petites pièces mêlées
de couplets sur des airs connus (“piccoli pezzi con aggiunta di versi su arie conosciute”).13
        Negli stessi giorni, François Devienne (1759-1803), illustre flautista e cantore della
rivoluzione, dava alle scene nel vicino Théâtre Feydeau un’opera lirica destinata a notevole successo,
Les visitandines. In pieno clima di scristianizzazione rivoluzionaria, l’opera tesseva un ritratto assai
poco edificante di una comunità monastica femminile: l’irriverenza del libretto e la facile vena
melodica del compositore assicurarono una nuova vita, nel repertorio popolare, a vari brani del lavoro,
mentre un numero ragguardevole di trascrizioni di arie figurano nelle coeve raccolte per
clavicembalo, come si osserva nelle edizioni dell’anno 1797 del Journal de Musique di Amburgo.
Due anni dopo, in occasione dei festeggiamenti per l’abolizione della schiavitù, il citoyen Piis scelse
di intonare il suo inno a “La liberté des negres” su una romanza tratta da Les visitandines.
        Il fatto è noto e reso oggetto di recenti indagini musicologiche: tuttavia ritengo che non sia
stata sufficientemente posta in rilievo la profonda dinamica di questa selezione, operando un
confronto più serrato tra l’argomento dell’opera di Devienne e le strofe di Piis. Sotto l’apparenza
dell’innocente storia d’amore, il libretto di Deviene è un atto d’accusa contro il dramma delle
monacazioni forzate, uno dei cavalli di battaglia della propaganda repubblicana contro le istituzioni
monastiche. La musica popolare francese non era per altro nuova all’argomento: uno dei più celebri
noëls barocchi, “Une jeune fillette”, era infatti stato concepito sulla melodia di una fortunatissima
canzone rinascimentale italiana, nota come “La monica”, che narra la storia di una giovane costretta
a prendere i voti. L’aria scelta dallo chansonnier rivoluzionario ha in particolare per ritornello
“daignez m’épargner le reste” (“degnatevi di risparmiarmi il resto”) e racconta di una giovane monaca
sedotta con l’inganno da un abate dissoluto: in essa convivono il rimpianto di un amore negato e la
disillusione riguardo l’integrità degli uomini di fede.14
        La duplice accusa di oppressione e inganno avanzata dal librettista de Les visitandines è
trasferita dal Piis in contesto schiavista: il parallelismo tra le giovani donne rinchiuse per interesse
economico tra le mura dei conventi e gli africani condotti in catene nelle piantagioni americane, un
racconto atroce intervallato da pietosi “daignez m’épargner le reste”, non sarebbe certo passato
inosservato in una folla di parigini ossessionati dalla moda del vaudeville. L’orazione di Chaumette
avrebbe fornito un punto d’incontro tra le due tematiche, denunciando la connivenza della chiesa
gallicana nel conferire dignità morale al commercio di esseri umani, mediante il noto aneddoto del
titubante Luigi XIII convinto dai “preti” (nella persona del cardinale Richelieu) ad approvare l’istituto
schiavista nelle colonie del regno:

13
   Jean-Baptiste-Augustin Hapdé, Des grands et des petits théâtres de la capitale (Paris: Imprimerie de Le Normant,
1816). p. 94.
14
   Louis Benoît Picard, Les visitandines: comédie en trois actes, mêlée d’ariettes (Paris: Maradan, 1792), p. 16.
6

         Car il fallut que les prêtres (eh! quels maux n'ont-ils pas provoqués?) lui persuadassent
         que l'esclavage des Nègres était le moyen le plus sûr de les faire chrétiens, c'est-à-dire
         sauver leur ame, en détruisant son essence, la liberté, et leur procurer le paradis, en
         leur faisant essuyer ici bas toutes les tortures de l'enfer.15

Anche dal punto di vista del linguaggio musicale la romanza di Devienne si prestava ad una
commovente narrazione di sventure: una semplice melodia in mi minore, con un’acme interrogativo,
quasi declamatorio, nella parte centrale, ed una triste cadenza ritornello, nel più puro stile lacrimoso
dell’opera francese. Come nel brano originale, anche ne “La liberté des negres” un personaggio
racconta qualcosa di ignoto al pubblico, risparmiando i dettagli più brutali. La vita degli schiavi neri
è descritta con la crudezza dell’esperienza, mescolata alla pietà per gli oppressi e alla rabbia verso gli
oppressori: conscio della sua appartenenza a questa seconda categoria, l’autore invoca il ruolo di
redenzione e rinascita dell’evento rivoluzionario per il popolo francese, un cambio inevitabile e
radicale di mentalità.16
        Altri stereotipi rappresentativi avvicinano “La liberté des negres” al programma iconografico
delle feste abolizioniste: alle maternità negate delle donne ridotte in schiavitù, costrette a separarsi
dai figli appena nati, si tenta di porre rimedio in una strofa sulla fecondità e la famiglia. La figura
della donna che allatta il suo bambino, cullandolo nella certezza di un domani radioso, si trasformerà
ben presto in fortunato topos delle canzoni sull’argomento. La canzone fu senza dubbio molto
fortunata e il suo successo porterà vari autori di vaudevilles a realizzare altre canzoni di argomento
abolizionista sulle note di “Daignez m’épargner”. La nobiltà della melodia e l’ispirata universalità
del messaggio sociale fecero sì che sopravvivesse al contesto politico originario, tanto che nella
seconda metà del Novecento verrà riportata in auge dal cantautore Marc Ogeret, e più recentemente
in un memorabile concerto diretto da Diego Fasolis. Mi sento tuttavia di suggerire il confronto con
un’altra interpretazione dell’ultimo decennio del secolo scorso, quella essenziale e toccante di Emilie
George, nel prezioso album The Stars and The Lily.

“Quel soleil bienfaisant”

15
   “Poiché fu necessario che i preti (eh! Quali sono i mali di cui non sono responsabili?) lo convincessero che ridurre in
schiavitù i neri fosse il mezzo più sicuro per convertirli al cristianesimo, vale a dire salvare le loro anime
distruggendone l’essenza (la libertà), e procurar loro il paradiso facendo loro provare su questa terra tutte le torture
dell’inferno” (trad. mia). V. Anaxagoras [Pierre-Gaspard] Chaumette, Discours Sur l’abolition de l’esclavage,
Prononcé Par Anaxagoras Chaumette, Au Nom de La Commune de Paris (Paris: Charles-François Patris, 1793), pp. 9-
10.
16
   Antoin-Pierre-Augustin de Piis, Chansons patriotiques: chantées, tant à la section des Tuileries, que sur le théâtre du
Vaudeville (Paris, 1794), p. 36
7

Con questo brano raggiungiamo i reali protagonisti della lotta abolizionista, i neri di Haiti. Si tratta
dell’inno “Quel soleil bienfaisant”, sull’aria “Quels accens, quels transports”, inserita in due raccolte
di chansons dell’epoca: La Lyre de la Raison17 e Hymnes du rèpublicain a l’Eternel.18
Successivamente, l’inno viene incluso nel catalogo di Constant Pierre, punto di riferimento per lo
studio della musica nella Rivoluzione francese.19 In ognuna di queste compilazioni l’autore delle
parole è identificato in un meglio specificato Belge refugié (rifugiato o transfuga belga). Si tratta di
un canto di ringraziamento, pronunciato da una donna africana: il sole dell’uguaglianza, che prende
qui i caratteri mistici dell’Essere Supremo, caccia le nubi della schiavitù, l’umanità redime i propri
peccati ristabilendo l’ordine universale. Contrariamente a “La liberté des negres”, “Quel soleil” non
adotta come timbre un’aria di età galante, ma un inno rivoluzionario, l’allora popolarissimo “Hymne
des Versaillois”. Il testo del brano è riportato in un Journal de l’instruction publique del 1793,20 e il
fatto che sia elencato insieme alla Marsigliese, e accompagnato da una dettagliata esegesi, testimonia
l’importanza che doveva rivestire nel repertorio musicale repubblicano. Il compilatore descrive
l’“Hymne” come un ringraziamento degli abitanti di Versailles dopo la fine dell’oppressione da parte
della corte reale. Se paragonato alla foga guerresca della Marsigliese, questo canto è caratterizzato da
uno stato d’animo più pacato, una riflessione interiore sulle gioie della libertà.21
        Gli abitanti del villaggio, oscurato dall’ombra della reggia, sono evocati come metafora di
un’umanità oltraggiata che, per usare l’immagine dell’autore della raccolta, si concede un profondo
respiro dopo una lunga asfissia. Nella stessa pagina viene riportato che tale contrasto emotivo si
riflette anche nella musica; tuttavia, il reperimento di tale linea melodica all’interno delle raccolte
coeve non è impresa facile. Mi sono dovuto avvalere pertanto della edizione de La clé du Caveau del
1825, una serie di sterminate compilazioni ad uso degli chansonniers, realizzate dai membri
dell’omonima associazione nel corso del secolo XIX.22 La melodia è in effetti una solenne e tranquilla
ode in do maggiore, del tipo espressivo dei cori incaici ne Les Indes galantes (“Brillant Soleil”) di
Jean-Philippe Rameau, dei cantici mistico-rivoluzionari di François-Joseph Gossec – il quale non a
caso musicò Le triomphe de la Republique, in cui si celebrava la prima vittoria della Francia
rivoluzionaria contro le monarchie europee – e degli inni massonici del Flauto Magico di Mozart.

17
   La Lyre de La Raison, Ou Hymnes, Cantiques, Odes et Stances à l’Être Suprême Pour La Célébration Des Fêtes
Décadaires (Paris, 1793), p. 42.
18
   Hymnes du républicain à l’Eternel, suivis des décadaires, de la Déclaration des droits de l’homme et des couplets sur
les victoires de la république (Paris: Langlois, 1794), p. 144.
19
   Constant Pierre, Les hymnes et chansons de la Révolution: aperçu général et catalogue avec notices historiques,
analytiques et bibliographiques (Paris: Imprimerie nationale, 1904), p. 660.
20
   «Hymne de Versaillois», Journal de l’instruction publique VIII (1793): 51.
21
   «Hymne de Versaillois»: 55.
22
   Pierre Capelle, La Clé Du Caveau, à l’usage de Tous Les Chansonniers Français, Des Amateurs, Auteurs, Acteurs
Du Vaudeville et de Tous Les Amis de La Chanson (Paris: Henry, 1825), p. 106.
8

“Quel soleil” stesso è infatti permeato da una contemplativa visione panteista della natura. Non
stupisce quindi il suo utilizzo quale base melodica per alcuni inni all’Essere Supremo, la divinità al
centro della religione di stato repubblicana, ispirata al deismo di Voltaire.
           Un ulteriore elemento di interesse è la presenza, a partire dal 1805, del suo timbre melodico
nella Gazette politique et commerciale de Haiti, corredato da un nuovo testo.23 Negli oltre dieci anni
trascorsi dal 1794 molte cose erano cambiate. L’ascesa al potere di Napoleone aveva dato inizio a un
processo di progressiva reintroduzione della schiavitù in tutti i territori della Repubblica francese. A
questo fece seguito la spedizione militare ad Haiti guidata dal generale Charles Leclerc, con la quale
Napoleone intendeva ristabilire le condizioni precedenti, vanificando le conquiste della popolazione
locale.
           Dopo la morte di Toussaint Louverture, le redini della rivolta erano state prese da Jean-Jacques
Dessalines (1758-1806), che nel 1804 si era proclamato imperatore della colonia assumendo il nome
di Giacomo I, conferendole l’antico nome di Haiti ed instaurandovi un cerimoniale modellato su
quello napoleonico. Era pertanto inevitabile che i due eserciti si fronteggiassero cantando le stesse
melodie, originate dalla stessa rivoluzione: tuttavia sarebbe stato impensabile che gli uomini di
Dessalines rammentassero con i vecchi inni abolizionisti speranze tradite e concessioni
paternalistiche. Per questo motivo, più che identificarsi nella inattuale negresse ansiosa di godere
della rinnovata libertà, preferirono prendere i panni dei cittadini di Versailles, liberandosi dei padroni
bianchi come quelli si erano liberati dell’odiosa corte. Sull’aria “Quels transports” fu chiamato il più
illustre tra i poeti haitiani del momento, Juste Chanlatte (1766-1828), poeta, drammaturgo, giornalista
e futuro segretario di stato, a comporre un nuovo inno: “Quels apprêts? Quels moments?” (“Quali
preparativi? Quali momenti?”) Il francese non è più il liberatore, ma l’infido oppressore, la race
impure: i neri di Haiti si sono liberati da soli grazie al proprio coraggio e alla guida di capi valorosi.
           Trascorso appena un anno dalla dichiarazione di indipendenza dell’isola, il nuovo governo
haitiano aveva condensato in una corsa forsennata tutte le fasi del decennio rivoluzionario francese,
elaborando un istituto politico e una retorica del potere che assommavano in sé elementi della
monarchia, della rivoluzione e dell’impero. Giacomo I presiedeva grandiose assemblee parlamentari
e parate marziali e tradiva la fiducia dei suoi compagni – ormai sudditi – prendendo il posto
dell’oppressore. Proprio in occasione di un’imponente parata militare, il 25 luglio 1805, vennero
intonate le nuove strofe di Chanlatte su “Quels apprêts”, in un’allucinata notte rischiarata da migliaia
di fiaccole. I tempi degli adresses – le petizioni popolari – e delle personificazioni abbracciate erano
finiti: gli schiavi non attendevano più l’affrancamento dai loro ex-padroni, ma si riprendevano con la

23
     Juste Chanlatte, «Quels apprêts? Quels moments», Gazette politique et commerciale d’Haiti, 1 agosto 1805: 135.
9

forza e per sempre ciò che gli era stato strappato, restituito e poi di nuovo sottratto, la loro libertà,
inclusa la possibilità di rovesciarla nel suo contrario, le loro feste e le loro canzoni.

Conclusioni

Le parallele vicende musicali de “La liberté des negres” e di “Quel soleil bienfaisant” testimoniano
la pluralità di stimoli artistici dalla quale ha origine la canzone rivoluzionaria francese. Una stessa
circostanza politica, l’abolizione della schiavitù nelle colonie francesi, ha comportato la creazione di
un repertorio in grado di restituire la molteplicità delle reazioni emotive suscitate da un evento di tale
portata, mediante il reimpiego di melodie di varia provenienza. È forse proprio l’uso del reimpiego
di melodie, e quindi del reimpiego delle connotazioni culturali delle stesse, quello che più ci interessa
oggi. Un’analisi dell’origine della canzone rivoluzionaria francese, effettuata e assorbita nel 2021, ci
aiuta ad osservare la ricercatezza e al tempo stesso la spontaneità di quei processi musicali e culturali,
che noi oggi raggruppiamo sotto il prefisso inglese re-: lo stesso reimpiego, e ancora il remix, il
recycling, i revival, i remake e così via. Riuscire a identificare l’estensione e la continuità di questi
processi anche in contesti apparentemente ostici e lontani, ci aiuta oggi non solo a ricontestualizzare
ciò che è stato ma anche a non cadere nelle ormai prevedibili teorie retromaniache.
10

                                            Bibliografia

Bernardin de Saint-Pierre, Henri. Paul et Virginie. Paris: De l’imprimerie de Monsieur, 1789.
Bonazza, Giulia. «Le créole patriote (1792-1794): un ponte tra due rivoluzioni». Società e storia,
       2016, 33–64. https://doi.org/10.3280/SS2016-151002.
Capelle, Pierre. La Clé Du Caveau, à l’usage de Tous Les Chansonniers Français, Des Amateurs,
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